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Wayne Shorter - Footprints live! -------------------------------------------------------------------------------- Premiato dalla critica americana come la miglior incisione della categoria piccoli gruppi per il periodo aprile 2001 - aprile 2002, questo cd contiene effettivamente grande qualità e propone un ascolto che potrebbe risultare difficile a chi non mangia pane e jazz sia a mezzodì che a sera. L'avviso è rivolto soprattutto a chi è alle prime armi nel rapporto con il jazz contemporaneo. Lo Shorter che qui potremmo ammirare non è quello delle incisioni coi Weather Report e non fa fusion. Occorrono ripetuti ascolti per capire questa musica, occorre attenzione, persino un po' di dedizione. Ma i risultati saranno quantomeno appaganti, garantito: un disco così non lo dimentichi facilmente. Un pezzo che mi ha semplicemente inchiodato alla cuffia è il ripasso del Valse Triste del compositore finlandese Jan Sibelius, noto per avere composto anche la Karelia Suite ed altri brani classici di facile consumo come Finlandia (si trovano spesso nelle antologie in vendita sulle autostrade). Ebbene, il brano è reso in un modo che lo rende praticamente irriconoscibile al primo ascolto, tanto che, proprio all'approccio, non avendo la scaletta dei titoli sotto il naso, nemmeno il sottoscritto, che tanto si vanta di avere orecchio infallibile, ha fatto splash. Ma non è che la situazioni si presenti molto diversa al secondo ed al terzo ascolto. Se ti aspetti di trovare Sibelius, stai forse aspettando Godot. Troverai, piuttosto, tutte le muse e gli spettri che hanno ispirato Shorter in passato, da Coltrane a Parker, da Rollins a Miles Davis, passando perfino da Jaco Pastorius, il bassista che fu partner di Shorter nei Weather Report. Questo, anche se il pianismo di Danilo Perez, che nell'esecuzione di questo brano svolge un ruolo solistico rilevante, tira in direzioni classiche molto più di quanto sarebbe lecito aspettarsi. Nella rilettura di Shorter e compagnia sparisce la componente nazional popolare della musica di Sibelius, ed anche il suo essere valzer. Rimane solo la tristezza, ma resa in modo non patetico, ovvero con maggiore dignità, nobilitata dal ritmo e dal percussionismo world di Brian Blade, un batterista da risentire ancora un casino di volte, tanto mi sembra padrone dello strumento, del ritmo, dell'impulso dinamico che si deve dare al suono. Incuriosito dal fatto che la traccia numero 8, JuJu, venne registratata ad Umbria Jazz del 2001, sono andato immediatamente a risentirla. Il brano fu originariamente inciso in studio per la Blue Note nel 1964 con una formazione che comprendeva Elvin Jones alla batteria, Reggie Workman al basso, Mc Coy Tyner al pianoforte. Dunque una formazione coltraniana, con il solo Wayne Shorter al posto di John Coltrane, per un album che fu criticato perchè, ovviamente, in odore d'essere nientaltro che un clone della creatività coltraniana. Furono i soliti giudizi affrettati, anche se le influenze coltraniane sono innegabili. Shorter, già allora, aveva parecchie frecce originali al proprio arco e la sua successiva carriera lo dimostrò, proponendolo come compositore raffinato, più eclettico che creativo, ma certo non un banale ripetitore. John Patitucci , al contrabbasso, si esibisce in JuJu live con l'archetto, in un dialogo introduttivo con il pianoforte piuttosto intrigante, permeato di umori classici alla Stravinskji ed alla Ravel. Ma ad un tratto si ha la svolta: partono le percussioni, Patitucci lascia l'archetto e comincia a pizzicare, sulla base ritmica che ben conosciamo Shorter enuncia da par suo il tema. E' un bel sentire; la dimensione live consente di avvertire quel calore che spesso si disperde nelle tracce di studio. Ammirevole Danilo Perez al piano; anche se non è ancora, o non sarà mai, il nuovo Mc Coy Tyner, l'interplay con Shorter mi pare riuscito. Ma è da Shorter, ovviamente, che vengono le fiammate giuste. JuJu è un susseguirsi di esposizioni brevi, di esemplare concisione, che toccano tutte le latitudini possibili. Ma andiamo con ordine: il cd si apre con Sanctuary, registrata il 20 luglio 2001 al Festival Jazz de Vitoria-Gastiez, in Spagna. E' la track giusta per entrare nel merito ed anticipare molti contenuti successivi. Nell'occasione Shorter abbraccia il tenore ed entra in tono dimesso, quasi sottovoce, dopo un bellissimo intro di contrabbasso ed un eccezionale stoccata di Danilo Perez da risentire mille volte. Poco alla volta Shorter aumenta il volume del suono e la potenza del fraseggio, senza tuttavia dare l'impressione di voler conquistare il microfono per fare un comizio. Si mantiene sempre piuttosto defilato, ed è questo, in un certo senso, il bello della