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La pagina contiene testi e immagini delle seguenti conferenze di Vincenzo de Simone: |
Giardino della Minerva – salone Palazzo Capasso, 25 maggio 2008, ore 18:00
Le chiese omonime
Come è noto Salerno, fra la metà dell’VIII e la metà del XII secolo, fu la capitale di uno degli stati principali dell’Italia meridionale che, fra il 1038 e il 1052, con il principe Guaimario IV, divenne anche il più esteso. Una delle conseguenze di questo fu il concentrarsi in città di un numero rilevante di famiglie dell’aristocrazia longobarda che edificarono un numero notevole di cappelle gentilizie non solo allo scopo di significare l’opulenza e accrescere il prestigio del casato, ma anche per assicurare degne sepolture ai propri defunti. In effetti, con l’assurgere del cristianesimo a religione di stato dell’impero romano e, poi, con l’avvento dei barbari erano andate lentamente in disuso le necropoli una volta estese fuori le città, lungo le vie consolari, poiché i cristiani preferivano essere sepolti nei luoghi di culto o presso di essi, vicino alle reliquie vere o presunte dei santi. I longobardi, che del cristianesimo furono gli integralisti dell’epoca, accentuarono la tendenza, ma si trovarono ad affrontare problemi di spazio, poiché la chiese e i loro atri non potevano ospitare che un numero limitato di sepolture, per cui chi ne aveva la possibilità edificava propri luoghi di culto e di sepoltura per evitare che i propri defunti fossero deposti nelle fosse comuni delle chiese pubbliche. Questa necessità fu sempre più presente nel tempo e fu una delle ragioni della nascita delle confraternite, il cui scopo primario fu, appunto, la degna sepoltura dei propri associati. Nella Salerno medievale abbiamo, dunque, un moltiplicarsi di chiese, poiché alla sede vescovile, prima l’antica cattedrale, poi il duomo normanno, alle sedi parrocchiali, ai monasteri maschili e femminili, si aggiunsero sempre nuovi luoghi di culto di carattere privato. Dalla documentazione giunta fino a noi, è stato possibile censire nella Salerno dell’epoca, un totale di novantacinque luoghi pii. È ovvio che molte di queste chiese fossero fra di loro omonime. Senza stare a fare una classifica, è da notarsi che vi furono diciotto Santa Maria più due Santa Maria Maddalena, sei San Pietro, cinque San Nicola, sette San Giovanni, e, per le chiese di cui ragioneremo questa sera, tre Sant’Andrea, cinque San Michele o Sant’Angelo, tre San Salvatore, due San Matteo Piccolo in un totale di quattro, oltre il Duomo, dedicate al Patrono della città. L’identità di questa città ha subito, da Gisulfo II in poi, una lunga serie di attentati. Ultimo, in ordine di tempo, le indiscriminate demolizioni di torri, porte e mura successive alla rivoluzione francese, continuate ancora nel corso del ventennio fascista. A questo si aggiunse la mancanza assoluta di memoria storica (al di là dell’opera di Giuseppe Paesano alla metà dell’Ottocento) e la negazione alla ricerca d’archivio da parte dei pochi storiografi di inizio Novecento, sopra fra tutti Michele de Angelis. Egli non mise mai piede in un archivio utilizzando per le sue indagini quanto leggeva nelle poche edizioni a stampa dei documenti allora pubblicate o che si andavano pubblicando. Ciò, naturalmente, essendo limitato ad una percentuale minima fra tutti i documenti esistenti, non poteva fornirgli informazioni di insieme sulla storia urbanistica della città, per cui mai sospettò che potessero essere esistite fra le mura cittadine una così vasta pluralità di omonimie fra chiese. Egli, sostanzialmente, svolse, fra gli anni venti e trenta del Novecento, alcune indagini che portarono a confusioni nell’identità dei luoghi della città che perdurano ancora oggi, nonostante quanto pubblicato negli ultimi anni. Una seconda operazione di confusione fu la pubblicazione, nel 1962, di Salerno Sacra, dei monsignori Crisci e Campagna, lavoro troppo velocemente assemblato sotto l’incalzare dell’arcivescovo dell’epoca, ma dal quale molti addetti ai lavori ancora oggi attingono a piene mani mostrando la loro incompetenza su quanto vanno scrivendo. Tanto insoddisfacente fu il lavoro pubblicato, che già in quell’anno monsignor Crisci pose mano ad una seconda edizione dell’opera, questa volta procedendo con estrema attenzione, tanto che al peggiorare delle sue condizioni di salute, nel 1993, oltre trent’anni dopo, il lavoro non era ancora terminato, e si giungerà, essendo intanto egli morto nel 1997, alla pubblicazione della seconda edizione dell’opera soltanto nel 2001. I longobardi ebbero una venerazione particolare per San Michele, l’Angelo per antonomasia, che espressero con la dedica di un numero considerevole di luoghi di culto, sotto i titoli fra di loro intercambiabili di San Michele e Sant’Angelo. Nell’allora città di Salerno tali siti furono cinque, ma la storiografia di de Angelis e di Salerno Sacra, ricopiata da schiere di autori successivi, li ridusse a due, accorpandone quattro a due a due e ignorando il quinto. Nel 1924 Michele de Angelis, sfogliando i volumi del Codex Diplomaticus Cavensis allora pubblicati, notò una chiesa di Sant’Angelo, edificata dai coniugi Guido e Aloara prima del 991, al settentrione della quale correva la via che conduceva alla porta che egli chiamava Elina, ma che, con traduzione corretta, si denominava di Elino. Egli, ritenendo addirittura che in città non vi fosse stato che un solo luogo di culto dedicato all’Angelo, identificò il sito con la chiesa di San Michele che ancora vediamo lungo la via omonima, residuo del monastero sotto il titolo di San Michele e Santo Stefano, per cui concluse che la strada che sperava di individuare corrispondesse alla direttrice dell’attuale via San Benedetto; contestualmente liquidò come un errore il fatto che il documento recita che la strada correva a settentrione, non a meridione, come in effetti è, della chiesa. In realtà, la Sant’Angelo di Guido e Aloara era sita a meridione dell’area oggi del Santissimo Crocifisso e, quindi, dell’attuale via dei Mercanti, che allora conduceva alla porta di Elino posta al suo sbocco sulla piazza oggi Sedile di Portanova. L’equivoco sarà chiarito soltanto nel 1992 con la pubblicazione di un mio studio sulla Rassegna Storica Salernitana, ma ancora oggi qualche storiografo, che scrive senza aver prima letto, non lo sa e continua a credere che il monastero di San Michele e Santo Stefano fu edificato dai coniugi Guido e Aloara. Nell’aprile 930, in un atto di compravendita, compare Ermetanco, che agisce nell’interesse della chiesa di Sant’Angelo che era stata edificata dalla sua ava Adelaita. Nel giugno 940 compare nella documentazione giunta fino a noi la chiesa di San Michele, sita nel vico di Santa Trofimena, che nel 1503 sarà detta de Marronibus. Nella prima edizione di Salerno Sacra i due siti furono fra di loro identificati. In realtà, la Sant’Angelo di Adelaita, poi detta de Plaio Montis, era lungo il lato settentrionale della via oggi Trotula de Ruggiero, poco prima del suo sbocco nello slargo ove vediamo la chiesa di Santa Maria delle Grazie; sarà sconsacrata fra il 1573 e il 1575, quindi scomparirà essendo inglobata in una proprietà privata. Sant’Angelo de Marronibus sarà sede parrocchiale, almeno nominalmente risultante diruta già nel 1834, fino