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Il "mobbing" è un termine nuovo che definisce
ed inquadra una problematica presente da tempo nel mondo del lavoro
di cui oggi si parla in quanto studi recenti e numerosi ne hanno evidenziato
la dimensione ed i costi aziendali e sociali, ma anche per gli adempimenti
nuovi introdotti dalla normativa sulla sicurezza sui posti di lavoro.
Problematica che, ci dicono le cifre, è in aumento, anche in relazione
alle nuove tipologie di lavoro (interinale, para-subordinato, etc). Recenti studi europei dimostrano trattarsi di un fenomeno esteso; 1 lavoratore su 10 ha subito nell'ambito del suo lavoro atti di intimidazione, mentre 1 ogni 25 violenze fisiche, ogni giorno afferiscono agli ambulatori della Clinica del Lavoro di Milano 7 nuovi casi di mobbing che vengono seguiti in Day Hospital. Definizione Il mobbing è una forma di terrore psicologico,
caratterizzato dalla ripetizione protratta nel tempo, che viene esercitata
sul posto di lavoro, ad opera di un superiore o di colleghi di lavoro
singoli o in gruppo, con lo scopo di eliminare una persona ritenuta
scomoda. Le forme che esso può assumere sono molteplici: dalla semplice
emarginazione alla diffusione di maldicenze, dalle continue critiche
alla sistematica persecuzione, dall’assegnazione di compiti dequalificanti
alla compromissione dell’immagine sociale nei confronti di clienti
e superiori. Riportiamo alcune definizioni partendo da quella
di Heinz Leymann, a cui si devono
i primi studi e la formulazione teorica, negli anni '80, del mobbing:
“In caso di conflitto, le azioni che hanno la funzione di manipolare
la persona in senso non amichevole, si possono distinguere in tre
gruppi di forme di comportamento. Un gruppo di azioni verte sulla
comunicazione con la persona attaccata. Un altro gruppo di comportamenti
punta sulla reputazione della persona, utilizzando strategie per distruggerla.
Infine le azioni del terzo gruppo tendono a manipolare la prestazione
della persona per punirla. Alcuni di questi comportamenti si possono
trovare nella comunicazione umana quotidiana o durante casuali litigi.
Solo se queste azioni vengono compiute di proposito, frequentemente
e per molto tempo, si possono chiamare mobbing”. Dall’Ente Nazionale per la Salute e la Sicurezza
svedese (la Svezia è il primo paese ad aver adottato una legge che
riconosce il mobbing come malattia professionale): “per persecuzione
si intendono ricorrenti azioni riprovevoli o chiaramente ostili intraprese
nei confronti di singoli lavoratori, in modo offensivo, tali da determinare
l’allontanamento di questi lavoratori dalla collettività che opera
nei luoghi di lavoro”. Harald Ege afferma: “con la parola Mobbing
si intende una forma di terrore psicologico sul posto di lavoro, esercitata
attraverso comportamenti aggressivi e vessatori ripetuti, da parte
di colleghi o superiori”. Il Comune di Losanna (assessorato
pari opportunità): “il mobbing è una situazione di comunicazione
non etica caratterizzata dalla ripetizione,
nel lungo periodo, da parte di una o più persone, di comportamenti
ostili diretti sistematicamente contro un individuo che sviluppa,
come reazione, gravi problemi fisici o psicologici. Esso costituisce
un processo di distruzione che può comportare l’invalidità permanente.
Due condizioni devono essere assolte affinché si possa affermare di
trovarsi in presenza di mobbing: la durata e la ripetitività
”.
Mobbing di tipo verticale: quando la violenza psicologica viene posta in
essere nei confronti della vittima da un superiore (nella terminologia
anglosassone questa forma viene anche definita bossing o bullying);
Mobbing di tipo orizzontale: quando l’azione discriminatoria è messa in atto
dai colleghi nei confronti del soggetto colpito.
Mobbing individuale: quando oggetto è il singolo lavoratore.
Mobbing
collettivo: quando colpiti
da atti discriminatori sono gruppi di lavoratori (si pensi alle ristrutturazioni
aziendali, prepensionamenti, cassa integrazione etc.)
Mobbing dal basso sia individuale
che collettivo: quando viene messa in discussione l’autorità
di un superiore.
