DE BELLO GOTICO di Walter Strata

 

 

Ed ecco il racconto, scritto in maniera veramente apprezzabile, dal generale a riposo WALTER STRATA che, durante l’ultima guerra, ha combattuto in Garfagnana in qualità di Sotto Tenente comandante di plotone nel 3° Btg del 1° Rgt della Divisione ITALIA .

 Quello che segue è tratto dal libro La linea gotica fra la Garfagnana e Massa Carrara settembre 1944 – aprile 1945  di Davide Del Giudie e Riccardo Mori – Volume II – Edizioni Ritter, pagg. 39-55 , all’interno del quale è inserito il racconto di Walter Strata.                                                 

 

 

                                                                                      DE BELLO GOTICO

 

Nel mese di Aprile 1944 sono stato assegnato dal Distretto a Centro di reclutamento di Vercelli da cui, dopo pochi giorni, con una tradotta militare, sono stato avviato in Germania assieme a centinaia di altri reclutati. Giunto, dopo una settimana di viaggio, ad Heuberg Lager, sono stato incorporato nella costituenda Divisione Bersaglieri ITALIA. ( Nell’autunno) Questa era l’ultima delle quattro Grandi Unità combattenti previste dall’accordo Mussolini-Hitler, a non essere ancora rientrata in Italia. Correva anzi voce che i 12000 uomini che la componevano sarebbero stati trattenuti come lavoratori in Germania. L’intervento deciso di Mussolini ha permesso che l’ITALIA, in dicembre, rientrasse in Patria come unità combattente.

 Mi vengono in mente alcuni momenti e alcuni fatti del mio soggiorno ad Heuberg: l’addestramento era severo ed efficiente in ogni branca dell’attività militare, con una grande cura e pignoleria anche nei minimi dettagli; l’esempio degli istruttori tedeschi era continuo ed esisteva una parità di trattamento per tutti, indistintamente dal grado rivestito. Poco prima del rientro in Italia avevamo già dei soldati perfettamente addestrati al combattimento e che si muovevano, in ordine chiuso,  come un sol uomo, inquadrati con precisione, al ritmo cadenzato delle canzoni militari, quali mai eravamo riusciti ad avere prima in Italia nel nostro Regio Esercito. Ricordo ancora il rimpianto di aver dovuto lasciare il cappello alpino e la riluttanza a fregiarmi dei gladi al posto delle vecchie gloriose stellette.

 Altro ricordo indimenticabile, l’accoglienza e l’alloggio avuto presso una famiglia tedesca (Herr Arnold Sauter) di Messtetten, un paesino vicini al campo, che mi trattò come uno della famiglia. Il signor Sauter era alle armi sul fronte di Bologna ed aveva lasciato in Germania tutta la famiglia composta da sole donne e bambini. Durante la trasmissione alla radio del bollettino di guerra, anche durante i pasti, tutti si alzavano in piedi e lo ascoltavano in silenzio. Il fatto che fossi ospitato presso una famiglia tedesca era dovuto alla carenza, per noi ufficiali, di posti nelle baracche del lager, almeno per tutto il primo periodo di addetramento in comune per tutti gli ufficiali e sottufficiali italiani.

 Durante la nostra permanenza ad Heuberg che, oltre a noi italiani e tedeschi, ospitava anche una pletora di prigionieri e collaboratori di vari paesi, il cielo veniva sorvolato da centinaia di bombardieri a lungo raggio “Liberator” (le famose fortezze volanti) che non hanno mai sganciato una sola bomba sul campo. Certamente i piloti erano al corrente della presenza di molti loro prigionieri. Era talmente divenuto usuale questo fatto che non correvamo nemmeno più nei rifugi predisposti, ma guardavamo il cielo solcato da questi enormi aerei con le loro scie argentee, dovute alla condensazione dell’aria in coda. Quando, verso il mese di dicembre, la nostra speranza di rientrare in Italia era quasi tramontata, durante una esercitazione di combattimento nei boschi e negli abitati, arrivò l’ordine di rientro immediato nei nostri alloggiamenti per il successivo avviamento in Patria. La nostra gioia non aveva più limiti e non ci saremmo mai immaginati quello che in seguito avremmo dovuto sopportatre e subire. Rapidamente si provvide all’approntamento della partenza che avvenne qualche giorno dopo.

