Il museo «Amedeo Lia» ha sede a La Spezia in via del Prione 234, in piena zona pedonale nel centro storico cittadino.



Il museo «Amedeo Lia» ha una storia davvero singolare.
Nasce, infatti, dalla passione di Amedeo Lia, industriale da sempre appassionato d’arte ed eclettico collezionista, che in oltre quarant’anni ha ricercato con cura e acquistato in tutto il mondo dipinti, sculture e miniature, oltre a un’immensa serie di oggetti d’arte (avori, oreficerie, gioielli, vetri).
La raccolta, che comprende oltre mille opere, è cresciuta seguendo le inclinazioni e il fiuto dell’ingegner Lia.
Ancora più meritevole, dal sapore quasi rinascimentale, è il gesto munifico che ha spinto l’ingegner Lia a donare al Comune della Spezia la sua vastissima collezione, nel desiderio di poter arricchire il territorio della sua città adottiva rendendo fruibile al pubblico la bellezza dei suoi capolavori.
Viene inaugurato così nel 1996 il museo «Amedeo Lia», che ha trovato sede nelle sale dell’ex complesso conventuale dei frati di San Francesco da Paola, costruzione appositamente restaurata per accogliere le preziose opere d’arte.

Chi è Amedeo Lia

Nato a Presicce (Lecce) nel 1913, ha frequentato a Lecce il liceo scientifico diplomandosi nel 1931. Entrato all’Accademia navale di Livorno, prese la laurea in ingegneria meccanica. Imbarcatosi sulla corazzata Littorio, conquistò durante la guerra una medaglia al valor militare sul campo. Nel 1947 si congedò col grado di tenente di vascello. Dal 1949 vive con la moglie pavese Ariella Moretti e con i tre figli a La Spezia, città che allora come oggi contende a Taranto il primato di principale porto militare italiano e dove nel 1950 fondò la sua azienda, la Ifen (Industria Forniture Elettriche Navali).
Nello stesso periodo cominciò anche la sua passione di collezionista d’arte riuscendo, nell’arco di oltre cinquant’anni, a comperare più di mille opere che documentano il gusto e la cultura dell’arte in Italia e in Europa dall’epoca classica, al tardo antico, al Medioevo fino all’età moderna. Dipinti, miniature, sculture in bronzo, argento, rame, avorio, legno, vetri, maioliche, objets d’art di tutti i generi, reperti archeologici. Il pezzo forte è rappresentato dai cosiddetti «primitivi»: oltre settanta tavole di Pietro Lorenzetti, Bernardo Daddi, Lippo Memmi, Lippo di Benivieni, Lorenzo di Bicci, Barnaba da Modena, del Maestro di Città di Castello, Paolo di Giovanni Fei, Giovanni Bonsi, il Sassetta; e molte tempere e tele di Vincenzo Foppa, Antonio Vivarini, il Bergognone, Ludovico Mazzolino, un probabile Raffaello giovane, Pontormo, Tiziano, Tintoretto, Sebastiano del Piombo, Giovanni Cariani, Giovanni Bellini, il Romanino, Alessandro Magnasco, Bernardo Bellotto, Pietro Longhi, Michele Marieschi.
Quelle mille opere d’arte - che secondo lo storico dell'arte Federico Zeri (1921-1998) rappresentano una delle collezioni private più ricche d’Europa e la più importante per i dipinti tra Duecento e Quattrocento - sono state donate dall'ingegner Lia al Comune di La Spezia e dal 3 dicembre 1996 sono esposte nel museo «Amedeo Lia».
«I mercanti dovevano tenere in grande considerazione Lia, se tra le mille opere che abbiamo passato in rassegna non c’è neppure un falso»: è una battuta, ma sintomo di grande ammirazione, di Federico Zeri.

Nel 2008 il sindaco di Milano Letizia Moratti ha assegnato l’Ambrogino d’Oro all’ingegner Amedeo Lia con la seguente motivazione:

«per avere donato alla città di Milano il prestigioso dipinto leonardesco “Madonna con Bambino”. Il quadro fu realizzato da Francesco Galli, detto Napoletano, allievo di Leonardo da Vinci. Grazie alla generosità di Amedeo Lia, il patrimonio artistico milanese si è arricchito di un nuovo capolavoro, conservato oggi al Castello Sforzesco, luogo a cui idealmente appartiene, poiché lo rappresenta nello sfondo. Proprio questa raffigurazione rese possibile il restauro della Torre del Filerete condotto dall’architetto Luca Beltrami.»


