Viaggio in africa con papà

Quando siamo arrivati all’aeroporto di Nairobi (capitale del Kenya) non ci aspettavamo che fosse così moderno simile a quelli dei paesi più ricchi, era proprio ben organizzato con le sue scale mobili, gli uffici delle varie compagnie aeree, i negozi, il bar, il ristorante, le sale d’aspetto, e così anche fuori dell’aeroporto c’era una vera città con le sue strade i suoi grattacieli etc. Forse pensando all’Africa si è portati a immaginare che sia tutta deserti sterminati, foreste, savane, animali: giraffe, leoni, elefanti, zebre, insetti, uccelli, etc. In ogni modo noi eravamo venuti a vedere proprio quell'Africa che immaginiamo tutti, natura incontaminata, e non certo una città come quella in cui viviamo adesso. Mentre io e il mio papà mettevamo i bagagli sulla jeep, per raggiungere il villaggio dove avremmo trascorso la nostra vacanza, mi soffermai con lo sguardo sui vestiti variopinti che fasciavano tutto il corpo, ad eccezione delle spalle e delle braccia, di alcune donne di colore che portavano i loro piccoli bambini di color cioccolato avvolti come in uno zaino posato sulla schiena. I piccoli guardavano con quei grandi smarriti occhi neri ciò che succedeva attorno a loro e ridevano quando qualcuno, specie persone di pelle bianca, che loro probabilmente non avevano ancora mai visto, si avvicinava per fargli una carezza. E anche a me, un piccolo fece un gran sorriso quando gli presi la manina. Partimmo per il villaggio e non appena fuori città, una distesa pianeggiante immensa si aprì ai nostri occhi. Dopo diversi chilometri di deserto si cominciarono a intravedere in lontananza degli alberi e, dopo altrettanti chilometri di territorio dove la vegetazione era fatta di cespugli e palme, vedemmo qualcosa che rifletteva la luce del sole, e, non appena fummo più vicini, una nuvola rosa sopra di noi ci coprì con la sua ombra; era un grande stormo di fenicotteri che aveva abbandonato il lago Vittoria, che ora si vedeva più chiaramente. Probabilmente si erano allontanati a causa del rumore del motore della nostra jeep che preannunciava l’arrivo di un mostro in quel paradiso terrestre. Andando più avanti, via via che ci addentravamo nella savana, avvistammo in lontananza una giraffa, una coppia di zebre che passeggiavano annusando e brucando intorno e una famiglia di elefanti che rovistavano qua e là tra gli alberi strappando qualche ramo più frondoso per fare un piccolo spuntino. Finalmente dopo non so quanti chilometri dalla città, giungemmo nel punto, segnato sulla cartina, in cui dovevamo incontrarci con la guida per raggiungere il villaggio. Appena il mio papà spense il motore fummo catturati da una sensazione di pace e di tranquillità tanto che ci guardavamo senza parlare per non turbare quell'incantesimo. Ad un tratto si sentirono delle voci che provenivano dalla parte più fitta della vegetazione, sempre più vicine, fino a quando non comparvero una ventina di bambini che ci assalirono festosamente, portandoci chi una foglia, chi un insetto catturato e chiuso nella mano, chi un ramo levigato a forma di bastone, chi una pietra colorata. Per loro questi erano doni e questo era il loro benvenuto. Erano talmente poveri (naturalmente, poveri per noi occidentali) ma talmente felici della nostra visita, che non riuscivamo a controllarli, c’era chi ti tirava di qua chi ti tirava di là chi prendeva uno zaino chi saliva sulla jeep. Ma erano così entusiasti che non avevamo la forza di dirgli di no. Ad un certo punto mi accorsi che si avvicinava un elefantino accompagnato da altri bambini che gli correvano intorno. Quando si fermò a qualche metro da noi, vidi che era alto più o meno quanto me e aveva delle zampe grosse quanto cinque volte il mio piede, e pensai che anche se era ancora piccolo, se mi avesse pestato un piede mi avrebbe fatto davvero male. Ma era talmente piccolo che faceva tenerezza, perché i