Sembra rock, ma è jazz...sembra new age,
ma che è?
di Guido Marenco
I tempi erano mutati.
Mentre Down Beat, la rivista di jazz più importante, apriva
le proprie pagine alla musica pop, un'altra
rivista, Jazz, che si stampava a New York, cambiò addirittura
nome, diventando Jazz & Pop.
Come ricorda Arrigo Polillo,
quest'ultima
ospitò un articolo di Nat Hentoff,
"che
inneggiava alla ecumenicità delle
musiche
popolari, bianca e negra, di
cui sottolineava
taluni aspetti comuni a ben vedere,
del tutto
estrinseci -, auspicando a breve
scadenza
l'abbattimento delle frontiere
che ancora
le dividevano." (1)
Tra i primi a provarci Miles Davis; al crepuscolo degli anni '60 aveva confezionato
due album: In A Silent Way e Bitches Brew. Entrambi suonavano diversi in modo sconvolgente,
basati su una ritmica del tutto simile a
quello di un disco di Santana o di Jimi Hendrix.
Sembrava rock, era rock, anche se il fragore non era assordante
e Miles continuava a fraseggiare in modo
delizioso.
Prima di lui, ad onor del vero,
ci aveva
provato il trombettista Don Ellis, ma la storia sembra essersene dimenticata.
Le reazioni tra gli appassionati
di jazz
non furono entusiasmanti. Molti
gridarono
al tradimento.
A posteriori, si può anche capire
perchè.
Miles non veniva da un periodo
di crisi creativa,
ma da una fase di vacche grassissime.
Da
pochissimo aveva confezionato
autentici capolavori
quali Nefertiti e Filles Of Kilimanjaro, per tacere di E.S.P.. Avrebbe potuto tranquillamente continuare
in quella direzione, pensavano in molti,
senza comprendere che proprio "quella
direzione" conteneva i presupposti della
svolta.
Bitches Brew (che in italiano fa "brodo di cagne")
divenne un campione di vendite; in un solo
colpo il nostro conquistò una grandissima
fetta di pubblico giovanile in precedenza
del tutto estraneo al jazz. E questo nonostante
proprio la beat generation cantata da Jack
Keruac nel suo ormai classico On The Road avesse fatto della musica di Charlie Parker
una sorta di vessillo.
In realtà il jazz era stato per
tutti gli
anni sessanta assai poco popolare,
specie
tra i giovani al di là dell'oceano.
A nessuno
era piaciuta la new thing, il
free jazz di Ornette Coleman, di Don Cherry, di Albert Ayler e dell'incredibile pianista Cecil Taylor, che proponeva una musica ai limiti dell'udibile,
suonando ad una velocità che rendeva difficile
distinguere la disposizione logico-temporale
delle note.
Critici e puristi tornavano a
chiedersi cosa
fosse jazz e cosa no. Ed il free
era stato
davvero difficile da assimilare;
accanto
a cose di indubbio valore, sebbene
indigeste,
erano fiorite, come spesso accade,
autentiche
sciocchezze, non sempre attribuibili
ai soli
sciocchi.
In Europa le cose erano andate
un po' meglio
ma, più per motivi politici e
culturali (non
sarebbe sbagliato dire "ideologici")
che per consapevole scelta estetica
ed artistica.
Le avanguardie dei movimenti
di contestazione
avevano riconosciuto nel free
jazz la musica
rivoluzionaria del loro tempo.
I musicisti provenienti dall'America
erano
stati acclamati nei festival.
Ma il free non divenne mai la
Marsigliese del '68. Anche i giovani più intellettualizzati
preferivano i Beatles, i Rolling Stones e
Bob Dylan. Volendo trovare una Marsigliese per i settanta, sarebbe meglio cercarla
in Masters Of War o in A Hard's Rain Gonna Fall, ultimi scampoli di un'era che stava tramontando,
mentre un'altra imponeva i suoi suoni. Erano
gli anni delle belle armonizzazioni, di CSN&Y,
di Woodstock e Cowboys Movie. Anche nella musica di Joni Mitchell c'era
qualcosa che si avvicinava al jazz.. Ma il dato era che si fumava molto e ci si
imballava facilmente; più che a prendere
la Bastiglia, si pensava a prendere pastiglie.
