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Il pessimismo di Arthur Schopenhauer Il pessimismo di Schopenhauer affonda le radici nella sua filosofia, organicamente esposta nella sua opera maggiore "Il mondo come volontà e rappresentazione". Quest’opera, che il filosofo di Danzica pubblicò all’età di 30 anni nel 1818 , nonostante venisse accolta male dalla critica e dal pubblico del tempo, rimase a fondamento del pensiero filosofico del Nostro nei decenni successivi, durante i quali Schopenhauer scrisse molto per ampliare e chiarire i concetti in essa esposti, dando con ciò la prova di una straordinaria coerenza di pensiero , non frequente fra i filosofi. Il "Mondo" è un’opera organica di oltre 5oo pagine, " ...per mezzo suo - scriveva Schopenhauer nella prefazione alla prima edizione - io voglio comunicare un unico pensiero. Eppure, nonostante ogni sforzo, non m’è riuscito, per esporlo, altra via più breve di questo intero libro." Il libro per di più presuppone un lavoro precedente: il saggio "Sulla quadruplice radice del principio di ragione sufficiente" che era stata la tesi di laurea di Schopenhauer, pubblicata cinque anni prima e che gli era valsa la nomina come libero docente di filosofia all’università di Berlino. Il concetto che egli vuole esprimere è che il mondo - come sintetizza il titolo - è volontà e rappresentazione . Il concetto che il mondo è una nostra rappresentazione, cioè che noi tutti percepiamo la realtà esterna tramite le nostre sensazioni, ovvero per mezzo dei sensi, e ce ne facciamo un’idea nella nostra mente, era un principio della filosofia idealista già prima di Kant. Kant fece fare un passo avanti a questa concezione dell’idealismo dimostrando che la rappresentazione non ci permette di conoscere la realtà "oggettiva", la cosa in sé, ma solo il suo fenomeno, cioè un’apparenza della realtà. Per Kant quindi il mondo dell’esperienza non si risolveva nella sola rappresentazione, restava fuori da essa un’incognita, una X, la cosa in sé. La cosa cioè più importante, l’elemento originario del mondo restava del tutto indefinito. Kant, nel tentativo di definire la cosa in sé, fece un’altra importante scoperta: egli dimostrò che il tempo, lo spazio e la causalità non sono elementi oggettivi che appartengono alla cosa in sé. Questi ultimi, lungi dall’essere attributi della realtà cosiddetta "oggettiva", sono elementi soggettivi, dati a priori di ogni conoscenza. Nessuno dei filosofi dopo Kant percorse la via da lui aperta per definire la "cosa in sé", questo elemento originario del mondo inaccessibile alla conoscenza "empirica", ma non a quella metafisica. Schopenhauer fu l’unico dopo Kant a proseguire su quella via , animato dal fermo proposito di far uscire la filosofia dal vicolo cieco, dall’impasse in cui si era cacciata. E’ evidente infatti che o la filosofia riusciva a stabilire un principio di verità oggettiva sul mondo, oppure avrebbe fallito miseramente il suo scopo anche se avrebbe potuto continuare, come fece con i filosofi idealisti post - Kantiani, a dare rappresentazioni non dei "fenomeni" , il cui compito era già proprio delle scienze, ma di concetti astratti, di vuote apparenze. Schopenhauer si accinse a rinnovare gli studi filosofici, seguendo il tracciato indicato da Kant, in forte contrapposizione polemica con i filosofi idealisti del suo tempo (Hegel, Schiller, Stirner ecc.) Per il Nostro la "cosa in sé", che Kant non era riuscito a definire ed i filosofi dopo di lui avevano confuso ancora di più, è la volontà. Essa per Schopenhauer non è una rappresentazione, né una facoltà della nostra mente, come credevano i filosofi prima di lui, ma l’essenza originaria del mondo dalla quale tutto dipende. Per Schopenhauer il mondo, nella sua essenza, al di là di ogni apparenza