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a cura di Vincenzo de Simone

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Rassegna Storica Salernitana, 17, 1992, pp. 257-266

L’IDENTIFICAZIONE DELLA VIA CHE CONDUCEVA ALLA PORTA DI ELINO 

 

La tesi secondo la quale l’ubicazione della porta cittadina della Salerno longobarda comunemente detta «Elina»1 vada ricercata nell’area di San Benedetto, proposta dal de Angelis2, ancorché non resista ad una analisi critica sulla scorta delle fonti pervenute fino a noi, ha trovato ampio spazio negli scritti di Arcangelo R. Amarotta3, con l’apporto di una singolare variante e di una altrettanto singolare integrazione tesa, quest’ultima, a raccordare il discorso iniziale con le fonti successive che indubbiamente conducono all’ubicazione della porta di Elino sull’attuale via Mercanti.

In sintesi, Amarotta sostiene che vi furono in Salerno due vie che, in epoche diverse, condussero ciascuna ad una porta detta di Elino, in quanto tale porta ebbe due posizioni nel corso dei tempi, notevolmente distanti l’una dall’altra, rispettivamente alle spalle di San Benedetto, e propriamente nel luogo ove oggi vediamo l’ascensore fra piazza Principe Amedeo e via Velia, e sull’attuale via Mercanti; il cambio fra le due posizioni avvenne intorno al 1083, con la chiusura della porta sul rione Mutilati e l’apertura dell’altra. Dopo tale data, l’attuale via Mercanti cominciò ad essere indicata come la via che conduceva alla porta «olim» detta di Elino, ove «olim» non va inteso nel senso di «anticamente», nel qual caso si dovrebbe pensare che la porta era stata sempre su via Mercanti ed aveva semplicemente cambiato nome, forse a causa di una ricostruzione, ma nel senso di «comunemente», per cui, avendo la porta cambiato posto, con la chiusura della «vera» porta di Elino sul rione Mutilati e l’apertura di quella su via Mercanti, quest’ultima «comunemente» e impropriamente era detta di Elino.

 

1Abbiamo già espresso l’opinione (V. de Simone, L’ubicazione dell’antica cattedrale dei vescovi salernitani, in «Rassegna Storica Salernitana», 15, 1991, nota 8, pp. 181-182) che il medioevale «porta elini» vada reso con «porta di Elino», risultante assolutamente arbitraria, come rilevato da Bracco (V. Bracco, Salerno Romana, Salerno 1979, nota 72, pp. 164-166), la dizione «porta Elina» entrata nell’uso comune e presente anche nella toponomastica cittadina.

2M. de Angelis, La porta Elina di Salerno, in «Archivio Storico della provincia di Salerno», 1924, pp. 99-135; Conferme sulle antiche cinte di Salerno e il Labinario di S. Maria de Domno, in «Archivio Storico per la provincia di Salerno», 1932-1933, pp. 111-125; La via Popilia in medio Salerno, in «Rassegna Storica Salernitana», 1938, pp. 267-282.

3A. R. Amarotta, L’Ortomagno nelle fortificazioni longobarde di Salerno, in «Atti della Accademia Pontaniana», XXX, 1981, pp. 175-206; La cappella palatina di Salerno, Salerno 1982, pp. 73-86; Dinamica urbanistica nell’età longobarda, in A. Leone e G. Vitolo, Guida alla storia di Salerno e della sua provincia, Salerno 1982, I, pp. 69-86; Il secolo normanno nell’urbanistica salernitana, in «Rassegna Storica Salernitana», 3, 1985, pp. 71-122.

La seconda parte di questo ragionamento trova fonte in numerosi documenti di epoche successive alla longobarda che indubbiamente, come accennato in premessa, portano ad identificare la via che conduceva alla porta «olim» detta di Elino con l’attuale via Mercanti, mentre fonte della prima parte sarebbero cinque documenti, rispettivamente del maggio 991, dell’ottobre 996, dell’agosto 997, dell’agosto 1043 e del dicembre 10584, che fissano il sito della chiesa di San Michele al di sotto della via che conduceva alla porta di Elino. Amarotta, identificando, come già fece il de Angelis, tale chiesa con quella che oggi vediamo alla via san Michele, prolungamento di via san Benedetto, conclude che la via che conduceva alla porta di Elino, passando al di sopra di San Michele, passava anche al di sopra di San Benedetto, per cui tale porta era sull’attuale rione Mutilati, nel sito sopra indicato; tanto in opposizione al de Angelis che, invece, la poneva sull’attule via san Benedetto. A conferma del tutto, Amarotta indica, poi, un documento del settembre 8685 che ha, però, un difetto: cita una via posta al di sopra di San Banedetto, ma non dice affatto che conduceva alla porta di Elino.

