Dobbiamo certamente al medioevo la
distinzione
tra musica sacra e musica profana,
cioè tra
una musica volta ad elevare spiritualmente,
ispirata a Dio se non, addirittura,
da Dio,
ed un'altra mirata esclusivamente a
soddisfare
i sensi ed a divertire.
Questo pensiero sorse in pensatori
e teologi
cristiani e non è sbagliato vederlo
anche
come una reazione a quello che era
stata
la musica dalla conquista romana della
Grecia
fino a tutta l'esistenza del mondo
antico.
Massimo Mila parla di un "uso
puramente
voluttuario e pratico" della musica
da parte dei romani. Quindi, per oltre
quattrocento
anni, all'incirca dal 200 a.C. fino
a tutto
il 300 d.C. essa non dovrebbe esser
risultata
altro che occasione di divertimento
e questo
indipendentemente dal fatto che esistessero
anche teorici e filosofi interessati
a ragionarvi
attorno.
Le notizie e le fonti in proposito
non sono
eccezionali: comunque non sembra che
vi sia
stato qualcuno in grado di aggiungere
qualcosa
alle acquisizioni estetiche del mondo
greco.
Fu con i padri della Chiesa che si
tornò
a riflettere sul fenomeno musicale
con una
relativa profondità.
Alcuni di essi cominciarono a trovare
naturale
e buona cosa che le adunate dei fedeli
fossero
accompagnate da canti e che questi
canti
fossero ovviamante ispirati all'elevazione
morale e spirituale, differenziandiosi
in
maniera significativa dalla musica
suonata
in occasione di festini e baccanali,
od anche
negli spettacoli tragici.
La musica cristiana presentava momenti
di
purezza e raccoglimento, e tale purificazione pareva una grande acquisizione intellettuale
e non fatichiamo a renderci conto del perchè.
Dio veniva ritenuto un essere sublime, al
di là di ogni immaginazione, il garante del
bene, della perfezione, l'Ente Sommo ed antimateriale
per eccellenza. I canti e le musiche dedicate
a questo Dio, preferibili ai canti dedicati a sue
creature, non potevano che tendere al sublime,
essere essi stessi perfetti, al di là di
ogni possibile contaminazione con elementi
ctonii, cioè con le barbarie ritmiche, le danze sfrenate, i momenti di
lascivia sensuale ed erotica, la passione
spinta per oggetti caduchi quali la bella
"fanciulla" od il "maschietto"
ben tornito.
La distinzione tra sacro e profano si impose
dunuqe prima ancora nella pratica che nella
teoria. Muoveva da una discriminazione primitiva:
quella tra musica cristiana e musica pagana.
Gli elementi di autonomia ed originalità
di questo pensiero sono più apparenti
che
reali in quanto, volenti o nolenti,
derivano
da pensatori pagani , in primis lo
stesso
Platone.
Il primo scritto di un certo rilievo
risale
a Clemente Alessandrino, vissuto nel secondo secolo d.C. In un'opera
intitolata Protrettico ai Greci, scrisse che i miti sono crudeli ed ingannatori
(il che potrebbe essere non solo accettabile,
ma perfino giusto...) ma ebbe il torto di
aggiungere che la musica che li accompagna porta alla perdizione.
«A mio giudizio il nostro tracio
Orfeo
ed anche il cantore di Tebe e di Metimnia
non sono degni del nome di uomo perchè
sono
ingannatori. Con il pretesto della
musica
essi hanno oltraggiato la vita umana,
spinti
dal demonio, attraverso qualche abile
stregoneria,
a condurre l'uomo alla rovina. Inneggiando
alla morte violenta nei loro riti religiosi
e conducendo all'adorazione di leggende
dolorose,
essi per primi inducono all'idolatria...
Con i loro canti e i loro incantesimi
essi
hanno tenuto prigionieri nella più
abbietta
schiavitù ... » (1)
C'è un elemento di estremismo in queste
affermazioni
che ignora un dato elementare, ovvero
che
se abbiamo un'alta concezione della
musica,
lo dobbiamo certamente più alla civiltà
greca
che a quella ebraica.