fenomenica, al di là di ogni rappresentazione, è volontà. Questa scoperta, questo principio di "verità" che Schopenhauer rivendica quale merito principale della sua filosofia ha importanti conseguenze nello sviluppo del pensiero filosofico, esso rappresenta un vero progresso delle conoscenze dell’uomo sul mondo, una "scoperta" che vale il merito al suo ideatore di essere incluso nel numero ristretto dei grandi pensatori dell’umanità. Il pensiero di Schopenhauer si afferma e cresce in solitudine, con una forte contrapposizione - come ho detto - con le filosofie idealiste del tempo e soprattutto con la filosofia hegeliana. Essa vedeva nel mondo una mera rappresentazione, lo sviluppo di un’idea, il progresso dello spirito ecc. Un qualcosa cioè che univa ideale e razionale . Definire "tutto ciò che è reale è razionale, tutto ciò che è razionale è reale" - come faceva Hegel - appariva a Schopenhauer un concetto astratto e irritante, un mero "fenomeno cerebrale", frutto di una filosofia "falsa", asservita al potere, che niente aveva a che fare con la vera realtà del mondo. Ma vengono rifiutate da Schopenhauer anche le filosofie materialiste che risolvono la realtà in un dato "materiale" percepito dai sensi, che riducono cioè la realtà al suo fenomeno. Esse sono filosofie parziali che non tengono conto della lezione di Kant sulla realtà apparente di ogni fenomeno percepito. "Da tutto ciò risulta - scrive Schopenhauer - che sulla via della conoscenza oggettiva , partendo quindi dalla rappresentazione, non si arriva mai oltre la rappresentazione, ossia oltre il fenomeno , ma si continuerà a restare legati all’aspetto esterno delle cose, senza poter penetrare al loro interno , per indagare che cosa esse siano in sé e per sé". Una seconda considerazione nasce dal rapporto interno che Schopenhauer stabilisce fra il soggetto conoscente e la realtà oggettiva, cioè fra il mondo come rappresentazione e come volontà. "Come contrappeso di questa verità - scrive ancora Schopenhauer - ne ho rilevata un’altra, e cioè che noi non siamo soltanto il soggetto conoscente, ma, per un altro verso facciamo noi stessi parte dell’essere oggetto di conoscenza, siamo noi stessi la cosa in sé: pertanto , per raggiungere l’essenza propriamente intrinseca delle cose, cui non possiamo arrivare partendo dall’esterno, c’è per noi dall’interno, una via aperta...la cosa in sé, proprio in quanto tale, può arrivare alla coscienza solo in modo assolutamente immediato , solo quando essa stessa acquista coscienza di sé: volerla conoscere oggettivamente significa pretendere qualcosa di contraddittorio." Questa via interiore individuata da Schopenhauer per raggiungere la cosa in sé, l’unica percorribile in quanto ogni altra conoscenza "oggettiva" è rappresentazione, quindi apparenza fenomenica, è una via, come abbiamo visto, che proviene direttamente da Kant ma porta la filosofia di Schopenhauer a concordare nei risultati con le filosofie orientali, soprattutto quelle delle Upanishad e con il buddhismo, ma anche con quelli della psicoanalisi di Freud, in quanto la volontà diventa percepibile solo nell’autocoscienza. "Infatti - scrive Schopenhauer - anche nell’autocoscienza, l’io non è assolutamente semplice ma consta di un elemento conoscente, l’intelletto, e di un elemento conosciuto, la volontà: il primo non viene conosciuto e il secondo non conosce, sebbene entrambi confluiscano nella coscienza di un io. Ecco il motivo per cui questo io non è, in tutto e per tutto, intimo a sé stesso , non è per così dire trasparente, bensì opaco e resta quindi un enigma anche per sé." Ma se l’io era per Schopenhauer un enigma, e rimane un enigma, nonostante che la psicoanalisi di Freud abbia cercato di risolverlo con risultati scientifici indubbi, era chiaro, per il nostro, "il primato