 

4Archivio della Badia di Cava, pergamene IV-60; IV-120; V-9; IX-33; XI-37; edite in M. Morcaldi, M. Schiani, S. De Stefano, Codex diplomaticus cavensis, rispettivamente, II, Milano-Pisa-Napoli 1875, pp. 316-317; III, Milano-Pisa-Napoli 1876, p. 60; III, p. 72-73; VI, Milano-Napoli-Pisa 1884, pp. 240-243; VIII, Milano-Napoli-Pisa 1893, pp. 90-94. In tale edizione, la pergamena IX-33 è indicata come IX-31; la trascrizione della pergamena XI-37, che cita due volte l’ubicazione della chiesa di Sant’Angelo, per errore di stampa («super» in luogo di «supter») nella prima di tali citazioni va ad ubicare la chiesa al di sopra della via che conduceva alla porta di Elino. Per tale difformità, il de Angelis (La porta cit., p. 114), che evidentemente non lesse la pergamena, ritenne quest’ultima errata (cf. A. R. Amarotta, L’Ortomagno cit., nota 75, p. 193; Il secolo cit., nota 46, p. 86); in alternativa, ipotizzò che vi fossero due vie che conducevano alla porta di Elino: l’una passante al di sopra, l’altra al di sotto della chiesa.

5Archivio della Badia di Cava, pergamena I-63; edita in M. Morcaldi, M. Schiani, S. De Stefano, Codex cit., I, Napoli 1873, pp. 84-85.

Purtroppo, Amarotta, nell’elaborare la sua tesi, così come il de Angelis ed altri autori6, confonde fra di loro due chiese di San Michele, attribuendo i documenti relativi ad una di esse all'altra, di cui, per altro, non trova proprio i documenti che le competono. La chiesa di San Michele Arcangelo, detta anche di Sant'Angelo, edificata al di sotto della via che conduceva alla porta di Elino, alla quale si riferiscono i documenti sopra citati, fu fondata dai coniugi Guido, figlio di Guaimario conte, e Aloara, figlia di Landoario conte, con l’apporto di Guaiferio, fratello di Guido. Il padre  dei due, il citato Guaimario conte, aveva edificato la chiesa di San Martino, oltre il fiume Irno, nei pressi della Carnale7; egli era figlio di Guidone conte, a sua volta figlio del principe Guaimario I e, quindi, fratello di Guaimario II. Guaiferio ebbe due figli: Guaimario, che compare con lo zio Guido come compatrono di San Martino e che risulta già morto nel settembre 1011, e Guaiferio, che sposò Gemma, figlia di un altro Guaimario conte e fu il fondatore del monastero di Santa Sofia. Guido e Aloara ebbero tre figli: Aidolfo, Astolfo e Gisolfo, che compaiono, nel gennaio 1012, come compatroni di San Martino; Astolfo, o Astilfo, compare anche, nel novembre 1023, come patrono di San Michele, mentre Aidolfo, o Raidolfo, compare in un atto di amministrazione di beni di Santa Sofia, nell’ottobre 1026, essendo morto il cugino Guaiferio8.

Da questo discorso genealogico, è evidente che nelle mani degli eredi di Guido e Aloara si concentrarono i patronati delle tre chiese, per cui troviamo una serie di abati investiti del doppio titolo di Sant’Angelo e Santa Sofia, dai quali dipendeva anche San Martino9. Per motivi ereditari che ci sfuggono o per atti di donazione non giunti fino a noi, da un documento del febbraio 104310 troviamo le tre chiese in patronato di Pandolfo, fratello dell’ultimo Guaimario principe di Salerno, dal quale passeranno alla sua vedova Teodora, figlia di Gregorio console, ed ai suoi figli Guaimario, Gregorio, Guidone e Giovanni11. Quest’ultimo lo ritroviamo nell’agosto 110012 nell’atto con il quale, alla presenza di papa Pasquale II, dichiara di possedere, quale erede dei suoi genitori Pandolfo e Teodora, le chiese di Santa Sofia e di San Michele Arcangelo, costruite nella città di Salerno, e di voler donare all’abate Pietro del monastero di Cava, per la redenzione delle anime dei suoi genitori e di Ageltrude, perduta sua consorte, e per la salute sua, di Aczilina, sua consorte attuale, e dei suoi figli, quella di Santa Sofia, trattenendo per sé e i suoi eredi l’altra di San Michele Arcangelo, detta anche di Sant’Angelo13.