A queste forme si deve affiancare una forma di
mobbing definibile sessuale
anche se non caratterizzato da contatto fisico. La violenza morale può manifestarsi con una molteplicità
di aspetti (che riportiamo, sapendo che è impossibile mettere insieme
in modo sistematico tutte le possibili azioni mobbizzanti):
Per le sue stesse caratteristiche si tratta di
un processo in continua evoluzione per cui fin dall’inizio i diversi
ricercatori hanno tentato una sua suddivisione in fasi. Leynmann ha proposto
un modello in 4 fasi che Ege ha adattato alla situazione italiana
pervenendo ad un modello in 6 0) condizione
zero; 1) conflitto
mirato; 2) inizio
del mobbing; 3) primi
sintomi psico-somatici; 4) errori
ed abusi dell’amministrazione del personale; 5) serio
aggravamento della salute psico-fisica della vittima; 6) esclusione
dal mondo del lavoro. Gli studi italiani dimostrano che è più frequente
nelle realtà grandi con una certa quota di anonimato e nei reparti
amministrativi o dei servizi e che colpisce maggiormente la fascia
41-50 anni e molto raramente i lavoratori sotto i 30 anni. Tali studi
dimostrano inoltre che nelle nostre realtà è molto raro il mobbing
dal basso. Il mobizzato può presentare una lunga serie di
disturbi, somatizzazioni e vere e proprie malattie che possono protrarsi
per un lungo periodo o divenire croniche ed irreversibili raggiungendo
anche quadri di severa gravità. Nella maggior parte dei casi una vittima
di mobbing accusa sintomi e malesseri a carico di organi od apparati
già sede in passato di disturbi o patologie. Sintomi fisici: 1) eruzioni
cutanee, 2) abbassamento
delle difese immunitarie (tosse, raffreddore, influenza, maggiore
vulnerabilità alle malattie), 3) disturbi
tiroidei, 4) disturbi
cardiaci: tachicardia, senso di oppressione, ipertensione, 5) problemi
delle funzioni gastriche e digestive: bulimia, gastrite, ulcera, 6) disturbi
intestinali, 7) disturbi
della sfera sessuale, 8) dolori
osteoarticolari, 9) astenia. Sintomi psichici: 1) manifestazioni
psicosomatiche (sono le prime a manifestarsi): perdita di concentrazione,
di memoria, turbe del sonno, cefalee, sudorazione; 2) agitazione
/ irrequietezza; 3) sindromi
ansiose; 4) depressioni
con fissazione del pensiero sul proprio problema, abuso nei consumi
di sigarette, caffè, analgesici, stimolanti, alcolici etc, 5) disturbi
comportamentali che impediscono la partecipazione alla vita lavorativa
fino all’espulsione dal mondo del lavoro (attacchi di panico, disistima
etc); 6) alterazioni
della personalità (fino al suicidio). Bradey Wilson sulla base di uno studio condotto
in Arizona inquadra tali disturbi psichici in base al DSM IV nel gruppo
“disturbo post traumatico da stress”. Disturbo che secondo Bargagna e collaboratori
corrisponde ad una variante dei disturbi d’ansia caratterizzato dalla
sperimentazione di uno stato d’animo di particolare risonanza affettiva
evocato da eventi estremamente traumatizzanti di cui il soggetto sia
vittima o sia testimone o risulti comunque coinvolto”. Aspetti medico-legali Danno alla salute
Si tratta del danno che deriva dalla compromissione
del bene – salute – costituzionalmente protetto e che costituisce
un valore fondato sulla integrità psico-fisica della persona, integrità
da cui deriva lo stato di benessere personale e la possibilità di
godere della salute, di poter svolgere la vita per tutta la sua durata
secondo le ordinarie attività proprie del consorzio in cui il soggetto
vive, di poter realizzare il personale progetto di vita, comprendendo
in ciò le relazioni interpersonali e sociali. In base all’articolo 2087 del codice civile il
datore di lavoro deve prevenire i danni alla salute, adottando tutti
gli strumenti resi disponibili dall’attuale stato della scienza e
della tecnica benché non espressamente contemplati dalle norme antifortunistiche.
