il sito di storia salernitana

a cura di Vincenzo de Simone

home        siti migliori

 

 

Rassegna Storica Salernitana, 37, 2002, pp. 267-273

LA «NUOVA CITTÀ SALERNITANA»

 

Il ritorno alla ribalta della diatriba intorno all'interpretazione da dare alla locuzione nobam salernitanam civitatem, legata al presunto trasferimento di questa città dal territorio cavense al sito ove oggi vediamo il centro storico, certamente apparirà ai lettori attenti alle problematiche medievalistiche stucchevole e ripetitiva, per cui ben la eviterei; ma l’invito di Italo Gallo ad intervenire sulla questione1 mi induce ad occupare qualche pagina di questa Rassegna, pur nella consapevolezza che tale spazio potrebbe avere un diverso e certamente più proficuo utilizzo. In realtà, può apparire ben oltre il limite del ridicolo l’accingersi a dimostrare che questa città occupò fin dalla sua fondazione l’attuale centro storico come se il sottosuolo di questi mai avesse restituito reperti archeologici di età romana; in tale presenza, la conclusione di questo scritto potrebbe ben essere questa: se qui vengono alla luce siffatti reperti, qui era Salernum. Punto. Ma la storiografia salernitana è piena di presunte trasmigrazioni di porte, strade, chiese e altri immobili prese molto sul serio, per cui, forse, non è del tutto superfluo intervenire su quella dell’intera città.

   

 

 

1I. Gallo, Vetus e nova civitas nella Salerno medievale, in «Rassegna Storica Salernitana», 36, 2001, p. 156.

Contrariamente a quanto ritenuto in vecchie ipotesi della forma urbis cittadina ancora resistenti presso non pochi addetti ai lavori2, che lasciavano spazio ad interpretazioni fantasiose della nostra locuzione, è stato dimostrato3 che la città di Salerno, prima degli ampliamenti longobardi, mentre verso il mare si concludeva con un muro coincidente con i limiti meridionali del monastero di San Giorgio e del palazzo principesco, verso settentrione faceva la stessa cosa contro un muro che correva latitudinalmente lungo la base di quello che sarà il Plaio Montis. Esso compare nelle fonti giunte fino a noi con un documento del novembre 10584 che, nel trattare la divisione di un terreno posto nella città di Salerno, in Plaio Montis, vicino l’acqua della Palma, ci informa che questi aveva per confine meridionale un muro distrutto qui fuit de civitate betere e per confine occidentale il muro che nell’attualità era della città; e in due occasioni, nel luglio 1166 e nell’ottobre 11725, in relazione ad altro terreno, anch’esso posto in Plaio Montis, di cui costituiva il confine settentrionale, mentre quello orientale era costituito da una torre della murazione che calava alla porta Rotense, allora posta al limite orientale dell’attuale largo Abate Conforti. Sulla base costituita da questo muro, con l’edificazione della lunga cortina che ancora oggi vediamo ascendere il colle Bonadies dall’occidente dell’ex orfanotrofio e girarne il cocuzzolo per discendere a oriente del complesso di Montevergine, ossia dall’angolo sud-occidentale del primo a quello nord-orientale del secondo dei due terreni che abbiamo visto, da Arechi II o dai suoi immediati successori fu creato il triangolo della nuova città salernitana del Plaio Montis, analogamente, con la costruzione di un antemurale verso il mare fu creata la nuova città salernitana inter murum et muricinum e con la fortificazione dell’area intorno San Benedetto la nuova città salernitana ad Corpus.       

 

2Ancora recentemente, in una mostra allestita nell’ex chiesa dei Gesuiti al largo Abate Conforti è stata riproposta una pianta cittadina, evidentemente tratta dai lavori di Michele de Angelis, con fantasiose murazioni romane calanti dal colle Bonadies.

3A. R. Amarotta, L’ampliamento longobardo in Plaium Montis a Salerno, in «Atti dell’Accademia Pontaniana», XXIX, 1980, p. 322; Salerno romana e medievale, dinamica di un insediamento, 1989, pp. 33-35. V. de Simone, La «forma urbis» prelongobarda e altre questioni di topografia salernitana, in «Rassegna Storica Salernitana», 19, 1993, pp. 202-205; La topografia antica e medievale di Salerno, in Storia di Salerno, 1, Salerno Antica e Medievale, a cura di I. Gallo, 2000, pp. 81-82.

