blues, soul, jazz, doo woop & dadaumpa


Il Jazz dei settanta
Sembra rock, ma è jazz...sembra new age, ma che è?
di Guido Marenco

I tempi erano mutati.
Mentre Down Beat, la rivista di jazz più importante, apriva le proprie pagine alla musica pop, un'altra rivista, Jazz, che si stampava a New York, cambiò addirittura nome, diventando Jazz & Pop.
Come ricorda Arrigo Polillo, quest'ultima ospitò un articolo di Nat Hentoff, "che inneggiava alla ecumenicità delle musiche popolari, bianca e negra, di cui sottolineava taluni aspetti comuni a ben vedere, del tutto estrinseci -, auspicando a breve scadenza l'abbattimento delle frontiere che ancora le dividevano." (1)

Tra i primi a provarci Miles Davis; al crepuscolo degli anni '60 aveva confezionato due album: In A Silent Way e Bitches Brew. Entrambi suonavano diversi in modo sconvolgente, basati su una ritmica del tutto simile a quello di un disco di Santana o di Jimi Hendrix. Sembrava rock, era rock, anche se il fragore non era assordante e Miles continuava a fraseggiare in modo delizioso.
Prima di lui, ad onor del vero, ci aveva provato il trombettista Don Ellis, ma la storia sembra essersene dimenticata.

Le reazioni tra gli appassionati di jazz non furono entusiasmanti. Molti gridarono al tradimento.
A posteriori, si può anche capire perchè. Miles non veniva da un periodo di crisi creativa, ma da una fase di vacche grassissime. Da pochissimo aveva confezionato autentici capolavori quali Nefertiti e Filles Of Kilimanjaro, per tacere di E.S.P.. Avrebbe potuto tranquillamente continuare in quella direzione, pensavano in molti, senza comprendere che proprio "quella direzione" conteneva i presupposti della svolta.
Bitches Brew (che in italiano fa "brodo di cagne") divenne un campione di vendite; in un solo colpo il nostro conquistò una grandissima fetta di pubblico giovanile in precedenza del tutto estraneo al jazz. E questo nonostante proprio la beat generation cantata da Jack Keruac nel suo ormai classico On The Road avesse fatto della musica di Charlie Parker una sorta di vessillo.

In realtà il jazz era stato per tutti gli anni sessanta assai poco popolare, specie tra i giovani al di là dell'oceano. A nessuno era piaciuta la new thing, il free jazz di Ornette Coleman, di Don Cherry, di Albert Ayler e dell'incredibile pianista Cecil Taylor, che proponeva una musica ai limiti dell'udibile, suonando ad una velocità che rendeva difficile distinguere la disposizione logico-temporale delle note.
Critici e puristi tornavano a chiedersi cosa fosse jazz e cosa no. Ed il free era stato davvero difficile da assimilare; accanto a cose di indubbio valore, sebbene indigeste, erano fiorite, come spesso accade, autentiche sciocchezze, non sempre attribuibili ai soli sciocchi.

In Europa le cose erano andate un po' meglio ma, più per motivi politici e culturali (non sarebbe sbagliato dire "ideologici") che per consapevole scelta estetica ed artistica. Le avanguardie dei movimenti di contestazione avevano riconosciuto nel free jazz la musica rivoluzionaria del loro tempo.
I musicisti provenienti dall'America erano stati acclamati nei festival.
Ma il free non divenne mai la Marsigliese del '68. Anche i giovani più intellettualizzati preferivano i Beatles, i Rolling Stones e Bob Dylan. Volendo trovare una Marsigliese per i settanta, sarebbe meglio cercarla in Masters Of War o in A Hard's Rain Gonna Fall, ultimi scampoli di un'era che stava tramontando, mentre un'altra imponeva i suoi suoni. Erano gli anni delle belle armonizzazioni, di CSN&Y, di Woodstock e Cowboys Movie. Anche nella musica di Joni Mitchell c'era qualcosa che si avvicinava al jazz.. Ma il dato era che si fumava molto e ci si imballava facilmente; più che a prendere la Bastiglia, si pensava a prendere pastiglie.