della volontà nell’autocoscienza". "In tutti gli esseri animali - scrive Schopenhauer - la volontà è l’elemento primario e sostanziale, mentre l’intelletto è un elemento secondario e accessorio, addirittura un mero strumento al servizio del primo , uno strumento che è più o meno perfetto e complesso , a seconda delle esigenze di questo servizio". Se è vero che l’essenza originaria di ogni fenomeno e di tutti gli esseri è la volontà, una volontà che permane, oltre i limiti soggettivi di tempo e spazio, "essa sola immutabile, indistruttibile.. (una realtà) non fisica, bensì metafisica (che) non appartiene al fenomeno, bensì a ciò che nel fenomeno si manifesta" , essa è tuttavia una volontà irrazionale e cieca: pura e incontrollata volontà di vivere. Infatti per Schopenhauer l’irrazionale, ossia la volontà cieca, domina la nostra mente e il mondo ossia, per dirla in modo più rispondente all’orientamento pessimistico della filosofia del nostro, il mondo è equamente diviso fra malvagità e follia. Non c’è posto dunque per l’ottimismo nella filosofia di Schopenhauer. Tutte le filosofie e le religioni che giustificano un atteggiamento ottimistico nei confronti dell’esistenza (teismo, panteismo ma anche il materialismo) vengono ugualmente rifiutate perché presuppongono erroneamente una qualche razionalità, una qualche "buona" ragione o intenzione all’origine del mondo. E’ irrazionale innanzitutto la cieca voglia di vivere che induce nei viventi, essa ha un forte attaccamento alla vita, o piuttosto ha paura della morte, nonostante che essa sia "immortale". Questa volontà di vivere anima tutti gli esseri viventi , anche quelli più sofferenti ed è indipendente da una razionale valutazione sulla qualità dell’esistenza ; essa permane indipendentemente dai mali di cui soffriamo e dalla presenza del dolore che è presente nel mondo. Anzi la volontà induce tutti gli esseri viventi ad aver paura della morte o del semplice "nulla" in quanto, come ho detto, prescinde da ogni valutazione sul valore della vita, sul bene o sul male che il destino ci riserva, o su ciò che seguirà dopo la morte. Ma la volontà non si presenta solo come istinto di conservazione. Se fosse solo questo le sofferenze non sarebbero grandi e l’esistenza risulterebbe più serena. "Invece, poiché la volontà vuole la vita incondizionatamente e per tutti i tempi , essa si presenta anche come istinto sessuale , che ha in mente una serie infinita di generazioni" Questo "desiderio" e la conseguente "voluttà" che accompagna l’istinto sessuale "cancella (la) spensieratezza (la) serenità e (l’) innocenza... e riempie la vita di disgrazie, di crucci e di miserie". E’ dunque irrazionale - per Schopenhauer - ossia priva di senso, la stessa esistenza che si protrae per un certo periodo e che si conclude, dopo un invecchiamento penoso, con la morte e l’estinzione dell’organismo. E’ parimenti irrazionale il generale comportamento dell’uomo, così come viene indotto dalla volontà perché l’uomo, nonostante la sua intelligenza, è continuamente soggetto al dominio di una volontà irrazionale e tiranna; la sua razionalità non è quindi né autonoma né "libera". Questi caratteri che la volontà assume, quando si oggettiva nel mondo mediante quello che Schopenhauer chiama il principium individuationis, sono all’origine, come si può ben capire, di tutte le pene, di tutte le sofferenze e dei crucci che la vita ci riserva. Da queste poche considerazioni fatte possiamo dire che il pessimismo di Schopenhauer affonda la sua ragione d’essere nella sua filosofia; è un pessimismo conseguente alla sua analisi filosofica, alla sua disposizione mentale: possiamo dire che è un pessimismo dell’intelligenza, assai diverso dal pessimismo della volontà che sembra animare le riflessioni di Leopardi. Mi sembra