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The Complete Birth Of The Cool
Miles Davis
Cd Capitol 1998 - registrazioni originali del 1948-'49-'50

Secondo una certa corrente di pensiero, il jazz, fin dalle origini, è sempre stato percorso da una sottile tensione interna, per molti aspetti paragonabile a quella del mondo della boxe. Se qui si cercava, nella categoria dei pesi massimi, la speranza bianca, ed alla fine la si è trovata solo nel mondo della celluloide, grazie a Rocky-Sylvester Stallone, nel jazz alcuni "bianchi" hanno spesso coltivato il desiderio, a volte davvero incomprensibile, di cancellare il "nero" dal jazz, intendendo per nero il suono sporco del blues, il groove ed il growl tipici di una musica che dal blues aveva tratto i suoi massimi caratteri distintivi.
Il paradosso di questa vicenda è che tra i migliori killers del sound sporco si possono annoverare musicisti neri a tutti gli effetti. Quando si contrappone Duke Ellington a Count Basie, per esempio, si sottolinea sempre che Duke aveva una squisita raffinatezza ed una grande sensibilità per la musica classica europea, mentre Count Basie continuava ad impersonare la figura del jazzman puro, del musicista tutto ritmo, improvvisazione e sudore.
Nel corso degli anni '40 un altro personaggio concorse ad alimentare questa leggenda del nero raffinato e traditore: il sassofonista Lester Young.
Lester aveva un suono che spegneva gli atriti e rilassava come pochi tutte le tensioni.
Il vero nonno del cool, insomma, fu lui, anche se è nella musica proposta dal pianista Lennie Tristano che si deve cercare la prima sistemazione teorica e la prima fusione riuscita di tradizione colta (Bela Bartok, soprattutto) e musica nera.

Duke Ellington era ancora troppo legato al jungle della sua gioventù, agli elettrizzanti assoli dei suoi solisti, come il trombettista Cootie Williams, per ritenere che le sue sofisticate costruzioni orchestrali potessero preludere a qualcosa del tipo Ajax-lanciere bianco, i templari alla conquista di Jerusalem.
E, tuttavia, anche nei confronti di Lester Young sarebbe lecito avanzare qualche riserva. In quel poco che ho sentito ho sempre trovato qualcosa che rinviava alla lingua primordiale. Lester Young contribuì a cambiar pelle al jazz, ma ne mantenne intatta l'anima creola e bastarda. Nè Africa, nè Europa, ma il crogiolo di New Orleans, il primo esperimento riuscito di fusione di nuclei atomici diversi quali, appunto, un certo spirito francese, un certo humour britannico, un groove nero e caraibico, con l'aggiunta di un po' di latin salsa.

I cavalieri bianchi che pensarono, invece, di essere riusciti nell'impresa di conquistare il santo sepolcro furono molti: da Benny Goodman a Stan Kenton, dal pianista Dave Brubeck al sassofonista Gerry Mulligan. Ma il loro antesignano fu un uomo dotato di classe decisamente inferiore: l'arcinoto Glenn Miller.
Con lui il jazz trasfigurò in qualcosa di decisamente diverso: la musica leggera, il divertimento orchestrale, una banalità mista a cose che scorrono come l'acqua e fanno sottofondo gradevole e trascinante come il Chattanooga Choo Choo.
Eppure, nonostante tanto ardore, il colpo di grazia non era ancora arrivato, e fortunatamente, non arrivò nemmeno dopo.
Se il jazz rimane qualcosa di bello e vitale è perchè la dialettica delle anime opposte non si è mai spenta, ed è da questa dialettica che continuano a nascere ed evolvere vari tipi di sound. Ce n'è sempre per tutti i gusti.

Nel bel mezzo dell'agone occorreva ai partigiani del bianco un altro presunto traditore e questo fu individuato in Miles Davis, il bopper più promettente e brillante del momento.
Aveva suonato con Charlie Parker. Ora si ritrovava a seguire le direttive di Gil Evans e queste portavano dritte al superamento, se non alla liquidazione del bop.
Il vero mentore di tutta l'operazione, l'uomo che stava dietro le quinte, fu, tuttavia, il produttore Pete Rugolo.

