Kansas City Blues 4
Quando John Hammond accese la radio, dopo
qualche brzzz, e vari giri febbrili di manopole
per trovare la sintonia, ebbe un sussulto.
Dal cassone di legno usciva una sventagliata di energia pura, un drummin
pulsante che ricordava la marcia di
un treno
nella prateria.
Ne fu colpito al punto da fare la valigia
in un batter d'occhio e partire per
il Missouri.
Voleva vedere dal vivo quei tizi che
suonavano
al Reno, soprattutto quei "diavoli"
di sassofonisti.
Gli ci volle poco per capire che l'orchestra
di Basie sarebbe stata the next big thing. John era un talent scout naturale, ed aveva
un certo gusto per il rischio.
Era anche ricco di famiglia, dunque poteva
permettersi cose che noi ce le sogniamo.
Come impresario, due anni dopo, nel
1938,
avrebbe organizzato l'evento musicale della prima parte del secolo, ovvero la
comparsa del blues, del gospel e del
jazz
alla Carnagie Hall, uno dei templi
della
musica americana.
Ma, in quei giorni, egli era preso
da un
entusiasmo particolare per l'orchestra
di
Basie. Tornò a New York convinto di
aver
scoperto qualcosa d'importante e fece
del
suo meglio per convincere Willard Alexander,
impresario teatrale, ad andare nel
Missouri
e scritturare l'orchestra.
Il resto è storia nota, anche se la
marcia
non fu affatto trionfale, come sperato
da
John Hammond.
La prima uscita all'Est avvenne a Chicago,
al Grand Terrace Ballroom gestito dal
pianista
Earl Hines (uno dei grandi nomi del
jazz
tradizionale) e fu un mezzo fiasco,
soprattutto
perchè Basie venne costretto ad eseguire
un repertorio molto commerciale, al
quale
l'orchestra non era abituata.
Strada facendo le cose migliorarono
nei rapporti
col pubblico, anche se, per certi aspetti,
potremmo dire che peggiorarono in relazione
alla musica.
Un lavoro di maquillage e restyling
ammorbidì
non poco il ruvido sound che aveva
caratterizzato
il periodo di Kansas City.
Basie ed i suoi musicisti volevano
continuare
a suonare alla vecchia maniera, ed
in parte
ci riuscirono, ma la sensazione che
qualcosa
di magico si fosse perso nel trasferimento
sulla east coast è più che legittimo.
Del resto, come ben scrisse Arrigo
Polillo
nel suo Jazz (1), l'adattamento della
musica
nera al mercato ed al gusto dei bianchi,
non riguardava solo il suono, ma entrava
in profondità anche nei testi delle
canzoni.
Neil Leonard (2) fece un'indagine minuziosa
sul testi impiegati dai cantanti di
jazz
prima del 1928 e quelli adottati più
tardi,
specie in epoca swing, cioè negli anni
di
cui ci stiamo occupando.
L'esame confermò la scomparsa della
tematica
realistica, persino oscena, tipica
del blues,
e la sua sostituzione con "una
sottoletteratura
d'evasione tipicamente americana bianca."
Sono parole di Polillo, il quale rammenta
ancora come una grande cantante nera,
Billie
Holyday,si vide costretta allora ad
invocare
"una barca a vela al chiar di
luna"
invece di cantare i "blues del
letto
vuoto" presentati anni prima da
Bessie
Smith.
Con questo, non si vuol dire, tuttavia,
che
tutti i musicisti neri furono in qualche
modo annacquati e scoloriti alla maniera
di Michael Jackson.
In realtà, proprio Hammond fu protagonista
di una interessante operazione a metà
tra
il culturale ed i commerciale, producendo
dischi per la Columbia inglese. Quello
che
in America sembrava non essere gradito
dal
mercato, veniva invece consumato ed
assorbito
senza alcuna difficoltà dal pubblico
britannico
e, s'intende, anche francese.
Dopo anni di distanza ed emarginazione,
anche
la grande Bessie Smith tornò ad incidere.
La grande crisi aveva spazzato via
molte
case discografiche e solo tre grandi
etichette
avevano resistito: la Victor, la Decca
e
la Columbia. Ma quest'ultima era agonizzante
ed i suoi managers non avrebbero pubblicato
dischi di jazz "per nulla al mondo
-
sono ancora parole di Polillo - a meno
che
non fosse qualcun altro a pagare, ciò
che
appunto succedeva."
Fu così che musicisti neri e bianchi
tornarono
ad incidere insieme (anche se non ancora
a suonare pubblicamente insieme). Agli
inizi,
a New Orleans, questo era già accaduto.
Ma
negli anni successivi la più rigida
apartheid era stata la regola. Basta leggere la romanzata
autobiografia di Billie Holiday (La signora canta i blues - Feltrinelli) per capire il clima di discriminazione
avvilente ancora presente nei tardi
anni
trenta e nei primi anni quaranta.
Al miglioramento della situazione aveva
certamente
contribuito il "Repeal",
cioè l'atto
legislativo che aveva messo fine al
proibizionismo.
Era come liberare il mondo ed il sottobosco
dei musicisti e dei proprietari di
locali
dalle pastoie dell'illegalità e della
semiclandestinità.
Di colpo, andare a sentire il jazz
non era
più evasione avventurosa dalla monotonia
del tran tran, ma qualcosa che, tutto
sommato,
poteva ritenersi accettabile anche
dalla
morigerata società dei bianchi, anglosassoni
e protestanti.
In quest'atmosfera di maggiore distensione,
l'orchestra di Count Basie capitò,
finalmente,
a New York, e cominciò a godere di
un reale
successo.
(continua)
note:
1) Jazz - Arrigo Polillo - Mondadori - prima edizione
1975
2) Jazz and The White Americans - Neil Leonard - The University of Chicago
Press, 1962.
gm - 25 maggio 2003 |
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