di poter dire che il pessimismo di Leopardi proviene da una disposizione d’animo, non è il frutto di una vera e propria filosofia, che in Leopardi non c’è , mentre il pessimismo di Schopenhauer è conseguente ad una lucida analisi filosofica. Il pessimismo di Schopenhauer deriva dalla consapevolezza che l’irrazionale domina la ragione e il mondo e che il male presente nel mondo è "reale e concreto", è cioè di natura "positiva", mentre il piacere e la felicità, sono di natura "negativa" : quest’ultimi non vengono sentiti nel momento in cui li viviamo, li percepiamo invece come beni perduti, quando non li abbiamo più. Il piacere e la felicità sono spesso chimere non raggiungibili perché proiettati sempre in un futuro lontano e incerto. Per questo motivo "l’uomo saggio scrive Schopenhauer - , come già vedeva bene Aristotele, non persegue ciò che è piacevole, ma l’assenza di dolore." La natura prevalentemente chimerica della felicità e del piacere e la natura "positiva" del dolore, sono temi ricorrenti negli scritti di Schopenhauer , dall’età giovanile alla maturità. "Chi vuole misurare la felicità di una vita intera in base alle gioie e ai piaceri - scriveva Schopenhauer nella massima n°; 17 - assume un criterio completamente sbagliato. Poiché le gioie sono negative; che esse possano rendere felici è una follia nutrita e coltivata dall’invidia, poiché le gioie non vengono sentite in termini positivi , come accade invece per i dolori , sono dunque questi ultimi, con la loro assenza, che costituiscono il criterio di misura della felicità". Il criterio, che tutti siamo portati ad usare, soprattutto quando siamo ancora giovani, di giudicare il valore "empirico" della vita in base ai piaceri in essa contenuti, è un criterio, per Schopenhauer, completamente errato: "Una delle maggiori chimere che assorbiamo nell’infanzia" e che inevitabilmente sono fonte di tante illusioni e causa di grandi delusioni. L’illusione di poter raggiungere facilmente la felicità non è data solamente da un’erronea impostazione dell’educazione o dalla inevitabile distorsione dei valori morali e del costume di ogni società. Già il nostro Petrarca metteva in evidenza, in una delle poesie del Canzoniere, essere la corruzione dei costumi uno dei mali maggiori della società del suo tempo. La nostra società in particolare contribuisce ad alimentare questa illusione, diffondendo una cultura edonistica e consumistica, un certo mito del progresso ecc., che sono tutti elementi peggiorativi che erano estranei ai tempi del Petrarca. Di questa ideologia , ancora una volta, sono maggiormente vittime i giovani. Con questo non vorrei giungere ad accusare la nostra società di colpe che non sono tutte sue. Anche per Schopenhauer questo errore non è imputabile ad una particolare società, perché esso è profondamente radicato negli uomini e li accompagna fin dalla nascita. "Siamo tutti nati in Arcadia - scrive Schopenhauer - tutti veniamo al mondo pieni di pretese di felicità e di piaceri e nutriamo la folle speranza di farle valere, fino a quando il destino ci afferra bruscamente e ci mostra che nulla è nostro, mentre tutto è suo, poiché esso vanta un diritto incontestabile non solo su tutti i nostri possedimenti e i nostri guadagni, ma anche sulle nostre braccia e le nostre gambe, sui nostri occhi e sulle nostre orecchie, e perfino sul nostro naso al centro del volto." Da queste riflessioni nascono alcune considerazioni. In primo luogo tutti ci portiamo dietro, con la nascita questa pretesa di felicità o , per meglio dire, tutti nasciamo con un errore innato. Questo errore può essere corretto dall’esperienza, se "ci rendiamo conto che il meglio che il mondo ci può offrire è un presente sopportabile, quieto e privo di dolore... e ci guardiamo bene dal guastarlo aspirando