al 1845; oggi sul suo sito, a occidente del vicolo dell’Angelo, alle Fornelle, insistono civili abitazioni. Della quinta Sant’Angelo, detta de Mare, non è giunta fino a noi alcuna documentazione e la intravediamo soltanto perché il 16 aprile 1309 il terreno sul quale era stata edificata, al momento vuoto, è ceduto dal Capitolo della cattedrale ai frati agostiniani affinché, utilizzandolo insieme ad altri limitrofi che già possedevano, possano avviare l’edificazione del loro convento, che sorgerà sul sito che poi sarà del palazzo oggi sede della provincia. La nostra città conserva, chiusa al culto e attualmente oggetto di indagine archeologica, la chiesa di Sant’Andrea de Lama o de Lavina, alle spalle della fontana di largo Campo; essa è la superstite fra i tre luoghi di culto dedicati all’apostolo Andrea una volta esistenti nel centro storico. La storiografia ufficiale cittadina, naturalmente ricopiando dal de Angelis e dalla prima edizione di Salerno Sacra, attribuisce a questa chiesa anche le citazioni relative alle altre due, per cui essa diviene Sant’Andrea de Lama o de Lavina, soggetta nel 970 al vescovo di Paestum, sita a settentrione della porta cittadina detta di Rateprando. In realtà, la nostra Sant’Andrea compare in documentazione certamente ad essa attribuibile, nonostante la sua evidente maggiore antichità, soltanto nell’agosto 1084, con l’appellativo de Lama derivatale dal fatto di essere edificata presso il torrentello che allora correva lungo l’attuale via Porta Rateprandi lambendo la sua zona absidale, avendo essa, come tutte le chiese dell’epoca, l’ingresso dall’oriente, lungo il vicolo attualmente delle Galesse. Nell’ottobre 1091, Guaimario conte di Giffoni, figlio del duca Guidone, a sua volta figlio del principe Guaimario III, ne dona parte del patronato alla badia di Cava. Questo atto è la chiave che permette di separare le vicende della nostra Sant’Andrea da quelle dell’omonimo luogo di culto sito a settentrione della porta di Rateprando, poiché, contestualmente, Guaimario dona alla badia anche parte del patronato del monastero dedicato allo stesso apostolo Andrea sito sopra quella porta. Una confusa lettura di questo documento indusse Michele de Angelis, poi seguito da Crisci e Campagna, ad identificare fra di loro i due siti e indusse la commissione per la revisione dei nomi delle vie cittadine, operante nel 1932, di cui lo stesso de Angeli fece parte, ad attribuire all’allora vicolo Ruggi la denominazione di via Porta Rateprandi. Il sito di questo monastero di Sant’Andrea è precisato in un documento del novembre 1092, che recita come il monastero del beato Andrea apostolo, del cui patronato parte spetta alla badia di Cava per donazione del figlio di Guidone, è sito in Plaio Montis; al di sopra della porta di Prando, si aggiunge nel novembre 1128. Ricerche condotte su documenti successivi, hanno permesso di conoscere che la porta di Rateprando si apriva nella muraglia orientale che calava dal castello, a settentrione dell’attuale largo Abate Conforti, costituendo il tramite fra la città e il sito che sarà del convento di San Domenico. Il monastero di Sant’Andrea, di cui rimaneva attiva la sola chiesa a seguito della soppressione della comunità monastica, sarà citato ancora nell’ultimo quarto del XV secolo. La terza chiesa di Sant’Andrea, quella soggetta al vescovo di Paestum, fin dalla sua prima citazione giunta fino a noi, del dicembre 970, è detta sita in Orto Magno, quindi è incomprensibile come possa essere confusa con Sant’Andrea de Lavina. Essa era posta grosso modo a settentrione dell’area oggi occupata da Palazzo Carrara. Sarà citata per l’ultima volta in occasione della morte del suo cappellano Roberto Galla, fra il settembre 1316 e l’agosto 1317. Al termine della via dei Mercanti oggi vediamo una chiesa sconsacrata che è l’unica superstite fra le tre una volta esistenti in città sotto il titolo del Salvatore; essa è un ampliamento, realizzato nella prima metà degli anni ottanta del Cinquecento, di un piccolo oratorio eretto canonicamente il 24 maggio 1423. Fra il 1515 e il 1535 vi si trasferisce la confraternita dei mastri sartori, già ospitata prima nella chiesa di San Giovanni a Mare, poi in quella del convento di San Francesco da Paola, per cui in occasione della visita pastorale del 1575 sarà detta de Drapparia, come si conferma il 22 novembre 1625 e successivamente. Nel 1725 il suo sito è detto vicino al sopportico della dogana dei grani. Nella prima edizione di Salerno Sacra, e oggi per convinzione unanime, San Salvatore de Drapparia è confusa con San Salvatore de Fundaco o de Dogana. L’equivoco nasce dal fatto che un documento del 1268 cita questa chiesa come posta vicino ad archi, il che fece pensare che presso l’arco di Arechi, il sopportico della dogana dei grani, ove San Salvatore de Drapparia è sita, fosse esistita una San Salvatore antesignana; ma quel documento precisa che questa San Salvatore de Fundaco era posta in Giudaica, ossia lungo l’asse oggi costituito dalla via omonima, dalla piazza Sant’Agostino, dal largo Dogana Regia e dalla via Masuccio Salernitano. Ed infatti essa era poco ad occidente del largo Dogana Regia, a meridione del vicolo allora esistente, sotto l’immobile che ospitava la regia dogana, cosa diversa dalla dogana dei grani che, con toponimo novecentesco, oggi chiamiamo Dogana Vecchia. Risulterà già sconsacrata nel 1618 e il 24 gennaio 1626, essendo stata, come abbiamo visto, due mesi prima sottoposta a visita pastorale San Salvatore de Drapparia, per l’ultima volta si accede al sito già di San Salvatore de Dogana, nel territorio parrocchiale dei Santi Dodici Apostoli. La terza chiesa del Salvatore una volta esistente in città era la parrocchiale di San Salvatore de Plaio Montis o de Coriariis, di cui la più antica notizia giunta fino a noi è del 1022. Essa era sita lungo il vicolo cieco che dall’attuale largo Scuola Medica Salernitana conduce verso occidente. Se ne ordinerà la sconsacrazione il 16 gennaio 1613 e nel 1625 risulterà ridotta ad uso profano. La fondazione di una cappella gentilizia comportava la necessità di un rapporto con l’autorità diocesana, in particolare nella designazione del presbitero addetto al servizio sacro. Questo potere, se lasciato alla discrezionalità della Curia, nel lungo periodo poteva comportare che estranei alla cerchia della famiglia fondatrice ponessero mano sulle rendite derivanti dalla dote immobiliare che al luogo di culto doveva essere assegnata. Al fine di ovviare a tanto, attribuendosi da parte del fondatore, per se e i suoi eredi, il potere di nomina del cappellano, era necessario ottenere, tramite offerte in danaro o in beni di consumo, l’esenzione della cappella dal controllo arcivescovile. Nel dicembre 970 tanto ottenne il castaldo Pietro per la chiesa dei Santi Matteo e Tommaso apostoli che aveva costruito nel cortile delle sue case, in Orto Magno, a meridione di quella Sant’Andrea soggetta all’episcopio pestano che prima abbiamo visto. Nel marzo 1040 si precisa che essa era sita anche a meridione e vicino all’arcivescovado; a settentrione di San Gregorio, si aggiunge nel febbraio 1058. Nel gennaio 1172 per la prima volta è detta di San Matteo Piccolo. Nel marzo 1278 la badia di Cava, che aveva acquisito la maggioranza del patronato della chiesa per una serie di