Il Jazz dei settanta
Il dopo bop e i coltraniani
di Guido Marenco
Soprattutto negli anni settanta il jazz assorbì
la musica e la cifra stilistica del grande
John Coltrane.
Ciò non vuol dire, nel senso peggiorativo
dell'espressione, che siano solo spuntate
schiere di imitatori o di pallidi epigoni.
Significa solo che il jazz più aggiornato
ed attuale non poteva essere più lo stesso
dopo Coltrane. Oggettivamente la sua opera
costituiva una sfida ad andare oltre che non poteva venire ignorata.
L'affermazione può apparire banale, tutto
sta ad intendersi.
Molto di ciò che è stato definito come post bop è fatalmente riportabile a come Coltrane
suonò fino al '64. Tanto quanto tutto il
bop ed il cool degli anni '50 non poterono
prescindere dalla lezione di Charlie Parker
o Lester Young negli anni '40.
Qui sta il problema ed in parte l'imbarazzo
di chi, come me, non ama le etichettature.
Difficile sottrarsene però.
Purtroppo lo storico, anche quello provvisto
della più grande fantasia, non può evitare
di utilizzare etichette per definire periodi
e tendenze. A meno di non imbarcarsi in distinzioni
sempre più sottili. Qui, al contrario, vorrei
mantenerne una sola: quella tra "coltraniani"
in senso stretto e il post bop in generale.
Distinzione che poi serve a definire tutto
assieme quel tipo di jazz che non è free
in senso assoluto, perchè mantiene elementi
tonali e richiede un minimo di disciplina
nell'organizzazione sonora, non è fusion
(jazz-rock) e non è mainstream, cioè il jazz
proposto nel capitolo sui "vecchi leoni."
Ed è in questa chiave che emerge una seconda
difficoltà. Facciamo un esempio: Wayne Shorter. Indubbiamente fu "coltraniano".
Ma con questo capitolo della storia del jazz
avrebbe ben poco a che fare. Mise la sua
arte ed il suo sound al servizio della fusion
dei Weather Report. Lo incontriamo giustamente
nella sezione dedicata al jazz-rock. Ma non
nominarlo anche qui sarebbe sbagliato. Perchè
suonò comunque alcune cose alla Coltrane,
così come tanti gruppi rock, i Doors, Santana,
gli Spirit, suonarono invece Coltrane alla
loro maniera. A volte facendo ridere ed altre
piangere...
Sul piano dello stile musicale, il più conseguente
a Coltrane fu certamente Mc Coy Tyner, non un sassofonista ma un pianista, anzi il pianista di Trane, quello che lo aveva accompagnato
per un buon tratto di strada nel periodo
più creativo.
Tyner non fece dischi "torrenziali"
in cui si voleva dire tutto, appunto alla
Coltrane, ma opere diverse, capaci di cogliere sfumature spesso sfuggite
ai critici ed ai consumatori di jazz più
superficiali.
La musica di Mc Coy Tyner era un ponte gettato tra vecchio e nuovo,
ma non fu mai sperimentale e rivoluzionaria.
Mutuando dal linguaggio politico un'espressione
più che adatta, potremmo parlare di Tyner
come d'un riformista spinto ed acceso che,
pur innovando, mantenne salde radici nella
tradizione e nel bop.
Era stato il pianista di Coltrane. Lo aveva
abbandonato perchè a disagio con due batterie
che picchiavano fortissimo e perchè alla
ricerca di una musica più personale. Ed anche
perchè non proprio in sintonia con lo sperimentalismo
free dell'ultimo periodo. Si mise sulle vie
dell'Africa e delle radici nere del jazz,
ma anche su quella del recupero di atmosfere
orientali ed arabe ed ecco due capolavori:
Ashante e Sahara. Sono entrambi da sentire ed io sono sempre
stato particolarmente preso, toccato nel
profondo, dal primo, forse per la cristallina
trasparenza del canto della misteriosa Songai
(chi diavolo era costei?), una voce ed un
nome mai più sentiti successivamente...
Ma tutta la discografia dei settanta è notevole.
Da sentire anche Afro Blues del '73, Enlightment,Trident e Supertrios.
Alice Coltrane, la vedova del grande John, cercò di continuare
la strada intrapresa dal marito nell'ultima
fase, e diede vita ad una serie di album
che alcuni critici giudicano di altissimo
livello...non saprei. A suo tempo ero rimasto
impressionato dall'ascolto di Ptah the El Daoud, pubblicato dalla Impulse nel 1970. Ma poi
preferii dedicarmi ad altre cose, ancor oggi
non so bene perchè.