La tela - rinominata “Madonna Lia” - propone un tema molto caro a Leonardo, replicato e reinterpretato dai suoi allievi in numerose versioni.
I modelli vinciani cui Francesco Napoletano fa riferimento sono molteplici: l’impostazione generale del dipinto richiama la “Madonna del garofano” (Monaco, Alte Pinakotheck), così come la tipologia fisionomica e l’interpretazione del volto di Maria hanno strette assonanze con quello della pala detta “Vergine delle rocce”, dipinta da Leonardo per la chiesa milanese di San Francesco Grande, ora scomparsa.
Ma è nello sfondo del dipinto l’elemento iconografico di particolare interesse e di chiara matrice leonardesca che ha indotto Amedeo Lia a destinare l’opera alle Civiche Raccolte d’Arte di Milano: alle spalle della Madonna, due finestre si aprono su un paesaggio ideale che attira lo sguardo.
Sulla destra, una veduta del Castello degli Sforza, con due possenti torrioni circolari che rinserrano la fronte principale rivolta verso la città: si tratta di una straordinaria testimonianza iconografica, l’unica tradotta in pittura, che ci rimanda l’immagine del monumento riedificato da Francesco Sforza nel 1450. È su questa fonte che Luca Beltrami potrà ricostruire agli inizi del novecento la Torre del Filarete, andata distrutta nel 1521, completando così il restauro del Castello Sforzesco.


La storia dell'edificio



Facciata e ingresso del museo «Amedeo Lia» su via del Prione

Il museo «Amedeo Lia» ha sede nell'antico complesso conventuale dei frati minimi di San Francesco di Paola, la cui costruzione iniziò nel 1616, cui seguì l'edificazione della chiesa.
In origine, il complesso era costituito da un corpo di fabbrica, da un chiostro quadrato con celle ai lati e dalla chiesa.

Anche in seguito, quando il complesso conventuale era stato trasformato prima in Ospedale militare (1797) e poi in Ospedale civile di Sant'Andrea (1804), gli edifici, pur avendo perdute le funzioni originarie, mantennero la forma iniziale.

Profonde trasformazioni furono avviate a partire dalla seconda-terza decade dell'Ottocento, quando fu demolito il campanile, furono realizzati nel vano della chiesa una serie di pilastri per dividere in senso orizzontale l'originario volume, ricavando spazi utili alle corsie ospedaliere e venne inolte ricavato un piano utile sotto la volta della chiesa.

Dalle planimetrie databili alla seconda metà del secolo XIX si desumono nuovi cambiamenti strutturali, quale l'avanzamento del fronte del complesso sulla via antistante, a tutt'oggi demolito nella fase di recupero a fini museali, in allineamento con l'antico muro di cinta del convento (1869-1879).

Agli anni 1896-1898 risalgono le ultime modifiche dell'Ospedale in tale sede prima del suo trasferimento nella zona di San Cipriano.

Quando la funzione di ospedale venne meno, fu aggiunto un corpo di fabbrica in stile neogotico, nel quale ha trovato sede, fino al momento del restauro e della diversa destinazione d'uso, l'Ufficio d'Igiene, progettato da Franco Oliva intorno agli anni Venti.
Nel primo dopoguerra, infine, vengono nuovamente mutate le destinazioni d'uso degli spazi dell'edificio, fino ad essere destinata anche a sede della Pretura e, quindi, ad uffici comunali.

A seguito della donazione fatta dall'Ing. Amedeo Lia al Comune della Spezia della propria collezione d'arte, il fabbricato viene scelto quale sede del futuro museo.
Prima di procedere ai primi interventi di recupero e ristrutturazione del complesso edilizio (1990), sono state effettuate accurate indagini stratigrafiche e cartografiche, al fine di ricostruire le fasi del fabbricato nella loro complessità.


          Il chiostro


In sede di restauro sono state limitate all'indispensabile le opere di demolizione ed integrazione; ciò allo scopo di mettere in risalto le qualità intrinseche dell'edificio, facendone riemergere la sua originale identità storica, ed armonizzandolo con la nuova funzione di museo.