Quest'ultima ci trasmise soltanto dei
testi
ed è piuttosto singolare notare che
proprio
uno di quelli più significativi, Il Cantico dei Cantici, sviluppasse un contenuto che solo dopo una
profonda mediazione esegetica, possiamo definire
come spirituale. Era innanzitutto ed originariamente
un canto d'amore tra l'uomo e la sua bella,
di squisita fattura poetica e di indiscutibile
sapore profano.
Volendo condannare in toto l'antichità,
Clemente
probabilmente non si accorse di rivalutare
proprio l'antico pensiero pitagorico
sulla
musica. Il canto deve esprimere l'armonia
del cosmo. «Anzi - scrive Fubini
-
sembra che non sia estranea al pensiero
di
Clemente non solo l'idea che la musica
abbia
il potere di porre armonia tra elementi
altrimenti
discordi ma che l'universo stesso sia
costituito
di musica, cioè di armonia: "Il
puro
canto, sostegno dell'universo e armonia
di
tutte le cose si propaga dal centro
della
circonferenza e dai confini estremi
al centro!"
lo stesso universo è concepito come
"uno
strumento con tante voci", e il
canto
viene ad identificarsi con lo stesso
"verbo
divino".» (1)
E' la classica posizione di chi vorrebbe
estremisticamente liquidare tutto il
passato
per affermare la nuova religione e
la nuova
conseguente ideologia: nel cercare
di trovare
le basi del nuovo pensiero si finisce
inevitabilmente
con il proclamare qualche antico dogma!
Nel tentativo di contrapporre la musica
cristiana
a quella pagana, Clemente non trovò
di meglio
che rilanciare un vecchio mito ebraico:
quello
di David pastore e cantore, brigante
e guerrigliero,
infine re di Israele dopo Saul e fondatore
della piccola potenza ebraica nell'antichità.
David fu accreditato come l'autore
di moltissimi
Salmi che a quei tempi cominciarono
ad essere
tradotti in greco e latino, diventando
patrimonio
comune della Chiesa, i testi dei canti
sacri
e delle funzioni religiose.
Accanto ad essi fiorirono anche inni
di fresca
composizione, e si venne presto a costituire
un corpus di canti liturgici.
Mila così decrive la vicenda: «Si
distinguono
all'inizio della liturgia cristiana,
due
modi, due principi di canto, che gli
antichi
definirono coi nomi di accentus e concentus, e che corrispondono, grossolanamente, ai
principi rispecchiati rispettivamente nel
recitativo e nell'aria.; essi determinarono,
col loro alterno prevalere, tutte le seguenti
forme di gregoriano.» (2)
L'accentus consisteva in una recitazione cadenzata,
ad ogni sillaba corrispondeva una nota e
spesso detta recitazione si svolgeva in gran
parte su una medesima nota a lunga ripetuta,
dando così vita alla salmodia.
Quando un praceptor recitava una preghiera
e i fedeli riprendevano solo una parte
delle
parole, si aveva il responsorio.
Tuttavia, sia nelle comunità della
Siria
che in quelle dell'Asia Minore, vennero
in
uso canti molto più variati ( e meno
severi).
Mila parla di melodie "curvate
in frasi
sinuose ed appariscenti" e testi
diversi
dalla tradizione biblica, " i
quali
mostravano evidente, nel loro corrotto
latino
di decadenza, il trapasso della poesia
dalla
classica metrica quantitativa a quella
moderna,
fondata sulla distribuzione degli accenti
nel verso." (2)
Queste "novità" vennero accolte
in occidente, e fu Sant'Ambrogio vescovo
ad introdurle a Milano, ma va ricordato
che
furono Sant'Efrem e San Gregorio Nazianzeno,
patriarca di Costantinopoli attorno
al 380
d.C. ad iniziarne (o quantomeno ad
incoraggiarne)
la pratica, mentre fu Ilario, vescovo
di
Poitiers, a patrocinarne la causa nell'Europa
al di là delle Alpi.
Fu dunque in questo nuovo orizzonte
che venne
a collocarsi la riflessione sulla musica
di Sant'Agostino, allievo ed ammiratore di Ambrogio.
Agostino scrisse sia un trattato che
considerazioni
sparse, in particolare nelle Confessioni.
