il sito di storia salernitana

a cura di Vincenzo de Simone

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In alto: aree di ingresso e absidale

ottocentesche.

In asso: dettaglio del pavimento.

 

San Massimo

 

La chiesa, oltre a non essere fruibile, è nascosta all’interno del palazzo che da essa prende il nome, alla via, manco a dirlo, omonima. L’aula attuale nulla conserva, se non in parte il sito, della fondazione longobarda, anteriore al giugno 865, del principe Guaiferio (regnante in Salerno fra l’861 e l’880), nonostante che comunemente con quella sia identificata, così come Palazzo San Massimo nulla conserva né della casa del principe fondatore né del complesso monastico che fu dei benedettini di Cava.

Guaiferio era figlio di Dauferio detto il Balbo o il Muto ed ebbe per fratello Maione. Nell’861 questa famiglia comitale rovesciò il principe Ademario e Dauferio, figlio di Maione, quindi nipote di Guaiferio, presunse di poter assumere il potere; ma lo zio lo detronizzò, lo esiliò con i fratelli a Napoli e si proclamò principe. Nel novembre 868 egli dichiara di aver edificato San Massimo, chiesa e monastero,  nella parte nuova della città, vicino casa mia. Questa affermazione ha fatto ritenere a schiere di storiografi cittadini che egli avesse edificato in Plaio Montis un nuovo palazzo principesco, abbandonando quello realizzato da Arechi nel cuore della città; qualcuno si è spinto anche a considerare la chiesa di San Massimo come una nuova cappella palatina in sostituzione di San Pietro a Corte. Naturalmente così non è, intanto perché il sacro palazzo del potere continuerà ad essere quello di Arechi fino alla edificazione normanna di Castel Terracena, poi perché mai San Massimo è citata come cappella palatina, infine perché Guaiferio risulta già dimorante nel Plaio Montis, in una casa che aveva acquistato proprio dal nipote Dauferio, nell’853, quindi ben prima di diventare principe. Il complesso di San Massimo, dunque, non fu edificato presso un nuovo palazzo principesco, ma vicino all’abitazione privata dell’ex conte Guaiferio.

Fra il settembre 1085 e l’agosto 1094, almeno per quanto si evince dalla documentazione giunta fino a noi, attraverso una serie di donazioni da parte dei molti soggetti che nel corso del tempo avevano acquisito parti del suo patronato, il complesso pervenne in possesso della badia di Cava, che nel 1664 lo venderà a Bartolomeo de Mauro. Ampiamente ristrutturato e ampliato prima dai de Mauro, poi dai Parrillo, alla fine assumerà l’aspetto che attualmente vediamo.

Tornando alla chiesa del principe Guaiferio, essa aveva, naturalmente a occidente secondo l’uso longobardo, l’atrio e il campanile che troviamo citati nel giugno 1087 in relazione ad un diritto di sepoltura e, ovviamente, verso oriente l’abside, dietro al quale, fra l’area dell’edificio di culto e beni che lo stesso principe Guaiferio gli aveva assegnato quale dotazione, correva un muro; ma aveva anche un atrio meridionale, ove vi era un arco sotto il quale era dipinto il volto della Vergine, ai piedi del quale, nel giugno 1103 è concessa ai coniugi Pietro, figlio di Pietro, e Gemma, figlia di Pietro, la facoltà di costruire una tomba; verso settentrione, invece, confinava con un andito oltre il quale erano siti altri suoi beni. È appena il caso di rilevare che la chiesa che appare da questa documentazione nulla ha in comune con quella che attualmente si vede all’interno di Palazzo San Massimo, se non per il fatto, forse, di insistere sul suo sito ampliato all’atrio meridionale.

 

Alla chiesa attuale si accede soltanto dall’interno del palazzo, scendendo una gradinata posticcia, realizzata quando lo stabile fu adibito a convitto. L’aula è scandita in tre navate da colonne con riproduzioni di capitelli corinzi. Scomparso l’accesso dal largo ad oriente, davanti all’ingresso del palazzo, documentato nel Settecento, l’area che fu absidale, verso occidente, descritta nell’Ottocento, quando la chiesa fu concessa dalla signora Pecoraro Vairo in uso alla confraternita di San Rocco della Croce, è ridotta a ripostiglio.

 

Per saperne di più. G. Crisci, Salerno Sacra, 2a edizione postuma a cura di V. de Simone, G. Rescigno, F. Manzione, D. De Mattia, edizioni Gutenberg 2001. Per il monastero: III, 19-25. Per la parrocchia istituita nella chiesa: I, p. 142.

 

 

A sinistra: interno in una cartolina degli anni venti del Novecento. A destra: una delle colonne come attualmente si presenta, affiancata da archi di sostegno.