Fin qui, voglio avvisare il lettore, abbiamo seguito uno schema in parte falso, anche se sono molti a ritenerlo ancora giusto. Rischia di essere uno schema razzista, anche quando viene rovesciato e visto con l'occhio del nero.
Ci sono bianchi che prediligono l'improvvisazione ed il blues, anche per reazione ad un soffocante dominio della melodia e dell'armonia secondo i canoni, e neri che preferiscono la plasticità strutturata in schemi più formali.
E' la passione che nasce da una mancanza, dal senso di incompletezza ed anche da quello che si cerca di esprimere.

Miles Davis fu uno degli individui più contraddittori, antipatici ed affascinanti di tutto il secolo trascorso.
Non avrei mai voluto averlo come vicino di banco a scuola. Credo mi avrebbe dato pizzicotti per metà del tempo, mentre per l'altra metà se ne sarebbe stato zitto, chiuso in un mutismo oscuro ed introverso. Ma l'ammirazione che ho per lui è comunque sconfinata, e nasce, ne sono certo dal mio senso di incompletezza.

In questo disco il suo apporto compositivo fu limitato, anche se il suo sound attraverso tutto il disco e lo caratterizza in modo impressionante.
Un solo brano, Deception, reca la sua firma. Anche Boplicity è di Davis, ma l'autore si nascose con lo pseudonimo di Cleo Henry; Budo fu composta da Bud Powell e solo rimaneggiata da Miles.
Tutto il resto fu prima costruito e poi arrangiato da altri. Move e Budo furono arrangiati dal pianista John Lewis, nero, peraltro assente da questo primo giro di registrazioni; Jeru e Godchild si devono all'estro di Jerry Mulligan, bianco, e grande interprete del sax baritono.
Questi ultimi quattro brani furono incisi in una prima session che risale al 21 gennaio del '49, a New York.
Non so bene perchè nella scaletta del disco l'ordine sia variato, ma Budo si trova come traccia numero 5 e Godchild alla track 7.
La formazione di queste quattro incisioni era costituita da un nonetto comprendente il fior fiore della musica bianca e nera del momento. Si va da boppers come il batterista Max Roach (sarebbe questo un altro traditore?) ed il pianista Al Haig per passare dal contrabbassista Joe Shulman, da Junior Collins al corno francese, da Bill Barber al basso tuba, da Gerry Mulligan al baritono, da Kai Winding al trombone, da Lee Konitz al sax alto, per finire con Miles Davis, ovviamente alla tromba.

Il bello di queste quattro incisioni sta nella loro omogeneità e nella loro orchestrazione perfetta, senza sbavature ed impennate boppistiche, e tuttavia caratterizzate da un ritmo pulsante, per niente "freddo", se per cool si intende erroneamente qualcosa di cadaverico, o di messo nel congelatore.
Ciò che distingue davvero questo sound dal bop sta nel fatto che tutte le parti solistiche sono controllate, ridotte, essenziali, mentre quelle corali sono semplicemente sintonizzate su una perfezione sinfonica, o, per meglio dire, polifonica. Per polifonia si intende un suono nel quale i caratteri specifici delle singole voci siano udibili e chiaramente sitinte, anche quando suonano all'unisono.
Ciò nonostante, gli assoli di Miles e di Lee Konitz hanno una loro incisiva e sintetica capacità di penetrazione.
In Move, ad esempio, i due si susseguono nell'ordine, mentre si avverte con grande nitore la spinta ritmica assicurata dal contrabbasso di Shulman e dai tamburi di Max Roach. Il piano di Haig, al contrario, si sente appena.
Sembra che l'intento di Gil Evans fosse quello di riportare la musica in primo piano, a danno del suono puro, che nel bop aveva preso una sorta di dominante.
In tal caso, a me pare che la scelta dei musicisti sia risultata felicemente congeniale, giacchè sia Miles che Konitz dimostrarono che a loro stava più a cuore la sequenza melodica che l'accento sulla nota singola o la bellezza stentorea dell'emissione.
In Jeru Miles sembra scaldare la musica preparando l'ingresso del baritono di Gerry Mulligan, per poi andare a chiudere in scioltezza.
Budo è una celebre composizione del pianista Bud Powell.
La cosa che mi piace maggiormente in questo brano è il brevissimo intervento di Konitz sul finire. Ma io ho un debole per Konitz e tutto ciò che uscì dalle mura in cui si era recluso Lennie Tristano.