Concetto questo ribadito ed esteso dall’articolo 3 del decreto legislativo
n° 626/94 che impone, fra le misure di tutela al punto f), il “rispetto
dei principi ergonomici nella concezione dei posti di lavoro…e nella
definizione dei metodi di lavoro”. Per quanto riguarda il danno biologico dobbiamo concentrare la nostra attenzione su quello di natura psichica che costituisce una conseguenza tipica delle molestie morali. In questo ambito di danno va riconsiderato anche l’aspetto definito “doppio mobbing” che è legato al ruolo particolare che la famiglia ricopre nella società italiana con trasferimento delle “sofferenze” all’interno della famiglia, sapendo che il mobbing è una forma di persecuzione subdola perché è spesso composta di tante piccole ingiustizie, messaggi non verbali, sottintesi che non sempre riescono ad assumere una visibilità esterna ancor più quando l’ambiente di lavoro denuncia dei limiti di solidarietà. A tale proposito ricordiamo con Age che “un collega
mobber ha sempre bisogno di una sorta di <<permesso>>
da parte del capo a mobizzare qualcuno”. Con l’articolo 13 del decreto legislativo n° 38/2000, la cui applicazione è subordinata all’approvazione delle tabelle valutative con decreto del ministero del lavoro (vedi nostra circolare n° 55 del 13 aprile 2000), è stata introdotta la tutela di tale danno che viene definito, in via sperimentale, come “la lesione all’integrità psico-fisica, suscettibile di valutazione medico-legale, della persona” e che, dunque, sarà indennizzato dall'INAIL. Dall'entrata in vigore di tale decreto al lavoratore
residuerà in via esclusiva l'azione per l'eventuale risarcimento del
danno morale.
Riduzione della capacità
lavorativa specifica Trattasi di una valutazione che deve fare riferimento,
necessariamente, alle caratteristiche professionali del lavoratore,
sia a quelle acquisite con apposita formazione professionale che a
quelle formate attraverso l’esperienza cumulata con l’esercizio delle
attività lavorative, quindi con una particolare attenzione all'anamnesi
lavorativa ed alle attività consentite. Inabilità permanente
parziale o assoluta
Trattasi del danno permanente alla capacità lavorativa generica di cui al T.U., DPR n° 1124/65.
Riconoscimento in ambito
INAIL Il giudice Guariniello, al recente convegno “Mobbing
un caso anche italiano” ha affermato: “il mobbing può causare anche
malattie professionali e, quindi, può costituire reato, il delitto
di lesione personale colposa previsto e punito dall’articolo 590 del
C.P.”. I danni da mobbing rientrano in Germania nella
casistica delle malattie professionali. I casi di mobbing possono, dunque, essere denunciati
all’INAIL in base alla sentenza della Corte Costituzionale n° 179/89
cioè come malattie professionali non tabellate per cui spetta al lavoratore
l’onere della prova dell’origine professionale, concetto questo ribadito
dall'articolo 10 del decreto legislativo n° 38/2000. Prova non sempre
facile in quanto ogni forma di provocazione o di aggressione deve
essere dimostrata e la difficoltà consiste spesso nel disporre di
prove flagranti, anche perché talora non sono presenti manifestazioni
di solidarietà da parte dei compagni di lavoro. Si tratta, dunque,
per il lavoratore di raccogliere documentazioni relative ad eventuali
provvedimenti: lettere di richiamo o di biasimo, modifica di mansioni,
trasferimento di sede di lavoro, spostamento di ufficio, etc. In questo caso la diagnosi e la prova dell’origine
professionale si intersecano profondamente in quanto gli elementi
che dimostrano l’origine professionale sono esattamente gli stessi
che permettono di porre diagnosi di “violenza morale in ambito lavorativo”. Per aiutarsi nella diagnosi/prova, oltre che rivolgersi
ai centri specializzati per ora presenti solo a Milano presso la Clinica
del Lavoro dell’Università, si può adottare uno dei metodi già standardizzati
di ricerca, come il questionario LIPT di Leymann del 1997, che ha
avuto adattamenti alle diverse realtà nazionali (in Italia ad opera
di Harald Ege). Il primo passo sarà quello di pervenire ad una
diagnosi differenziale con altre forme di violenza morale quali lo
stalking (controllo costante dei lavoratori mirante ad abolire tutti
i tempi morti) o con lo stress lavorativo. Una volta attuata la distinzione fra azioni mobizzanti
e mobbing vero e proprio (le prime sono eventi traumatizzanti ma a
carattere sporadico spesso derivanti da fattori caratteriali o situazionali
destinati a ricomporsi automaticamente, mentre il mobbing si manifesta
come una azione o una serie di azioni che si ripete per un lungo periodo
di tempo quasi sempre in modo sistemico e con uno scopo preciso),
diviene dunque fondamentale una corretta anamnesi lavorativa che si
concentri sui seguenti punti,:
Vanno poi raccolte informazioni e/o documentazioni
relative ad eventuali provvedimenti: lettere di richiamo, di biasimo,
modifica di mansioni, trasferimento di sede di lavoro, ordini di servizio,
spostamento di ufficio etc). Una particolare attenzione va posta anche alla
struttura psicologica del soggetto in quanto è chiaro che non tutti
reagiscono nello stesso modo alla stessa quantità di stress. Come
afferma il Gilioli (direttore del Centro per la Prevenzione, Diagnosi,
Cura e Riabilitazione della patologia da disadattamento lavorativo
c/o la Clinica del Lavoro di Milano) “c’è chi possiede anticorpi psicologici
per cui è in grado di neutralizzare per un periodo di tempo maggiore
gli effetti dannosi sull’organismo”.