donazioni da parte dei discendenti del fondatore, la cede a Sergio Capograsso, il cui figlio, il giudice Giovanni, possedeva le case vicine. In occasione della visita pastorale del 1515 la chiesa sarà citata come San Matteo Piccolo dei Capograsso. Il 15 gennaio 1616, trovata indecente e immonda, se ne ordinerà la sconsacrazione. Le case vicine, ad oriente del vicolo oggi San Bonosio, saranno in possesso della famiglia Capograsso ancora oltre la metà del Settecento. Intanto, il 4 luglio 1269, per la prima volta è citata la chiesa parrocchiale di San Matteo Piccolo a li Canali. Essa sorgeva lungo il lato orientale della via, allora priva del largo che oggi osserviamo, e si estendeva, sull’asse ovest-est, dalla strada a quello che sarà il fronte del conservatorio della Santissima Annunziata Minore, sotto il quale oggi vediamo la sua abside altomedievale. Nel 1720, essendosi dato principio alla erezione del Conservatorio, l’amministrazione cittadina acquistava gli immobili che impegnavano la parte meridionale dell’area sulla quale si progettava la creazione del largo, insieme ad una casa dell’oratorio di Gesù e Maria e ad un giardino della chiesa di Sant’Antonio Abate per ivi costruire la nuova Chiesa Parrocchiale di S. Matteo Minore, dovendosi demolire l’antica che occupava la parte settentrionale dell’area. Attualmente, la chiesa ricostruita, adiacente a quella già di Sant’Antonio Abate, oggi di Santa Rita, è adibita ad uso profano. Naturalmente queste due chiese sono fra di loro confuse dagli storiografi cittadini. In tre dei quattro casi che abbiamo visto, escludendo quello delle chiese di San Michele o Sant’Angelo caratterizzato da altri fattori, si consumano confusioni, prima ancora che fra luoghi di culto, fra aree della città medievale. Chi conosce anche solo vagamente la storia urbanistica di Salerno non può confondere l’area del Campo con l’Orto Magno; l’area della Corte con la Giudaica; l’Orto Magno con i Canali. Purtroppo, prima de Angelis poi Crisci e Campagna lo fecero; ma che oggi quegli equivoci continuino ad essere ripetuti, in pubblicazioni ufficiali, da enti che istituzionalmente sono deputati alla custodia della conoscenza storica della città e alla sua diffusione è veramente sconfortante. |
Giardino della Minerva – salone Palazzo Capasso, 23 maggio 2009, ore 18:00 ripetuta con aggiornamenti: Complesso di Santa Sofia, 3 febbraio 2013, ore 10:30
Salerno, l'evoluzione delle mura |
figura 1 |
La figura 1 è una riproduzione, elaborata cromaticamente, della parte centrale della Veduta Rocca, del 1584, custodita presso la Biblioteca Angelica di Roma. Ai fini del nostro ragionamento, è stata tagliata di una parte verso occidente, che dalle mura raggiunge l’area oggi della Madonna del Monte, di una parte verso oriente, che si spinge fino alla Carnale, di una fascia in basso, che oltre ad altro mare comprende una leggenda e l’indicazione mezo giorno e di una sottile striscia in alto con l’indicazione settentrione. Questa rappresentazione è stata preferita ad altre consimili intanto perché rappresenta il punto di arrivo dell’evoluzione delle mura della nostra città, in quanto successivamente sarà posto in essere soltanto l’edificazione della porta Nova, la quarta di tale nome, che ancora vediamo alla piazza Flavio Gioia; poi perché é perfettamente confrontabile, come vedremo, con gli affreschi presenti nella cripta della Cattedrale che raffigurano l’assedio alla città da parte dei turchi del 1544, di cui utilizzeremo quello dell’abside destra [figura 2]; infine perché è la più antica della reale città di Salerno fra quelle giunte fino a noi. |
figura 2 |
Il ragionamento che svilupperemo copre un arco temporale di circa un millennio, andando dal trasferimento della capitale longobarda da Benevento a Salerno da parte di Arechi II ai primi anni della seconda metà del Settecento, quando fu realizzata la porta Nova di cui dicevo. Quest’arco temporale è quello lungo il quale è possibile ragionare concretamente sull’argomento, poiché è il solo relativamente al quale è giunta fino a noi documentazione, quindi qualunque tentativo di ragionamento su periodi precedenti, messi in atto da alcuni studiosi di cose salernitane, è da considerarsi puro esercizio di fantasia. Nel 1890, uno studioso cavense, Gennaro Senatore, elaborò una curiosa teoria secondo la quale Salerno non sarebbe stata fondata ove la vediamo oggi, ma a Vietri, per essere poi trasferita dai longobardi. Fonte di tanto furono quattordici documenti, custoditi presso l’Archivio della badia di Cava, distribuiti fra l’aprile 853 e il novembre 936, che, ubicando degli immobili, li dicono posti nella nuova città salernitana. L’interpretazione dello studioso fu che se la città dell’epoca era detta nuova e corrispondeva a quella attuale, era esistita una Salerno vecchia, che doveva essere stata a Vietri, derivando tale toponimo da vetus, nel senso di insediamento antico. Egli non notò l’incongruenza fra il suo ragionamento e il fatto che in realtà i quattordici documenti si riferiscono solamente a sei immobili, in quanto ben nove sono relativi al complesso San Massimo-palazzo di Guaiferio, di cui ben conosciamo il sito, mentre gli altri cinque immobili erano posti, rispettivamente, al settentrione della porta Nocerina, vicino Sant’Angelo de Plaio Montis, al meridione della via lungo la quale correva la fistola pubblica (parte alta dell’attuale via Trotula de Ruggiero), al settentrione di San Benedetto e al meridione della porta di Elino, nel quartiere poi detto inter murum et muricinum. Nel contempo, tutti gli altri immobili citati, siti in altre aree cittadine, erano detti posti semplicemente nella città salernitana; dunque non era l’intera città ad essere nuova, bensì sue particolari aree. |
figura 3 1: porta di Elino |
Nella figura 3 le ubicazioni dei sei immobili di nostro interesse sono state evidenziate da quattro indicazioni nuova città, ricadendo nella prima il settentrione della porta Nocerina, il sito di Sant’Angelo de Plaio Montis, il meridione della parte alta dell’attuale via Trotula de Ruggiero; nella seconda il sito di San Massimo; nella terza il settentrione di San Benedetto; nella quarta il meridione della porta di Elino. La freccia [1] rappresenta la porta di Elino, il cui sito è stato recuperato attraverso una attenta analisi della documentazione longobarda e confermato da un documento del 1140 presso la zona absidale dell’attuale chiesa del Santissimo Crocifisso. La disposizione delle aree dette nuova città suggerisce l’esistenza di un nucleo urbano interno, preesistente agli ampliamenti che esse rappresentavano, che i notai dei secoli IX e X consideravano il centro storico dell’epoca, tanto da definirlo la città per antonomasia. È ipotizzabile, quindi, che tale nucleo storico, da considerarsi prearechiano, possedesse delle proprie mura. Ed infatti sarà Michele de Angelis, negli anni venti del Novecento, a rilevare, nella documentazione relativa alla chiesa di Santa Maria de Domno, la presenza di un muro verso il mare definito vecchio, interno ad altro muro, evidentemente nuovo, detto il Muricino. Questa scoperta, però, non fu messa dallo studioso in relazione alle aree dette nuova città individuabili nei documenti esaminati da Senatore; ove lo avesse fatto, si sarebbe reso conto che l’esistenza di tali aree alla base del Plaio Montis doveva significare che anche esso apparteneva agli ampliamenti longobardi e quindi da qualche parte, dal settentrione della porta Nocerina al meridione del complesso di San Massimo, andava cercato un muro settentrionale della città prearechiana e, di conseguenza, le mura che ancora vediamo calare dal castello non sono romane, come egli credette, ma appartengono all’ampliamento longobardo. |
