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a cura di Vincenzo de Simone

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Rassegna Storica Salernitana, 45, 2006, pp. 271-274

I GUAIMARIO PRINCIPI DI SALERNO

 

Il numero scorso di questa «Rassegna» ha ospitato un saggio1 che ripropone, come se non fosse stato risolto da un trentennio, un equivoco ultracentenario circa il numero dei principi longobardi di Salerno di nome Guaimario. A tale proposito l’Autore afferma2, riferendosi ad uno scritto apparso nel primo volume della Storia di Salerno3, che Gargano è uno dei pochi a non riconoscere ancora l’esistenza di un terzo Guaimario principe di Salerno nel X secolo, prima della coppia regnante nel corso della prima metà dell’XI. In effetti, così affermando, egli rovescia i termini della questione, lasciando apparire retrograda la tesi dell’esistenza di quattro Guaimario e avanzata, quindi ancora da accettarsi dalla totalità degli storici, quella dell’esistenza di cinque; in realtà, è esattamente il contrario, essendo, come accennato, ultracentenario (1887) l’equivoco dei cinque e soltanto, si fa per dire, trentennale (1976) la sua risoluzione da parte di Carmine Carlone.

 

1G. G. Cicco, L’opportunismo politico di Salerno longobarda nei confronti dell’impero bizantino, in «Rassegna Storica Salernitana», 44, 2005, pp. 11-38.

2G. G. Cicco, L’opportunismo cit., p. 33, nota 62.

3G. Gargano, Salerno longobarda. Il Principato, in «Storia di Salerno», I, 2000.

A tale proposito, Maria Galante scrive4: «Guaimario II, tra l’aprile e il maggio 933 associò al trono il figlio Gisulfo I; secondo lo Schipa precedentemente a tale evento, prima del maggio 916, il principe Guaimario chiamò alla coreggenza un altro suo figlio, noto come Guaimario III, che sarebbe rimasto al fianco del padre per circa un anno5. L’affermazione era avvalorata, secondo lo studioso, da un documento edito nel Codex Diplomaticus Cavensis e datato maggio 917 il venticinquesimo anno di principato di Guaimario II ed il secondo di Guaimario suo figlio6. Tale documento, che aveva già lasciato perplesso il Pratesi7 per l'inconciliabilità dei dati cronologici (nel 917 – al maggio – cadeva l’indizione quinta e non l’ottava – riportata dal documento –) e che d’altra parte non poteva per lo stesso motivo essere attribuito al principato di altri omonimi sovrani, è stato studiato in maniera specifica dal Carlone8, che ne ha dimostrato inequivocabilmente la falsità. Egli, mettendo a confronto tale documento rogato “in civitate Dianense” dal notaio Nardo con altri quattro ugualmente scritti in Teggiano, rispettivamente uno datato nel Codex al 1040, un secondo parzialmente edito da I. Schuster9 dello stesso rogatario Nardo e gli altri datati nel Codex al 935 e al 946 stilati da un certo Siconolfo presbitero e notaio10, si è reso conto che tutti, per certe caratteristiche paleografiche comuni, peraltro risalenti ad un periodo senz’altro successivo alla loro presunta datazione, furono scritti da una stessa mano; che tale mano non poteva certamente essere quella di un notaio, per gli evidenti grossolani errori di datazione, impensabili per un rogatario dalla pratica quotidiana; che, infine, la pergamena utilizzata per il documento del 917, dopo essere stata sottoposta a rasura così come quelle impiegate per gli altri quattro documenti, era servita precedentemente per un rogito scritto non prima del 1100; con il sussidio della lampada di Wood, infatti, è possibile ancora leggere: “anno ab incarnatione eius millesimo centesimo ...”.

 

4M. Galante, La datazione dei documenti del Codex Diplomaticus Cavensis, 1980, pp. 8-9.

 

 

 

5M. Schipa, Storia del principato longobardo di Salerno, in F. Hirsch – M. Schipa, La Longobardia Meridionale, a cura di N. Acocella, 1968, p. 154.

 

 

6Codex Diplomaticus Cavensis (C.D.C.), I, pp. 172-173.

7A. Pratesi, I documenti dei principi longobardi di Benevento, Capua e Salerno, in «Archivio Paleografico Italiano», 62, 1956, tav. 9.