Questo atto fa giustizia delle illazioni di Amarotta14, secondo le quali la chiesa di San Michele Arcangelo di Guido e Aloara dal 1062 comincia ad essere citata come monastero femminile autonomo con il titolo di San Michele e Santo Stefano, perdendo ogni collegamento con la famiglia di Pandolfo a causa dell’azione riformatrice di Alfano I, di cui la progressiva riduzione delle chiese nobiliari e la ristrutturazione in senso centripeto dell’archidiocesi furono i punti qualificanti (!). In realtà, il monastero femminile di San Michele e Santo Stefano, che in nessuno dei documenti che lo citano è detto prospiciente su una via che conduceva alla porta di Elino, (così come, d’altronte, mai è detto vicino ad una via con tale caratteristica, o vicino alla stessa porta di Elino, il monastero di San Benedetto che pure vediamo a pochi passi dai luoghi ove il de Angelis e l’Amarotta pongono la porta), compare nelle fonti già nel marzo 103915, essendone badessa Sichelgaita, e nel giugno 105416, essendone badessa Blatta, prima del giugno 106217 che Amarotta ed altri autori18 conoscono come prima citazione.

Da quanto fin qui esposto ci pare evidenziato come la via che conduceva alla porta di Elino mai passò al di sopra di San Michele e Santo Stefano, così come non passò al di sopra di San Benedetto, per cui la nostra conclusione è che tale strada corrispose sempre all’attuale via Mercanti, poiché, caduto il punto di riferimento certo costituito dall’identificazione del San Michele Arcangelo di Guida e Aloara con il monastero femminile di San Michele e Santo Stefano, evidentemente cade l’intera tesi. Ci pare, tuttavia, doveroso procedere ad una controprova che accerti l’esattezza del nostro ragionamento. Per tale operazione considereremo cinque edifici, verificandone la posizione prima e dopo l’anno 1083, quando, secondo Amarotta, in Salerno vi fu un passaggio di identità da una via ad altra via. Tali edifici sono la chiesa di San Vito, la chiesa di San Matteo e San Tommaso, la chiesa di San Gregorio, l’archiepiscopio, la chiesa di Santa Maria de Domno.

Nel maggio 1058 la chiesa di San Vito era sita lungo la via che conduceva alla porta di Elino19, circostanza confermata nell’ottobre 1067 e nel luglio 107020; nel luglio 1240 la stessa chiesa di San Vito era sita a nord di una casa posta vicino al monastero di San Giorgio, che prospettava su una strada che, volgendo a settentrione, incontrava la via che conduceva alla porta «olim» detta di Elino21. Intorno a quest’ultima citazione, Amarotta22 fa qualche confusione: egli, avendo fissato il sito della chiesa di San Vito all’incrocio di via Roberto il Guiscardo con via Genovesi, pone la casa oggetto di questo atto lungo quest’ultima via che, andando verso settentrione, incontrava la strada passante a nord di San Michele e Santo Stefano che egli identifica con la via della porta di Elino. A parte il fatto che tale luogo non è vicino San Giorgio, questo documento è del 1240 e parla della via che conduceva alla porta «olim» detta di Elino, corrispondente, come Amarotta stesso dice, all’attuale via Mercanti, al di sotto della quale, quindi, dobbiamo cercare la via che volgendo a nord, la incontrava. Naturalmente è nostra opinione che la via che conduceva alla porta «olim» detta di Elino di quest’ultima citazione sia identificabile con quella conducente alla porta di Elino delle prime tre, essendo caratterizzata dalla presenza della chiesa di San Vito. 