Certamente più interessante il tour proponibile
in compagnia del pianista conosciuto allora
come "Dollar" Brand. Veniva dal Sud Africa e si chiamava Adolph
Johannes Brand, "Dollar" perchè
aveva suonato nei postriboli frequentati
dai marinai a Capetown in cambio di mance
e poco più.. Poi assunse il nome islamico
di Abdullah Ibrahim. Assolutamente da avere sono Ancient Africa ('72), African Space Program ('73), The Children Of Africa ('76) e Africa Tears and Laughter (79), dischi nei quali il nostro dimostrò
di non essere un pedissequo ripetitore dei
clichè jazzistici nordamericani.
E per rimanere ai pianisti, introducendo
comunque un sassofonista che farà parlare
di sé proprio come "coltraniano"
negli anni a venire, eccoci ad un disco di
Joanne Bracken, accompagnata da Michael Brecker: Tring-A-Ling, con Billy Hart alla batteria e due bassisti
importanti: Cecil Mc Bee e Clint Houston.
L'ho nominato per dovere di completezza,
visto che se n'è detto solo bene. Però vi
avviso: non l'ho mai ascoltato.
Chiedere attenzione per Gato Barbieri è forse supefluo tanta la popolarità di cui
ha goduto. Il sassofonista argentino si era
fatto conoscere già negli anni '60, ma solo
agli inizi dei settanta si impose con un
sound vigoroso e personale, nutrito di suggestioni
latine ed al contempo orientato al free.
Di coltraniano c'era soprattutto l'inarrestabile
diluvio di suoni. Grandi dischi furono Fenix, del '71, Latino-America del '73, Bolivia (live) sempre del '73, e Chapter 3: Viva Emiliano Zapata del '74.
Nel '69 aveva confezionato The Third World, da molti ritenuto il suo capolavoro. Ma
un consenso ed una fama pressochè universali
gli giunsero con la colonna dell'allora scandaloso
film di Bertolucci Ultimo tango a Parigi. Per la verità, non ho mai particolarmente
apprezzato questo disco, tanto che l'avevo
ma non riesco più a trovarlo. Probabile l'abbia
prestato e non sia più tornato a casa. Durante
il suo lungo soggiorno italiano, Gato aveva
anche composto le musiche per i film L'harem di Marco Ferreri, Prima della Rivoluzione dello stesso Bertolucci, e persino suonato
con Gino Paoli nella celeberrima Sapore di sale!
I dischi di Gato avevano tutti un particolare
aroma, profumavano di pampa, di sud del mondo,
e spesso facevano pensare alle revolucion
(più cinematografiche che reali), alla guerriglia,
al Che, a tutta l'ormai straubusata iconografia
del sessantottino perfetto. Ma a risentirlo
ora, la musica non è così datata come mi
sarebbe venuto spontaneo di scrivere. E'
proprio vero che il grande jazz non ha scadenza,
a differenza dei farmaci, delle minestre
in polvere e di troppa musica di consumo.
Proprio per uno sfizio da enciclopedista
informato, mi levo la soddisfazione di segnalare
l'eccellente Alto Madness di Richie Cole, altoista che nel disco inserì una versione
di Last Tango In Paris quasi migliore dell'originale. Da riscoprire.
Di Archie Shepp e Pharaoh Sanders mi occuperò abbondantemente nel servizio
dedicato al free jazz. Li debbo nominare
qui per non sembrare ... sprovveduto, si
sa, c'è chi li considera coltraniani doc,
anche se a mio parere lo sono solo in piccola
parte. E c'è pure chi, a proposito di Sanders,
ha persino scritto di "misticismo a
buon mercato", quando invece trattavasi
di un modo diverso di interpretare il rapporto
tra musica, vita, esperienze di trance, certo
qualcosa che può irritare ma anche entusiasmare,
a seconda dell'approccio o dello stato d'animo.
Parlo di Black Unity, realizzato nel 1971 per la Impulse. L'ascolto
era capace di suscitare reazioni contrastanti
e contraddittorie. Conteneva un unico pezzo
lungo 37 minuti, basato su una ritmica incalzante
e tribale: una cavalcata selvaggia, piena
di pathos (e di rabbia) e di suoni scagliati
in libertà, eppure non privi di una strana,
perversa, seduttiva capacità di attrazione.
Lo ascoltai per la prima volta durante l'occupazione
di un liceo e fu un'esperienza schockante.
Per un po' odiai quella musica, ed anche
le occupazioni delle scuole che non portavano
da nessuna parte.
If you play loud it, ma non in condominio, il pezzo può risultare
straordinario: è una festa, una danza di
guerra, la colonna sonora di una manifestazione
di "duri"per i diritti negati,
un'orgia sonora che chiama alla vita e poi
ti rilascia che sei esausto e mezzo morto.
Se ti metti seduto e tranquillo, e pretendi
di ascoltare "musica", finisce
che ti scazzi dopo pochi minuti. Diversa
l'esperienza in cuffia: ti isoli dal mondo
ordinario e in attimo sei su un altro pianeta
popolato da creature strane come i watussi,
i boscimani o gli indios dell'Amazzonia.