 Vale qui la pena di raccontare il dramma del trasferimento di una divisione di 12000 uomini, con tutto l’armamento e l’equipaggiamento al completo, perché mi rimane ancora il ricordo doloroso di quel periodo. Il viaggio fu effettuato in ferrovia dalla Germania fino a Mezzecane (VR), dopo di che: gambe in spalla e con l’ausilio dei carrettini di compagnia, a piedi, attraverso la Val Padana, in direzione sud. (le ferrovie erano quasi tutte interrotte o inefficienti). Via Mantova, Parma, Fornovo del Taro, strada della Cisa. Era inverno, c’era mezzo metro di neve ed il nostro equipaggiamento non era dei più adatti; però si procedeva, lentamente, di notte, perché di giorno era impossibile qualsiasi trasferimento per la presenza continua dei soliti quattro “Spitfire” sempre alla ricerca di carne da bucare o per mitragliare anche la minima traccia di movimento sia dei civili che dei militari. Anche nottetempo abbiamo subito, lungo la strada, diversi mitragliamenti a casaccio, tanto per tenerci all’erta. E’ stata una vera epopea, infinita e angosciosa; la stanchezza e il freddo ci attanagliavano le carni e al mattino non vedevamo l’ora di buttarci a dormire dove capitava, purchè al coperto. Durante tutto il trasferimento non abbiamo mai avuti incontri o scontri con i partigiani,  sia perché eravamo una forza troppo consistente da attaccare senza gravi rischi,  sia perché durante il periodo di sosta invernale in tutto il teatro delle operazioni, a causa delle condizioni climatiche, era stato ordinato dal Comando Alleato ai comandi partigiani di sospendere ogni attività bellica, di nascondere le armi e di riassumere i panni di pacifici borghesi, in attesa della ripresa delle operazioni in primavera. Il morale della truppa non era alle stelle; buona parte erano stati reclutati forzatamente o per paura di rappresaglie, ma ciononostante, in quel periodo, non ci sono state defezioni di rilievo.

 Dopo circa un mese dall’inizio del viaggio, alla fine di gennaio 1945, la Divisione, dopo aver subito un tremendo mitragliamento-bombardamento aereo a Pontremoli, con parecchie perdite, giunse in zona di operazioni: Aulla e poi verso Castelnuovo Garfagnana, nostro luogo di attestamento. Man mano che si procedeva lo spettacolo del terreno circostante e della natura era impressionante: ruderi di case diroccate,  tronchi d’albero spezzati, enormi buche nel terreno, il tutto provocato dall’incessante bombardamento a lunga gittata dell’artiglieria avversaria e dal continuo spezzonamento dei caccia-bombardieri.

 Siamo arrivati nel nostro settore di fronte della P.R. (Postazione di resistenza), letteralmente la Prima Linea) a fine gennaio, nella vallata della Turrite Secca e, nottetempo, abbiamo preso possesso dei bunker e dei ricoveri sul crinale delle Alpi Apuane, prendendo le consegne dai reparti della San Marco. Sulla nostra destra si ergeva il monte Pania Secca. Giù dal crinale, in basso,  si trovavano i paesi di Calomini e Vergemoli, occupati dalle forze americane.

 Al mattino seguente, come benvenuto, siamo stati salutati da un incessante carosello aereo che ci ha costretto a rimanere inchiodati nei rifugi per tutta la giornata.

 Gli avversari sapevano sempre in precedenza tutti i nostri movimenti, attraverso la loro fitta rete di informatori. Di contraerea nostra neppure l’ombra; pertanto per i piloti alleati si trattava di un semplice tiro al bersaglio, senza rischi, anche a bassa quota. Ricordo però l’episodio, quasi incredibile, di un caccia avversario abbattuto dal tiro di nostre armi automatiche.

 Durante questo primo periodo mi sovviene l’episodio della morte del nostro interprete, austriaco, Andexlingen, uomo buono e pacifico, di vasta cultura, che venne letteralmente decapitato da una scheggia di mortaio pesante mentre, in posizione defilata (così almeno credeva lui), era intento alla lettura di un libro di storia antica.

 Ogni nostro reparto, a livello di Compagnia, aveva, fin dalla nostra partenza dalla Germania, un consulente o guida militare tedesco: mi ricordo del mar. Wawretscka, del caporale Le Buhler ed, a più alto livello, del ten. Mensh, un vero prussiano, duro e inflessibile.

 Veniamo ora all’episodio del battesimo del fuoco per il nostro reparto: mi riferisco all’attacco per la ripresa del paese di Calomini, avamposto americano della 92^ Divisione Buffalo, composta prevalentemente da uomini di colore.

 Rapporto notturno di noi ufficiali alle ore 20 del 5 febbraio; diramazione dell’ordine di operazioni con obiettivo, direzione e compito; il tutto molto rapidamente. Il reparto di formazione era composto da alcuni uomini della San Marco (in funzione di guida e con la conoscenza dei campi minati, per esservi stati prima di noi e per averli deposti, con l’apertura di alcuni varchi), da un plotone di berasglieri, con l’appoggio di una squadra di mitraglieri. L’azione doveva essere accompagnata da due batterie del Gruppo Bergamo che operavano sul retro delle nostre linee.

 Comandava il reparto il tenente Peyretti, comandava un gruppo del plotone bersaglieri il sottotenente Strata, partecipava un altro sottotenente, rimasto ferito nell’azione, di cui non ricordo né il nome né l’incarico. Precedeva una squadra pionieri che aveva conoscenza dell’itinerario dei varchi.