senza posa a gioie immaginarie o preoccupandoci con timore di un futuro sempre incerto , che - per quanto lottiamo - rimane sempre nelle mani del destino." Purtroppo la gente comune e anche certi filosofi, nonostante l’età, permangono in questo errore e allora, come Pangloss nel Candido di Voltaire, mantengono una visione ottimistica , continuano a credere che viviamo nel "migliore dei mondi possibili", ingannando così sé stessi e gli altri, nonostante abbiano dalla vita continue dimostrazioni del contrario. E’ invece naturale che mantengano questo errore i giovani, i quali, poveri di esperienza sulla vita e non ancora venuti a contatto con la filosofia, non possono ancora accettare il motto di Voltaire : " Le bonheur n’est qu’un réve , et la douleur est réelle"., né tanto meno la filosofia pessimista di Schopenhauer. Eppure questo nostro filosofo ottocentesco, severo e austero, così controcorrente rispetto al suo e al nostro tempo, ha da dire molto a noi giovani di oggi e riesce a spiegare il malessere giovanile meglio di molti altri filosofi a noi contemporanei, con idee apparentemente più "moderne". Lo stesso Nietzsche, che era stato uno di quei lettori di Schopenhauer che aveva letto le sue opere e ascoltato "ogni parola che egli abbia detto" , formandosi alla sua scuola di grande educatore "schietto, rude, amichevole", appare con il suo vitalismo meno convincente del vecchio Schopenhauer, senz’altro inferiore per "onestà", per "coerenza", per originalità, per indipendenza di giudizio e per altre qualità che lo rendono ancora agli occhi di un giovane un grande educatore. Schopenhauer crede, contro un luogo comune che viene spesso ricordato da tutti i venditori di fumo, che l’età giovanile è un’età prevalentemente "infelice", nonostante tutti i cosiddetti "vantaggi" che essa presenta rispetto all’età matura. "Ciò che rende infelice la prima età della vita - scrive Schopenhauer - è (proprio) l’andare a caccia della felicità in base al fermo presupposto che essa debba potersi incontrare nella vita: ne scaturiscono speranze continuamente frustrate e insoddisfazioni". Se noi giovani osservassimo con sguardo lucido, senza pregiudizi, la nostra vita ; se riconoscessimo che siamo in fondo le prime vittime della nostra civiltà, così opulenta e progredita, saremmo senz’altro in accordo con queste osservazioni di Schopenhauer. Se pensiamo a quanti di noi finiscono male e cadono in questa caccia alla felicità, non potremmo non condividere il suo pensiero. "A torto si compatisce l’infelicità della vecchiaia" - scrive ancora Schopenhauer - pensando che i piaceri siano ad essa negati. Perché "ogni piacere è relativo". Per questo "molto più giustamente Platone reputa felice la vecchiaia, perché (con essa) finalmente si placa la brama (di vivere)". Come si vede, Schopenhauer è un filosofo che ha capito bene la condizione dei giovani, per questo non sottovaluta i seri pericoli che accompagnano la nostra età. Mi viene in mente una massima di Epicuro. Il filosofo di Samo, che considerava il piacere principio e fine della vita felice e che è passato alla storia per un eccessivo edonismo, si trova su questo problema in perfetto accordo con il Nostro. Egli scriveva (non ricordo se nella lettera a Meneceo o nelle massime capitali) , cito a memoria, " Vuoi rendere felice tuo figlio? Non aumentargli allora le sue ricchezze, diminuisci i suoi desideri". A questo punto nascono spontanee le domande: Crede Schopenhauer alla possibilità, anche lontana, di poter raggiungere in questo mondo una qualche felicità? Non vi è contraddizione fra la sua filosofia pessimistica, che considera il raggiungimento della felicità una chimera, e la pretesa di poter dare una qualche ricetta per raggiungerla, come sembra suggerire il titolo del libro "L’arte di