 

6R. Quaranta, La guida di Salerno, Salerno 1894, p. 139; C. Carucci, Codice diplomatico salernitano del secolo XIII, I, Subiaco 1931, nota 1, p. 52; M. Fiore, Il Monastero di S. Michele Arcangelo, in «Rassegna Storica Salernitana», 1953, pp. 158-163; E. Castelluccio, Gli Acquedotti Medioevali di Via Arce, l’Anfiteatro di Salerno (o Berolais), Salerno 1955, nota 1, p. 27; G. Crisci e A. Campagna, Salerno Sacra, Salerno 1962, pp. 412-414; S. Leone, La fondazione del monastero di S. Sofia in Salerno, in «Benedictina», 1973, nota 7, p. 56; S. Leone e G. Vitolo, Codex diplomaticus cavensis, IX, Cava 1984, p. 31.

7Questa chiesa viene confusa con San Martino di Rufoli in G. Crisci e A. Campagna, Salerno Sacra cit., pp. 313-314.

8Questo discorso genealogico è stato elaborato sulla base delle genealogie che si vedono in S. Leone, La fondazione cit., p. 58, e in A. R. Amarotta, L’ampliamento longobardo in Plaium montis a Salerno, in «Atti della Accademia Pontaniana», XXIX, 1980, p. 312, integrate da quanto risulta da Archivio della Badia di Cava, pergamene II-25; II-27; II-36; II-42; II-47; IV-3; VI-25; VII-10; VII-41; edita in M. Morcaldi, M. Schiani, S. De Stefano, Codex cit., rispettivamente, I, pp. 194-195; I, pp. 196-197; I, pp. 207-208; I, pp. 215-216; i, pp. 224-225; II, pp. 229-230; IV, Milano-Pisa-Napoli 1877, pp. 188-189; V, Milano-Pisa-Napoli 1878, pp. 75-76; V, p. 123. In tale edizione, la pergamena VII-10 è indicata come VII-11 e la VII-41 come VII-42; di quest’ultima viene dato soltanto un transunto, mente l’edizione integrale si legge in S. Leone, La fondazione cit., p. 66.

9Cosma, citato fra il dicembre 1039 e il maggio 1041; Pietro, citato nell’agosto 1041; Giovanni, citato dal settembre 1041 al febbraio 1049; Amico, citato nel maggio 1049; Giovanni, citato fra l’agosto 1049 e il maggio 1052; Moscato, citato fra il dicembre 1052 e il dicembre 1058. Dopo quest’ultima data Moscato continuerà ad essere citato come abate del solo Santa Sofia.

10Archivio della Badia di Cava, pergamena IX-26; edita in M. Morcaldi, M. Schiani, S. De Stefano, Codex cit., VI, pp. 229-230. In tale edizione, la pergamena è indicata come IX-24.

11Archivio della Badia di Cava, pergamena XI-37; cit., in nota 4.

12Archivio della Badia di Cava, pergamena D-28; trascritta in S. Leone, Diplomata tabularii cavensis, dattiloscritto presso lo stesso archivio, D, 1964, ff. 49-50.

13La chiesa di San Martino alla Carnale, in circostanze che ci sfuggono, non essendo giunta fino a noi alcuna documentazione, era già passata alle dipendenze della stessa badia di Cava. Infatti, nella bolla di papa Urbano II del 21 settembre 1089 (Archivio della Badia di Cava, pergamena C-21, trascritta in S. Leone, Diplomata cit., C, 1963, ff. 34-35), di conferma dei possedimenti della Badia, è citata la chiesa di San Martino in territorio salernitano; che si tratti della nostra San Martino lo conferma il documento dell’agosto 1104 (Archivio della Badia di Cava, pergamena XVII-110, trascritta in S. Leone, Diplomata cit., XVII, 1965, ff. 146-148) in cui Giovanni, figlio del fu Guaimario conte, dichiarava che la chiesa di San Martino alla Carnale apparteneva interamente alla Badia compreso l’ottavo che era stato di Guaimario, avo paterno dello stesso Giovanni, e la successiva bolla di papa Eugenio III del 5 maggio 1148 (Archivio della Badia di Cava, pergamena H-7, trascritta in S. Leone, Diplomata cit., H, 1964, ff. 6-8), di ulteriore conferma dei possedimenti della Badia, ove la chiesa è esplicitamente citata come San Martino alla Carnale.

14A. R. Amarotta, L’ampliamento cit., pp. 311-312; L’ortomagno cit., p. 192.

15Archivio della Badia di Cava, pergamena V-116; edita in M. Morcaldi, M. Schiani, S. De Stefano, Codex cit., IV, p. 139. In tale edizione, erroneamente, alla pergamena viene attribuita la data del marzo 1009. Questo documento è ignorato dagli autori che hanno trattato del monastero, con l’eccezione di S. Leone, che lo cita in La fondazione cit., nota 7, p. 56.