Tra l'uno e le altre non mancano momenti
contraddittori, specie quando considera
peccaminoso
ogni eccesso ed ogni abbandono all'ascolto
musicale, ma anche estremamente appagante
sotto il profilo spirituale.
Questi scritti influenzeranno per secoli
e secoli a venire il pensiero cristiano.
E' importante notare che Agostino fu
il primo
a riconoscere la musica come sostitutiva del testo in quanto espressiva di qualcosa
che le sole parole non potevano dire, perchè
"impotenti" a descrivere l'amore
per Dio che l'uomo giusto e santo coltiva
nel proprio animo.
"Colui che giubila - scriveva Agostino
- non dice parole, ma è una specie di suono
di gioia senza parole...godendo nella sua
esultanza di certe parole che non si possono
dire né intendere, l'uomo prorompe in una
specie di voce d'esaltazione senza parole;
sì ch'egli pare godere nella voce stessa,
incapace, per troppo gaudio, di spiegare
con parole ciò che gode. "
Si tratta di uno dei primi espliciti
riconoscimenti
del carattere non propriamente razionale
dell'espressione musicale, che urta
contro
una certa tendenza filosofica a definire Dio, cioè ad incasellarlo in una definizione
di genere e di specie, e quindi a renderlo
con parole significanti chiare e concise.
Abbiamo così a che fare con due tendenze
opposte, anche se non inconciliabili.
La
prima riconosce dei diritti al cosiddetto
misticismo, cioè il sentire Dio, o comunque la presenza
di qualcosa al di là dei ragionamenti. E questo stesso
sentire, che è dunque sentimento, trova una
sua possibilità nell'espressione musicale.
Più arduo è comprendere come un qualsiasi
ragionamento possa sfociare nell'impellenza
di dar vita ad una musica. Tutto ciò
che
il ragionamento può fare, al contrario,
è
render conto del perchè nell'uomo si
formino
determinati sentimenti, e perchè essi
prorompano
in musica.
La musica stessa, in ultima analisi
è una
continua sfida alla ragione umana e,
per
chi scrive, anche tra le più affascinanti.
L'opera De Musica di Agostino si divide in sei libri, ma solo
il primo e l'ultimo contengono uno studio
specifico, essendo gli altri prevalentemente
rivolti a questioni di metrica.
Nonostante la clamorosa ammissione
soprariportata,
nel De Musica, il nostro insiste sul termine scientia: "Musica est scientia bene modulandi."
Impegna quindi più la ragione che i
sensi,
ma procura anche piacere, sebbene ciò
sia
ragionevolmente riprovevole, perchè
il piacere
non può essere un fine, ma solo il
sentimento
che accompagna la comprensione razionale
della musica stessa.
Forse, Agostino avrebbe voluto dire
che l'unico
vero piacere sta nella comprensione
razionale
e che il transitorio piacere dei sensi
non
è il vero fine della nostra attenzione
alla
musica.
Per il nostro, un raffronto tra mondo
della
natura e mondo dell'uomo porta a comprendere
in primo luogo che esistono diversi
modi
di far musica: il primo è istintivo,
e cita
come esempio il canto degli usignoli.
Il
secondo è ragionato, come nel caso
dell'uomo.
Anche nell'uomo, ovviamente, si manifesta
un livello istintivo. Ma è solo con
l'imitazione
che si sale di livello. Infatti l'imitazione
è ciò che ci consente di apprendere
l'arte
di chi sa suonare uno strumento o cantare
in modo intonato.
Ma, detto questo, Agostino rifiuta
di credere
che la vera arte sia imitazione. Essa
è solo
un primo gradino da salire per acquisire
una tecnica, che spesso non è istintiva.
Tuttavia, l'acquisità abilità, ad esempio
l'agilità delle dita, per Agostino,
appartiene
al corpo e non allo spirito, e l'essere
un
buon esecutore è perciò diverso dall'avere
una reale scientia della musica.
Essa è schiettamente teorica, e gli
istrioni
non conoscono la musica nel suo vero
essere.