 Giunto col mio reparto ad un centinaio di metri dalle prime case del paese, costeggiammo una siepe che ci sembrava agevolare l’avanzata in maniera defilata (devo precisare che la notte era illune e il buio assoluto). I due uomini di testa (si procedeva in fila non potendo spiegarsi per via del terreno e dei varchi), il caporale Tonelli ed un altro bersagliere di cui non ricordo il nome, decisero di accorciare le distanze, infilandosi nella fitta siepe di rovi spinosi e sbucando in zona aperta e prativa, seguiti da tutti gli altri. Dopo alcuni metri, i due bersaglieri caddero rovinosamente in una buca per tiratori, occupata da un militare di colore che dormiva o sonnecchiava. Costui saltò fuori urlando e abbandonando arma e parte dell’equipaggiamento, inseguito dalle raffiche di arma automatica dei due bersaglieri. A questo punto, compromesso il fattore sorpresa, tutti ci portammo rapidamente alla stradina d’ingresso del borgo, predisponendoci all’attacco.

 Un bersagliere armato di Panzerfaust prese di mira una casetta all’inizio del paese, sede del comando, centrando una finestra. La fiammata posteriore del razzo in partenza colpì gravemente ad un braccio un bersagliere che avanzava alle spalle e che si mise ad urlare dal dolore. Bisogna tener presente che lo spazio per muoversi era molto limitato, il buio assoluto ed i varchi per il passaggio pochi e difficilmente riconoscibili.

 Nel frattempo, nel giro di pochi minuti, ogni csa del paese si animò di difensori ed il fuoco di arresto automatico di sbarramento ci investì da tutte le parti. Un inferno indescrivibile, al quale cercammo di trovare riparo sparpagliandoci per quanto era possibile. Centinaia di scie luminose dei proiettili traccianti parevano tutte indirizzate su ciascuno di noi. Molti, fra i quali il tenente Peyretti e un altro ufficiale di cui non ricordo il nome furono colpiti.

 A questo punto, vista la gravità della situazione e l’impossibilità di proseguire allo scoperto senza gravissime perdite, il ten. Peyretti dette l’ordine di ripiegamento. Venne soccorso e trasportato in barella verso le nostre linee, dopo una dura e ardua marcia nella notte e attraverso i fitti boschi di castagni che hanno salvato la vita a molti di noi. Durante tutto il ripiegamento fummo accompagnati dal tiro e dai colpi dei mortai leggeri. La mancanza di precisione, sia delle armi automatiche, sia dei mortai dovuta all’oscurità più assoluta e alla fitta boscaglia ha salvato la vita di molti, fra cui quella del sottoscritto che, all’ordine di ripiegamento, si è buttato sul lato esterno dentro il bosco assieme a due bersaglieri, riparandosi dietro un grosso tronco di castagno, colpito ripetutamente dalle traccianti, aspettando che la furia dei proiettili si calmasse. Quando la situazione si fu alquanto normalizzata, ripresi con i due bersaglieri il cammino di rientro verso le nostre linee. I due soldati oltre all’armamento individuale, portavano anche il fucile semiautomatico Garand, catturato dentro la buca in cui erano caduti, più alcuni capi di equipaggiamento abbandonati dal militare di colore al momento della fuga. E’ stato il primo Garand   che abbiamo visto e che in seguito ho sempre portato con me fino al termine delle operazioni. Dopo molte ore di cammino, spese in gran parte per superare un campo di mine a strappo in cui eravamo incappati davanti alle nostre posizioni, siamo riusciti a rientrare nel nostro bunker.

 Era ormai giorno fatto ed abbiamo visto arrivare barellato il ten Peyretti che sembrava senza vita.

 Alcuni giorni dopo questi fatti, poiché il paese di Calomini sembrava abbandonato, senza più l’andirivieni di truppa che normalmente si notava, ebbi il compito, assieme a due graduati, di ritornare nel paese per accertare la presenza di forze avversarie. Solita partenza di notte, nel massimo silenzio, ed arrivo alle prime case del borgo. Addossati al riparo di un muretto, abbiamo notato nell’oscurità muoversi un’ombra sotto un porticato.

 Mentre studiavamo il da farsi, un razzo illuminante partito da sotto il portico, ci è sfrecciato fra le gambe senza conseguenze. Abbiamo risposto con alcune raffiche di arma automatica, indietreggiando, inseguiti dal fuoco avversario e, subito dopo, dall’intervento dei mortai leggeri che ci hanno accompagnato fino al nostro rientro. Il paese era occupato e ben difeso; il nostro compito era stato portato a termine. Se il razzo fosse stato diretto verso l’alto invece che rasoterra, difficilmente ci saremmo salvati perché illuminati in pieno.