Spaccato della veduta interna della sede del museo «Amedeo Lia»



Il museo «Amedeo Lia» è stato il nucleo intorno al quale la città ligure ha fatto rinascere il centro storico, in precedenza piuttosto trascurato, realizzando, nel corso degli ultimi anni, anche un nuovo museo archeologico, il restauro del castello di San Giorgio e il nuovo museo d’arte contemporanea.

Altri Musei




Visita alla collezione

La collezione non è stata ordinata secondo uno schema storico e tradizionale, ma rispecchia nei suoi nuclei il carattere originario della raccolta privata, restituendo il gusto squisito e individuale dell'Ing. Amedeo Lia.
L’itinerario si snoda attraverso tredici sale espositive in cui si spazia dalle origini della pittura italiana ai paesaggi settecenteschi, dagli avori alle oreficerie preziose, senza tralasciare le cromie accese della miniatura tra Duecento e Cinquecento e tutto un mondo di suggestivi e insoliti manufatti degni delle antiche camere delle meraviglie.
 
Piano terra
Sala I: gli oggetti liturgici
Sala II: le miniature
 
Piano primo
Sala III: L'antiquarium archeologico
Sala IV: I dipinti del Duecento e del Trecento
Sala V: I dipinti del Quattrocento
Sala VI: I dipinti del Cinquecento
Sala VII: I ritratti
Sala VIII: Gli stranieri
Sala IX: I dipinti del Seicento
Sala X: Il Settecento
 
Piano secondo
Sala XI: Sculture in bronzo e marmo
Sala XII: Vetri, terrecotte e maioliche
Sala XIII: Le Nature Morte
La "Camera delle Meraviglie"


SALA I: gli oggetti liturgici



L'ambiente della sala I, già chiesa del complesso conventuale, per quanto alterato dagli interventi ottocenteschi, lascia intuire la sua primitiva destinazione. Quasi a suggerire un dialogo tra contenitore e contenuto, qui sono stati ordinati gli oggetti pertinenti al culto e, in particolare, la suppellettile liturgica.

Numerosi sono gli smalti medievali francesi che testimoniano la fortuna della produzione artistica di Limoges fra XIII e XIV secolo: pissidi, candelieri, croci processionali, pastorali, placche decorative per legature di corali, cassette reliquiriario.

Nella sala troviamo però anche altri generi di manufatti: gioielli, gemme, oreficeria, vetri, piccole sculture che abbracciano un vasto arco di tempo e di culture.

Diversi, quindi i criteri ordinatori: talvolta le serie tipologiche sono state riunite per non smembrare insiemi di manufatti omogenei per tipologia, utilizzo o testimonianza di una tecnica artistica.

Da segnalare una novantina di oggetti in avorio, la cui popolarità nata presso l’antica civiltà mediterranea, proseguita con l’arte romana, bizantina, gotica conobbe una fortunata stagione durante il manierismo e il barocco.

Altre volte invece le serie tipologiche sono state riunite in apposite vetrine per rendere più evidente il percorso collezionistico di Amedeo Lia, come le placchette gotiche in avorio, specie di produzione francese. Oppure le opere sono state isolate per consentire una maggiore visibilità. E’ questo il caso di tre oggetti che accolgono il visitatore all’entrata della sala.

Da segnalare, caso unico in Italia, i dodici tondi vitrei raffiguranti i mesi e i mestieri, già appartenenti ad un rosone di chiesa; tema piuttosto insolito nella vetrata e ricorrente invece nel repertorio scultoreo.

Visione panoramica della Sala I

 

Ritratto di Agrippina Maggiore
Arte romana
prima metà del I secolo d.C.

(vedi animazione)
La piccola testa in ametista viola è databile alla prima metà del I secolo d.C. Spezzata alla base del collo con alcune scheggiature della superficie presenta una leggera torsione verso sinistra e un'inclinazione in avanti.
Dall'acconciatura nella quale i capelli si raccolgono dietro in una crocchia bassa costituita da più trecce riunite, dal suo aspetto giovanile, dall'ovale del viso, decisamente arrotondato, dalla fronte bassa e dalla bocca carnosa, siamo in grado di potervi riconoscere Agrippina Maggiore, moglie di Germanico e madre di Caligola.