figura 4
blu: murazioni romane rosso: ampliamento longobardo e torre di Guaiferio 1: porta San Nicola 2: porta di Ronca 3: Sant'Andrea de Lama 4: porta Rateprandi 5: porte di Mare 6: porte Rotense 7: Santa Maria de Domno 8: San Michele Arcangelo 9: porta Elina 10: porta Nova 11: porta degli Angeli |
De Angelis elaborò una complessa tesi [figura 4] secondo la quale la città avrebbe avuto una serie di ben tre circuiti romani [linee blu] e i longobardi l’avrebbero ampliata [linea rossa] soltanto verso il mare e l’oriente, procedendo, per altro, ad un arretramento nell’area di San Benedetto. Tale tesi, oltre ad essere del tutto indimostrabile e a non tenere in alcun conto le aree dette nuova città, sottintende la non conoscenza da parte dello studioso di fatti fondamentali per lo studio dell’argomento, quale lo spostamento della porta Rotense [6] nella seconda metà del Trecento, che egli assegna alla seconda fase romana. Ma gli equivoci fondamentali nei quali egli incorse furono relativi all’identificazione delle tre chiese che utilizzò quali riferimenti topografici nel tracciare mura e ubicare porte. La prima di esse fu Santa Maria de Domno, il cui sito doveva permettergli di tracciare il doppio muro meridionale, l’interno, che egli considerava, forse non a torto, romano, e l’esterno, il longobardo; la sua attenzione fu attratta da due colonne antiche con capitelli corinzi di marmo sostenenti un arco che si osservavano in una bottega del palazzo Trucillo, poi distrutto dagli eventi bellici, lungo quello che nel 1923 era, rispetto al largo Dogana Regia, il ramo occidentale della via Flavio Gioia, oggi non più esistente a causa dello sventramento che ha creato la piazza Sant’Agostino, a oriente dell’edificio allora della Prefettura, oggi della Provincia [7]. La seconda chiesa che prese in considerazione fu Sant’Andrea de Lama o de Lavina [3], poiché da una nota posta dai curatori del Codex Diplomaticus Cavensis ad esplicazione di un passo della pergamena F 10 dell’arca magna, ove, a titolo di esempio, si propongono due citazioni della porta di Rateprando, rispettivamente del 1091 e del 1128, senza fornire alcuna collocazione archivistica dei documenti dai quali furono tratte, si ricava che una chiesa di Sant’Andrea era sita fra un duplice muro cittadino, al di sopra della porta di Rateprando; da tanto, identificando la chiesa citata con l’unica Sant’Andrea giunta fino a noi, senza minimamente porsi il problema dell’eventuale esistenza di altri luoghi di culto dedicati a quel santo nella Salerno longobarda (in realtà ne sono documentati tre), egli non solo identificò la porta di Rateprando con l’arco che si osserva all’innesto della via che attualmente di tale porta reca il nome sulla via Portacatena, ove fece correre l’esterno del duplice muro fra cui racchiudere la chiesa, ma anche, seguendo non evidenze archeologiche o documentarie, bensì un personale ragionamento circa i luoghi ove più favorevolmente posizionare le difese, costruì l’opinione secondo la quale il muro meridionale che questa città possedeva quando Arechi II vi stabilì la sede della propria corte, poi divenuto l’interno della duplice difesa, correva lungo il lato meridionale della via Torquato Tasso lasciando il rione delle Fornelle fuori dalla cinta difensiva. La terza chiesa che de Angelis considerò fu quella del monastero di San Michele Arcangelo [8]. Egli esaminò sette documenti cavensi, così come li riporta il Codex Diplomaticus (non lesse mai dalle pergamene originali), relativi alla chiesa di San Michele, detta anche di Sant’Angelo, edificata dai coniugi Guido e Aloara con l’apporto di Guaiferio, rispettivamente fratello e cognato, a meridione della via che conduceva alla porta di Elino (che egli chiamava Elina) riconoscendola in quella giunta fino a noi, che ritenne l’unica dedicata all’Angelo per antonomasia nella Salerno longobarda (in realtà ne sono documentate cinque); conseguentemente, identificò la via che a tale porta conduceva in un asse che dall’arco del palazzo arcivescovile su via Roberto il Guiscardo, lungo il vicolo dei Sediari, che giudicò chiuso da una edicola votiva intorno al secolo XV, perveniva alla via San Benedetto per incontrare la porta oltre la badia, al meridione dell’altopiano oggi rione Mutilati. Non gli parve incongruenza che i documenti che esaminava citano la chiesa come posta non a settentrione, ma a meridione della strada. |
figura 5 blu: muro vecchio rosso: muricino, torre di Guaiferio e torre del Russo aree contornate in celeste: Nuova città fra il muro e il muricino 1: porta di Elino 2: Santa Maria de Domno 3: porta di Mare 4: porta Busanola |
In realtà, nessuna delle identificazioni di de Angelis era corretta, quindi non corrette furono le conclusioni cui giunse. Abbiamo già visto l’errore nel posizionare la porta di Elino (in realtà, la chiesa edificata da Guido, Aloara e Guaiferio era nell’area che poi sarà del monastero di Santa Maria della Pietà detto la Piantanova) la cui ubicazione corretta rivediamo alla figura 5 [1]; alla stessa figura vediamo la posizione corretta di Santa Maria de Domno [2]. Questa ubicazione fu ricostruita e pubblicata nel 1997 (Rassegna Storica Salernitana, 28) sulla scorta di un documento ottocentesco dell’Archivio di Stato di Salerno che, oltre a descrivere il sito della chiesa lungo l’attuale via Masuccio Salernitano, riporta il prospetto e la pianta delle strutture residue del luogo di culto al 1862, dopo la sua sconsacrazione. Dalla descrizione e dalla pianta si nota la presenza di un campanile, che oggi è l’unica parte ancora visibile della chiesa, al civico 71 della detta via [figura 6] (la freccia indica il punto di vista dell’immagine). |
figura 6 |
Ma se la correzione dell’ubicazione di Santa Maria de Domno non comporta se non minime differenze nell’andamento della doppia murazione meridionale nell’area, è verso occidente che il chiarirsi dell’equivoco su Sant’Andrea e sulla porta di Rateprando (chiesa e porta erano addirittura in Plaio Montis, come vedremo) comporta una ben diversa visione rispetto a quella di de Angelis. Il duplice muro, relativamente all’area delle attuali Fornelle, compare nelle fonti con un documento del 1119 relativo ad una terra con casa posta fra il muro e il muricino, confinante a settentrione con una via, ad oriente con il corso dell’acqua della Lama, a mezzogiorno con il muro della città e ad occidente con un andito. Altri tre documenti, rispettivamente del 1134, del 1258 e del 1269, nel trattare di parti dello stesso terreno, oltre a confermarci che esso era posto fra il muro e il muricino confinando ad oriente con il corso della Lama, ci forniscono altre importanti notizie: esso era posto nel luogo Veterensium e propriamente ove si diceva a li Cicari, vicino la chiesa di San Vito Maggiore detta anche de Mare; la via che ne costituiva il confine settentrionale, andando verso occidente, conduceva alla