4AC, arca XI 33; edita in CDC (Codex Diplomaticus Cavensis, a cura di M. Morcaldi, M. Schiani, S. De Stefano, I-VIII), VIII, 1893, pp. 83-85.

5AC, arca XXXII 42; arca XXXIV 41; inedite.

In realtà, i quattordici documenti custoditi presso l’archivio cavense che riportano la locuzione intus nobam salernitanam civitatem o sue varianti, che tanto accese e accende fantasie, si riferiscono solamente a sei immobili posti esclusivamente nelle aree sopra menzionate. Infatti, nove sono relativi a San Massimo6; tre7, rispettivamente, al settentrione della porta Nocerina, al sito di Sant’Angelo de Plaio Montis, al meridione della via lungo la quale correva la fistola pubblica, attuale via Trotula de Ruggiero; due8, rispettivamente, al settentrione di San Benedetto, nel Corpus, e al meridione della porta di Elino9, nel quartiere poi detto inter murum et muricinum.

Il documento notarile più antico relativo alla città di Salerno giunto fino a noi, databile fra il settembre 718 e l’agosto 719, compare sotto forma di inserto in un atto del giugno 1073 redatto nell’ambito di una lite che opponeva il monastero di San Giorgio al presbitero Roffredo Mazzoti, figlio di Pietro, per il possesso di diritti su un andito che divideva beni del monastero, posti nei pressi dello stesso, confinanti a occidente con la strada che passava davanti al suo ingresso, attuale via Duomo, da una terra con casa in parte lignea e in parte in muratura che lo stesso Roffredo, nel marzo 1073, aveva acquistato da Maio, figlio del conte Landone10. Tale documento, che veniva presentato in quanto relativo ad un immobile che nel prosieguo dei tempi era andato a costituire parte integrante dei beni del monastero, rappresenta l’atto di concessione a favore della badessa Agata da parte di Romoaldo II, summus dux gentis langobardorum11, di una casa con corticella e di un canneto posto al suo meridione che erano stati di Anastasio et erat suburbanam salernitanam civitatem, quindi posti a meridione dal muro antico, poiché, chiaramente, siamo anteriormente all’edificazione del muricino. Ebbene questo documento, oltre a confermare il fatto ovvio che città e monastero di San Giorgio erano dove li vediamo al 718-719, ma di questo non si dubitava visto che anche il canonico Senatore scrisse che la città dominata dai longobardi era l’attuale12, non parla di nobam civitatem, mentre se tale locuzione si fosse riferita non ad aree specifiche, ma all’intero nucleo urbano in relazione a un trasferimento della città da altro sito, certamente essa qui avrebbe fatto la sua comparsa; ma essa non compare neanche nella seconda parte del documento dell’aprile 85313 che tratta di una permuta fra i fratelli chierici Leodelghiso e Sabelgardo, figli di Leone, e il conte Guaiferio, figlio di Dauferio: i due fratelli cedono una casa in legno con una terra vuota davanti sita a meridione della via lungo la quale correva la fistola pubblica, confinante con la casa che lo stesso conte Guaiferio aveva acquistato dal nipote conte Dauferio14, in cambio di una casa terranea in muratura anch’essa con terra vuota davanti sita a settentrione delle case del monastero di San Giorgio, lungo la strada che entrava nella corte del palazzo di Arechi, ossia il tratto occidentale dell’attuale via dei Mercanti; di fatto, mentre nell’ubicare il primo immobile l’estensore del documento scrisse che esso era posto intus ac nobam salernitanam civitatem, nell’ubicare il secondo, che era posto all’interno di quello che era il muro cittadino prima dell’edificazione dell’antemurale, scrisse ac salernitanam civitatem. Una distinzione sottile, ma determinante nell’ambito dell’interpretazione da darsi alla nostra locuzione, poiché mi pare chiarisca che con essa ci si riferisse a una nuova città non in opposizione a un locus Veteri lontano nello spazio, ma in opposizione alla parte della stessa città racchiusa fra le vecchie mura.