Si tratta di distinzioni sottili, ma
non
ci si sottrae all'impressione di qualche
confusione come l'insistere sulla contrapposizione
di corpo e spirito quando non era proprio
il caso, e sull'altrettanto errata
contrapposizione
tra pratica e teoria, una pessima eredità
ricevuta dalla filosofia greca, che
Agostino
applica anche alla musica, come si
potesse
avere chiara nozione della musica senza
aver
imparato almeno a strimpellare.
Il "bene modulandi" di Agostino
non è altro che l'arte della composizione,
un "bene movendi", ovvero
lo sviluppo
dei temi musicali. Esso procede "secondo
la legge del numero nel rispetto proporzionale
dei tempi e degli intervalli".
Siamo così ad una metafisica del numero
di
schietta provenienza pitagorica. La
musica
è scientia, ed è conoscibile dalla ragione in quanto
riducibile a numero, a rapporti semplici
(rationabiles), quindi a schemi di tipo matematico.
Ma, Agostino supera il livello scientifico
rappresentativo, per entrare decisamente
in quello mistico e metafisico, quando
afferma
che i numeri hanno un significato particolare,
e che il tre, ad esempio, viene prima
di
tutti gli altri per il suo carattere
sacrale.
In esso vi è "una perfezione vera
e
propria, poichè tale numero è un tutto,
avendo
principio, mezzo e fine."
Qui si ha un chiaro riferimento alla
Trinità
divina ed al suo mistero, che è più
di tipo
ideologico-religioso che musicale ed
estetico.
Una volta affermata la divinità del
Cristo,
non solo il messia profetizzato da
Isaia,
non solo un inviato di Dio, ma il suo
Figlio
Unigenito, addirittura il Verbo a Lui
coesistente
da sempre, i pensatori cristiani si
trovarono
a fare i conti con l'apparente (e spesso
reale) contraddittorietà delle loro
affermazioni,
un qualcosa ai limiti dell'assurdo che nella stessa chiesa primitiva provocò
discussioni infinite, diventando un vero
e proprio tormentone.
In questo quadro occorre avere presente
con
chiarezza sia la necessità storica
con cui
si misurarono i primi capi della cristianità,
sia la successiva necessità di una
teorizzazione
coerente e razionale, che non facesse
a pugni
con la severa logica dei filosofi da
un lato
e con quella più grossolana ma non
meno ragionevole
dei contadini, delle puttane e degli
schiavi
dall'altro. Per non parlare dei diabolici rabbì ebraici, che avevano una loro logica
sottile e stringente: erano stati istruiti
dai i farisei e dai dottori della legge criticati
da Cristo.
Proclamare la divinità del Cristo fu
necessario
per dare all'autentico messaggio di
Gesù
un valore superiore a tutto quanto
si trovava
scritto nella Bibbia, visto che nella
stessa
non era raro imbattersi in affermazioni
divine
del tutto diverse, sia nello spirito
che
nella lettera. Ma, compiuto questo
passo
così arduo, impegnativo e difficoltoso, non si poteva poi ammettere
né che esistessero due divinità distinte,
né che vi fosse contraddizione tra la parola
e l'atteggiamento del Padre e la parola e
l'atteggiamento del Figlio, visto che le
due persone erano pur sempre interpreti della medesima
volontà. Non solo, essendo stato proclamato
a chiare lettere che il Figlio altro non
era che la Parola del Padre, cioè il suo
pensiero incarnato, bisognava fosse chiaro
che sulla croce non solo era stao inchiodato
un uomo, ma inchiodata la stessa Parola di
Dio. Gli uomini avevano crocifisso Dio.
E Dio si era lasciato crocifiggere!
Cosa
di più assurdo?
Eppure era questo il nocciolo della
propaganda
cristiana.
Preso da tale preoccupazione suprema,
Agostino
lottò tutta la sua vita da cristiano
militante
(prima era stato peccatore e miscredente)
contro intepretazioni fasulle, grossolanità
ed eresie, ma si trovò spesso alle
prese
con problemi logici di una sottigliezza
spaventosa,
a volte risolti brillantemente, altre
un
po' meno.
Nel nostro caso, si ha l'impressione
di un
approccio un po' incerto, oltre che
astratto
ed intellettualistico.
