Brevissima storia dell'estetica musicale

Capitolo 2 - Dall'antichità al Medioevo: Sant'Agostino
di Guido Marenco


Dobbiamo certamente al medioevo la distinzione tra musica sacra e musica profana, cioè tra una musica volta ad elevare spiritualmente, ispirata a Dio se non, addirittura, da Dio, ed un'altra mirata esclusivamente a soddisfare i sensi ed a divertire.
Questo pensiero sorse in pensatori e teologi cristiani e non è sbagliato vederlo anche come una reazione a quello che era stata la musica dalla conquista romana della Grecia fino a tutta l'esistenza del mondo antico.
Massimo Mila parla di un "uso puramente voluttuario e pratico" della musica da parte dei romani. Quindi, per oltre quattrocento anni, all'incirca dal 200 a.C. fino a tutto il 300 d.C. essa non dovrebbe esser risultata altro che occasione di divertimento e questo indipendentemente dal fatto che esistessero anche teorici e filosofi interessati a ragionarvi attorno.
Le notizie e le fonti in proposito non sono eccezionali: comunque non sembra che vi sia stato qualcuno in grado di aggiungere qualcosa alle acquisizioni estetiche del mondo greco.
Fu con i padri della Chiesa che si tornò a riflettere sul fenomeno musicale con una relativa profondità.
Alcuni di essi cominciarono a trovare naturale e buona cosa che le adunate dei fedeli fossero accompagnate da canti e che questi canti fossero ovviamante ispirati all'elevazione morale e spirituale, differenziandiosi in maniera significativa dalla musica suonata in occasione di festini e baccanali, od anche negli spettacoli tragici.
La musica cristiana presentava momenti di purezza e raccoglimento, e
tale purificazione pareva una grande acquisizione intellettuale e non fatichiamo a renderci conto del perchè.
Dio veniva ritenuto un essere sublime, al di là di ogni immaginazione, il garante del bene, della perfezione, l'Ente Sommo ed antimateriale per eccellenza. I canti e le musiche dedicate a questo Dio, preferibili ai canti dedicati a sue creature, non potevano che tendere al sublime, essere essi stessi perfetti, al di là di ogni possibile contaminazione con elementi ctonii, cioè con le barbarie ritmiche, le danze sfrenate, i momenti di lascivia sensuale ed erotica, la passione spinta per oggetti caduchi quali la bella "fanciulla" od il "maschietto" ben tornito.

La distinzione tra sacro e profano si impose dunuqe prima ancora nella pratica che nella teoria. Muoveva da una discriminazione primitiva: quella tra musica cristiana e musica pagana.
Gli elementi di autonomia ed originalità di questo pensiero sono più apparenti che reali in quanto, volenti o nolenti, derivano da pensatori pagani , in primis lo stesso Platone.

Il primo scritto di un certo rilievo risale a Clemente Alessandrino, vissuto nel secondo secolo d.C. In un'opera intitolata Protrettico ai Greci, scrisse che i miti sono crudeli ed ingannatori (il che potrebbe essere non solo accettabile, ma perfino giusto...) ma ebbe il torto di aggiungere che la musica che li accompagna porta alla perdizione.

«A mio giudizio il nostro tracio Orfeo ed anche il cantore di Tebe e di Metimnia non sono degni del nome di uomo perchè sono ingannatori. Con il pretesto della musica essi hanno oltraggiato la vita umana, spinti dal demonio, attraverso qualche abile stregoneria, a condurre l'uomo alla rovina. Inneggiando alla morte violenta nei loro riti religiosi e conducendo all'adorazione di leggende dolorose, essi per primi inducono all'idolatria... Con i loro canti e i loro incantesimi essi hanno tenuto prigionieri nella più abbietta schiavitù ... » (1)
C'è un elemento di estremismo in queste affermazioni che ignora un dato elementare, ovvero che se abbiamo un'alta concezione della musica, lo dobbiamo certamente più alla civiltà greca che a quella ebraica.
Quest'ultima ci trasmise soltanto dei testi ed è piuttosto singolare notare che proprio uno di quelli più significativi, Il Cantico dei Cantici, sviluppasse un contenuto che solo dopo una profonda mediazione esegetica, possiamo definire come spirituale. Era innanzitutto ed originariamente un canto d'amore tra l'uomo e la sua bella, di squisita fattura poetica e di indiscutibile sapore profano.