 

Madonna in Maestà col Bambino benedicente
Scultore umbro
fine del XIII secolo


(vedi animazione)
L'opera, realizzata da uno scultore umbro intorno alla metà del XIII secolo, si presenta in uno straordinario stato conservativo che mostra ancora, tralasciata qualche piccola ridipintura, la policromia originale.
Conforme all'iconografia della scultura lignea medioevale rappresenta la Madonna in Trono, in questo caso incoronata Regina dei Cieli, in posizione frontale, con in grembo il Bambino Gesù benedicente, seduto sulle ginocchia della Madre.
L'iconografia del Bambino con la mano destra benedicente (mutilo delle dita) e con la sinistra che tiene il globo del mondo (oggi perduto), va ricondotta alla rappresentazione del Salvator Mundi, mentre quella della Vergine con la destra protesa in avanti ed il palmo aperto verso l'alto, in atto di donare il proprio Figlio, sottolinea il ruolo di intermediaria tra Cristo ed il fedele.

 

Riccio di pastorale con l'Annunciazione
Limoges
secondo quarto del XIII secolo


(vedi animazione)
Si tratta della voluta terminale, o riccio, di un pastorale abbaziale o vescovile. Il riccio, prodotto a Limoges attorno alla metà del XIII secolo, è realizzato in rame decorato a smalto con tecnica champlevè. Tale tecnica prevedeva che l'oggetto in metallo venisse lavorato lasciando degli alveoli vuoti quindi riempiti dalla pasta di smalto, che, in seguito a fusione, vetrificava divenendo così omogenea e complanare alla superficie metallica.
Al centro della voluta, decorata a graticcio e potenziata da una cresta dentata in rame dorato, è rappresentato il gruppo plastico dell'Annunciazione, probabilmente realizzato a stampo.
La Vergine, sorpresa dall'arrivo dell'Angelo, si leva dal trono con la mano sinistra alzata.
L'Arcangelo porta con sé lo scettro gigliato e reca il dito indice sotto al mento come a chiedere l'attenzione della Vergine.

 

Placca con la crocifissione
Limoges
primo terzo del XIII secolo






(vedi animazione)
La placca, databile all'inizio del 1200, in origine costituiva la parte centrale della coperta superiore d'una legatura di evangeliario.
Sul fondo blu smaltato a champlevè spiccano la figura del Cristo crocifisso, fusa a parte ed applicata, e ai lati quelle degli angeli e dei dolenti in rame risparmiato ed inciso.

 

Placca traforata con la crocifissione
Francia, Parigi
secondo quarto del XIV secolo





(vedi animazione)
La placca archiacuta in avorio priva di fondo raffigura la crocifissione con i due dolenti avvolti in ampi panneggi ed i simboli del sole e della luna, ed è prodotta a Parigi nel secondo quarto del XIV secolo.
Il fiorone della cuspide ed i pinnacoli laterali, lavorati a parte ed incollati, potrebbero essere frutto di un restauro; anche la mancanza del fondo potrebbe essere ricondotta ad una manipolazione successiva.
Dal punto di vista iconografico, questa preziosa tavoletta ricorda i piccoli altaroli in avorio da viaggio o domestici, particolarmente diffusi nel XIII e XIV secolo in Francia.

 

Placche vitree dorate e graffite
Fra Pietro Teutonico
prima metà del 1300


(vedi animazione)
L'altarolo è composto probabilmente nel corso del XVIII secolo assemblando importanti tessere vitree databili alla prima metà del 1300.
Le cinque lastrine di vetro dorato e graffito appaiono opera di Fra Teutonico, un'artista di nazionalità germanica attivo in Umbria e nel cantiere della Basilica di Assisi.
I vetri conservati al museo «Amedeo Lia» provengono dal tesoro di San Fortunato di Todi e componevano in origine un antico reliquiario, prezioso oggetto devozionale citato già in un inventario del 1327.