 

6AC, arca I 60, giugno 865; arca I 70, febbraio 872; arca I 73, luglio 872; arca I 86, marzo 882; arca I 95, luglio 899; arca magna A 4, agosto 899; arca I 113, febbraio 904; arca II 3, febbraio 912; arca II 36, novembre 936; edite in CDC, I, 1873, rispettivamente, pp. 76-77; pp. 94-95; pp. 97-99; pp. 114-115; pp. 124-126; pp. 139-140; pp. 150-151; pp. 165-166; pp. 207-208.

7AC, arca I 35, aprile 853; arca II 24, aprile 930; arca II 29, febbraio 934; edite in CDC, I, rispettivamente, pp. 43-45; pp. 193-194; pp. 198-199.

8AC, arca I 63, settembre 868; arca II 5, novembre 912; edite in CDC, I, rispettivamente, pp. 84-85; pp. 167-169.

9Naturalmente ci si riferisce al sito reale della porta di Elino, individuato lungo l’attuale via dei Mercanti (Cf. V. de Simone, L’identificazione della via che conduceva alla porta di Elino, in «Rassegna Storica Salernitana», 17, 1992, pp. 257-266).

 

 

 

 

 

 

10ASS, pergamena A 6, datazione ab incarnatione di tipo pisano giugno 1074; edita in Pergamene del Monastero Benedettino di S. Giorgio, a cura di L. Cassese, 1950, pp. 46-56.

11Questo inserto è datato unicamente jndictione secunda. Il duca Romoaldo citato, naturalmente senza alcun numerale, è certamente Romoaldo II, in quanto il primo duca beneventano di tale nome resse il ducato prima che Salerno ne entrasse a far parte; Romoaldo II governò fra il 706 e il 731: in tale periodo, la seconda indizione ricadde solamente fra il settembre 718 e l’agosto 719.

 

 

 

 

 

12G. Senatore, Marcina-Salerno e altri studi, a cura di D. Caiazza, 1998, p. 143.

13AC, arca I 35; si veda la nota 7.

 

 

 

 

 

 

 

14Il Guaiferio qui citato come conte sarà principe di Salerno dall’861 all’880 dando inizio alla terza dinastia dei regnanti longobardi di questa città; fonderà il monastero di San Massimo. Il padre Dauferio sarà noto come il Balbo o il Muto. Il nipote chiamato anch’egli Dauferio, figlio del fratello Maione, qui anche citato come conte, si proclamerà principe nell’861 tentando di succedere ad Ademario, secondo e ultimo esponente della seconda dinastia, ma sarà detronizzato proprio dallo zio Guaiferio ed esiliato a Napoli con i fratelli.

 

Quando Arechi II costruì la sua cappella palatina lo fece impostandola sulle strutture di un sito già riutilizzato quale chiesa paleocristiana e sepolcreto. Ove Arechi I, al momento dell’acquisizione di questa città al suo ducato, avesse visitato quel luogo, avrebbe potuto osservare la tomba della piccola Teodenanda, morta il 27 settembre 566; nello stesso luogo erano state sepolte due persone che rimangono ignote, morte fra il 542 e il 565; e Socrate, morto il 23 dicembre 49715; e certamente altri, forse in quello stesso quinto secolo, le cui tombe saranno distrutte dal cantiere di Arechi II o forse giacciono ancora in strati inesplorati del sito. Le strutture ove chiesa e sepolcreto erano stati impiantati sono riconducibili a un complesso termale di cui, fra l’altro, si nota un paramento in opus reticulatum nella cappella di Sant’Anna ad esso addossata. Poiché è impensabile che tale complesso rimanesse isolato in una plaga desertica per essere raggiunto dai cittadini di Salernum dal sito di Vietri, devo ritenere che esso fu parte di un tessuto urbano cui appartenne, fra altro che qui evito di elencare, il paramento simile che si vede nella cripta di Santa Maria de Lama. Volendo utilizzare questa tecnica costruttiva quale elemento per una datazione, mi pare di poter dire, se ben rammento qualche nozione di architettura romana, che essa, allo stato primitivo, fu dismessa nel primo secolo, quando si perfezionò, con l’aggiunta di ammorsature laterali e inquadrature orizzontali di mattoni, nell'opus nixtum, che andò per la maggiore nel secolo successivo, in particolare all’epoca di Antonino Pio; quindi, anche volendo immaginare il protrarsi dell’uso di tale murazione in questo luogo periferico dell’impero, credo non possiamo fissare, e non me ne vogliano gli archeologi per questa analisi rozza, l’edificazione dei paramenti di cui sopra oltre l’inizio del secondo secolo. Ma abbiamo prova dell’esistenza della città sul sito dell’attuale centro storico anche al primo secolo, fra le altre, nei rilievi di una base marmorea conservata al museo archeologico provinciale che attesta la gratitudine dei salernitani verso membri della famiglia Flavia per i provvedimenti adottati a favore della città in connessione con l’eruzione vesuviana del 7916. Abbiamo, poi, ritrovamenti di necropoli oltre le mura orientali, da Portanova alla stazione ferroviaria, databili a partire dal secondo secolo a.C. La conclusione di questa disanima di prove cronologicamente a ritroso, fatta per assurdo, come se non si trattasse di fatti notori e come se questa città veramente avesse la necessità di dimostrare la propria identità, è che se una Salerno precedente l’attuale vi fu essa venne abbandonata nello stesso secolo della sua trasformazione da castrum a colonia; ma allora, quale conoscenza dell’episodio e quale interesse a ricordarlo, oltre un millennio dopo, potevano avere i notai longobardi?   

