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a cura di Vincenzo de Simone

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A lato. Su una immagine storica,

in rosso il condotto dell'acquedotto alto; in giallo, dell'acquedotto basso;

in verde, del ritorno.

 

 

 

In alto. Sullo sfondo, l'acquedotto alto;

in secondo piano, il ritorno;

in primo piano, il secondo ritorno.

La prima mmagine è una fotografia di Firmin Eugen Le Dien del 1852, come ci informa Giuseppe Nappo.

La seconda è una stampa tedesca del 1861 fornita da Massimo La Rocca.  

 

l'acquedotto medievale

 

L'acquedotto medievale, popolarmente archi (o ponti) del diavolo (o dei diavoli), all'attraversamento sull'innesto fra le vie Arce e Velia, è costituito da tre manufatti, di cui due, fra di loro addossati, raggiungono, provenienti da settentrione, la scarpata dell'altopiano della Torretta, attualmente noto come rione Mutilati, mentre il terzo da essa si diparte. I due in arrivo sono di altezze diverse, per cui qui li definiremo alto e basso, indicando il terzo come ritorno.

 

 

In realtà, per un lasso di tempo non quantificabile, essendo documentato solo da una rara immagine, un secondo ritorno si dipartiva dalla stessa scarpata volgendo verso oriente, ad una altezza latitudinale, lungo via Velia, a valle del primo.

La datazione dei manufatti superstiti agli anni venti e trenta del Novecento (essendo già andato perduto il secondo ritorno) fu oggetto di una disputa furibonda, condita di poco velate offese, che oppose Michele de Angelis e Armando Schiavo. Il primo sostenne l'esistenza dell'alto al X secolo, con ricostruzioni alla seconda metà dell'XI, e la costruzione fra i secoli XII e XIII del basso e del ritorno; il secondo, la costruzione di tutti al VII secolo, con ricostruzioni nell'VIII, e interventi sul ritorno nel XIII. Negli anni cinquanta dello stesso Novecento, disse la sua anche Ersilio Castelluccio, datando l'alto all'XI secolo, con ricostruzioni al primo XIII, e il basso al IX, mentre non si esprimeva sul ritorno.

Altre linee interpretative preferivano rifarsi all'impero romano o alla magia di Pietro Barliario (1055 – 24 marzo 1149), che in una sola tragica notte, con l'assistenza non disinteressata del diavolo, che aspirava al possesso della sua anima, avrebbe edificato l'imponente opera, il che gli valse la considerazione di fondatore della stessa, pur se in epoca che lo vedeva già defunto.

Una nuova analisi condusse nel 1989 Arcangelo R. Amarotta nel volume Salerno romana e medievale, in cui sostenne, con considerazioni non del tutto condivisibili, la datazione dell'alto e del basso alla prima metà del  IX secolo, ma non in contemporanea, con ricostruzioni nell'XI; relativamente al ritorno, di cui pose in rilievo l'eleganza delle linee degli archi a sesto acuto e l'accuratezza della loro esecuzione, i vani di alleggerimento ben disegnati, i piedritti a base cruciforme e dalla sezione costante, ne ritenne l'edificazione ascrivibile a fine XIII inizio XIV secolo. Per la datazione dei manufatti evidentemente più antichi, l'alto e il basso, tenne nella dovuta considerazione l'interazione del primo con le fortificazioni sulla scarpata dell'altopiano, per cui assegnate le mura, correttamente, all'ampliamento longobardo con fini difensivi verso oriente (seconda metà dell'VIII secolo), ritenne, con ragionamento soggettivo intorno alle priorità che avrebbero assillato Arechi II e i suoi successori, di dover posporre la realizzazione dell'approvvigionamento idrico per quelle fortificazioni alla prima metà del secolo successivo.

 

 

In alto a sinistra. La didascalia recita:

Salerno - Via Arce, antico acquedotto, fondato da Pietro Barliario (1200).

In alto a destra. La didascalia recita:

Salerno - Via Arce - Acquedotto Romano (Ponti del Diavolo).

Da notarsi nella prima immagine il rifacimento del piedritto fra il primo e il secondo arco del ritorno, mentre nella seconda il tutto è sostituito dall'arco di mattoni che ancora vediamo.