porta della città per la quale si usciva in Busanola; la distanza fra la via della porta Busanola e il muro esterno della città, misurata lungo il corso della Lama, era di circa tredici metri. Tanto ci riporta alla documentazione già esaminata da de Angelis relativamente a Santa Maria de Domno dalla quale si ricava che nell’area di quella chiesa la distanza fra la strada che correva fra il muro e il Muricino era di circa dodici metri. Nella figura 6 si notano delle aree contornate in celeste che sono quelle dette nuova città fra il muro e il muricino e il meridione della porta di Elino; la torre di Guaiferio, presso la porta di Mare e la torre detta del Russo, all’angolo ove il Muricino incontrava il muro orientale; la porta Busanola; il sito di Santa Maria de Domno con al meridione una seconda linea rossa: si tratta di un secondo muricino, quindi un nuovo ampliamento della città, documentato nell’ultima fase longobarda. Nel 1980, Arcangelo Amarotta esaminando un documento cavense del 1058 notò che il terreno di cui tratta, posto in Plaio Montis, vicino l’acqua della Palma, aveva per confine meridionale un muro distrutto che il notaio precisa essere stato della città vecchia e per confine occidentale il muro che nell’attualità era della città; un secondo elemento, di estrema importanza, che il documento pone in evidenza è che il muro occidentale formava sul muro distrutto un angolo acuto, per cui esso, da nord verso sud, procedeva obliquamente spostandosi verso ovest. Lo studioso, riconosciuto nel muro distrutto il lato settentrionale delle mura prearechiane, lo va ad ubicare a nord di San Nicola della Palma, cioè vicino alla sorgente dell’omonima acqua. A parte il fatto che il documento dice che il terreno era vicino l’acqua, ossia, secondo la mia interpretazione, vicino il corso che l’acqua seguiva verso valle, e non vicino la sorgente, l’interpretazione di Amarotta non tiene conto delle citazioni delle nuove città nell’area del Plaio Montis interessato dal muro distrutto e in quella adiacente. Dobbiamo, dunque, cercare un’altezza latitudinale in cui ipotizzare il muro settentrionale prearechiano che sia a meridione delle nuove città poste alla base del Plaium Montis e dove trovare un tratto del muro occidentale calante dal castello con l’inclinazione verso occidente. |
figura 7 |
Ci soccorre la nostra Veduta Rocca sulla quale sono state evidenziate le mura che propone [figura 7]. In rosso, arancio e fucsia (utilizzati per evidenziare i cambi di direzione) sono state colorate le mura arechiane calanti dal castello. Il braccio occidentale, superato San Nicola de la Palma, volge ad oriente, costituendo, fra l’altro, il limite del Giardino della Minerva. Ad un tratto volge brevemente ad occidente, quindi riprende la discesa verso la torre dell’Annunziata dietro la quale è nascosta la porta omonima. Quel pezzetto di muro con inclinazione verso occidente è il tratto delle mura cittadine che al 1058 formava un angolo acuto con il muro distrutto della città prearechiana. Partendo da esso, con due linee blu correnti lungo la base del Plaio Montis è ipotizzato l’andamento dello stesso muro settentrionale prearechiano, che, lungo il meridione del complesso di San Massimo, raggiungeva l’angolo della città antica [muro blu] sul quale andava a terminare il braccio orientale dell’ampliamento longobardo. In verde è evidenziato il muro dell’ampliamento angioino della seconda metà del Trecento, che vedremo successivamente. |
figura 8 |
Alla figura 8 vediamo il muro dell’ampliamento longobardo all’altezza del complesso di Santa Maria di Montevergine, dal punto di vista indicato dalla freccia. Si tratta, lungo il braccio orientale, della parte più meridionale giunta fino a noi, poiché l’ulteriore tratto verso sud fu demolito con la creazione dell’ampliamento angioino. Si nota una tompagnatura di un antico passaggio: si tratta di una pusterola che, prima dell’edificazione della chiesa attuale del monastero, disposta dietro questo muro, permetteva di uscire dalla città. |
figura 9 |
Alla figura 9 vediamo un’immagine ripresa dal ponte sul Fusandola, grosso modo dal punto di vista indicato anche in questo caso dalla freccia. Si nota sul fondo il muro di sostegno della gradinata del Giardino della Minerva, dal quale, in corrispondenza di un accenno di merlatura, si distacca un altro muro che scende obliquamente verso sud-ovest. Credo che questo sia quel muro con la stessa inclinazione che costituiva il confine occidentale del terreno che abbiamo visto essere posto a nord della porta Nocerina avendo per limite meridionale il muro distrutto della città vecchia. Sulla sua faccia esterna, prima dei lavori di ristrutturazione dell’immobile che si vede nell’immagine che hanno comportato la realizzazione di una chiusura del canale che si intravede, era possibile osservare un vistoso solco evidentemente traccia di un’antica scorritura d’acqua, forse di quella detta de la Palma. |
figura 10 1: porta di Rateprando 2: porta San Nicola 3: porta Nocerina |
Nella parte bassa della figura 10 vediamo la trasposizione in pianta di quanto già abbiamo visto evidenziato sulla Veduta Rocca, con l’esclusione del muro angioino. Si nota il muro settentrionale della città prearechiana, così come ipotizzato sulla scorta della documentazione relativa alle aree dette nuova città, e il muro obliquo che abbiamo appena visto distaccarsi dalla gradinata del Giardino della Minerva. In più sono evidenziati due elementi che curiosamente non compaiono sulla pur accuratissima Veduta Rocca: la porta San Nicola, aperta nel muro dell’ampliamento longobardo, e la porta Nocerina, poi di Ronca, che evidentemente non corrispondeva all’arco che conclude via Torquato Tasso, poiché il muro in cui si apriva correva molto più ad occidente; a tale proposito vorrei attrarre la vostra attenzione sul quadratino rosso posto sulla pianta: si tratta della torre detta dei Ladri, che ancora vediamo a meridione dell’arco che tradizionalmente sarebbe porta di Ronca; se portiamo l’attenzione sulla parte alta dell’immagine noterete una torre sotto il nostro ipotetico muro settentrionale della città vecchia racchiusa in una cornicetta rossa: si tratta della nostra torre dei Ladri che però, almeno agli anni Ottanta del Cinquecento non era sul muro occidentale, ma interna ad esso. A proposito dello stesso muro occidentale, noterete che sulla pianta è stato reso con un doppio tratteggio, ciò perché è ipotizzabile che nel corso del tempo abbia subito delle modifiche nell’andamento, allo stato attuale degli studi non perfettamente individuabili. Portandoci alla parte orientale della pianta si nota una torre del circuito prearechiano sulla quale fu innestato l’ampliamento longobardo. Al settentrione della torre si nota una porta. Si tratta della famosa porta di Rateprando, al settentrione delle quale vi era l’altrettante famosa chiesa di Sant’Andrea che fu scambiata per quella della Lama. Sono due documenti del 1166 e del 1172 ad informarci che un terreno posto in Plaio Montis, a meridione della chiesa di Sant’Andrea, confinava verso settentrione con la vecchia difesa cittadina e verso oriente con una torre e con il muro che nell’attualità era della città. Questo terreno aveva, dunque, il proprio angolo nord-orientale in corrispondenza del punto ove l’antico muro settentrionale incontrava le difese allora operanti; ovvero nel punto ove, sull’angolo formato dalla murazione antica per scendere lungo gli attuali gradoni che costituiscono via Santa Maria della Mercede verso la porta Rotense, posta poco prima dell’innesto della via Romualdo II Guarna sul largo Abate Conforti anteriormente all’ampliamento angioino, era stata innestata la lunga cortina che ancora vediamo salire al castello lungo il fronte del complesso di Montevergine. Ma questo terreno aveva anche un’altra peculiarità: era posto a meridione della chiesa di Sant’Andrea in Plaio Montis che aveva al suo meridione anche la strada che conduceva alla porta di Rateprando; dunque, questa porta era stata aperta nella cortina longobarda forse per permettere il transito fra parti di terreni rimasti tagliati dall’edificazione della nuova difesa. |