 

Pace con Pietà
Arte franco-fiamminga
metà del XV secolo



(vedi animazione)
L'opera fa parte della sezione delle paci del museo, oggetti utilizzati nel corso della liturgia, esposti ed offerti al bacio nel momento in cui l'officiante invitava la comunità dei fedeli a scambiarsi il segno di pace.
Al centro della pace è presente una placca in smalto traslucido su argento raffigurante la Pietà, secondo l'iconografia diffusa nell'Europa centrosettentrionale fra 1300 e 1400.
Il corpo del Cristo è abbandonato sulla ginocchia della Vergine seduta. Dietro di loro la croce e a lato l'Angelo porta con sé la colonna, la corona di spine e i chiodi, simboli della passione.
La placca è incastonata in una cornice in ottone di forma centinata, decorata con otto pietre cabochons, alternate a otto rosette in argento inciso e sbalzato a cinque petali col cuore dorato.

 

Croce processionale
Limoges
1250-1275




(vedi animazione)
La croce astile (*), prodotta a Limoges nel terzo quarto del XIII secolo, è costituita da lamine in rame fissate su di un'anima lignea, dorate, incise e ornate di smalti e pietre a cabochons.
L'oggetto, espressione della spiritualità collettiva, costituiva il simbolo liturgico dietro al quale muoveva la processione dei fedeli. Data quindi la sua funzione, la croce processionale era istoriata da ambedue le parti.

Sul recto della croce la figura del Cristo in rame è fusa a parte ed applicata; si noti il lungo perizoma pieghettato realizzato a champlevè; così come le piccole placche laterali e quelle che decorano il verso di questa preziosa croce processionale.

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(*) È una croce simile a quella da altare ma invece di avere una base, è fissata ad un'asta decorata o dipinta ed è alta circa due metri. Viene usata nelle processioni sia all'esterno, per le processioni per le vie delle città, sia all'interno della chiesa, ad esempio all'inizio della Messa quando il sacerdote entra in chiesa e alla fine quando esce, solitamente viene tenuta da un chierichetto che precede il sacerdote e tutti gli altri ministranti, appena il sacerdote inizia a celebrare Messa viene riposta su una base accanto all'altare affinché sia la croce dell'altare, o altrimenti (se la croce dell'altare c'è già) viene messa in disparte.
Nel rito romano viene tenuta con il crocifisso rivolto in avanti, mentre nel rito ambrosiano è rivolto all'indietro, verso il sacerdote.

 

Ostensorio
Bartolomeo de Magonibus
1437






(vedi animazione)
La presenza del Crocifisso con i due dolenti alla sommità di questa teca sacra datata al 1437 lascia supporre un'originaria destinazione come ostensorio.
L'architettura miniaturistica gotica a tempietto cuspidato ornato di pinnacoli e ghimberghe è sorretta da una base polilobata, che sale in un fusto con un nodo composta da sei edicole ornate da statue di santi.
La lunga iscrizione dedicatoria posta sulla base fornisce indicazione della data di produzione e dell'artefice, l'orafo Bartolomeo de Magonibus attivo a Milano negli anni prossimi al 1437.

 

Cassetta reliquiario
Limoges
(1270-1290 circa)


 

Cassetta reliquiaria
Iacobus de Ferentino
(XIV secolo)


 

Encolpio
Anonimo
VIII secolo







L'oggetto in bronzo, che misura 9 cm su 5,5 cm, è stato realizzato in un centro monastico greco.

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L'encolpio è un piccolo astuccio, contenente reliquie di santi, che i primi cristiani portavano appeso al collo.

 

Piede con calzare in avorio
Arte ellenistica II sec. a.C.


 

 

SALA II: le miniature




Nella sala II, in un atmosfera suggestiva che evoca antichi scrittoi, è raccolta una ricca collezione di miniature.
L'ars miniatoria, tecnica artistica che ebbe particolare importanza nel corso del Medioevo fino al Rinascimento, lungi dall’essere un’arte minore, ha proceduto parallelamente alla pittura e ha espresso grandi personalità artistiche.

Nella sala II è ordinata un'ampia panoramica della storia della miniatura italiana (e non solo) dal Duecento al Cinquecento che offre testimonianza delle principali scuole dell’Italia settentrionale, in particolare Lombardia, Emilia, Veneto e della Toscana, Pisa e Firenze soprattutto.

Visione panoramica della Sala II



La miniatura è l'immagine applicata in un manoscritto al capolettera all'inizio del capitolo o del paragrafo.
La tecnica alla base della miniatura è la “tempera” cioè la dispersione di un pigmento (sostanza minerale) o di una lacca (sostanza vegetale trattata con allume) in un legante che permette al colore di aderire al supporto o alla preparazione.