 

In realtà, l'esame di una pianta dell'altopiano al 1862 pone in evidenza la strettissima interazione fra le mura e l'acquedotto alto, che, superata la scarpata, correva sulla sommità delle fortificazioni sia verso occidente, per raggiungere la torre, probabilmente già delle difese prearechiane,  oggi rappresentata dalla casa a ridosso dell'Arco Capone, sia verso meridione, per portarsi all'altra torre all'angolo sud-orientale dell'altopiano; lungo tali direttrici, alimentava cisterne sul piano di campagna in una evidente azione secondaria e forse tarda rispetta all'edificazione. Quindi, retrodaterei questo manufatto alto alla stessa epoca delle fortificazioni, ossia alla seconda metà dell'VIII secolo.

 

A lato. Archivio di Stato di Salerno, Pianta di una porzione della città di Salerno (1862), particolare.

Si notano le cisterne alimentate dall'acquedotto alto corrente sulle mura.

Si nota anche che via Arce passava soltanto sotto il più orientale degli archi che impegna attualmente e proseguiva lungo la via oggi Fieravecchia. Il taglio della scarpata e l'eliminazione dei primi due archi del ritorno, sostituiti dall'arco di mattoni (si vedano sopra le cartoline) consentirà l'apertura della via Velia rasente la scarpata stessa.

 

 

Un inventario dei beni del cenobio benedettino al 6 febbraio 1544 informa che alla fontana posta nel cortile viene l'acqua de fora sopra certi archi antiquamente fabricati, mentre alle cisterne del Giardino grande viene un altra acqua che nasce un poco più da longo de la acqua predetta et per altri archi più alti. Dunque, era l'acquedotto basso che raggiungeva San Benedetto correndo al livello di campagna, se non interrato, vista la quota del suo pervenire all'altopiano. Tanto conforta l'opinione sopra espressa che l'alto fu opera concepita prettamente per l'approvvigionamento idrico delle fortificazioni.

Nello studio del complesso che condusse Ersilio Castelluccio, il manufatto basso fu datato al IX secolo, l'alto all'XI. Ma, al di là delle considerazioni sulle loro funzionalità di cui sopra, una analisi semplicemente visiva della linea di addossamento, in particolare fra i rispettivi piedritti accoppiati che fanno da spartitraffico sulla via Arce, evidenzia l'innesto del piedritto del basso sulla scampanatura della base di quello dell'alto rendendo evidente la preesistenza di quest'ultimo.

 

In basso. Linea di addossamento fra l'acquedotto alto (a sinistra) e il basso (a destra) lungo i piedritti accoppiati che fanno da spartitraffico su via Arce.

 

   

L'acquedotto basso viene ad addossarsi all'alto appena prima del balzo sulla via Arce, avendo percorso in solitaria e in linea retta il piano della collina dirimpettaia dell'altopiano della Torretta fin dal suo intercettare la sorgente. Quando il trincerone ferroviario (appena prima dell'unità d'Italia) intervenne ad incidere quella collina, un arco sulla strada ferrata permise la continuità della sua funzione; tale arco sarà travolto dalla realizzazione della copertura sullo stesso trincerone.

L'acquedotto alto, prima di essere addossato dal basso, giunge sfalsato rispetto alla destinazione, quindi compie un svolta verso oriente e un'altra verso meridione per andare all'angolo delle fortificazioni. Amarotta scrive che trattasi di una correzione in corso d'opera per andare ad addossarsi al basso già operante; ma, visto che sarà il basso ad essere addossato e non viceversa, i repentini cambi di direzione vanno interpretati come un espediente per rallentare il flusso dell'acqua. Lo scavo del trincerone farà perdere all'alto alcuni archi poi ricostruiti; il maggiore di essi, che in un sol balzo superava la linea ferroviaria, sarà demolito alla realizzazione della copertura dello stesso trincerone ed attualmente, percorrendo l'arteria, se ne notano i monconi.            

 

A lato. Una bellissima immagine degli acquedotti da monte di via Arce (in genere le immagini sono riprese da valle), prima di ogni urbanizzazione.

Si nota la doppia curva dell'alto sulla collina dirimpettaia dell'altopiano della Torreta (fuori campo a destra).

 

 

   

L'ultimo tratto residuo dell'acquedotto alto, quello che permette di intuirne la provenienza dalle sponde del Rafastia, tenta di resistere, al meridione di via Michele Vernieri, ove, dall’interno di via Matteo Incagliati fa capolino il suo moncone preceduto da una torretta di diramazione, agli attacchi dei nuovi vandali, all'invadenza dei condomini che lo soffocano con depositi di scarti a dir poco singolari, alle forse autorizzate, forse abusive, cancellate, al disinteresse (manco a dirlo) di Comune e Soprintendenza.