Del resto, il free jazz non fu
mai apprezzato
nemmeno dai giovani neri americani.
I loro
campioni erano i musicisti soul,
da James
Brown ad Aretha Franklin, cui
seguirono Jimi
Hendrix e Sly And The Family
Stone. Persino
il blues sembrava superato e
dimenticato:
trovava più appassionati tra
gli intellettuali
bianchi del Village che tra i
neri del ghetto.
Senza contare che il chitarrista
bianco Johnny
Winter era più popolare di BB
King o dello
stesso Muddy Waters che accompagnava,
e che
i Canned Heat erano più famosi
di John Lee
Hooker.
Tra il '66 ed il '67 ci fu in verità un momento
nel quale John Coltrane riuscì a conquistare
una fetta di pubblico ed appassionati anche
tra le avanguardie intellettuali nere, tra
quelli che erano riusciti a studiare (per capirci) nelle scuole dell'uomo bianco.
Ma si trattò pur sempre di un
fenomeno sociale
di minoranza.
Il numero di dischi venduti da
Coltrane o
da Ornette Coleman (ancor di
più) è risibile
rispetto sia a Davis che, soprattutto,
ai
campioni della musica più commerciale.
A leggere l'autobiografia di
Miles Davis,
si capisce molto più di quello
che accadde
tra i musicisti stessi. "Il
1968 fu
ricco di ogni tipo di cambiamenti,
ma i cambiamenti
che avvenivano nella mia musica
erano veramente
eccitanti e quel che stava succedendo
dappertutto
era incredibile. Queste cose
mi stavano portando
verso il futuro e verso In A Silent Way." (2)
Tra le cose nuove indicate da
Miles c'era
la musica del sassofonista Charles Lloyd. "Quando la sua band era sulla cresta
dell'onda, con lui suonavano Jack DeJohnette
e un grande pianista di nome Keith Jarrett.
Lui era il leader, ma erano questi due ragazzi
che rendevano veramente notevole questa musica."
Però Miles era stato impressionato
soprattutto
da James Brown, da Sly Stewart
e da Jimi
Hendrix.
"Incontrai Jimi per la prima
volta quando
il suo manager mi chiamò perchè
voleva che
gli facessi vedere come suonavo
e costruivo
la la mia musica. A Jimi era
piaciuto quello
che avevo fatto in Kind of Blue e altre cose e voleva mettere più elementi
jazz nei suoi pezzi."
La faccenda ebbe anche un lato
gossip-piccante.
Non tutti lo sanno, ma Jimi piaceva
"anche
fisicamente" alla compagna
di Miles,
Betty Mabry.
Vabbè, i particolari sono nel
libro. A noi
interessa il lato artistico della
vicenda:
Jimi veniva dal blues, come Miles,
"per
questo ci capimmo subito."
Era un grande
chitarrista blues. Sia lui sia
Sly erano
grandi musicisti naturali; suonavano
quello
che sentivano."
Ecco come si fa presto a dire
la paroletta
"commerciale" ed a
liquidare il
tutto come una svendita del buon
vecchio
jazz! Ma la realtà personale
ed artistica
di Miles Davis era molto più
semplice ed
innocente: gli piaceva quella
musica. "La
roba che suonavano era veramente
una ficata."
Nel gettarsi verso il nuovo,
Miles non fece
troppi calcoli a tavolino.
Decise che quella era la direzione
da prendere.
Uno dei nomi fatti da Miles diventerà
protagonista
assoluto della scena musicale
fin dall'inizio
degli anni '70. Parlo di Keith Jarrett, il piccolo geniale pianista di Allentown.
Per qualche tempo suonò anche
con Davis.
Poi prese la sua strada perchè non gli piacevano le tastiere
elettriche che Miles voleva a tutti i costi.
La collaborazione con Davis è documentata
in alcuni dischi di grande interesse: At The Fillmore; Call It Anything in Isle Of Wight, Atlanta
Pop Festival; Directions, tutti pubblicati dalla Columbia nel 1970.