Il termine “miniatura” deriva verosimilmente dal latino minium, termine con cui un tempo si indicava il “solfuro di mercurio” (HgS), oggi chiamato “cinabro”, un pigmento di colore rosso.
Oggi con il nome “minio” si indica invece il “tetrossido di piombo” (Pb3O4), anch'esso di colore rosso.

A partire dal XIV secolo, il diffondersi di illustrazioni di piccolo formato fece sì che il significato di “miniatura” passasse ad indicare dipinti, oggetti e forme di dimensioni ridotte.

Oltre al vocabolo “miniatura” esiste in italiano anche il termine meno utilizzato di “alluminatura” o “illuminatura” (in inglese e francese si usano infatti rispettivamente illumination e enluminure): si suppone che derivi dai colori luminosi che risaltano sulla pagina scritta, ma si rimanda anche all' “allume” che veniva impiegato per ottenere lacche.

 

Antifonario diurno del proprium de sanctis da sant’Andrea all’apparizione di san Michele
Secondo Maestro dell'Antifonario M di San Giorgio Maggiore
Manoscritto membranaceo
sesto-settimo decennio del 1400





(vedi animazione)
L'importante codice miniato, completo e databile alla seconda metà del XV secolo, è attribuito al miniatore, per noi ancora privo di nome, noto come Secondo Maestro dell'Antifonario M di San Giorgio Maggiore, attivo tra Venezia e l'Emilia e collaboratore del grande maestro Belbello da Pavia.
Il corale, in ottimo stato conservativo, proviene dal convento di San Sisto di Piacenza.
Esso presenta un'insolita esuberanza decorativa, con due o più iniziali istoriate per ciascuna celebrazione liturgica.
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Un “antifonario” (da antiphona, ripetizione di un salmo) è un libro liturgico cattolico che contiene le parti cantate della liturgia.
A differenza del “breviario”, non contiene le letture.

 

Santo con libro
Belbello da Pavia
seconda metà del 1400


(vedi animazione)
Databile agli ultimi anni dell'attività di Belbello da Pavia (1425/1470), la grande lettera Q istoriata fa da cornice ad un santo barbato che regge in mano un libro.
Questo frammanto deriva quasi certamente da un secondo corale eseguito per la comunità di San Giorgio Maggiore di Venezia.

Belbello da Pavia fu tra gli artisti gravitanti attorno all'atelier di miniatori di Pavia, attivo per i Visconti, per i Gonzaga e altre corti italiane ed europee: produsse codici miniati per i committenti più in vista dell'Italia settentrionale, usando uno stile originale ispirato alla vena grottesca ed espressiva del gotico internazionale.

 

Crocifissione
Cristoforo Cortese
Prima metà del XV secolo





(vedi animazione)
La miniatura, in perfetto stato conservativo, si riconduce a Cristoforo Cortese, importante artista attivo a Venezia nella prima metà del XV secolo.
Su di uno sfondo a scacchi oro verde e blu è illustrata la scena della Crocifissione, con la Vergine, San Giovanni Evangelista e Santa Maria Maddalena.
Nei tondi agli angoli della cornice sono raffigurati i busti dei quattro dottori della Chiesa.
Originariamente questa pagina era parte di una Matricola, o Mariegola, cioè di un registro di norme statutarie e regole cultuali di corporazioni artigiane.
Questa opera, ed il suo pendant di altissima qualità, sono la seconda opera finora conosciuta firmata dall'artista.

 

Madonna col Bambino in trono con i santi Giovanni Battista e Ambrogio e due angeli musicanti
Cristoforo Cortese
Prima metà del XV secolo



Nei quattro tondi sono raffigurati i simboli degli Evangelisti.



Non si conosce l'anno di nascita di Cristoforo Cortese, miniatore veneziano figlio di Marco, attivo nella prima metà del sec. XV.
Marco è forse identificabile con il pittore e miniatore che nel 1430 dipinse e dorò la facciata della Ca' d'oro.

Cristoforo Cortese ha rinnovato la miniatura veneziana ricollegandosi alla grande stagione della miniatura bolognese e padovana del Trecento, preparando così la via alla fioritura del secondo Quattrocento.