 Sulla linea di cresta occupata dalle nostre forze non c’era molto da fare se non  ripararci dalla quotidiana presenza dei cacciabombardieri ed occultarci quando il ricognitore Pippo  era sulla nostra verticale. Quasi ogni settimana, però, a turno fra le varie compagnie, eravamo distaccati con un plotone ai posti avanzati: davanti a Calomini in un metato ( essiccatoio per castagne) o dvanti a Vergemoli, in località Le Tese, in una baita metato con annessi due fienili. L’attività in questi due posti avanzati era limitata al controllo degli unici sntieri di accesso alle nostre posizioni. Predisponevamo una difesa perimetrale all’esterno, in buche o dietro muretti di sassi, con armi automatiche in postazione, 24 ore su 24, dopo aver stabilito i turni di guardia. Sulla parte anteriore avevamo un campo minato di ordigni interrati.

 Durante uno di questi servizi, davanti a Calomini, ho avuto la sgradita sorpresa (era verso la metà di aprile) di venire svegliato al mattino dal turno di servizio montante, con la notizia che tutte le buche erano state abbandonate (con tutte le armi in postazione) dagli uomini del turno notturno precedente, in numero di quattro, che avevano disertato, passando, attraverso la terra di nessuno, al nemico. Il comando, avvertito subito telefonicamente dell’accaduto, ha provveduto alla sostituzione con altre forze. Mi rincresce ancor di più aver constatato che tra i disertori figurava pure il mio attendente, bersagliere Trevisan, e il caporale Tonelli, uno dei due dell’episodio di Calomini.

 Voglio qui menzionare altri pochi nominativi del mio plotone che ancora ricordo: serg.magg. Creazzo, serg. Micera, bers. Cristianini, cap.magg. Cutter, che hanno seguito con molti altri sino alla fine le sorti del reparto.

 Sovente nei nostri turni di sorveglianza ai P.A. (Posti Avanzati) dovevamo intervenire contro pattuglie nemiche che, nottetempo,  cercavano di sorprenderci e passare attraverso i pochi varchi di possibile transito. Bastava, però, una semplice reazione di armi automatiche già predisposta per l’arresto, per scongiurare ogni pericolo. Le nostre posizioni, sia ai P.A. sia sulla posizione diresistenza in vetta, erano imprendibili via terra e frontalmente, con dei passaggi obbligati difendibili con una sola mitragliatrice e con il prezioso aiuto dei campi minati e del reticolato fornito di numerosi campanelli d’allarme. Tanto è vero che il nostro successivo arretramento è avvenuto solo per il cedimento dei settori laterali di tutto il fronte.

 Sulla nostra destra avevamo un baluardo intransitabile nel monte Pania Secca con i suoi 1711 metri di rocce innevate, che proseguivano nel Pania della Croce (mt 1858) e nel Pizzo delle Saette (mt 1720). Abbiamo anche constatato con una certa tristezza che, mentre noi non abbiamo mai avuto nessun cambio o avvicendamento durante tutta la nostra permanenza sulle Apuane, gli americani della Buffalo  e i brasiliani della forza di spedizione ricevevano il cambio in genere ogni quindici giorni; inoltre erano comodamente sistemati nelle case dei paesi occupati, mentre noi vivevamo come trogloditi nei bunker e nei ricoveri, in cima sul crinale della montagna, coperti di pidocchi e con pochissima acqua.

 Una giornata in cui mi trovavo con il mio plotone al P.A. di Vergemoli, siamo stati inquadrati dal tiro delle artiglierie da 155 mm. Piazzate davanti a noi a Trassilico e a San Pellegrinetto. Si trattava di un tiro al bersaglio, senza nessun pericolo per loro e suppongo lo considerassero tiro di addestramento. Dopo diverse salve di aggiustamento, mentre il personale del P.A. si era messo al riparo dietro la costruzione in muratura e in una piccola grotta adiacente che serviva da rifugio, una salva ha centrato in pieno i fienili incendiandoli, ed ha inoltre sfondato il tetto alla baita. Abbiamo atteso che il tiro fosse cessato per poter uscire, mentre il fuoco dai fienili minacciava di propagarsi alla baita. Alla fine siamo riusciti ad arginare le fiamme. Però i due fienili, che servivano come riparo e posto di osservazione, erano andati completamente distrutti assieme a tutto il fieno e rimamnevano in piedi, come scheletri fumanti, solo i muri perimetrali. Non ci sono state, fortunatamente,  né perdite né feriti. Il nemico, pago del visibile risultato ottenuto, non ha più ripetuto l’azione su questa località.

 Durante il mese di settembre 2000 ho avuto la soddisfazione di ritornare in quei luoghi, accompagnato in macchina dal mio figlio maggiore, ripercorrendo gli itinerari che dai paesi di Vergemoli e Calomini le pattuglie avversarie seguivano per giungere fino ai nostri P.A. Il terreno e le località erano rimasti immutati per la natura selvaggia dei posti e per la poca accessibilità. I sentieri di accesso, una volta ben segnati, non più praticati dagli abitanti del luogo, erano pressochè intransitabili e appena segnati a causa delle frane, degli alberi caduti e della folta vegetazione mai più tagliata. La baita del P.A. di Vergemoli era completamente diroccata, con il tetto ancora sfondato, con i ruderi dei due fienili, e piena di piante e erbacce.