Nella session registrata il 22 aprile '49 abbiamo una formazione diversa. Al trombone subentra J.J. Johnson; Sandy Siegelstein al french horn; Nelson Boyd rimpiazza Shulman al contrabbasso e Kenny Clarke sostituisce Roach alla batteria. Infine John Lewis subentra a Haig al pianoforte.
Vennero incisi quattro brani: la celeberrima Venus De Milo (di Gerry Mulligan), Boplicity, Israel (di John Carisi) e Rouge(di John Lewis).
Sotto il profilo strettamente storico il pezzo più interessante è unanimemente giudicato Israel di Carisi.
Winton Mellers ha scritto: « l'interrelazione tra il jazzboy (Davis) e l'uomo della Juillard e cioè di Johnny Carisi può benissimo inaugurare una fase nuova nella storia della musica. In Israel, per esempio, Carisi presenta abilmente un blues composto arrangiato dal sapore arcaico-modale ovviamente adattissimo allo stile di improvvisazione di Davis. La trama armonica è dissonante e leggermente dislocata, come l'improvvisazione di Parker: ritmi di cinquine premono contro la scansione del tempo, e capricci tonali scalzano il grave motivo dorico. Eppure il fatto che la melodia sia uniformemente modale (per cui le note blues non sono più eccezionali, e quindi più rilassate) da al pezzo un sapore solenne, persino liturgico...il suono jazz sporco è sparito. » (W. Mellers - Musica nel nuovo mondo - )
A dire il vero, non vado pazzo per questo brano, per il semplice fatto che non mi sembra né freddo, nè caldo, ma un brodino tiepido fatto con il dado vegetale.
Molto più intrigante il pezzo di Lewis, Rouge, perchè sia il pianista che Konitz, sia Davis che J.J Johnson, fanno del loro meglio, sia perchè il motivo è molto più fluido.
Venus De Milo non avrebbe bisogno di commenti, tanto il brano dovrebbe essere noto. Ma anche qui insisterei sulla fluidità spontanea della musica, pure se la parola chiave sembra ricercatezza. Quella di Mulligan è una ricercatezza che trova, a differenza di quella ricercatezza che non trova mai.
Ottima anche Boplicity. Il primo assolo è di Mulligan ed emana un calore che sembra aver poco del freddo di cui stiamo cianciando. Poi Miles assume la guida del gioco ed anche qui è fluidità.

Un altro blocco di incisioni venne effettuato nel 1950, con il ritorno di Max Roach alla batteria e la comparsa di Gunther Schuller al corno francese. L'interesse è doppio, perchè Schuller sarà, in seguito, il massimo teorico della purificazione del jazz da qualsiasi elemento volgare. Il risultato mi pare sia interessante che discutibile, ma non memorabile.
Israel di Carisi era, sotto questo profilo, il tentativo più deciso. In Moon Dreams, ad esempio, si fa del buon jazz, si trova una certa atmosfera bianca, ma tutto rimane decisamente al di qua del Great Divide teorizzato.
Boplicity, poi, è un brano dall'andamento decisamente bop, anche se l'assolo di Davis è misurato e sotto controllo.

Credo basti questo a far intendere l'importanza del disco. In aggiunta potrei ricordare che sono in possesso di una copia, leggermente più costosa delle altre, con bonus tracks tratte da concerti dal vivo.
Vale la pena di avere questa edizione maggiorata perchè la registrazione è, tutto sommato, ascoltabile, anche se non il massimo per un audiofilo.
Dal vivo il nonetto fa faville di polifonia, anche quando si esprime con la massima spontaneità, ed è questo il bello della faccenda.


gm - 7 novembre 2002