 

Nascita di San Giovanni Battista
Maestro B. F.
primi anni del 1500









(vedi animazione)
La miniatura è attribuita all'anonimo e raffinato Maestro B. F., così chiamato per le lettere con le quali ha firmato alcune sue opere. L'artista, attivo in Lombardia tra il 1495 e il 1545 circa, raffigura la lettera iniziale H formata da elementi architettonici e vegetali; al suo interno, in un ambiente domestico tutto rinascimentale, si apre la scena della nascita di San Giovanni Battista, con Zaccaria in primo piano in atto di ricevere dalle mani della nutrice il bambino in fasce.

 

Storie di Lancillotto
Maestro di Jean de Dunois (Jean Haincelin?)
quinto-settimo decennio del 1400

     
(vedi animazione)
Queste miniature, di carattere cortese, facevano parte di un codice in cui erano narrate le vicende di Re Artù, Lancillotto e Ginevra.
Eseguito probabilmente a Parigi per il Duca di Berry attorno alla metà del 1400, il manoscritto si riconduce al Maestro di Jean de Dunois, il quale deve il suo nome al fatto di aver miniato il Libro d'oro per il figlio illegittimo del Duca d'Orleans.

Jean d'Orléans, più noto come Jean de Dunois o Bastardo d'Orléans, era figlio illegittimo di Luigi d'Orléans (fratello del re Carlo VI).

 

Miniatura che raffigura la morte



 

Una delle pagine miniate di epoca medioevale



 

Una delle miniature che raffigura un suonatore



 

Capolettera miniato raffigurante il funerale di san Francesco.
Miniatura di ambito bolognese
1430-1440 circa




 

I dodici apostoli in un capolettera
Da un manoscritto di testi liturgici
1300-1325 circa




 

Pentecoste (miniatura raffigurante la discesa dello Spirito Santo)
Pacino di Bonaguida
(1325-1330)




La pittura di Pacino di Buonaguida o Bonaguida, nato a Firenze nel 1280, è caratterizzata da uno stile arcaico fortemente legato ai canoni della fine del XIII secolo e influenzato dalle prime opere di Giotto.
L'unica opera firmata da Pacino è l' “Albero della Vita”, un dipinto a tempera e oro su tavola (oggi conservato alla Galleria dell'Accademia di Firenze).
Il catalogo delle sue opere è costituito da un'ampia serie di miniature; in particolare si segnalano le iniziali istoriate di alcuni codici.

 

Manoscritto con capolettera miniato raffigurante un monaco adorante la croce
Artista anonimo denominato “Primo maestro dei Corali di San Lorenzo”
Prima metà del XIV secolo



 

Figura regale e chierici cantori
Miniatore toscano
1300-1310



 

Manoscritto con capolettera miniato raffigurante il responso di un giurista in cattedra
Anonimo
1300 circa







Il foglio miniato appartiene a un codice del “Corpus iuris civilis” ovvero dell'opera legislativa di Giustiniano, fonte importante del diritto medievale.
La scuola giuridica di Bologna ebbe un importante ruolo nel tramandare le fonti del diritto romano.
Il codice riprodotto fu infatti realizzato nell'ambito della scuola bolognese.


 

Vescovo che benedice una galera
Maestro di Pierre de la Jugie
1350 circa






Il cardinale Pierre de La Jugie de La Montre (1319-1376) era nipote del papa Clemente VI e cugino del papa Gregorio XI.
Quando era arcivescovo di Narbonne curò la redazione del “Livre Vert”, inventario dei diritti e dei beni dell'arcivescovado: in tale documento era contenuta la miniatura raffigurante il “Vescovo che benedice una galera”, ora conservata al Museo «Amedeo Lia», di autore sconosciuto indicato come “Maestro di Pierre de la Jugie”.