 Ho sostato con mio figlio in raccoglimento per qualche minuto, nel ricordo di quanto avevo vissuto e sofferto in quei luoghi 55 anni prima, e con un pensiero di riconoscenza e di riverente omaggio per tutti coloro che qui avevano immolato la loro giovane vita.

 Tutto intorno, in una giornata di splendido sole, c’era un silenzio irreale appena rotto, di quando in quando, dal canto degli uccelli. Il panorama che si godeva di lassù era magnifico ed il lontano rintocco di qualche campana rendeva più suggestiva la scena. Una preghiera ed un augurio sorgevano spontanei dal cuore: “Mai più guerre ! Mai più morti e distruzioni !!!”.

 La causa per la quale si era combattuto questi due anni in più di guerra, dopo i quattro precedenti, può essere discussa; non si può però mettere in discussione chi, per l’onore militare e per la dignità personale ha combattuto lealmente, per tenere fede ad un patto, pur con la consapevolezza che la lotta era impari ed erano già scontati l’esito e la vittoria finale.

 Tutto questo per riscattare un ignobile tradimento compiuto dai nostri vertici “reali”, militari e politici; su tutti costoro non si potrà mai più fare affidamento; su di noi, sì ! I militari in genere e quelli in carriera in particolare obbediscono agli ordini del governo che è in carica, a quel momento, nello stato in cui vivono, senza chiedersi se gli ordini siano giusti o sbagliati. Noi abbiamo obbedito e servito il governo della R.S.I. che governava l’Italia Settentrionale, mentre il governo dell’ex Regno d’Italia era fuggito vergognosamente al sud per salvarsi la pelle, non tenendo conto della dignità, dell’onore e degli obblighi assunti e sottoscritti.

 Noi, nel nostro animo, non condividevamo buona parte dei principi, delle leggi e dei provvedimenti che venivano emanati, ma non toccava a noi discutere la cosa. Non ci saremmo comunque mai macchiati di azioni riprovevoli e contrarie all’onore militare.