figura 11 |
Superata la porta Rotense, la murazione prearechiana si disponeva poco a meridione della strada, dalla quale la separava una lunga e stretta striscia di terreno, parte impegnata da un numero non precisabile di torri (qui [figura 11] ne sono state ipotizzate tre), delle quali una al marzo 1078 troviamo pertinente al conte Salerno, parte costituita da proprietà private anche con botteghe. Al sito della futura chiesa del Monte dei Morti volgeva sul tracciato visibile fino agli anni trenta del Novecento lungo il lato settentrionale della via Bastioni; prima di raggiungere l’area di San Benedetto, citata nel settembre 868 come nuova città, volgeva a meridione per andare a intersecare la via dei Mercanti al luogo della porta di San Fortunato, poi di Elino, poco a oriente, come abbiamo visto, dell’attuale chiesa del Santissimo Crocifisso e procedere verso meridione andando ad incontrare il muro meridionale. |
figura 12 |
Alla figura 12 vediamo dunque il centro antico, la città per antonomasia dei notai del IX e X secolo, e gli ampliamenti longobardi, le aree dette nuova città da quegli stessi notai: il Plaio Montis, l’Inter Murum et Muricinum e il Corpus. Il particolare in alto riquadrato in verde è tratto da una pianta del 1862 custodita presso l'Archivio di Stato di Salerno e corrisponde al tratto delle mura longobarde cerchiato con lo stesso colore, i cui resti, miracolosamente superstiti all'interno del recinto condominiale di via Paolo Diacono, sono effigiati alla figura 13, in una immagine scattata dal balcone di un gentilissimo condomino. |
figura 13 |
Come si vede, si tratta della metà occidentale di una possente fortificazione il cui camminamento guardava, da una distanza notevole ma atta ad osservare l'avvicinarsi di un esercito ostile, verso la strada che entrava in città attraverso la porta Rotense, attualmente via Michele Vernieri. |
figura 14 1: monastero di Sant'Agostino 2: seconda porta Rotense |
Fra Trecento e Cinquecento, evidenziati in verde nelle immagini, saranno quattro gli ulteriori ampliamenti che porteranno la città all'estensione raffigurata dalla Veduta Rocca e dagli affreschi nella cripta della Cattedrale. Il primo in ordine di realizzazione non fu un vero e proprio ampliamento, ma l'edificazione, ai primi decenni del Trecento, a cavallo del muro meridionale, del monastero di Sant’Agostino [1 in figura 14], il cui prospetto verso il mare, protendendosi all’esterno della linea del Muricino, divenne di fatto il bastione cittadino nell’area. Il secondo fu quello angioino, della seconda metà del Trecento, che abbiamo visto evidenziato in verde anche sulla Veduta Rocca; esso, partendo dal corpo del monastero di Santa Maria di Montevergine, cingeva San Domenico per portarsi al sito ove poi sorgerà il Monte dei Morti. Con la sua realizzazione naturalmente scompariranno i muri che vennero a trovarsi al suo interno e le porte di Rateprando e Rotense, con la sostituzione della seconda con una nuova dallo stesso nome [2 in figura 14]. |
figura 15 1: torre di porta Nova 2: seconda porta Nova 3: torre di San Benedetto 4: porta dell'Angelo |
Nel Quattrocento, in due fasi distinte, la prima illustrata alla figura 15, fu realizzato l’ampliamento di Portanova. Nel tempo, un grosso complesso di costruzioni, frammentario ma continuo, quello che attualmente include la chiesa di San Pietro in Vinculis ed è tagliato dal corso Vittorio Emanuele, si era sviluppato dal meridione dei fortilizi di San Benedetto al tratto orizzontale che la via seguiva, proveniente dal sagrato di San Pietro in Camerellis, prima di svoltare verso settentrione per entrare in città dalla porta Nova. In un momento non precisabile del secolo, circa alla metà del suo lato meridionale, fra esso e una torre [1], fu edificata una nuova porta [2] che troveremo già non più operante e definita antica nel 1517. Forse alla sua costruzione non si ritenne necessario chiudere l'isolato ad oriente con una cortina (tuttavia disegnata alla figura 15), ma fu utilizzato il fronte delle costruzioni, allo stesso modo che in altre parti del perimetro cittadino, come difesa; forse a questa fase appartiene, con o senza cortina, la torre poi detta di San Benedetto, edificata a meridione dei bastioni della badia benedettina [3]. Certamente invece, perché questa seconda porta Nova avesse un senso, fu edificato un muro che dalla torre al suo meridione andava a raggiungere la vecchia torre del Russo, all’angolo del Muricino. In tale muro, in asse con la strada che calava dal largo dell’antica porta Nova, fu aperta la porta dell’Angelo [4]. |
figura 16 1: bastione di porta Nova 2: terza porta Nova 3: sperone |
Nella seconda fase, illustrata alla figura 16, probabilmente perché rivelatasi precaria la soluzione adottata, una muraglia fu fatta correre a occidente dell’arsenale, attuale piazza Flavio Gioia, e un bastione a “elle” con terrapieno fu posto a spezzare la linearità della strada [1]; la porta, la terza detta Nova [2], fu aperta verso settentrione, fra la cortina e il bastione, intorno al quale la strada della Marina fu fatta girare in senso antiorario; oltrepassata la porta, la strada svoltava bruscamente a destra, ritornando ad allinearsi al tracciato naturale. Questo percorso contorto, dettato, con ogni evidenza, da motivi di carattere difensivo, sarà mantenuto, come vedremo, fino agli anni cinquanta del Settecento. Successivamente, ad occidente della porta dell’Angelo, fu costruito lo sperone [3]. |
figura 17 1: torre di Santa Lucia 2: torre dell'Annunziata |
L’ultima fase evolutiva delle mura fu realizzata con la costruzione di due torri che si vedono in figura 17: quella di Santa Lucia [1] e quella dell'Annunziata [2], entrambe al meridione delle chiese da cui si denominavano. Fra esse fu edificata una nuova difesa disposta circa al limite del marciapiede che oggi vediamo a settentrione della via Roma, creando una nuova strada interna alla città, che sarà detta delle Muraglie. |
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figura 18 |