Nel 1975 Jarrett realizzerà il
Concerto di Colonia, una piece di solo pianoforte per l'etichetta
ECM del tedesco Manfred Eicher. Diventerà
un best-seller, oltre due milioni e mezzo
di copie vendute fino ad oggi.
Se fosse stato jazz, potremmo
dire che questa
musica era diventata molto popolare!
In realtà,
non era nemmeno rock.
Vide bene il nostro Giorgio Gaslini
nel definirlo
un lavoro in odore new age. Che
ci fosse
qualche spruzzata di jazz e gospel
qua e
là non cambiava il quadro. Una
considerazione
benevola, tuttavia, ci vuole:
i musicisti
di new age farebbero carte false
per incidere
dischi al livello del Concerto
di Colonia.
Mille miglia più in alto volava
Keith Jarrett,
allora, anche con codesti pasticci
di gospel,
country, Rachmaninov e Gottshalk.
E, siccome
la verità va detta tutta, bisogna
anche ricordare
che Jarrett ha sempre criticato
ferocemente
la new age, asserendo che non
si ascolta
musica per meditare o rilassarsi.
Si ascolta
musica per amore della musica.
Prima di questa svolta singolare, il nostro
aveva acceso grandi speranze, sia con dischi
di solo pianoforte, sia impegnato con il
suo quartetto americano.
Facing You, inciso in solitudine, ottimamente supportato
da un pianoforte di qualità ECM, cioè di
cristalina limpidezza classica, aveva fatto
esclamare al miracolo un gran numero di critici.
Sembrava la reincarnazione di Art Tatum,
il grande virtuoso nero, ma con una visione
più strutturale e meno dispersiva dell'ordito
sonoro.
Sempre nel '72, con il quartetto
"maggiorato"
dalla presenza del percussionista
Airto Moreira
e del chitarrista Sam Brown,
aveva realizzato
uno dei capolavori degli anni
settanta: Expectations. Qui devo spendere un ricordo personale:
fu un album che amai all'inverosimile. Ma
non credo di errare nella supervalutazione;
era un capolavoro con caratteri peculiari
e originali: pur non essendo un disco propriamente
all'avanguardia, non concedeva moltissimo
alla moda del jazz rock e nemmeno rappresentava
un ritorno al passato, come invece sembravano
propugnare alcuni settori della critica.
Negli Stati Uniti, infatti, dopo
i furori
iniziali, i giornalisti parevano
in preda
ad una crisi di rigetto per le
novità. Dopo
aver decretato il successo di
Bitches Brew nel 1970, e della New Orleans Suite di Duke Ellington nel 1971, che non era certo un lavoro di
retroguardia (ma nemmeno di avanguardia),
i grandi esperti del jazz presero a guardare
più indietro che avanti.
Nel 1972 e nel 1973, quelli interpellati
da Down Beat votarono come miglior
pianista
il vecchio Earl Hines, e come
disco dell'anno
per il '72 The You And Me That Used To Be, dell'anziano shouter di Kansas City Jimmy Rushing. Solo nel '73 le preferenze andranno al
pianista coltraniano Mc Coy Tyner ed al suo Sahara e sarà una significativa inversione di tendenza.
Sulla scia di Bitches Brew Wayne Shorter e Joe Zawinul diedero vita ai Weather Report, . E fu un
successone, un inanellarsi di hits fino ad
uno dei pezzi più belli ed orecchiabili di
tutta la storia del jazz, quel Birdland che è un tormentone intramontabile.
Altri gruppi notevoli di fusion
si formarono
attorno ai pianisti Chick Corea (Return To Forever) e Herbie Hancock (Headhunters), al chitarrista John Mc Laughlin, al violinista francese Jean Luc Ponty. La Mahavishnu Orchestra di Mc Laughlin fu per alcuni anni un gruppo
di culto anche in ambito strettamente rock.
Negli Stati Uniti godettero di
buona popolarità
gli Eleventh House del chitarrista Larry Coryell (ottimo anche Barefoot Boy del 71, con il sassofonista Steve Marcus
e Roy Haines alla batteria) con l'album omonimo,
al quale parteciparono il trombettista Randy
Brecker e Chick Corea alle tastiere.
Pochi li ricordano, ma ebbero
un certo successo
anche i Lifetime del batterista preferito da Miles, Tony Williams.