Valutazione del danno
psichico in ambito INAIL La valutazione del danno permanente da parte dell’INAIL
comporta talune difficoltà determinate in parte dalle caratteristiche
delle tabelle valutative annesse al T.U., DPR n° 1124/65, che comportano
che talora si proceda con metodo analogico. In ogni caso resta fermo
l’ineludibile riferimento al grado di riduzione della attitudine lavorativa
ed alla concreta spendibilità lavorativa della funzione residuata.
che fanno riferimento alla capacità lavorativa. Tale valutazione dovrebbe essere fatta, come anche
confermato nel recente decreto di modifica, all’atto della stabilizzazione
del danno, che in genere, quando riguarda la sfera psichica, pretende
tempi lunghi, come del pari lunghi appaiono i periodi di inabilità
assoluta temporanea che mai come in questo caso assumono rilievo ai
fini della prevenzione di maggiori danni.
Nel volume “Il danno psichico”
di W. Brondolo e A. Marigliano si propone una scala di valutazione
che si riporta:
Scarsa è stata anche l’attenzione dell’Istituto
assicuratore a riguardo di questa tipologia di danno, con una attenzione
rivolta al solo lato infortunistico. Recentemente Espagnet-Ottaviani-Bonaccorso, nel
volume "INAIL: Tabelle di valutazione del danno neuropsichico in ambito
infortunistico lavorativo", hanno affermato:
Infine nella “Guida alla valutazione medico-legale”
di Luvoni-Mangili-Bernardi non si danno indicazioni in merito all’invalidità
permanente per le forme psichiche. Unico riferimento riguarda la sindrome soggettiva generale da trauma cranico (che può consistere in cefalea, irritabilità, sensazioni di deficit della memoria e dell’attenzione, disturbi del sonno, con obiettività neurologica normale) per la quale viene indicata un’incapacità lavorativa del 6-8%.
Ricordiamo però che tali valutazioni fanno riferimento a quanto previsto dall’articolo 13 e cioè all’indennizzo del danno biologico. Riconoscimento
come "causa di servizio" In linea generale la predisposizione organica
a contrarre una determinata malattia o la sua preesistenza all’assunzione
in servizio non costituiscono di per sé preclusione al riconoscimento
della dipendenza da causa, o per meglio dire, concausa di servizio,
né quindi del diritto all’equo indennizzo, dovendosi considerare se
l’attività svolta abbia facilitato o accelerato l’insorgenza della
malattia o ne abbia aggravato o accelerato il decorso, contribuendo
all’insorgenza di esiti più gravi. A tale riguardo afferma il Consiglio di Stato
Sez. IV n° 639 del 30 aprile 1993: “per le malattie che col decorso
del tempo diventano permanenti, il dipendente può proporre domanda
di accertamento della dipendenza da causa di servizio entro il termine
semestrale decorrente dalla conoscenza della permanenza della malattia”
(vedi anche Consiglio di Stato Sez. IV n° 365 del 4 maggio 1988, Consiglio
di Stato Sez. IV n° 951 del 9 maggio 1992, Consiglio di Stato Sez.
IV n° 868 del 15 giugno 1993, etc).
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