 Passiamo ora all'ultimo tratto della vicenda: durante un nostro servizio di durata settimanale, al Posto Avanzato di Le Tese, davanti al paese di Vergemoli, verso il 16 - 17 aprile (1945), ci siamo trovati al mattino con una strana sensazione di calma insolita. Abbiamo volto lo sguardo verso il crinale della nostra linea difensiva e lo abbiamo visto animato da sagome indistinguibili. Poiché il fatto esulava dalla norma, abbiamo cercato telefonicamente il contatto con il nostro comando. Invano, perché nessuno rispondeva. Abbiamo allora cercato di metterci in contatto, comunicando con il paritetico Posto Avanzato laterale, davanti a Calomini. All'ufficiale comandante di questo posto abbiamo riferito le nostre perplessità. Dopo di che, risultando vana ogni comunicazione telefonica, decisi di inviare una pattuglia in ricognizione. Al suo ritorno questa riferiva che la P.R (Posizione di Resistenza), ossia prima linea, era percorsa da molti civili che stavano saccheggiando i ricoveri, mentre non c'era traccia di nostri militari, né tanto meno di nostri comandi. Avuta questa notizia, e dopo averla comunicata al mio collega dell'altro Posto Avanzato, decisi di ritirarmi, per il solito percorso, fino alla linea di cresta, per tentare di trovare traccia delle nostre unità. Prima, sempre con la consulenza del nostro maresciallo tedesco, abbiamo abbandonato le armi pesanti di reparto e il munizionamento superfluo, facendoli precipitare in un dirupo; abbiamo poi inscenato una spettacolare azione di mitragliamento, di alcuni minuti, verso le posizioni avversarie, con l'intento di segnalare che la nostra presenza sussisteva ancora e che nulla era cambiato. Giunto in vetta ho constatato di persona la verità di quanto riferito dalla pattuglia. Eravamo stati abbandonati al nostro destino senza alcuna comunicazione né ordini. Rendendomi sempre più conto che dovevamo ormai contare solo su di noi, ho provveduto a disperdere i civili che stavano razziando le nostre cose.  Successivamente, poiché si trovava nelle riservette in loco una notevole quantità di munizioni di vario genere, di mine, di inneschi e di bombe a mano e centinaia di bombe da mortaio da 81 mm., le abbiamo accatastate e le abbiamo innescate con una miccia a lenta combustione, discendendo poi verso il vallone sottostante. Dopo circa una decina di minuti, una enorme deflagrazione ha scosso la vallata e una densa nuvola di fumo nero si è alzata alle nostre spalle. Poco dopo siamo stati inseguiti da colpi di artiglieria di grosso calibro che non ci hanno procurato alcun danno perché sparati a casaccio. L'avversario si era forse finalmente accorto che qualcosa era cambiato nel settore. Proseguendo nel nostro cammino, sempre in fila indiana, io in testa, il maresciallo tedesco in coda, mentre percorrevamo un sentiero che costeggiava un burrone sulla sinistra e con una parete a strapiombo sulla destra, abbiamo incrociato un tizio in borghese che portava uno zaino militare e un ombrello e che stava dirigendosi verso le nostre linee avanzate. E' stato giocoforza fermarsi perché lo spazio non permetteva il passaggio di due persone affiancate. Ho intimato al civile di consegnarmi lo zaino militare e, con mia sorpresa, alzata la bandella superiore, ho letto scritto con l'inchiostro di china nero un nome: sottotenente Strata Walter. Si trattava proprio del mio zaino che era stato prelevato in precedenza nel mio bunker e che avevo invano cercato. L'ho trovato privo di tutto il mio vestiario e degli oggetti personali, tra i quali una macchina fotografica, con diversi rullini già impressionati, per me preziosissimi; in compenso, ho trovato una trentina di paia di calze nuove con le quali, successivamente, sono riuscito a giungere fino a casa, con frequenti cambi di pedalini. Ho redarguito l'individuo, che era molto impaurito dalla situazione nella quale era venuto a trovarsi: ma non ha saputo darmi valide spiegazioni per essersi appropriato di oggetti altrui. Con un moto di rabbia, allora, gli ho strappato l'ombrello di mano, scaraventandolo nel burrone. Nel frattempo si era avvicinato il maresciallo tedesco per sapere della sosta e che cosa l'aveva provocata; quando ha saputo del fatto voleva a tutti i costi spingere nel burrone anche il malcapitato al che mi sono decisamente opposto facendo presente al sottufficiale che eravamo dei soldati e non degli assassini, ed ho lasciato proseguire quello sciagurato più morto che vivo dalla paura. Noi che abbiamo vissuto per diverso tempo a contatto con la gente del luogo, che non aveva voluto ritirarsi, malgrado tutti i pericoli del fronte, e con la quale ci siamo aiutati reciprocamente, noi fornendo loro sovente viveri e sigarette, e loro fornendoci i loro servigi remunerati in denaro, noi, ripeto, conoscevamo i brutti momenti che avevano vissuto per la mancanza di cibo sufficiente e per essere continuamente sottoposti al pericolo di essere colpiti anche se defilati. Pertanto il loro desiderio di poter racimolare qualcosa da vendere o indossare, in quelle circostanze, era più comprensibile, almeno per noi italiani.                                                                                                                                                  Chiusa questa parentesi, e sempre dirigendoci verso nord-ovest, siamo finalmente riusciti a raggiungere la sede del nostro comando. Quando abbiamo lamentato la mancanza di ogni comunicazione, sia telefonica sia a mezzo staffetta, della ritirata delle truppe dalla Posizione di Resistenza, ai Posti avanzati di Calomini e Vergemoli, lasciati abbandonati al loro destino, ci è stato risposto in maniera evasiva, ma che non ricordo bene, perché la situazione stava precipitando e c'era altro a cui pensare. Il Comando Battaglione nel bailamme in cui si viveva, con episodi bellici frazionati e senza più direttiva univoca e ben precisa per tutti i reparti dipendenti, decise di costituire un caposaldo, credo sulle alture di Soliera, con tutti i rimasugli delle forze che che erano arretrate, per tentare di bloccare l'avanzata degli americani che di lì a poco si sarebbero presentati. In quest'ottica il comando mi ordinò di partire, con quello che rimaneva del mio plotone, in perlustrazione per ricercare il contatto visivo con il nemico ed in seguito riferire. La partenza avvenne di notte, senza carte topografiche e senza un preciso itinerario da seguire; dovevamo procedere a caso. Pur rendendoci conto della gravità della situazione e del momento particolare che stavamo vivendo, siamo stati molto delusi dalla mancanza di organizzazione e dal senso di smarrimento che si notava nei comandi. Sempre in virtù del senso del dovere e della disciplina nell'obbedire agli ordini ricevuti, abbiamo intrapreso il nostro cammino, percorrendo un lungo tratto di strada per sentieri e viottoli diversi, non rendendoci neanche conto di dove stavamo andando e perché. Verso le prime luci dell'alba, quando un incerto chiarore è riuscito ad illuminare il terreno circostante boscoso e scosceso, ci siamo ancora infiltrati fino a raggiungere un canalone asciutto. Qui abbiamo fatto una breve sosta per orientarci con la luce del giorno. Improvvisamente abbiamo udito il classico rumore, proveniente da un'altura sovrastante circa un centinaio di metri, dei colpi di partenza di mortaio. Dopo una decina di secondi, preceduta da uno sfarfallamento d'aria, una prima salva ci è esplosa, senza conseguenze, alle spalle. I mortai entrati in azione dovevano costituire circa due sezioni, contando la successione dei colpi in partenza. Ho ordinato immediatamente agli uomini di mettersi al riparo sotto il ciglio, perché mi ero reso conto di essere rimasto imbottigliato in una situazione estremamente pericolosa. Dopo pochi secondi, altra salva in partenza, questa volta corta davanti alle nostre posizioni. Dopo un brevissimo periodo, terza salva in partenza e obiettivo centrato in pieno. Il sottoscritto ed il gruppo di uomini a me vicini, colpiti in varie parti del corpo da una miriade di schegge, siamo rimasti per un attimo annichiliti e indecisi sulla decisione da prendere. Io, in particolare, ho avuto la fortuna di avere, oltre l'elmetto in testa, anche il famoso fucile Garand di preda bellica, che portavo sempre con me, per cui la bomba, centrando letteralmente il fucile, messo per traverso sul mio capo, lo spezzò, ma mi salvai dallo scoppio diretto sul corpo. Sono stato inondato di schegge dalla testa al torace, in tutta la parte destra del corpo. Il sangue usciva copiosamente da tutte le ferite e mi annebbiava la vista; però riuscivo a muovermi. Lo scoppio, inoltre, era stato talmente vicino che mi procurò la rottura del timpano all'orecchio destro (tempo dopo soffrii di una tremenda emorragia con dolori lancinanti). Considerata la situazione e prima di essere investiti immobili da altre salve di colpi, ho ordinato a tutti i miei uomini di ripiegare velocemente verso posizioni più riparate. A questo punto il racconto diventa quanto mai difficile perché il plotone si è frazionato, disperdendosi in varie direzioni nei folti gruppi di castagneti della zona. Io con altri due bersaglieri, pure loro feriti, ci siamo diretti verso una valletta boschiva, dove abbiamo avuto la fortuna di incappare in un nostro posto di medicazione, sistemato in un metato. Siamo stati sommariamente medicati, con l'estrazione delle schegge più superficiali, fasciati, e ci è stata inoltre praticata una dose di vaccino antitetanico. Abbiamo sostato in quel posto fino al primo pomeriggio, mentre il fronte di guerra, quanto mai frazionato in varie zone, ci oltrepassava e le pattuglie americane ci sfilavano tutto intorno senza accorgersi di noi. Mi ricordo che in un angolo del locale, per terra, giaceva un giovanissimo soldato tedesco, quasi un bambino, esangue per la perdita degli arti inferiori, stroncati dallo scoppio di una granata, che continuava a gemere: "Mutter! Mutter!".                                     