bambini per gioco gli tiravano la coda da un lato e la proboscide dall’altro, e lui barriva con un suono lieve che si sentiva poco anche per il frastuono che facevano i bambini. Ma la cosa durò poco perché si vide in lontananza la mamma elefante che si avvicinava e i bambini lasciarono che il piccolo la raggiungesse. Finito il festoso benvenuto c’invitarono a seguirli per raggiungere il villaggio aiutandoci a portare i due zaini, almeno quello mio visto che il mio babbo lo indossò subito. Dopo appena cinque minuti di cammino cominciammo a scorgere le capanne e, da una di queste, altri turisti come noi, accerchiati da altri bambini stavano salutando gli amici che lasciavano in quel villaggio. Mio padre mi diceva che probabilmente noi avremmo occupato la stessa capanna. Quei turisti, erano americani, non appena c’incrociarono ci dissero: ”this place is wonderful, people are splendid, bye, bye, a good holidays” (“questo posto è meraviglioso, la gente è splendida, arrivederci e buone vacanze”). La nostra capanna era molto semplice, c’erano: tre brandine per dormire, quella in più la utilizzammo per posarci gli zaini, un lavabo e un secchio grande con una brocca di legno, per prendere l’acqua, uno specchio spizzicato, un tavolino di legno grezzo e due stuoie che servivano per sedersi a terra con le gambe incrociate. Bisognava adattarsi ad un tipo di vita senza alcuna comodità, era un po’ un’avventura, ma forse il bello era proprio questo. In compenso un signore del villaggio che parlava un po’ italiano e un po’ inglese, ci disse che c’era una doccia esterna e, ce la fece vedere, bastava tirare la corda e un annaffiatoio si piegava e versava l’acqua occorrente. Meglio che niente. Dopo aver fatto conoscenza e aver cenato con alcuni del villaggio, visto che eravamo un po’ stanchi, andammo a dormire, l’indomani ci aspettava una gita con la jeep, accompagnati dalla guida per vedere più da vicino gli animali in libertà. Svegliati alle 7.00 da un uccello che aveva un canto un pò strano simile al rumore di una porta con i cardini arrugginiti, ci alzammo, mi affacciai fuori, scostando la tenda, e vidi un formicaio lunghissimo che si estendeva da un' albero ad un buco a qualche metro di distanza, non avevo mai visto formiche così grosse in vita mia, poi vidi alcuni animali, anche elefanti, che pascolavano tranquillamente attorno al villaggio. La sera invece, solitamente, si accendevano i fuochi per tenere lontani i leoni e i leopardi. C’era già caldo, doccia con l’annaffiatoio e via con la jeep. Volle unirsi a noi Moluri un bambino con cui avevo fatto amicizia durante la cena del giorno prima e che mi aveva fatto un regalo: una noce di cocco rotta a metà dove aveva messo una piantina dall’odore di menta ma che non era menta perché Moluri non appena l'ebbe passata nelle mie mani ripeté subito “no menta”. La gita fu bellissima, scattammo tante foto, filmammo tutti gli animali: un rinoceronte che si scagliava contro un albero forse per provare la sua forza, una mamma giraffa con il piccolo che bevevano abbassandosi sulle zampe quanto più potevano piegando quel collo lunghissimo, una gruppo di antilopi che venne sorpreso da un branco di leoni, mentre si abbeverava ai bordi di un corso d’acqua, e di conseguenza assistemmo all’inseguimento di un’antilope, finché potemmo, poi si allontanarono dalla nostra vista e non sapemmo mai se fu catturata. Meglio così disse il mio babbo, non sarebbe una bella scena da vedere, anche se è la legge della natura. Così trascorsero i sette giorni del viaggio, tra gite, giochi con i bambini, canti e balli dopo cena con l’atmosfera suggestiva creata dai fuochi. E quando l’ultimo giorno, prima di partire, salutammo tutti, anche se il pensiero di una vera doccia e del nostro letto era forte, ci dispiaceva lasciare quella gente così allegra e quell’oasi incantata di pace. Il ricordo di quei giorni rimarrà sempre in noi.