Volendo condannare in toto l'antichità, Clemente probabilmente non si accorse di rivalutare proprio l'antico pensiero pitagorico sulla musica. Il canto deve esprimere l'armonia del cosmo. «Anzi - scrive Fubini - sembra che non sia estranea al pensiero di Clemente non solo l'idea che la musica abbia il potere di porre armonia tra elementi altrimenti discordi ma che l'universo stesso sia costituito di musica, cioè di armonia: "Il puro canto, sostegno dell'universo e armonia di tutte le cose si propaga dal centro della circonferenza e dai confini estremi al centro!" lo stesso universo è concepito come "uno strumento con tante voci", e il canto viene ad identificarsi con lo stesso "verbo divino".» (1)
E' la classica posizione di chi vorrebbe estremisticamente liquidare tutto il passato per affermare la nuova religione e la nuova conseguente ideologia: nel cercare di trovare le basi del nuovo pensiero si finisce inevitabilmente con il proclamare qualche antico dogma!
Nel tentativo di contrapporre la musica cristiana a quella pagana, Clemente non trovò di meglio che rilanciare un vecchio mito ebraico: quello di David pastore e cantore, brigante e guerrigliero, infine re di Israele dopo Saul e fondatore della piccola potenza ebraica nell'antichità.
David fu accreditato come l'autore di moltissimi Salmi che a quei tempi cominciarono ad essere tradotti in greco e latino, diventando patrimonio comune della Chiesa, i testi dei canti sacri e delle funzioni religiose.
Accanto ad essi fiorirono anche inni di fresca composizione, e si venne presto a costituire un corpus di canti liturgici.
Mila così decrive la vicenda: «Si distinguono all'inizio della liturgia cristiana, due modi, due principi di canto, che gli antichi definirono coi nomi di accentus e concentus, e che corrispondono, grossolanamente, ai principi rispecchiati rispettivamente nel recitativo e nell'aria.; essi determinarono, col loro alterno prevalere, tutte le seguenti forme di gregoriano.» (2)

L'accentus consisteva in una recitazione cadenzata, ad ogni sillaba corrispondeva una nota e spesso detta recitazione si svolgeva in gran parte su una medesima nota a lunga ripetuta, dando così vita alla salmodia.
Quando un praceptor recitava una preghiera e i fedeli riprendevano solo una parte delle parole, si aveva il responsorio.
Tuttavia, sia nelle comunità della Siria che in quelle dell'Asia Minore, vennero in uso canti molto più variati ( e meno severi).
Mila parla di melodie "curvate in frasi sinuose ed appariscenti" e testi diversi dalla tradizione biblica, " i quali mostravano evidente, nel loro corrotto latino di decadenza, il trapasso della poesia dalla classica metrica quantitativa a quella moderna, fondata sulla distribuzione degli accenti nel verso." (2)
Queste "novità" vennero accolte in occidente, e fu Sant'Ambrogio vescovo ad introdurle a Milano, ma va ricordato che furono Sant'Efrem e San Gregorio Nazianzeno, patriarca di Costantinopoli attorno al 380 d.C. ad iniziarne (o quantomeno ad incoraggiarne) la pratica, mentre fu Ilario, vescovo di Poitiers, a patrocinarne la causa nell'Europa al di là delle Alpi.

