Riforma della destra sul mercato del lavoro

I nuovi contratti 

Non è agevole fare comparazioni tra tipi di contratti utilizzati da paesi  diversi per storia e tradizioni anche sindacali. In questi casi occorre infatti tenere sempre presenti le specificità produttive, il sistema complessivo di welfare state, le tutele esistenti dentro e fuori le aziende. Tuttavia proveremo ad analizzare come funzionano all’estero alcuni istituti recentemente introdotti in Italia dalla legge di riforma del mercato del lavoro.

Job on call
o lavoro a chiamata

E’ una particolare tipologia contrattuale per cui il prestatore d’opera è permanentemente a disposizione dell’azienda, che lo chiama “in servizio” in base a esigenze produttive improvvise e non prevedibili relative a particolari necessità di ordine tecnico, così come definite nei contratti o nelle leggi. Il preavviso di chiamata può variare da alcuni giorni a poche ore. Il lavoratore percepisce comunque sempre una “indennità di disponibilità” a cui si sommerà il pagamento della prestazione realmente svolta.  
Il lavoro a chiamata è principalmente diffuso negli Stati Uniti, in particolare nel settore del terziario e della stessa pubblica amministrazione (a livello di contea e di servizi ex-pubblici ora privatizzati). In Europa l’unico paese in cui si sta seriamente puntando sul nuovo strumento è l’Olanda  (in parte anche il Belgio dove però il lavoro a chiamata è riservato ad alte professionalità in special modo nel settore dell’informatica e della consulenza aziendale).
Nei due paesi europei (dove il lavoro a chiamata è definito anche stand-by workers) la legge prevede limiti relativamente alla tipologia dei potenziali lavoratori, escludendo fasce particolari come ad esempio i più giovani (per cui vige lo specifico contratto di apprendistato) o i soggetti socialmente più deboli. Questo a differenza dell’ Italia dove la nuova norma estende, anche se in via sperimentale, anche ai giovani e ai disoccupati di lunga durata over 45 anni, la possibilità di essere “chiamati”.
In Italia l’unico tentativo di introdurre attraverso la contrattazione (non essendoci all’epoca una legge) questo istituto è stato compiuto alla Zanussi, nella primavere del 2000, attraverso un accordo separato con Cisl e Uil successivamente respinto da un referendum di tutti i lavoratori.
Infine va ricordato come in Germania, dove a legge prevede questo particolare tipo di contratto, (e anche per questo il ricorso è minimo) una sentenza della Corte federale ha portato l’indennità di disponibilità a un minimo comunque non inferiore al 30% del salario giornaliero eventualmente corrisposto in caso di effettiva prestazione di lavoro.
I dati sull’occupazione non segnano comunque una particolare incidenza (circa il 4% della nuova occupazione in Usa e il 3,6% in Olanda) di questo strumento e sono di difficile computo (in Belgio di fatto siamo al confine con la prestazione autonoma).

 

 

Job sharing
o lavoro ripartito
Il contratto di lavoro ripartito o job sharing è stato introdotto solo di recente nel mercato del lavoro italiano, mentre rappresenta una formula diffusa negli Usa, dove fece la sua comparsa già alla fine degli anni 60 per far fronte alle sempre più marcate esigenze di flessibilità.
Il job sharing, da noi definito come il contratto con il quale due o più lavoratori subordinati si obbligano in solido nei confronti di un datore di lavoro per l’esecuzione di una unica prestazione lavorativa, trova una definizione corretta nell’esperienza statunitense. Il Federal Personnel Manual nel 1985 lo definisce come “una forma di impiego part-time nella quale l’insieme dei diritti e dei doveri di due o più lavoratori sono combinati in tal modo da ricoprire una singola posizione lavorativa a tempo pieno”, anche se l’esperienza americana maturata negli anni successivi ha conosciuto ipotesi di lavoro ripartito innestato anche su posizioni lavorative a tempo parziale.
Non bisogna però confondere il job sharing con altre fattispecie contrattuali, anche se le differenze non sono così rigide come nel nostro ordinamento, quali in primo luogo il part-time (nel quale ogni singolo lavoratore è esclusivamente responsabile dell’adempimento della propria obbligazione lavorativa, mentre nel cd. lavoro ripartito o in coppia ogni lavoratore è in solido obbligato per l’intero della prestazione lavorativa dedotta in contratto, per cui è richiesta tra i lavoratori una massima cooperazione, comunicazione e fiducia); il job splitting che consiste nella pura semplice suddivisione di un posto di lavoro a tempo pieno in due posti di lavoro a part-time, dando così luogo a due posizioni lavorative ben distinte, i cui relativi rapporti si svolgono in maniera indipendente; il flexi time (contratto di lavoro a tempo libero) che consiste in una forma di regolamentazione dell’orario di lavoro caratterizzata da una più o meno ampia facoltà del lavoratore di variare di giorno in giorno la collocazione temporale della prestazione, rispettando però il vincolo di una predeterminata estensione temporale della prestazione stessa nell’arco della singola unità di tempo (giorno, settimana, mese).
Il job sharing è inoltre diffuso in Europa (soprattutto Austria e nord Europa) essendo stato richiesto come tipologia di lavoro anche da molti lavoratori e sindacati. Occorre però qui fare alcune precisazioni: le grandi battaglie del sindacato austriaco e soprattutto svedese partivano dal fatto che il lavoro condiviso, inteso come da noi si intende il part-time regolato, fosse uno strumento per facilitare la conciliazione di tempi tra vita famigliare e lavoro, soprattutto delle donne. Tanto è che in Svezia le causali e le forme di controllo sono assai rigide, regolate sia da contratti che da specifiche leggi di settore. In Norvegia poi il ricorso al lavoro ripartito è un ricorso soprattutto a carattere “difensivo” ovvero come strumento di contrasto di licenziamenti dovuti a crisi aziendale, attraverso la riduzione dell’orario pro-capite.