  Nel pomeriggio abbiamo ripreso il nostro cammino; non abbiamo più incontrato né reparti alleati, né reparti nostri che, nel frattempo, si erano sicuramente ritirati in cerca di una via di scampo. Per noi la guerra era finita: finita male, ma finita ! Eravamo in tre, come precedentemente detto: il Serg.Magg. Creazzo Libero di Roma, il caporal maggiore Cutter Tullio di Brescia ed il sottoscritto, tutti più o meno gravemente feriti. Arrivati verso serasulle rive di un fiume, che suppongo fosse il Serchio (1), ci siamo spogliati e buttati in acqua per ripulirci della sporcizia e del sudore che ci ricopriva e per controllare e stringere le fasciature delle ferite. Rivestitici, siamo risaliti sulla sponda opposta, giungendo verso sera in un paese di cui non ricordo il nome. Avevamo ancora le nostre uniformi e l’armamento individuale (pistola Beretta). Eravamo affamati ed assetati; ci siamo diretti verso la chiesa, buissando alla porta della canonica ed al parroco che ci aprì, tutto spaventato, facendoci entrare, abbiamo spiegato, per tranquillizzarlo, chi eravamo e la nostra situazione. Abbiamo così potuto finalmente mangiare qualcosa e bere del latte.

 Improvvisamente un crepitio di armi automatiche venne a rompere la quiete e il silenzio della sera. Il parroco allora ci pregò di allontanarci rapidamente, perché la sparatoria era opera di un gruppo di partigiani alle porte del paese, ed aggiunseche se fosse stato scoperto che ci aveva aiutati, ne avrebbe subito le conseguenze. Lo abbiamo allora ringraziato per il suo aiuto ed abbiamo ripreso la nostra marcia, a caso, nella notte.

 In tarda serata giungemmo ad un cascinale isolato; bussammo alla porta ed ai contadini che ci aprirono chiedemmo ospitalità per quella notte, perché eravamo davvero al limite della sopportazione. I buoni villici acconsentirono (anche perché eravamo ancora armati), alla condizione che consegnassimo loro le pistole. Non avevamo molto da scegliere e non volevamo certamente fare gli eroi, perciò cedemmo le armi che non ci servivano ormai più. Venimmo inoltre forniti di abiti civili, scambiandoli con le nostre uniformi.