Fu dunque in questo nuovo orizzonte che venne a collocarsi la riflessione sulla musica di Sant'Agostino, allievo ed ammiratore di Ambrogio.
Agostino scrisse sia un trattato che considerazioni sparse, in particolare nelle Confessioni. Tra l'uno e le altre non mancano momenti contraddittori, specie quando considera peccaminoso ogni eccesso ed ogni abbandono all'ascolto musicale, ma anche estremamente appagante sotto il profilo spirituale.
Questi scritti influenzeranno per secoli e secoli a venire il pensiero cristiano.
E' importante notare che Agostino fu il primo a riconoscere la musica come sostitutiva del testo in quanto espressiva di qualcosa che le sole parole non potevano dire, perchè
"impotenti" a descrivere l'amore per Dio che l'uomo giusto e santo coltiva nel proprio animo.
"Colui che giubila - scriveva Agostino - non dice parole, ma è una specie di suono di gioia senza parole...godendo nella sua esultanza di certe parole che non si possono dire né intendere, l'uomo prorompe in una specie di voce d'esaltazione senza parole; sì ch'egli pare godere nella voce stessa, incapace, per troppo gaudio, di spiegare con parole ciò che gode. "
Si tratta di uno dei primi espliciti riconoscimenti del carattere non propriamente razionale dell'espressione musicale, che urta contro una certa tendenza filosofica a definire Dio, cioè ad incasellarlo in una definizione di genere e di specie, e quindi a renderlo con parole significanti chiare e concise.
Abbiamo così a che fare con due tendenze opposte, anche se non inconciliabili. La prima riconosce dei diritti al cosiddetto misticismo, cioè il sentire Dio, o comunque la presenza di qualcosa al di là dei ragionamenti. E questo stesso sentire, che è dunque sentimento, trova una sua possibilità nell'espressione musicale.
Più arduo è comprendere come un qualsiasi ragionamento possa sfociare nell'impellenza di dar vita ad una musica. Tutto ciò che il ragionamento può fare, al contrario, è render conto del perchè nell'uomo si formino determinati sentimenti, e perchè essi prorompano in musica.
La musica stessa, in ultima analisi è una continua sfida alla ragione umana e, per chi scrive, anche tra le più affascinanti.

L'opera De Musica di Agostino si divide in sei libri, ma solo il primo e l'ultimo contengono uno studio specifico, essendo gli altri prevalentemente rivolti a questioni di metrica.
Nonostante la clamorosa ammissione soprariportata, nel De Musica, il nostro insiste sul termine scientia: "Musica est scientia bene modulandi."
Impegna quindi più la ragione che i sensi, ma procura anche piacere, sebbene ciò sia ragionevolmente riprovevole, perchè il piacere non può essere un fine, ma solo il sentimento che accompagna la comprensione razionale della musica stessa.
Forse, Agostino avrebbe voluto dire che l'unico vero piacere sta nella comprensione razionale e che il transitorio piacere dei sensi non è il vero fine della nostra attenzione alla musica.
Per il nostro, un raffronto tra mondo della natura e mondo dell'uomo porta a comprendere in primo luogo che esistono diversi modi di far musica: il primo è istintivo, e cita come esempio il canto degli usignoli. Il secondo è ragionato, come nel caso dell'uomo.
Anche nell'uomo, ovviamente, si manifesta un livello istintivo. Ma è solo con l'imitazione che si sale di livello. Infatti l'imitazione è ciò che ci consente di apprendere l'arte di chi sa suonare uno strumento o cantare in modo intonato.
Ma, detto questo, Agostino rifiuta di credere che la vera arte sia imitazione. Essa è solo un primo gradino da salire per acquisire una tecnica, che spesso non è istintiva.
Tuttavia, l'acquisità abilità, ad esempio l'agilità delle dita, per Agostino, appartiene al corpo e non allo spirito, e l'essere un buon esecutore è perciò diverso dall'avere una reale scientia della musica.
Essa è schiettamente teorica, e gli istrioni non conoscono la musica nel suo vero essere.
Si tratta di distinzioni sottili, ma non ci si sottrae all'impressione di qualche confusione come l'insistere sulla contrapposizione di corpo e spirito quando non era proprio il caso, e sull'altrettanto errata contrapposizione tra pratica e teoria, una pessima eredità ricevuta dalla filosofia greca, che Agostino applica anche alla musica, come si potesse avere chiara nozione della musica senza aver imparato almeno a strimpellare.
Il "bene modulandi" di Agostino non è altro che l'arte della composizione, un "bene movendi", ovvero lo sviluppo dei temi musicali. Esso procede "secondo la legge del numero nel rispetto proporzionale dei tempi e degli intervalli".
Siamo così ad una metafisica del numero di schietta provenienza pitagorica. La musica è scientia, ed è conoscibile dalla ragione in quanto riducibile a numero, a rapporti semplici (rationabiles), quindi a schemi di tipo matematico.
Ma, Agostino supera il livello scientifico rappresentativo, per entrare decisamente in quello mistico e metafisico, quando afferma che i numeri hanno un significato particolare, e che il tre, ad esempio, viene prima di tutti gli altri per il suo carattere sacrale. In esso vi è "una perfezione vera e propria, poichè tale numero è un tutto, avendo principio, mezzo e fine."