Anche in Italia in realtà il job sharing già esisteva ed era (ed è) espressamente previsto dai Ccnl del turismo e del terziario. Del resto  questo tipo di contratto è stato introdotto dalla circolare ministeriale n. 43 del 7 aprile 1998. Ecco, in breve, cosa diceva la circolare:
- il contratto di lavoro ripartito deve essere chiaramente distinto dal contratto di part–time; non può quindi dare origine a due rapporti di lavoro distinti.
- I lavoratori devono informare il datore di lavoro, con cadenza almeno settimanale, della distribuzione dell’orario di lavoro.
- In caso di assenza dei due lavoratori, il datore di lavoro può pretendere legittimamente dall’altro l’adempimento dell’intera prestazione.
- Per quanto riguarda le prestazioni previdenziali ed assistenziali e le relative contribuzioni, commisurate alla durata della prestazione lavorativa, i contraenti sono assimilati ai lavoratori a tempo parziale.
La circolare specifica comunque che tutte queste indicazioni “in mancanza di una auspicabile regolamentazione della fattispecie da parte della contrattazione collettiva nazionale aziendale”, possono essere meglio regolate dalla contrattazione individuale tra i lavoratori e il datore di lavoro stesso, salva l’applicazione della normativa generale in materia di rapporto di lavoro subordinato. Il contratto richiede la forma scritta.

Il Job sharing si distingue dal part-time italiano per queste caratteristiche:
- l’obbligazione in solido tra i due contraenti, che presume inoltre uno stretto rapporto di fiducia fra i lavoratori coobbligati;
- la ripartizione, in percentuale, dell’orario di lavoro fra i lavoratori interessati, indicando anche il giorno, il mese e l’anno, anche se vi è la possibilità di modificare in qualsiasi momento detta percentuale.
Che succederà  in caso di maternità o servizio militare o malattia - che coinvolge uno dei due lavoratori che “lavorano in simbiosi”-  non è però mai stato chiarito dal legislatore ed ora la nuova legge, al riguardo, non dice nulla in più.

 

 

Staff leasing 
Lavoratori a tempo indeterminato in affitto
Già dalla definizione si coglie la novità assoluta della nuova forma contrattuale, nonché la sua “intima contraddizione”. Non ci troviamo infatti in presenza di una nuova forma del lavoro interinale, ma a qualcosa di ben diverso (e peggiore). Lo staff leasing è una tipologia di lavoro per cui si può essere dipendenti a tempo indeterminato di una società che fornisce manodopera ma lavorare per trent’anni presso un’ altra l’azienda. Non esistono in Europa casi simili. Qualcosa del genere è stato introdotto negli Usa dove è formalmente nato - le prime esperienze risalgono agli anni 60 – ma sempre rivolto in specifico  a medici e avvocati. La nuova tipologia contrattuale era infatti finalizzata a ridurre i costi dei contributi pensionistici e la riforma fiscale del 1982 varata da Washington aveva introdotto incentivi fiscali pensati per promuovere il leasing di lavoratori altamente qualificati. I risultati più evidenti si sono registrati, comunque, nella seconda metà dagli anni 90 quando il boom economico ha fatto decollare il business delle società specializzate al ritmo del 25% di crescita annuo e quanto lo staff leasing è stato autorizzato per tutte le figure “ad alta professionalità riconosciuta”. Le aziende (caduto l’originario vincolo che la legge impone ) hanno avuto così la possibilità di fare a meno di uffici del personale che si occupassero di normativa del lavoro, pagamento di tasse e contributi, controversie o contrattazione sindacali. A tutto ciò, infatti, ci pensano ora le società specializzate che assumono i lavoratori, mentre alle aziende affittuarie non resta che dirigere il personale messo a loro disposizione. Le aziende specializzate in staff leasing, concentrate soprattutto in Texas, California, Florida e Michigan, riescono così a ridurre i costi per le imprese clienti di più del 50%.

Occorre ricordare comunque che nell'interpretazione e nell'applicazione del diritto del lavoro, sia federale sia statale, per definire gli obblighi di ciascuna delle parti da qualche anno a questa parte le principali corti considerano le funzioni effettivamente svolte, al di là degli accordi contrattuali formalizzati, come base per ogni sentenza. Per evitare le incertezze normative diversi Stati hanno comunque legiferato in proprio, anche se l'approccio più diffuso resta quello dell'autoregolamentazione.