essere felici", da cui sono state riprese alcune sue citazioni.? Rispondo subito "NO" ad ambedue le domande, spiegando il perché. "L’arte di essere felici" , che Schopenhauer chiama Eudemonologia o eudemonica, è un’operetta rimasta ad uno stato di elaborazione grezzo, tuttavia risponde pienamente all’intento del Nostro di poter dare delle "indicazioni pratiche" se non per raggiungere la felicità, nella quale non crede, per poter almeno passare la vita il più serenamente; una cosa quest’ultima senz’altro possibile, almeno a certe condizioni. Essa ha pieno diritto di esistere fra le opere del Nostro, non solo perché si presenta come un’opera compiuta ma anche perché il progetto che la ispira viene ripreso da Schopenhauer anche in età matura in un trattato che ha per titolo "Aforismi sulla saggezza di vita". Tuttavia già Schopenhauer teneva conto di tutto questo nella introduzione al trattato. Alla domanda se l’opera presupponesse la possibilità di un’esistenza felice , cioè che apparisse alla luce di una "ben ponderata riflessione" decisamente preferibile alla non - esistenza, egli scrive : " è una domanda alla quale, come è noto , la mia filosofia risponde negativamente, mentre l’eudemonologia presuppone, per essa, una risposta affermativa", presuppone cioè l’accettazione di quel modo di pensare che era già stato critica, trascinandosi dietro quell’errore innato di cui parlavamo prima. Per Schopenhauer un’eudemonologia ,"la stessa parola è semplicemente un eufemismo", si giustifica pertanto solamente sul piano pratico : " per poter elaborare la presente trattazione eudemonologica, ho dovuto abbandonare il più alto punto di vista metafisico ed etico, cui si è indirizzati dalla mia più profonda filosofia, per conseguenza tutto il presente saggio è in un certo senso basato su di un accomodamento , in quanto esso rimane attaccato al punto di vista comune ed empirico, e ne mantiene gli errori." L’eudemonologia ha dunque un valore soltanto "condizionato" non solo perché per prenderla per vera bisogna portarsi dietro l’errore innato di cui si diceva sopra, abbandonando il più alto punto di vista metafisico della filosofia di Schopenhauer, ma anche perché "i saggi di tutti i tempi hanno in generale sempre detto le stesse cose, e gli sciocchi di tutti i tempi, cioè la stragrande maggioranza hanno sempre fatto le stesse cose, cioè il contrario." Qual è allora il punto di vista metafisico? A quale conclusione giunge il pessimismo di Schopenhauer? Esso nasce dalla consapevolezza che "tutto nella vita rivela che la felicità terrena è destinata ad essere annientata o ad essere riconosciuta come un’illusione". Con ciò si rivela che "la vita si presenta come un eterno inganno", tutto è "vanità" e il tempo "è la forma mediante la quale la vanità delle cose si presenta come transitorietà: è in virtù del tempo infatti che tutti i nostri piaceri e tutte le nostre gioie ci sfuggono dalle mani e noi, dopo, ci domandiamo meravigliati dove sono finiti". Alla fine è il tempo che emette la "sentenza definitiva" della natura su tutti gli esseri viventi , e dunque :"la vecchiaia e la morte, verso la quale ogni vita necessariamente si muove, costituiscono quindi la condanna che, per propria mano , la natura stessa emette contro la volontà di vivere". Insomma , per dirla con De Sanctis, per Schopenhauer nella realtà l’unica forza è il Wille (la volontà) e la materia è il velo di Maia, una sua apparenza." E’ facile constatare le numerose somiglianze, anche nelle conclusioni della filosofia di Schopenhauer con il buddhismo. D’altra parte lo stesso Schopenhauer mette in evidenza da una parte le false premesse dell’ottimismo , dall’altra le conseguenze della sua filosofia pessimista coincidente con quelle del buddhismo e di altre filosofie orientali. Egli