faccenda. Dalla stessa serata spagnola viene anche Masquelero, un brano più mosso, di più facile ascolto, con Perez che svaria a piacere in atmosfere che vanno da Jarret a Corea, allo stesso Perez. Shorter entra a suo tempo, cominciando finalmente a recitare da protagonista. Dal mosso al rovente il passo può essere breve: il pubblico sembra gradire il crescendo, dato il volume e l'intensità degli applausi. Del Valse Triste abbiamo già detto; il quarto pezzo è Go, introdotto da un assolo di batteria non invadente e degnamente contrappuntato da Perez al pianoforte. Shorter entra subito, con quel fraseggio elegante che abbiamo imparato a conoscere anche nei dischi di fusion. La registrazione viene da una serata francese, a Marsiglia, il 24 luglio del 2002. Brano piacevole, scorrevole, ma a lungo andare niente più che un quadretto naif; forse era possibile mettere nell'incisione qualche altra traccia più significativa. Discorso diverso per Aung San Suu Kyi, un titolo che dovrebbe presentare qualcosa di esotico ed invece si e no. Se ti aspetti atmosfere giapponesi, ancora una volta aspetti Godot, mentre arriva un godibilissimo Perez al piano che, devo dire, mi piace sempre più. Anche qui l'interplay tra i quattro suonatori è vicino all'intesa suprema. Ma occhio a cosa riesce a combinare Mr. Shorter. Ecco il comizio che ci aspettavamo, il ragionamento sul futuro della musica, il linguaggio degli uccelli, e la poetica dell'usignolo nutrito con il cibo spirituale dell'aquila, l'aria purissima delle alte quote. Traccia 6: Footprints. Si torna in Spagna e, forse, l'ensemble è memore di incontri furtivi tra bop, cool e flamenco. Ma è Spagna moderna, da centro di Madrid, da donne di Aldomovar in stato nevrotico, che parlano come Sabina Guzzanti quando faceva la caricatura della corrispondente italiana del Paìs. Shorter ripiglia da capo il comizio interrotto, dandogli il senso di una lezione di sax e di post-fusion. Traccia 7, Atlantis, una delle meraviglie di questo disco e, senza esagerare, di tutto lo Shorter che conosciamo. Fortunati i marsigliesi che hanno potuto gustarlo mentre si svolgeva dal vivo. Dall'intervista raccolta da Antonio Lodetti sul numero 84 di Jam, giugno e luglio 2002, veniamo a sapere che secondo Wayne Shorter la logica di un tempo si è quasi capovolta. Prima dell'avvento dell'era del disco e del cd, i musicisti jazz suonavano tutte le sere, erano spesso in tourneè. Incidevano dischi di rado, al termine di un periodo e non all'inizio. Oggi trascorrono moltissimo tempo in studio di registrazione ed affrontano l'esperienza dal vivo solo al termine di un lungo periodo di preparazione. Per questo, sempre secondo Shorter, il disco live è una sorta di summa rappresentativa di tutta una fase, e non un momento casuale. Ci sarebbe da discutere molto su questa impostazione, considerando che molti grandissimi dischi di jazz sono stati realizzati in poche ore, al primo colpo, perfino senza prove. La verità, forse, sta nel fatto che, parlando di musica improvvisata, non c'è una regola, ma solo la possibilità di diversi approcci metodologici. Posta come unica condizione la voglia di suonare, e che questa sia comune ai partner, perchè con sideman svogliati, come insegna il reverendo Blind Slim Fast, leadere dei Ce' Soul and The Professionals, non si va da nessuna parte, rimane che anche con la voglia, l'ispirazione non arriva. Così, invece di improvvisare, ti ripeti su quello che hai già suonato. Il pubblico non lo sa, e devi essere un po' Nembo Kid ed un po' carogna per accorgetene. Shorter è di natura metodico e perfezionista, quindi ama studiare, provare, suonare in perfetta solitudine. Se dice che questo disco è stato preparato meticolosamente con mesi ed anni di lavoro in studio, dobbiamo credergli. Sempre nella stessa intervista leggiamo che per Wayne Shorter il jazz-rock è morto, ed a seppellirlo sono state le troppe incisioni mediocri effettuate da musicisti senza ispirazione e talento. Come non dargli ragione? Ma, questa presa di distanza, peraltro tardiva, visto che è dal lontano '67 che lo stesso non incideva unplugged, come al solito riguarda un genere e non casi particolari. Siamo al classico di tutte le erbe un fascio. Verrebbe da chiedere: ma allora tutti i dischi di jazz-jazz sono buoni di per sé ? Solo perchè di un altro genere? Forse che i dischi di Wynton Marsalis brillano per originalità e creatività, mentre quelli di Pat Metheny sono da cestinare? Ottimo come musicista, Wayne Shorter è una frana come critico. Possibile? Possibilissimo: come musicista io sono appena due righe migliore di uno scimpanzè. -------------------------------------------------------------------------------- gm - 29 settembre 2002 |
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