Del resto, il free jazz non fu mai apprezzato nemmeno dai giovani neri americani. I loro campioni erano i musicisti soul, da James Brown ad Aretha Franklin, cui seguirono Jimi Hendrix e Sly And The Family Stone. Persino il blues sembrava superato e dimenticato: trovava più appassionati tra gli intellettuali bianchi del Village che tra i neri del ghetto. Senza contare che il chitarrista bianco Johnny Winter era più popolare di BB King o dello stesso Muddy Waters che accompagnava, e che i Canned Heat erano più famosi di John Lee Hooker.
Tra il '66 ed il '67 ci fu in verità un momento nel quale John Coltrane riuscì a conquistare una fetta di pubblico ed appassionati anche tra le avanguardie intellettuali nere, tra quelli che erano riusciti a studiare (per capirci) nelle scuole dell'uomo bianco. Ma si trattò pur sempre di un fenomeno sociale di minoranza.
Il numero di dischi venduti da Coltrane o da Ornette Coleman (ancor di più) è risibile rispetto sia a Davis che, soprattutto, ai campioni della musica più commerciale.

A leggere l'autobiografia di Miles Davis, si capisce molto più di quello che accadde tra i musicisti stessi. "Il 1968 fu ricco di ogni tipo di cambiamenti, ma i cambiamenti che avvenivano nella mia musica erano veramente eccitanti e quel che stava succedendo dappertutto era incredibile. Queste cose mi stavano portando verso il futuro e verso In A Silent Way." (2)
Tra le cose nuove indicate da Miles c'era la musica del sassofonista Charles Lloyd. "Quando la sua band era sulla cresta dell'onda, con lui suonavano Jack DeJohnette e un grande pianista di nome Keith Jarrett. Lui era il leader, ma erano questi due ragazzi che rendevano veramente notevole questa musica."
Però Miles era stato impressionato soprattutto da James Brown, da Sly Stewart e da Jimi Hendrix.
"Incontrai Jimi per la prima volta quando il suo manager mi chiamò perchè voleva che gli facessi vedere come suonavo e costruivo la la mia musica. A Jimi era piaciuto quello che avevo fatto in Kind of Blue e altre cose e voleva mettere più elementi jazz nei suoi pezzi."
La faccenda ebbe anche un lato gossip-piccante. Non tutti lo sanno, ma Jimi piaceva "anche fisicamente" alla compagna di Miles, Betty Mabry.
Vabbè, i particolari sono nel libro. A noi interessa il lato artistico della vicenda: Jimi veniva dal blues, come Miles, "per questo ci capimmo subito." Era un grande chitarrista blues. Sia lui sia Sly erano grandi musicisti naturali; suonavano quello che sentivano."

Ecco come si fa presto a dire la paroletta "commerciale" ed a liquidare il tutto come una svendita del buon vecchio jazz! Ma la realtà personale ed artistica di Miles Davis era molto più semplice ed innocente: gli piaceva quella musica. "La roba che suonavano era veramente una ficata."
Nel gettarsi verso il nuovo, Miles non fece troppi calcoli a tavolino.
Decise che quella era la direzione da prendere.