16Biblioteca provinciale di Salerno, pergamena 1-B-10, edita in M. Galante, Nuove pergamene del monastero femminile di San Giorgio, I, Altavilla Silentina 1984, pp. 12-15. La Galante rimanda a Crisci e Campagna e ad Amarotta per la storia del monastero e conosce questa come prima citazione di quello che ella definisce «doppio titolo di San Michele e Santo Stefano» attribuito alla chiesa di San Miche Arcangelo di Guido e Aloara.

17Archivio della Badia di Cava, pergamena XI-89; edita in M. Morcaldi, M. Schiani, S. De Stefano, Codex cit., VIII, p. 195.

18G. Crisci e A. Campagna, Salerno Sacra cit., p. 413. Stranamente, S. Leone, che in La fonfdazione cit., mostra di conoscere il documento del marzo 1939, in Codex cit., IX, p. 31, curato in collaborazione con G. Vitolo, indica il documento del giugno 1062 come prima citazione.

19Archivio Archidiocesano di Salerno, pergamena 24; edita in G. Paesano, Memorie per servire alla storia della Chiesa salernitana, I, Napoli 1846, pp. 115-117.

20Archivio di Stato di Salerno, pergamene 4 e 5; edite in L. E. Pennacchini, Pergamene salernitane, Salerno 1941, pp. 33-36 e 37-39. In tale edizione, erroneamente, alla pergamena 5 viene attribuita la data del luglio 1071.

21Archivio Archidiocesano di Salerno, pergamena non identificata; edita in C. Carucci, Codice cit., I, pp. 199-201. In tale edizione, la pergamena non è indicata con una precisa collocazione, per cui le nostre ricerche presso tale archivio non ci hanno condotto alla sua identificazione; da notare che essa manca dai regesti di A. Balducci, L’Archivio diocesano di Salerno, I, Salerno, 1959.

22A. R. Amarotta, L’Ortomagno cit., pp. 202-203; La cappella cit., pp. 84-85; Dinamica cit., p. 79.

Nel marzo 1050 la chiesa di San Matteo e San Tommaso era sita a nord della via che conduceva alla porta di Elino, circostanza confermata nel febbraio 1058, con la precisazione che a nord di tale chiesa vi era l’archiepiscopio e a sud, fra la chiesa stessa e la via, l’altra chiesa di San Gregorio23; nel dicembre 1149 la stessa chiesa di San Matteo e San Tommaso era sita a sud dell’archiepiscopio e a nord della via che conduceva alla porta «olim» detta di Elino24. Amarotta sostiene25 che, così come vi furono due porte, la «vera» di Elino e la «comunemente» detta di Elino, e due vie conducenti a ciascuna di esse, vi furono anche sue chiese di San Gregorio, per cui quella citata nel 1058 non è la stessa che vediamo oggi lungo via Mercanti, tanto più che una epigrafe la dice edificata nel 1172 da Roberto Guarna, fratello dell’arcivescovo Romualdo26; ma tale epigrafe ci informa anche che all’epoca Roberto Guarna deteneva già il titolo di abate di San Gregorio, circostanza confermata da un documento del luglio 116827, per cui egli edificava la chiesa non quale suo bene privato, ma quale suo beneficio ecclesiastico, evidentemente in sostituzione di quella che deteneva nel 1168 e che non può essere altra che quella esistente al 1058. Stando le cose in tali termini, ci pare logico supporre che la nuova edificazione sia avvenuta sullo stesso terreno già impegnato dalla prima chiesa, in quanto un cambio di sito avrebbe comportato una deroga al principio secondo il quale gli edifici sacri si ricostruivano su sé stessi28. Inoltre, osservando la posizione attuale della chiesa, dovremmo credere che, per una strana coincidenza, la nuova San Gregorio fosse edificata a nord della nuova via della porta di Elino, così come la vecchia era stata edificata a nord della vecchia via della porta di Elino e che, per una circostanza addirittura eccezionale, a nord della nuova chiesa fosse successivamente edificato un nuovo archiepiscopio, così come a nord della vecchia era stato edificato l’antico. A proposito di tale presunto spostamento dell’archiepiscopio, Amarotta sostiene29 che esso avvenne dopo il 1366; in realtà, come abbiamo visto, la situazione presentataci nel 1058 e nel 1149 è la stessa che osserviamo oggi, con l’archiepiscopio a nord di San Gregorio e della via conducente alla porta di Elino, «attuale» o «olim» che fosse, per cui possiamo affermare che tale edificio fu sempre dove lo vediamo tuttora30 e, di conseguenza, la via della porta di Elino fu sempre l’attuale via Mercanti.