 

 

 

 

 

 

 

 

15M. Galante, Le epigrafi, con P. Peduto e altri, Un accesso alla storia di Salerno: stratigrafie e materiali dell’area palaziale longobarda, in «Rassegna Storica Salernitana», 10, 1988, pp. 42-45.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

16M. Romito, Salerno romana dalla fondazione della colonia all’Impero, in Storia di Salerno cit., p. 63.

Il canonico Senatore scrisse che Salerno sorgeva «Nel centro del Picentino, difesa nel lato meridionale dalla inaccessibile costa marittima tra Buxanola e Cetara» e che «rottasi la diga naturale (secondo lui prima esistente) tra il Buturnino (il monte di San Liberatore) e le Traverse e creatosi un precipizio le macerie di Salerno furono trascinate in mare (...) onde gli antichi salernitani, obbligati a costruire nuove abitazioni, non fecero che allargare i confini dal lato orientale, e di anno in anno, di secolo in secolo, edificarono sopra Buxanola, nel piano di Palma, quei fabbricati che nel nono secolo si denominavano nuova città salernitana, mentre l’antica seguitava a dirsi la vecchia città»; ossia locus Veteri o simili, da cui Vietri; poiché da testimonianze di storici apprendiamo che Salernum non era sul mare al tempo di Augusto, quindi era ancora la prima, è da ritenersi che «la distruzione ebbe principio nel secondo secolo dell’epoca cristiana»; precisa poi che le mura di questa prima città «da mezzodì, erano ancora visibili nel secolo X nella falda occidentale del Buturnino»17.

 

17G. Senatore, Marcina-Salerno cit., pp. 142-149.

 

Io non conosco le attività di studio del canonico Gennaro Senatore, né quelle specifiche presso l’archivio cavense, né quante pergamene effettivamente srotolò e lesse. Certamente creò la leggenda della trasmigrazione di Salernum suggestionato dalla possibilità di opporre il toponimo Vietri alle nobam civitatem, mal consigliato da qualche nebulosa descrizione del sito di questa città, con una soverchia fantasia che gli fece intravedere uno sprofondamento dell’antica Salerno quale novella Atlantide e con la colpa di una disattenta lettura dell’ottavo volume del Codex. Ove, invece, tale lettura avesse fatto con attenzione avrebbe notato, ma non lo noteranno nemmeno studiosi suoi successori, un muro settentrionale della città vecchia nella Salerno del 1058; ove, poi, avesse spinto la sua indagine fino a srotolare alcune pergamene delle arche XXXII e XXXIV, inedite allora come oggi, ne avrebbe avuto conferma e certamente lo avrebbe posto in relazione al corollario degli ampliamenti longobardi spiegandosi il senso della nostra locuzione. Fin qui l’incidente di percorso del buon canonico che scriveva nel 1894, quando appena da qualche anno erano iniziati in questa città ritrovamenti di «antichità» non ben definite; diverse, invece, le responsabilità di chi si adopera, un secolo e passa dopo, contro ogni evidenza, al perdurare dell’equivoco. 

Vincenzo de Simone