Uno dei nomi fatti da Miles diventerà protagonista assoluto della scena musicale fin dall'inizio degli anni '70. Parlo di Keith Jarrett, il piccolo geniale pianista di Allentown.
Per qualche tempo suonò anche con Davis. Poi prese la sua strada perchè non gli piacevano le tastiere elettriche che Miles voleva a tutti i costi. La collaborazione con Davis è documentata in alcuni dischi di grande interesse: At The Fillmore; Call It Anything in Isle Of Wight, Atlanta Pop Festival; Directions, tutti pubblicati dalla Columbia nel 1970.
Nel 1975 Jarrett realizzerà il Concerto di Colonia, una piece di solo pianoforte per l'etichetta ECM del tedesco Manfred Eicher. Diventerà un best-seller, oltre due milioni e mezzo di copie vendute fino ad oggi.
Se fosse stato jazz, potremmo dire che questa musica era diventata molto popolare! In realtà, non era nemmeno rock.
Vide bene il nostro Giorgio Gaslini nel definirlo un lavoro in odore new age. Che ci fosse qualche spruzzata di jazz e gospel qua e là non cambiava il quadro. Una considerazione benevola, tuttavia, ci vuole: i musicisti di new age farebbero carte false per incidere dischi al livello del Concerto di Colonia. Mille miglia più in alto volava Keith Jarrett, allora, anche con codesti pasticci di gospel, country, Rachmaninov e Gottshalk. E, siccome la verità va detta tutta, bisogna anche ricordare che Jarrett ha sempre criticato ferocemente la new age, asserendo che non si ascolta musica per meditare o rilassarsi. Si ascolta musica per amore della musica.

Prima di questa svolta singolare, il nostro aveva acceso grandi speranze, sia con dischi di solo pianoforte, sia impegnato con il suo quartetto americano.
Facing You, inciso in solitudine, ottimamente supportato da un pianoforte di qualità ECM, cioè di cristalina limpidezza classica, aveva fatto esclamare al miracolo un gran numero di critici. Sembrava la reincarnazione di Art Tatum, il grande virtuoso nero, ma con una visione più strutturale e meno dispersiva dell'ordito sonoro.
Sempre nel '72, con il quartetto "maggiorato" dalla presenza del percussionista Airto Moreira e del chitarrista Sam Brown, aveva realizzato uno dei capolavori degli anni settanta: Expectations. Qui devo spendere un ricordo personale: fu un album che amai all'inverosimile. Ma non credo di errare nella supervalutazione; era un capolavoro con caratteri peculiari e originali: pur non essendo un disco propriamente all'avanguardia, non concedeva moltissimo alla moda del jazz rock e nemmeno rappresentava un ritorno al passato, come invece sembravano propugnare alcuni settori della critica.

Negli Stati Uniti, infatti, dopo i furori iniziali, i giornalisti parevano in preda ad una crisi di rigetto per le novità. Dopo aver decretato il successo di Bitches Brew nel 1970, e della New Orleans Suite di Duke Ellington nel 1971, che non era certo un lavoro di retroguardia (ma nemmeno di avanguardia), i grandi esperti del jazz presero a guardare più indietro che avanti.
Nel 1972 e nel 1973, quelli interpellati da Down Beat votarono come miglior pianista il vecchio Earl Hines, e come disco dell'anno per il '72 The You And Me That Used To Be, dell'anziano shouter di Kansas City Jimmy Rushing. Solo nel '73 le preferenze andranno al pianista coltraniano Mc Coy Tyner ed al suo Sahara e sarà una significativa inversione di tendenza.

Sulla scia di Bitches Brew Wayne Shorter e Joe Zawinul diedero vita ai Weather Report, . E fu un successone, un inanellarsi di hits fino ad uno dei pezzi più belli ed orecchiabili di tutta la storia del jazz, quel Birdland che è un tormentone intramontabile.
Altri gruppi notevoli di fusion si formarono attorno ai pianisti Chick Corea (Return To Forever) e Herbie Hancock (Headhunters), al chitarrista John Mc Laughlin, al violinista francese Jean Luc Ponty. La Mahavishnu Orchestra di Mc Laughlin fu per alcuni anni un gruppo di culto anche in ambito strettamente rock.
Negli Stati Uniti godettero di buona popolarità gli Eleventh House del chitarrista Larry Coryell (ottimo anche Barefoot Boy del 71, con il sassofonista Steve Marcus e Roy Haines alla batteria) con l'album omonimo, al quale parteciparono il trombettista Randy Brecker e Chick Corea alle tastiere.
Pochi li ricordano, ma ebbero un certo successo anche i Lifetime del batterista preferito da Miles, Tony Williams.
Dicono che l'album da sentire sia Turn it Over del 1970, realizzato con la partecipazione dell'ex bassista dei Cream Jack Bruce, dell'organista Larry Young e del chitarrista John Mc Laughlin, ristampato in cd dalla Polygram nel 1997.