 

23Archivio della Badia di Cava, pergamene X-15 e XI-21; edite in M. Morcaldi, M. Schiani, S. De Stefano, Codex cit., rispettivamente, VII, Milano-Napoli-Pisa 1888, pp. 126-128 e VIII, pp. 51-59. In tale edizione, la pergamena X-15 è indicata come X-11, mentre alla XI-21, per errore di stampa viene attribuita la data del marzo 1057.

24Archivio della Badia di Cava, pergamena XXVII-57; inedita.

25A. R. Amarotta, L’Ortomagno cit., p. 200; La cappella cit., nota 167, p. 78; Il secolo cit., pp. 104-106.

26Tale epigrafe è trascritta in G. Paesano, Memorie cit., II, Salerno, 1852, p. 190 e in A. R. Amarotta, Il secolo cit., p. 106.

27Archivio Archidiocesano di Salerno, pergamena 75; inedita.

 

 

 

 

 

 

 

28A. R. Amarotta, La cappella cit., p. 86.

29A. R. Amarotta, La cappella cit., p. 86.

30La tesi dello spostamento dell’archiepiscopio viene seguita dalla Soprintendenza ai B.A.A.A.S. delle province di Salerno e Avellino e dall’Assessorato alla P.I. e Cultura del comune di Salerno, come si legge sulla «stele» posta a loro cura presso l’ingresso dell’archiepiscopio stesso.

Un documento del novembre 1065, nell’ubicare la chiesa di Santa Maria de Domno, che, come sappiamo, era sita appena ad oriente dell’attuale palazzo Sant’Agostino, ci dice che essa era posta a sud della via che conduceva alla porta di Elino; lo stesso riferimento troviamo nell’atto con il quale, nel novembre 1091, Guaimario conte di Giffoni, figlio del duca Guidone, a sua volta figlio dell’ultimo Guaimario principe di Salerno, dona la sua parte di Santa Maria de Domno al monastero di Cava; un terzo documento, del novembre 1117, ci dice che Santa Maria de Domno era sita fra il muro e il muricino, vicino alla porta di Elino; infine, un quarto documento, dell’ottobre 1124, ci dice che la stessa chiesa era sita fra il muro e il muricino, a sud e vicino alla via che conduceva alla porta «olim» detta di Elino31. Questi documenti, oltre a fornirci una ulteriore prova circa l’identificazione della via che conduceva alla porta di Elino con l’attuale via Mercanti, ci forniscono un’altra importante notizia: non fu dopo il 1083, come ritenuto da Amarotta, che la porta di Elino cominciò ad essere citata come «olim» detta di Elino, bensì poco prima del 1117, se non in quello stesso anno, poiché un documento del settembre 1093, inserito in altro del febbraio 110532, cita ancora la via come conducente alla porta di Elino e soltanto nell'aprile 111733 troviamo la via come conducente alla porta «olim» detta di Elino. Il fatto che in tale anno, in aprile troviamo l’espressione «olim detta» e in novembre l’espressione «detta» ci pare confermi che quella fu un’epoca di transizione in cui, a causa di una ricostruzione, scomparsa l’antica porta, si cominciò a chiamare quella che la sostituì con l’appellativo di «anticamente detta di Elino», espressione che, poi, lascerà il posto all’appellativo di «nova».

   

 

 

 

 

 

 

31Archivio della Badia di Cava, pergamene XII-28; C-29; XX-87; XXI-110; la prima edita in S. Leone e G. Vitolo, Codex cit., IX, pp. 29-30; le altre trascritte in S. Leone, Diplomata cit., rispettivamente, C, ff. 45-46; XX, 1966, ff. 113-114; XXI, 1965, f. 136.

32Archivio della Badia di Cava, pergamena XVII-95; trascritta in S. Leone, Diplomata cit., XVII, f. 122.

33Archivio della Badia di Cava, pergamena XX-66; trascritta in S. Leone, Diplomata cit., XX, f. 86.

 

Vincenzo de Simone