Davvero non ci sono vie di mezzo: o prendere
o lasciare.
Certo è che il suo sassofono suonava abrasivo
e tagliente come pochi altri, ineguagliabilmente
heavy nei sovratoni.
Un disco del sudafricano Hugh Masekela pare a questo punto indispensabile per riavere
un contatto diretto con il continente nero,
già assaporato con Dollar Brand. Ecco allora
Home Is Where the Music Is, con lo stesso non alla tromba ma al flicorno,
ed un duro lavoro di Dudu Pukwana al sax
alto. Completavano l'equipe Eddie Gomez al
basso, Larry Willis al piano e Makaya Ntshoko,
batteria.
Più abbordabile che il Sanders, seguro.
In dubbio fino all'ultimo su dove infilare
Freddie Hubbard, se nel capitolo del jazz-rock, oppure qui,
o anche in quello dei vecchi leoni, mi sono
infine deciso di piazzarlo in questa illustre
compagnia, ma non ne sono molto convinto.
Suonò con Coltrane ma non fu per nulla coltraniano
questo trombettista di grande apertura mentale,
in grado di suonare in contesti molto diversi.
Forse lo furono più Joe Henderson e Stanley
Turrentine, che parteciparano all'impresa
di Red Clay, insieme al chitarrista George Benson, a
Herbie Hancock, al tastierista Johnny Hammond,
al bassista Ron Carter ed altri importanti
nomi della scena di quegli anni. Disco imperdibile,
ma occhio anche ai successivi Straight Life, First Light e Keep Your Soul Together.
Altro brillante trombettista, purtroppo quasi
dimenticato oggi, fu Charles Tolliver. Aveva suonato con l'orchestra di Gerald
Wilson a Los Angeles e poi nel gruppo di
Max Roach ('67-69) insieme a Gary Bartz.
All'inizio dei Settanta collaborò con il
pianista Stanley Cowell ed insieme fondarono persino un'etichetta
discografica, la Strata East.
Fu la successiva esplosione di Wynton Marsalis
ad oscurare la stella di Tolliver?
Domanda che qualcuno si è posto, senza considerare
che se uno brilla di luce propria, per quanto
tenue, non può certo soffrire la concorrenza.
Il problema è che Tolliver perse l'ispirazione
magica dei primi momenti e forse non la ritrovò
più.
Comunque, una buona occasione per conoscerlo
viene dall'album della Black Lion (originariamente
Strata East) Live At Loosdrecht Festival, in quartetto con il pianista John Hicks,
il contrabbassista "coltraniano"
Reggie Workman ed il batterista Alvin Queen.
Ancora un trombettista: Woody Shaw. Almeno un disco ci vuole per conoscere
l'arte di questo personaggio travagliato
e complesso, afflitto da uno stato depressivo
pressochè continuo, e molto probabilmente
legato al progredire inesorabile di una retinitis
pigmentosa, in altre parole cecità.
Luca Conti sul numero 11 di Musica Jazz 2002
consigliavaThe Real Thing, un Muse del 1997.
Ma non cercatelo sotto il nome di Woody Shaw.
Il titolare era il batterista Louis Hayes.
Tra quelli che cercavano nuove piste, ecco
il sassofonista Sam Rivers, che produsse allora almeno due piccoli
capolavori come Crystals del 1974, per la Impulse, mai ristampato
in cd (per ora) e Waves per la Tomato, del 1978, ristampato ma abbastanza
difficile da reperire. ( e questo è uno spot:
se qualche anima buona volesse farmi una
copia di Crystals, si farebbe un amico, e tranquilli: non può essere reato far copie di dischi fuori catalogo, oltretutto
senza fine di lucro)
Il sassofonista bianco David Liebman ha un curriculum invidiabile e col tempo
ha guadagnato un'identità tutta sua. Ma gli
esordi furono fortemente influenzati da Coltrane
e Lookout Farm ne costituisce la prova migliore. Notevole
la presenza del pianista Richie Beirach e del chitarrista John Abercrombie.
Analoga importanza per Forgotten Fantasies, un disco del '76 in duo con Beirach.
Altro nome di rilievo quello del sassofonista
Bob Berg, purtroppo recentemente scomparso per un
incidente stradale. La sua carriera conoscerà
un certo successo soprattutto negli anni
'80, ma New Birth disco del '78 con Tom Harrell e Cedar Walton
è certamente da conoscere.
Analogo discorso per Steve Grossman e l'album Some Shapes to Come. Berg, Grossman e Jerry Bergonzi sono stati
recentemente proposti nel cd allegato ad
un numero di Musica Jazz. Ascoltandolo è
facile comprendere la loro derivazione coltraniana,
ma anche la loro marcata identità personale.
Mi piace molto Grossman.
Guido Marenco - 4 novembre 2003
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