Furono pubblicate tonnellate di dischi di differente valore; ce n'era per tutti i gusti, ma i prodotti veramente significativi non furono poi moltissimi. I Weather Report piacevano un sacco, ma dopo molti ascolti si aveva spesso l'impressione di un'eccessiva freddezza.
E' interessante notare che i Polls di Downbeat riservati ai lettori, in netto disaccordo con i critici dal '71 in poi, diedero i seguenti risultati: nel 1970 miglior disco: Bitches Brew; nel '71 Weather Report dei Weather Report; nel '72 Inner Mountain Flame della Mahavishnu Orchestra di John Mc Laughlin; nel '73 Birds Of Fire della stessa band; nel '74 Mysterious Traveller dei Weather Report, nel '75 Tale Spinnin' ancora dei Weather Report.
Il tutto a conferma non già dell'evoluzione dei gusti del vecchio pubblico, ma a significare che se n'era formato uno del tutto nuovo.

I musicisti che tuttavia contribuirono con il massimo rilievo a fare della fusion una vera forma d'arte e non solo una concessione alla moda ed ai gusti del pubblico furono soprattutto due: Miles Davis e Wayne Shorter. Istinto musicale fuori del comune, spiccata personalità, talentuosa inventiva. Per Shorter si potrebbe anche parlare di capacità compositiva, riconosciuta dallo stesso Davis:«Wayne è l'unica persona che conoscessi allora che fosse capace di scrivere le cose come le scriveva Bird, l'unica. Era il modo in cui segnava il tempo. Lucky Thompson ci ascoltava e diceva: "Dannazione, questo ragazzo può davvero scrivere la musica." Quando arrivò nel gruppo, cominciò a crescere molto di più e velocemente, perchè Wayne è un compositore vero. [...] Lui non aveva molta fiducia nell'interpretazione che facevano gli altri della sua musica, così ti portava l'intera partitura e tutti dovevano semplicemente tirar giù le loro parti da quella...» (2)
Quanto a Davis, direi che tutti i dischi da Bitches Brew in poi meritano un ascolto.
Da Live-Evil del 1970 fino a Pangaea del '75, passando per Agartha e i vari altri live abbiamo un susseguirsi incessante di realizzazioni sonore nelle quali entrano progressivamente elementi di soul, di funky, di rock vero e proprio, senza che l'essenza del jazz venga negletta. Poi verrà il buio, il lungo periodo di ritiro per malattia, non solo fisica, dal '75 fino agli anni '80.

Col senno di poi, potremmo dire che la fusion fece bene al jazz perchè cambiò la composizione sociale degli appassionati, attirandone moltissimi che si trovavano al di là dei confini tradizionali.
Personalmente posso tranquillamente confessare di ascoltarla con rinnovato piacere ancor oggi, in particolare alcuni dischi di Davis e dei Weather Report.
Un buon numero di neofiti si fermò all'ascolto di questi, o del batterista Bill Cobham, degli inglesi Soft Machine o persino degli Oregon, un gruppo americano di grandissimo interesse, però assai lontano dalla fusion vera e propria. Ma altri si affezionarono a tal punto a questa musica, che decisero di vederci più chiaro. E cominciarono a scavare nel passato, nel bop, nello swing, nel dixieland e nel blues dei primordi.
Senza la mediazione della fusion, il jazz oggi non conterebbe più appassionati che il canto gregoriano, la musica inglese del seicento o, per rimanere in tema, il bluegrass e l'old time music americana.


Note:
(1) Arrigo Polillo - Jazz - Mondadori
(2) Miles Davis - Autobiografia - Minimum Fax


Guido Marenco - 4 settembre 2003






Mystery Train -
guernica@playful.com -3 novembre 2003




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