Qui si ha un chiaro riferimento alla Trinità divina ed al suo mistero, che è più di tipo ideologico-religioso che musicale ed estetico.
Una volta affermata la divinità del Cristo, non solo il messia profetizzato da Isaia, non solo un inviato di Dio, ma il suo Figlio Unigenito, addirittura il Verbo a Lui coesistente da sempre, i pensatori cristiani si trovarono a fare i conti con l'apparente (e spesso reale) contraddittorietà delle loro affermazioni, un qualcosa ai limiti dell'assurdo che nella stessa chiesa primitiva provocò discussioni infinite, diventando un vero e proprio tormentone.
In questo quadro occorre avere presente con chiarezza sia la necessità storica con cui si misurarono i primi capi della cristianità, sia la successiva necessità di una teorizzazione coerente e razionale, che non facesse a pugni con la severa logica dei filosofi da un lato e con quella più grossolana ma non meno ragionevole dei contadini, delle puttane e degli schiavi dall'altro. Per non parlare dei diabolici rabbì ebraici, che avevano una loro logica sottile e stringente: erano stati istruiti dai i farisei e dai dottori della legge criticati da Cristo.
Proclamare la divinità del Cristo fu necessario per dare all'autentico messaggio di Gesù un valore superiore a tutto quanto si trovava scritto nella Bibbia, visto che nella stessa non era raro imbattersi in affermazioni divine del tutto diverse, sia nello spirito che nella lettera. Ma, compiuto questo passo così arduo, impegnativo e difficoltoso, non si poteva poi ammettere né che esistessero due divinità distinte, né che vi fosse contraddizione tra la parola e l'atteggiamento del Padre e la parola e l'atteggiamento del Figlio, visto che le due persone erano pur sempre interpreti della medesima volontà. Non solo, essendo stato proclamato a chiare lettere che il Figlio altro non era che la Parola del Padre, cioè il suo pensiero incarnato, bisognava fosse chiaro che sulla croce non solo era stao inchiodato un uomo, ma inchiodata la stessa Parola di Dio. Gli uomini avevano crocifisso Dio.
E Dio si era lasciato crocifiggere! Cosa di più assurdo?
Eppure era questo il nocciolo della propaganda cristiana.