scrive: "L’ottimismo è, in fondo, la lode ingiustificata che il vero creatore del mondo , ossia la volontà di vivere , accorda a sé stesso, specchiandosi compiaciuto nella propria opera: è pertanto una teoria, non solo falsa, bensì anche dannosa. L’ottimismo ci presenta infatti la vita , come una condizione desiderabile, e la felicità dell’uomo quale fine di essa. Partendo da questo presupposto ognuno crede di avere senz’altro diritto alla felicità e al piacere: se poi, come accade solitamente, non li ottiene, crede allora che gli sia stato fatto un torto, anzi ritiene di aver mancato lo scopo della propria esistenza. Invece, secondo l’esempio del bramanesimo, del buddhismo e anche del vero cristianesimo , è molto giusto considerare, quali fini della nostra esistenza, il lavoro, la rinuncia, il bisogno e il dolore, coronati dalla morte, poiché è questo che conduce alla negazione della volontà di vivere". La negazione della volontà di vivere dunque è la conclusione della metafisica di Schopenhauer, in sintonia con il buddhismo e altre dottrine come il cristianesimo "autentico e originario", l’ascetismo, il sufismo ecc. secondo le quali "l’attaccamento alla vita e ai suoi piaceri deve arretrare.. per far posto ad una rinuncia universale" e "l’esistenza deve essere considerata come un errore, la liberazione dal quale è la redenzione". Queste dottrine, ispirate alla morale della più perfetta virtù, che praticano la rinuncia, l’astinenza, l’umiltà ecc. esprimono in forma mitologica (secondo il mito del peccato originale, oppure con il Nirvana dei buddisti) la negazione del mondo, la stessa negazione della volontà di vivere. Per queste stesse dottrine, come per Schopenhauer, "affermazione della volontà di vivere, mondo fenomenico, diversità di tutti gli esseri, individualità, egoismo, odio e malvagità scaturiscono tutte dalla stessa radice; come anche, d’altra parte mondo della cosa in sé, identità di tutti gli esseri, giustizia, amore per il prossimo e negazione della volontà di vivere". Per queste dottrine, la morte dell’individuo, che è la negazione estrema della volontà di vivere, è un evento da non temere e persino da desiderare. Nella negazione della volontà di vivere vi è quindi un indiscusso valore morale che possiamo rapportare ai valori umani della solidarietà, della compassione per le sofferenze altri, dell’altruismo. L’individualità viceversa è inerente solo alla volontà e alla sua
affermazione. La persona malvagia vede solamente la propria individualità, che è
fenomeno, e la contrappone alle altre individualità. Egli non riconosce,
offuscato dal velo di Maia, l’identico a sé stesso che c’è nell’altro. Ben
diversa è la santità, "che è connessa ad ogni azione puramente morale".
Un’azione morale da essa ispirata deriva in ultima analisi "dalla conoscenza
immediata dell’identità dell’intima essenza di ogni creatura. Questa identità
esiste realmente soltanto nello stato della negazione della volontà (Nirvana),
poiché la sua affermazione
(Samsara) ha come forma il fenomeno della volontà che è molteplice... Le
virtù morali nascono dal divenire consapevoli di quell’identità di tutti gli
esseri (e che) tale identità non si trova nel fenomeno, bensì soltanto nella
cosa in sé, nella radice di tutti gli esseri; allora l’azione virtuosa sarà solo
il passaggio momentaneo per un punto, il ritorno definitivo al quale è