Veniamo, dunque, al confronto fra la Veduta Rocca e l’affresco nella cripta della Cattedrale [figura 18]. Prima, però, è necessaria una precisazione. La Veduta Rocca è del 1584, quindi ritrae la città come era al momento. L’affresco della Cattedrale ritrae un fatto avvenuto nel 1544, ma è stato realizzato in un anno non precisabile dei primi del Seicento, quindi l’artista ha riprodotto la città che vedeva, la stessa vista da Rocca, ma riferendola ad un fatto avvenuto quando le mura verso il mare erano diverse. Infatti, nel 1544 non esisteva la torre dell’Annunziata, il cui appalto troviamo affidato, insieme a quello della muraglia verso porta di Mare, soltanto nel novembre del 1545; allo stesso modo non esisteva lo sperone, che troviamo in costruzione nel 1569; né la torre di Santa Lucia, che sarà completata soltanto nel 1574. Venendo al nostro confronto, la Veduta Rocca descrive con molta accuratezza le mura calanti dal castello lungo il crinale occidentale del colle Bonadies, con i cambi di direzione che abbiamo visto, il primo a valle del monastero di San Nicola de la Palma lungo i terrazzamenti del Giardino della Minerva, il secondo nell’area della porta di Ronca, per altro non disegnata, che conducevano la cortina alle spalle della difesa intorno all’ospedale che sarà di San Giovanni di Dio. La porta dell’Annunziata la si indovina fra l’ospedale e la chiesa, di cui risalta il campanile verso oriente; si tratta della prima versione della Santissima Annunziata Nuova che sarà travolta da un alluvione del torrente Fusandola il 4 dicembre 1626, per essere poi ricostruita con il campanile sul lato opposto. Ad occidente della chiesa, la torre omonima chiude con una breve murazione verso settentrione un cortile dello stesso luogo di culto. L’affresco nella cripta della cattedrale è poco accurato nella descrizione delle mura; diviene più preciso relativamente alla torre e alla chiesa dell’Annunziata, la stessa prima versione descritta dalla veduta Rocca, di cui si indovina l’abside semicircolare. Questo particolare ci permette una indicazione di massima circa l’epoca dell’affresco: ritraendo la prima chiesa della Santissima Annunziata, evidentemente fu realizzato prima del 4 dicembre 1626, quando quella chiesa sarà travolta dall’alluvione. Entrambi gli elaborati mostrano, fuori le mura, il convento di San Francesco da Paola, ex Santissima Annunziata Vecchia, attualmente deposito militare, raffigurandolo con un disegno praticamente identico. Dalla torre dell’Annunziata, la murazione meridionale corre verso la porta di Mare, che mentre nella veduta Rocca appare schematica e poco attendibile, assume connotazione più realistica nell’affresco. In realtà, questa parte del fronte a mare nella veduta Rocca presenta tratti di approssimazione anche nella resa della torre di Santa Lucia, molto meglio definita nell’affresco, per riprendere una ricchezza di dettagli nell’area di Sant’Agostino ove ben si delinea il bastione che si avanzava dall’allineamento del muro, particolare che rimane meno definito nell’affresco che pur mostra l’edificio proteso verso il mare. Nell’area oggi dell’edifico della Camera di commercio, la veduta Rocca mostra con dovizia di particolari lo sperone proteso verso il mare con il suo sottopasso che permetteva il transito lungo la spiaggia. In quest’area l’affresco è approssimativo e soltanto perché ne conosciamo l’esistenza riusciamo ad individuare l’elemento. Oltre, l’affresco si riscatta mostrando chiaramente la porta dell’Angelo, che la veduta Rocca ignora. All’estremità orientale della muraglia, il torrione di Portanova è definito magistralmente nell’affresco, così come il monastero di San Pietro in Camerellis oltre le baracche della fiera. Rispetto all’affresco, la veduta Rocca presenta altre due aree particolarmente dettagliate: quelle della fiera e del sito di Santa Maria di Montevergine. Nella prima si nota il torrione di Portanova proteso verso est, al cui settentrione si apriva la porta; quindi la merlatura lungo il lato occidentale dell’attuale piazza Flavio Gioia fin sotto il monastero di San Benedetto e la murazione intorno all’altopiano della Torretta, oggi rione Mutilati, con il fortilizio d’angolo; infine, gli acquedotti alle spalle della badia benedettina. Nella seconda è evidente il muro orientale longobardo che, calando dal castello, lascia esterno alla città il primo sito di Santa Maria Maddalena, attualmente Montevergine, per convergere verso il capo della via attualmente delle Botteghelle ove incontrava la prima porta Rotense; all’oriente del monastero si innesta il muro angioino che, circondando l’area di San Domenico, cala verso il sito della seconda porta dallo stesso nome. |
figura 19 1: porta Catena (dell'Annunziata) 2: quarta porta Nova |
Nel Settecento [figura 19] si innalzarono due nuove porte: quella della Catena [1], a ridosso del campanile della Santissima Annunziata, opera di Ferdinando Sanfelice, e la quarta detta Nova [2]. Avevamo lasciato la terza di tale nome aperta verso settentrione, stretta fra un braccio del bastione ad "elle" intervenuto a spezzare la linearità della strada, e la muraglia che si concludeva con la torre di San Benedetto. Nei 1753, a seguito di una istanza da parte di un gruppo di cittadini che lamentava i molto inconvenienti di traffico che si verificavano soprattutto nel tempo della fiera, in quello della vendemmia, del raccolto e quando la porta era impegnata dal corteo reale che, attraversando la città, si portava alla caccia in Persano, il governo cittadino deliberò la demolizione del terrapieno e di parte del bastione, affinché si edificasse una nuova porta, la quarta detta Nova, simmetrica all’andamento recuperato della strada, che è quella, unica superstite, che tuttora vediamo alla Rotonda, ufficialmente piazza Flavio Gioia. |
Cappella di San Ludovico all'Archivio di Stato, 12 e 13 maggio 2012
La cappella di san Ludovico |
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figura 1
cappella di San Ludovico all'Archivio di Stato, affresco, 1320 ca. |
Ci troviamo all’interno di una cappella gentilizia, probabilmente di impianto della seconda metà del Duecento, in origine annessa ad uno dei complessi residenziali dei della Porta. Questa famiglia discese da due conti longobardi ai quali Gisulfo II, definendoli diletti parenti nostri, nel novembre 1053 donò il terreno sul quale oggi vediamo questo intero isolato. Su tale area, i della Porta edificarono, nel corso dei secoli, il loro quartiere di lignaggio, ossia una serie di complessi immobiliari pertinenti ai vari rami della famiglia, fra i quali quello oggi rappresentato dall’Archivio di Stato. |
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figura 2 |