Preso da tale preoccupazione suprema, Agostino lottò tutta la sua vita da cristiano militante (prima era stato peccatore e miscredente) contro intepretazioni fasulle, grossolanità ed eresie, ma si trovò spesso alle prese con problemi logici di una sottigliezza spaventosa, a volte risolti brillantemente, altre un po' meno.
Nel nostro caso, si ha l'impressione di un approccio un po' incerto, oltre che astratto ed intellettualistico.
Lo schema triadico è sovrapposto alla realtà musicale senza alcun riguardo per la sua effettiva costituzione. Cercò rapporti tra i suoni in base al principio dell'armonia dei rationabiles e della disarmonia degli irrationabiles, ed ancora vennero introdotte distinzioni tra rationabiles aequales e rationabiles inaequales che appaiono piuttosto cervellotiche., anche perchè non sostanziate da una profonda conoscenza matematica.
Ancora, nel VI libro del De Musica, la preoccupazione principale è di tipo extramusicale ed extraestetico. Qui Agostino si preoccupò innanzitutto di delineare una specie di gerarchia di numeri-suoni ponendola in relazione al precetto morale (di origine platonico-aristotelica) di avere sempre l'anima in posizione di comando ed il corpo come suo strumento docile ed ubbidiente.
Il volere cosciente dell'anima deve sempre esprimersi in modo ordinato, realizzando un movimento ordinato.
Così Fubini: «Se la musica è essenzialmente un movimento ordinato e misurabile bisogna concludere allora, seguendo il filo del ragionamento agostiniano, che la sua sorgente è tutta interiore e solo secondariamente ed in modo accessorio alla musica, e quindi i numeri diventano sonantes. Tutta la complicata argomentazione di Agostino tende a dimostrare che la musica vera e propria non è che "un'operazione dell'anima"; in questo quadro può trovare una sistemazione adeguata anche la musica in quanto suono. Vi è una gerarchia nei suoni che può essere così riassunta: "in realtà una cosa è produrre un suono, ciò che è pertinenza di un corpo; altro è creare ritmi più lenti o più celeri, altro è ricordarsene, altro è esprimere un parere su tutti questi fenomeni, sia approvando, sia disapprovando come per virtù di un naturale diritto"» (1)

Il giudizio appartiene alla sfera di quelli che Agostino chiama i numeri judiciales ed è questa la dimensione ultima della comprensione musicale, la più alta. Tutto ciò che vive nella musica è subordinato gerachicamente. I numeri judiciales sono ancora suddivisi in due categorie: i sensuales e i rationales. I sensuales governano la scelta; sono i criteri secondo i quali l'anima approva o disapprova la musica proposta. I secondi ci orientano invece sulla liceità dell'approvazione che abbiamo appena dato ad una certa musica. Solo attraverso i numeri rationales il nostro è un giudizio veramente razionale.

Come sempre accade in Agostino, questa capacità di giudizio non si acquisice dall'esterno, attraverso insegnamenti ed esperienze, ma è innata, e va cercata in interiore homine. L'anima ha già in sé i modelli perfetti di tali numeri perch Dio ve li ha posti con la creazione dell'uomo.

E qui siamo alla frutta ed al dessert: come convivono estetica ed etica in Agostino?
Certamente in posizione gerarchica: l'etica comanda, l'estetica si adegua, anche se a volte non capisce.
La bellezza è vera bellezza, come in Platone, solo se riflette la bellezza suprema, l'armonia del creato e l'autentico splendore di Dio.
Questa bellezza suprema partecipa di tutte le bellezze. Nel giudicare, l'anima deve sempre aver presente questo modello eterno ed è solo rispetto a questo che abbiamo un metro di valutazione critica.
Così Fubini: «Tutta la bellezza ha un suo diritto di cittadinanza, fino al momento in cui non ne diventiamo vittime: "...tutti i numeri, di qualunque tipo, creati dalla nostra condizione mortale (riflesso del nostro castigo), non escludiamoli dalle opere della divina Provvidenza, poichè hanno una loro bellezza, considerati nel loro genere. Ma non amiamoli solo per sentirci beati quasi nel semplice godimento di loro."» (1)


(1) il testo della citazione è tratto da: Enrico Fubini - L'estetica musicale dall'antichità al Settecento - Einaudi 1976
(2) Massimo Mila - Breve storia della musica - Einaudi

Guido Marenco - 6 novembre 2003