 

 

8C. Carlone, I principi Guaimario e i monaci cavensi nel vallo di Diano, in «Archivi e Cultura», X, 1976, pp. 47-70.

 

 

 

9I. Schuster, La basilica e il monastero di S. Paolo fuori le Mura, 1934, pp. 83-84.

10C.D.C., VI, pp. 121-122; I, pp. 201-202 e pp. 222-223.

Nell’evidenziare, quindi, la falsità di tale istrumento e degli altri quattro ad esso inequivocabilmente collegati, il Carlone concludeva dimostrando che i falsi furono prodotti fra il 1134 ed il 1139 a Teggiano, molto probabilmente nella chiesa di S. Marciano, dipendenza della Badia di Cava, per legalizzare il possesso di alcuni beni del cenobio cavense.

La non autenticità del documento del 917 ci consente di affermare con il Carlone che i principi di nome Guaimario furono quattro e non cinque, come aveva erroneamente sostenuto lo Schipa».

In Schipa si legge: «Prima di partire per la guerra (contro la colonia musulmana stanziata alla foce del Garigliano), innanzi il maggio del 916 il principe di Salerno (Guaimario II) nominò suo collega il figlio omonimo Guaimario III, in tutto ignorato finora (pubblicava nel 1887 il lavoro poi riedito nel 1968 a cura di Nicola Acocella di cui alla nota 5), generatogli, come Rotilde (sua figlia primogenita), da una moglie del pari ignota ... Ma il giovane non sopravvisse a lungo al conseguito onore, non essendovene più traccia oltre il maggio del 917». In nota rimanda a C.D.C., I, 172, del maggio 917, segnato vicesimo quinto anno principatus domni guaimari gloriosus princeps et secundo anno principatus domni guaimari eius filii gloriosi principibus. Aggiunge: «Il documento del Codex, che viene subito dopo, dell’agosto 918, è intestato di nuovo, come gli altri seguenti, dal solo Guaimario II».

L’analisi che Schipa condusse della pergamena presunta del maggio 917 e di quelle che la seguono nel Codex, a giudicare da quanto scrisse, fu limitata esclusivamente ad accertare la scomparsa dell’ipotetico figlio di Guaimario II dalle formule delle datazioni; l’elemento di esse che non compare e pare non considerasse è l’indizione. Ove vi avesse prestato attenzione, l’avrebbe scoperta ottava, come accennato da Maria Galante, in relazione al presunto maggio 917 e l’avrebbe trovata inconciliabile, come già i curatori del Codex che apposero la nota «Lege: quinta indictione», sia con quella in cui ricadde l’agosto 918, che è sesta, che con quella in cui ricadde il marzo 917, quando fu rogato il documento precedente, che è quinta; ove, poi, avesse estesa la sua attenzione alla forma utilizzata per queste due datazioni immediatamente a ridosso di quella che presenta il presunto Guaimario figlio del secondo principe di Salerno di tale nome, così le avrebbe trovate: vicesimo quinto anno principatus domni nostri waimarii principis et patricii filius domni waimarii principis et patricii (marzo 917) e vicesimo sexto anno principatus domni nostri waimarii principis et patricii filius domni waimarii principis et patricii (agosto 918)11. Allora, forse, si sarebbe posto alcuni interrogativi: come fra una quinta e una sesta indizione entrasse una ottava; come correndo nel maggio 917 il secondo anno di principato di un presunto Guaimario figlio, nel marzo precedente non corresse né quel secondo anno né il suo primo, ma soltanto il venticinquesimo del padre; perché, contrariamente ai rogiti precedenti e seguenti, nel maggio 917 si scrissero i nomi dei principi con la G in luogo della V o della W e fu omesso il titolo di patrizio altrove costantemente attribuito a Guaimario II e al padre Guaimario I.

   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

11C.D.C., I, pp. 170-172; pp. 173-175.

Io non so se è maggioranza fra gli storici l’opinione che sostiene i cinque Guaimario principi di Salerno. Ove così fosse, sarebbe la conferma dell’assioma che non sempre le maggioranze hanno ragione e dimostrerebbe che soltanto una minoranza attenta ha seguito il procedere della paleografia e della critica storica da Schipa in poi, il che sarebbe preoccupante.

Vincenzo de Simone