Questo locale, che alla figura 2 vediamo in una immagine del 2000, è stato per diversi decenni utilizzato quale deposito dall’Archivio e, poiché in esso agli inizi del Novecento vi era una farmacia, divenne noto nel gergo del personale dell’Archivio stesso, appunto, come la Farmacia. La sua struttura ne lasciava indovinare l’antichità e forse anche la natura di luogo di culto, ma il fatto che affresco e decorazione della volta fossero ricoperte da uno strato di intonaco, unito alla mancanza di riferimenti documentali, non ne rendeva agevole l’identificazione. Fu nel corso di ricerche condotte per la realizzazione dell’edizione 2001 di Salerno Sacra che, sulla scorta di documenti del 1692, del 1709 e del 1725, fu possibile individuare il luogo come la cappella allora detta di San Leonardo nella Regia Udienza, ossia nel tribunale che dagli inizi del Seicento si era istallato nel palazzo ex della Porta. Studi successivi permetteranno di ricostruire l’evoluzione del titolo e di riconoscerne l’antico patronato della famiglia della Porta, poiché la cappella compare nella documentazione giunta fino a noi il 16 marzo 1466 con il titolo di San Ludovico, essendo posta sotto le case che erano state di Francesco della Porta e che nell’attualità erano possedute da Giovanni Guarna; il suo patronato era appartenuto a Nicola Matteo della Porta, ma, essendosi egli macchiato del reato di ribellione, i suoi beni erano stati confiscati e incamerati da Roberto Sanseverino, principe di Salerno. Il 24 gennaio 1567 si conferma la proprietà delle case sovrastanti a favore della famiglia Guarna. Nel 1616 la cappella è detta sotto la Regia Udienza, davanti al carcere, con la precisazione che vi si celebra a beneficio dei carcerati; se ne conferma il titolo in San Ludovico dei Guarna. Nel 1692, confermandosi il sito sotto la Regia Udienza, il titolo appare mutato in San Leonardo, protettore dei detenuti. Nel 1709 la si descrive con un solo altare con l’icona di tale santo, mentre si conferma che in essa si celebra nelle festività di precetto a beneficio dei carcerati. Nel 1725, elencandosi i luoghi di culto esistenti nel territorio parrocchiale di San Grammazio, si annota che il parroco cura le anime dei detenuti nel carcere della Regia Udienza, con l’onere di far dire messa nella cappella di San Leonardo, la quale ha due porte: l’una alla strada, l’altra al cortile della stessa Regia Udienza. Conferma della correttezza dell'identificazione della cappella prima di San Ludovico, poi di San Leonardo con il locale ex farmacia dell'Archivio di Stato si ebbe nel 2008, quando casualmente vennero alla luce prima tracce di affresco, poi le strutture occultate dell'antico luogo di culto. |
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Alcune fasi del recupero sono testimoniate dalle riprese fotografiche eseguite da Michele di Lorenzo e gentilmente concesse dalla direzione dell'Archivio. |
figura 3
come si nota anche dalla figura 2, il locale era diviso in due da un muro irregolare posto a parzialmente tompagnare e a sostenere l'ultimo arco ogivale. |
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figura 4
colonne di stucco fra la prima e la seconda impronta ogivale di destra: a sinistra, nelle condizioni iniziali, a destra, in fase di restauro. |
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figura 5
affresco di san Ludovico nella fase di rimozione dell'intonaco che lo occultava. |
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figura 6
affresco di san Ludovico nel corso del restauro. |
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figura 7
la rimozione del pavimento di inizio Novecento in mattonelle bianche e nere ha evidenziato una precedente pavimentazione in basoli tipica non solo delle strade cittadine nel Settecento, ma anche di molti cortili, androni, e locali terranei destinati agli usi più svariati. |
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figura 8
fase di restauro della prima impronta ogivale di destra |
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figura 9
a restauro ultimato, si nota il piano di calpestio più scuro riconosciuto come trecentesco e il rifacimento più chiaro eseguito dopo i sondaggi, senza esito, alla ricerca di una stratificazione antecedente. |
Ma quando e perché san Ludovico? Ludovico d'Angiò era figlio del re di Sicilia Carlo II lo Zoppo e secondo nella linea di successione al trono dopo il fratello maggiore Carlo Martello; quindi alla morte di quest'ultimo, nel 1295, di fatto divenne l'erede, ma egli aveva indossato l'abito francescano nel 1290, per cui l'anno successivo rinuncia al titolo di principe di Salerno, spettante agli eredi al trono angioino, ai feudi francesi della famiglia e allo stesso trono paterno a favore del fratello minore Roberto, che poi, nel 1309, effettivamente salirà al trono e passerà alla storia come Roberto il Saggio (si veda l'albero genealogico alla figura 10). In quello stesso 1296 Ludovico fu ordinato sacerdote, quindi nominato vescovo di Tolosa. Morirà l'anno successivo, di tubercolosi, all'età di ventitre anni. Sarà canonizzato nel 1317. |
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figura 10 |
Quindi sarà successivamente al 1317, probabilmente intorno al 1320, che il ramo della famiglia della Porta detentore delle case oggi rappresentate dall'immobile dell'Archivio di Stato farà effigiare san Ludovico d'Angiò sulla parete destra della propria cappella gentilizia certamente già esistente, ma di cui non è giunta a noi notizia del titolo, poiché se fosse stata edificata appositamente per onorare il santo angioino la sua effige sarebbe stata posta sull'altare di fondo. Ma perché questa espressione di fede nel neo santo da parte dei della Porta? Intanto perché era il fratello del re allora assiso sul trono di Napoli, anche se il titolo ufficiale rimaneva re di Sicilia, poi perché i della Porta nel corso della guerra del Vespro (1282-1302) erano stati fra i fautori in città del partito filo-angioino in opposizione a quello filo-aragonese capitanato principalmente da Giovanni da Procida. Al di là delle implicazioni politiche insite nell'essere stesso dell'opera, possiamo dire che questo affresco di Salerno si inserisce fra i prototipi di quella che sarà l'iconografia di san Ludovico d'Angiò, vescovo di Tolosa, nei secoli successivi. In effetti la figura di Ludovico entra immediatamente e prepotentemente fra le icone esemplari dell'ordine francescano, poiché nelle sue scelte si coglie l'emulazione estrema della figura dello stesso san Francesco, in quanto come questi aveva rinunciato ai beni paterni, Ludovico aveva rinunciato addirittura ad un regno. |
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figura 11 |
Nello stesso anno della canonizzazione, Simone Martini realizza ad Assisi l'affresco (figura 11) che accosta i due santi; nell'opera appare in embrione quello che sarà uno dei motivi irrinunciabili della futura iconografia di Ludovico: il saio francescano indossato sotto i paramenti vescovili. Ma sarà con l'opera successiva, oggi al museo di Capodimonte (a sinistra nella figura 12), che Simone Martini racchiuderà in un'unica visione, oltre il tempo e lo spazio, la vicenda terrena e celeste del santo, poiché lo rappresenta assiso in trono, rivestito dei paramenti vescovili indossati al di sopra del saio, mentre rinuncia al trono porgendo la corona terrena al fratello Roberto inginocchiato accanto in cambio della corona celeste che due cherubini gli pongono in capo. Nel dipinto appare un altro elemento che caratterizzerà la futura iconografia: il manto vescovile decorato dai gigli angioini e addirittura, in forma di fermaglio, lo stemma stesso allora dei d'Angiò regnanti di Sicilia. In questo contesto embrionale dell'iconografia di san Ludovico d'Angiò, si inserisce l'affresco di Salerno che presenta i paramenti vescovile improntati ai colori angioini, pur senza la raffinatezza rappresentata dai gigli e dal fermaglio con lo stemma, al di sopra del saio francescano (figura 1). Altro elemento fortemente emblematico, accanto al libro simboleggiante lo studio scritturale, sarà la corona, tenuta in mano nell'atto del deporla o già deposta. |
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figura 12 |
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figura 13 |
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figura 14 |