costituito dalla negazione della volontà di vivere." Schopenhauer e Leopardi Schopenhauer e Leopardi sono due grandi personalità europee del secolo passato, due pensatori per tanti aspetti affini nel modo di sentire, quasi contemporanei fra di loro, che il destino non ha fatto incontrare. I motivi di questo incontro mancato sono tanti. Quando è morto Leopardi appena si conosceva la sua fama in Italia, mentre Schopenhauer in Germania era un perfetto sconosciuto. Ambedue facevano vita ritirata: l’uno viveva lontano dalla città, a Recanati, un paesino sperduto nelle Marche, l’altro viveva prevalentemente a Francoforte, lontano dai luoghi accademici e sconosciuto ai più fino al 1851. Il loro pensiero "controcorrente", inattuale, li colloca in un’area distinta dalla grande corrente di pensiero del loro tempo (il romanticismo), anche se sono figli del loro tempo. Il loro stesso pessimismo li poneva fuori dal sentire comune di un secolo, passato alla storia per le sue idee liberali e per le sue spinte verso il progresso, in definitiva per il suo ottimismo. Il loro stesso carattere spingeva ambedue a quella vita ritirata, solitaria che è la condizione ideale che richiedono quasi tutti i pensatori. E’ quindi inevitabile che sia Leopardi che Schopenhauer abbiano rinunciato a parlare ai loro contemporanei, per rivolgersi alle generazioni future che potevano capirli meglio. Tuttavia tutto ciò non impedì a quello dei due che rimase in vita, Schopenhauer, di venire a conoscenza delle opere dell’altro dopo la sua morte. L’episodio che permise a Schopenhauer di conoscere Leopardi è conosciuto e raccontato nei "Colloqui" di A. Schopenhauer e vale la pena di ricordarlo. Fu un ammiratore di Schopenhauer, un certo Adam Ludwig von Doss di Monaco, a proporre al filosofo di leggere Leopardi, nel Maggio del 1850, durante un soggiorno di quest’ultimo a Francoforte. Alcune settimane più tardi gli scrisse. "Legga, stimatissimo maestro, - scrisse Ludwig - Le operette morali e i pensieri di questo sosia meridionale in fatto di pessimismo, se non lo conosce ancora, il che potrebbe darsi benissimo, altrimenti sarebbe stato Lei a richiamare su di lui la mia attenzione." Schopenhauer , in seguito a questa segnalazione amichevole, non solo lesse Leopardi, ma dette un giudizio su di lui coinciso e profondo. Egli scrisse, nei supplementi al quarto libro del "Mondo", sulla "vanità e i dolori della vita", "Nessuno ha trattato così a fondo e così esaurientemente questo soggetto come, ai giorni nostri, Leopardi. Egli ne è tutto pervaso e compenetrato. Il suo tema è ovunque la beffa e la miseria di quest’esistenza, da lui rappresentate, in ogni pagina delle sue opere, con una tale varietà di forme e di espressioni, con una tale ricchezza di immagini, che esso non viene mai a noia, ma è invece sempre interessante e commovente". Il rapporto fra Schopenhauer e Leopardi non doveva finire qui. Nel 1859 fu segnalato a Schopenhauer, da parte di Lindner, studioso e traduttore di Leopardi, in una lettera del 12 Febbraio, il dialogo "Schopenhauer e Leopardi", scritto da Francesco De Sanctis. Il filosofo, preso da "un’ardente curiosità", lesse anche il saggio di De Sanctis ed espresse anche su questo volumetto un giudizio lusinghiero : " L'ho letto attentamente due volte - risponde a Lindner - e devo stupire nel veder quanto questo italiano (De Sanctis) si sia impossessato della mia filosofia e come l’abbia capita bene.." Il filosofo di Francoforte ricorda "qua e là... qualche ghigno sarcastico e... le invettive contro di (lui) verso la fine (che) lascio correre." Tuttavia a proposito di Leopardi egli scrive: "a p. 505-6, m’innalza alle stelle e fa torto a Leopardi, che io leggo spesso con ammirazione." Il rapporto fra i due, nato in ritardo ed occasionalmente, era - come si vede
- continuato nel tempo, per diventare spiritualmente indissolubile. Bibliografia delle opere consultate Opere filosofiche in formato .zip per il dowload
OPERE SU SCHOPENHAUER E LEOPARDI
ALTRE OPERE Epicuro, Lettera a Meneceo (da Liber Liber in formato .TXT download)
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prof. Francesco Rossi
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