Lo schema triadico è sovrapposto alla
realtà
musicale senza alcun riguardo per la
sua
effettiva costituzione. Cercò rapporti
tra
i suoni in base al principio dell'armonia
dei rationabiles e della disarmonia degli irrationabiles, ed ancora vennero introdotte distinzioni
tra rationabiles aequales e rationabiles inaequales che appaiono piuttosto cervellotiche., anche
perchè non sostanziate da una profonda conoscenza
matematica.
Ancora, nel VI libro del De Musica, la preoccupazione principale è di tipo
extramusicale ed extraestetico. Qui Agostino
si preoccupò innanzitutto di delineare una
specie di gerarchia di numeri-suoni ponendola
in relazione al precetto morale (di origine
platonico-aristotelica) di avere sempre l'anima
in posizione di comando ed il corpo come
suo strumento docile ed ubbidiente.
Il volere cosciente dell'anima deve
sempre
esprimersi in modo ordinato, realizzando
un movimento ordinato.
Così Fubini: «Se la musica è
essenzialmente
un movimento ordinato e misurabile
bisogna
concludere allora, seguendo il filo
del ragionamento
agostiniano, che la sua sorgente è
tutta
interiore e solo secondariamente ed
in modo
accessorio alla musica, e quindi i
numeri
diventano sonantes. Tutta la complicata argomentazione di Agostino
tende a dimostrare che la musica vera e propria
non è che "un'operazione dell'anima";
in questo quadro può trovare una sistemazione
adeguata anche la musica in quanto suono.
Vi è una gerarchia nei suoni che può essere
così riassunta: "in realtà una cosa
è produrre un suono, ciò che è pertinenza
di un corpo; altro è creare ritmi più lenti
o più celeri, altro è ricordarsene, altro
è esprimere un parere su tutti questi fenomeni,
sia approvando, sia disapprovando come per
virtù di un naturale diritto"»
(1)
Il giudizio appartiene alla sfera di
quelli
che Agostino chiama i numeri judiciales ed è questa la dimensione ultima della comprensione
musicale, la più alta. Tutto ciò che vive
nella musica è subordinato gerachicamente.
I numeri judiciales sono ancora suddivisi in due categorie:
i sensuales e i rationales. I sensuales governano la scelta; sono i criteri secondo
i quali l'anima approva o disapprova la musica
proposta. I secondi ci orientano invece sulla
liceità dell'approvazione che abbiamo appena
dato ad una certa musica. Solo attraverso
i numeri rationales il nostro è un giudizio veramente razionale.
Come sempre accade in Agostino, questa
capacità
di giudizio non si acquisice dall'esterno,
attraverso insegnamenti ed esperienze,
ma
è innata, e va cercata in interiore homine. L'anima ha già in sé i modelli perfetti di
tali numeri perch Dio ve li ha posti con
la creazione dell'uomo.
E qui siamo alla frutta ed al dessert:
come
convivono estetica ed etica in Agostino?
Certamente in posizione gerarchica:
l'etica
comanda, l'estetica si adegua, anche
se a
volte non capisce.
La bellezza è vera bellezza, come in
Platone,
solo se riflette la bellezza suprema,
l'armonia
del creato e l'autentico splendore
di Dio.
Questa bellezza suprema partecipa di
tutte
le bellezze. Nel giudicare, l'anima
deve
sempre aver presente questo modello
eterno
ed è solo rispetto a questo che abbiamo
un
metro di valutazione critica.
Così Fubini: «Tutta la bellezza
ha
un suo diritto di cittadinanza, fino
al momento
in cui non ne diventiamo vittime: "...tutti
i numeri, di qualunque tipo, creati
dalla
nostra condizione mortale (riflesso
del nostro
castigo), non escludiamoli dalle opere
della
divina Provvidenza, poichè hanno una
loro
bellezza, considerati nel loro genere.
Ma
non amiamoli solo per sentirci beati
quasi
nel semplice godimento di loro."»
(1)
(1) il testo della citazione è tratto da:
Enrico Fubini - L'estetica musicale dall'antichità al Settecento - Einaudi 1976
(2) Massimo Mila - Breve storia della musica - Einaudi
Guido Marenco - 6 novembre 2003
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