Dicono che l'album da sentire
sia Turn it Over del 1970, realizzato con la partecipazione
dell'ex bassista dei Cream Jack Bruce, dell'organista
Larry Young e del chitarrista John Mc Laughlin,
ristampato in cd dalla Polygram nel 1997.
Furono pubblicate tonnellate
di dischi di
differente valore; ce n'era per
tutti i gusti,
ma i prodotti veramente significativi
non
furono poi moltissimi. I Weather
Report piacevano
un sacco, ma dopo molti ascolti
si aveva
spesso l'impressione di un'eccessiva
freddezza.
E' interessante notare che i
Polls di Downbeat
riservati ai lettori, in netto
disaccordo
con i critici dal '71 in poi,
diedero i seguenti
risultati: nel 1970 miglior disco: Bitches Brew; nel '71 Weather Report dei Weather Report; nel '72 Inner Mountain Flame della Mahavishnu Orchestra di John Mc Laughlin;
nel '73 Birds Of Fire della stessa band; nel '74 Mysterious Traveller dei Weather Report, nel '75 Tale Spinnin' ancora dei Weather Report.
Il tutto a conferma non già dell'evoluzione
dei gusti del vecchio pubblico,
ma a significare
che se n'era formato uno del
tutto nuovo.
I musicisti che tuttavia contribuirono
con
il massimo rilievo a fare della
fusion una
vera forma d'arte e non solo
una concessione
alla moda ed ai gusti del pubblico
furono
soprattutto due: Miles Davis
e Wayne Shorter.
Istinto musicale fuori del comune,
spiccata
personalità, talentuosa inventiva.
Per Shorter
si potrebbe anche parlare di
capacità compositiva,
riconosciuta dallo stesso Davis:«Wayne
è l'unica persona che conoscessi
allora che
fosse capace di scrivere le cose
come le
scriveva Bird, l'unica. Era il
modo in cui
segnava il tempo. Lucky Thompson
ci ascoltava
e diceva: "Dannazione, questo
ragazzo
può davvero scrivere la musica."
Quando
arrivò nel gruppo, cominciò a
crescere molto
di più e velocemente, perchè
Wayne è un compositore
vero. [...] Lui non aveva molta
fiducia nell'interpretazione
che facevano gli altri della
sua musica,
così ti portava l'intera partitura
e tutti
dovevano semplicemente tirar
giù le loro
parti da quella...» (2)
Quanto a Davis, direi che tutti i dischi
da Bitches Brew in poi meritano un ascolto.
Da Live-Evil del 1970 fino a Pangaea del '75, passando per Agartha e i vari altri live abbiamo un susseguirsi
incessante di realizzazioni sonore nelle
quali entrano progressivamente elementi di
soul, di funky, di rock vero e proprio, senza
che l'essenza del jazz venga negletta. Poi
verrà il buio, il lungo periodo di ritiro
per malattia, non solo fisica, dal '75 fino
agli anni '80.
Col senno di poi, potremmo dire
che la fusion
fece bene al jazz perchè cambiò
la composizione
sociale degli appassionati, attirandone
moltissimi
che si trovavano al di là dei
confini tradizionali.
Personalmente posso tranquillamente
confessare
di ascoltarla con rinnovato piacere
ancor
oggi, in particolare alcuni dischi
di Davis
e dei Weather Report.
Un buon numero di neofiti si fermò all'ascolto
di questi, o del batterista Bill Cobham, degli inglesi Soft Machine o persino degli Oregon, un gruppo americano di grandissimo interesse,
però assai lontano dalla fusion vera e propria.
Ma altri si affezionarono a tal punto a questa
musica, che decisero di vederci più chiaro.
E cominciarono a scavare nel passato, nel
bop, nello swing, nel dixieland e nel blues
dei primordi.
Senza la mediazione della fusion, il jazz oggi non conterebbe
più appassionati che il canto gregoriano,
la musica inglese del seicento o, per rimanere
in tema, il bluegrass e l'old time music
americana.
Note:
(1) Arrigo Polillo - Jazz - Mondadori
(2) Miles Davis - Autobiografia - Minimum Fax
Guido Marenco - 4 settembre 2003
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