 Si presentava ora un altro problema, che era quello del quasi certo incontro con qualche gruppo di partigiani che, a guerra finita, erano scesi coraggiosamente dalle montagne, uscendo dai loro nascondigli,  alla caccia di sbandati o per consumare impunemente vendette personali (non tutti fortunatamente avevano queste predisposizioni e questi sentimenti: dipendeva molto dal loro credo politico).

 Appena ci fummo sdraiati su un giaciglio nella stalla piombammo in un sonno profondo, mezzi morti per le ferite, il sangue perduto e la stanchezza infinita. Non eravamo destinati a riposare per molto tempo. Infatti a metà della notte fummo svegliati da un fascio di luce di una torcia elettrica, mentre una voce ci ordinava di alzarci. I partigiani (perché di loro si trattava), dopo un breve interrogatorio, riconosciutici come appartenenti alla Divisione Italia e senza colpe particolari se non quella di militanti nelle forze della RSI (e questo fatto era in molti casi sufficiente per essere inviati sommariamente all’altro mondo, a seconda di chi si incontrava e del gruppo politico di appartenenza), viste inoltre le nostre condizioni fisiche e le nostre ferite, dopo essersi assicurati che avevamo consegnato le armi in dotazione ai buoni villici (che, peraltro, la hanno dovute riconsegnare loro immediatamente) in uno slancio di generosità non comune ci fornirono un salvacondotto per essere medicati presso l’ospedale civile di Soliera, trasferitosi da Massa a causa dei bombardamenti.

 Era il 23 aprile 1945. Siamo rimasti alcuni giorni presso quell’ospedale, dove siamo stati curati e dove il personale medico ha cercato di estrarci tutte le schegge penetrate in profondità; siamo inoltre stati sottoposti ad una seconda somministrazione di siero antitetanico.

 Dopo alcuni giorni di relativa quiete, siamo stati “gentilmente” invitati da alcuni partigiani armatissimi ad accompagnarli al presidio di Fivizzano, dove si era installato il Comitato Comunale di Liberazione Nazionale per essere nuovamente sottoposti ad interrogatorio dai capi della zona che avevano tutti assunto nomi di battaglia ed, in parte, rivestito gradi militari. Siamo stati rinchiusi nelle carceri mandamentali, dopo essere stati depredati di tutti i nostri averi (io, in particolare, di 35000 lire, una somma considerevole per quei tempi, frutto dei miei stipendi, mai potuti spendere, degli scarponcelli nuovi in cambio di un paio di scarponi enormi e sfondati).

 Passata la notte in guardina, con molta preoccupazione per il nostro incerto futuro, poiché sentivamo, a tratti, raffiche di mitra che significavano l’avvenuta esecuzione sommaria di militari o civili (specialmente appartenenti alla GNR o alle BN), al mattino ci è stato consegnato un secondo salvacondotto che ci autorizzava a circolare per rientrare all’ospedale di Soliera. Ci siamo incamminati da Fivizzano verso Soliera tutti e tre, sempre insieme, quando, dopo un certo tratto di strada, mi si è gonfiato improvvisamente il volto e mi si sono chiusi gli occhi, tumefatti da uno strano gonfiore. Venutomi a mancare il senso dell’equilibrio, sono caduto a terra. I miei due compagni si sono subito prodigati per farmi rinvenire e mi hanno aiutato a raggiungere, a fatica, per i restanti chilometri, l’ospedale. Qui sono stato subito visitato e mi è stata riscontrata una reazione anafilattica, dovuta alla doppia somministrazione di vaccino antitetanico. Mi è stata praticata l’autoemapoiesi e nel giro di pochi giorni la situazione si è normalizzata.

 Passavamo le giornate sul piazzale davanti all’ospedale, in compagnia di una massa di civili sfollati dalle città bombardate o investite dalla guerra. Nel frattempo erano arrivati anche gli americani sulle loro jeep. E’ stato in quella circostanza che ho sentito per la prima volta suonare e visto ballare il boogie-woogie. Dopo altri giorni di degenza e di cure, verso i primi giorni del mese di maggio, abbiamo ottenuto dal Comando di Liberazione Nazionale di Fivizzano un lasciapassare individuale che ci autorizzava a rientrare in seno alla famiglia. Abbiamo lasciato l’ospedale dopo aver salutato e ringraziato tutti coloro che ci avevano aiutato e che avevamo conosciuto in quel periodo, e ci siamo incamminati verso Aulla. Qui le nostre strade si sono divise: infatti il serg.magg. Creazzo Libero doveva andare verso sud a Roma, il cap.magg. Cutter Tullio verso nord a Brescia ed il sottoscritto verso ovest ad Albenga, in Liguria. Ci siamo abbracciati, commossi fino alle lacrime, promettendo di rivederci o di risentirci appena possibile.

(Walter Strata)

 

NOTE: 1) E’ molto probabile che non si trattasse del Serchio. I protagonisti pare si trovassero ormai in Lunigiana, nei pressi di Soliera,  per cui il fiume poteva essere il Rosaro, affluente del Magra.

 

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