 

Miniatura raffigurante il compianto sul Cristo morto
Seconda metà del XIV secolo



 

San Francesco predica agli uccelli
Anonimo
Fine del XIII secolo



 

Capolettera miniato raffigurante Davide arpista e san Francesco stigmatizzato
Anonimo
1450 circa



 

Trasfigurazione di Gesù Cristo. Capolettera miniato
Seconda metà del XV secolo



Il corale da cui è tratto il capolettera potrebbe essere di provenienza fiorentina


 

San Benedetto e i monaci del suo ordine. Capolettera miniato
1460-1470 circa



Il capolettera è parte di un corale in uso in un monastero benedettino


 

Capolettera miniato raffigurante San Benedetto e santa Scolastica in refettorio
1460-1470 circa



Il capolettera è parte di un corale in uso in un monastero benedettino


 

Capolettera miniato raffigurante San Benedetto e i monaci del suo ordine
Anonimo
1460-1470 circa



Il capolettera è parte di un corale in uso in un monastero benedettino


 

Capolettera miniato raffigurante Davide che suona la viola
Benedetto Bordon
1500 circa








Benedetto Bordon nacque a Padova intorno al 1450 da modestissima famiglia (sarto il nonno, barbiere il padre Baldassarre), fu uomo di varia cultura e multiforme attività: miniatore, disegnatore, geografo, editore di classici.
Dimorò press'a poco fino alla fine del secolo nella sua città e dunque la sua arte si formò sotto l'influsso del grande conterraneo Mantegna. Passò poi a Venezia e qui rimase per tutto il resto della vita.

 

Natività della Vergine
Anonimo
Prima metà del XVI secolo



L'opera è stata realizzata nell'ambito della scuola tedesca.


 

 

SALA III: L'antiquarium archeologico




Nella sala III, ricavata dal solaio ottocentesco della chiesa e corrispondente all'abside della chiesa sottostante, è stato ordinato un piccolo antiquarium.
Sono esposte sculture preclassiche e classiche, bronzi e terrecotte di ambito archeologico.
Questi manufatti (cui vanno aggiunti i gioielli e gli avori archeologici della sala I e i vetri che troveremo nella sala IX), costituiscono la sezione antica

Visione panoramica della Sala III

 

Testa virile
Arte greco-cipriota
ultimo quarto del V secolo a.C.

(vedi animazione)
La testa virile in calcare giallo databile attorno al 440 a.C. proviene da Cipro, ricco centro produttivo di sculture atte ad ornare i numerosi santuari dell'isola. I tratti del volto sono descritti assai minuziosamente, il capo cinto da una ghirlanda vegetale che si confonde con i boccoli della chioma, le sopracciglia incise a trattini, gli occhi larghi, le palpebre a rilievo, i baffi fluenti ricadenti ai lati delle strette labbra, la barba ampia e ricca. E' questo il ritratto del devoto ideale posto a gratificare con la sua presenza la vanità della divinità, alla quale garantisce il sorriso eterno.

 

Lucerna ad olio con manico a forma di testa di grifone
Roma
IV-V secolo d.C.

(vedi animazione)
La lucerna in bronzo, realizzata attorno al IV secolo d.C., si riconduce alle prime produzioni dell'epoca cristiana. Il corpo ha la forma di una barca, a rappresentare simbolicamente la Chiesa; il manico ricurvo raffigura la testa ed il collo di un grifone sormontati da una colomba, animali che echeggiano la perenne lotta fra bene e male.

 

Testa di Apollo del tipo Liceo
Roma




(vedi animazione)
La testa rappresentante Apollo è un frammento di scultura a figura intera eseguita a Roma, come replica di un prototipo greco di notevole fortuna e diffusione. Apollo Liceo, presentato in un momento di riposo e sognante abbandono, porta il braccio destro sul capo reclinato. Nella mano mutila si intravede forse un plettro per la cetra: ciò lascia supporre che le statue dovesse raffigurare Apollo con la cetra e non nella sua forma iconografica originaria con l'arco in una mano.

 

Coppetta
Arte del Mediterraneo Orientale
(VI secolo d.C.)



 

Busto di epoca romana



 

 

SALA IV: I dipinti del Duecento e del Trecento




Con la sala IV inizia la sezione dei dipinti della Collezione Lia.
Composta da circa duecento opere, la quadreria rappresenta un panorama entusiasmante della cultura figurativa italiana, dalle tavole due-trecentesche della sala IV ai dipinti settecenteschi ordinati nella sala X.

Ciascuna delle tavole medievali era in origine parte di complessi pittorici più ampi, detti “polittici”.
La tecnica usata prevedeva l'elaborata preparazione della tavola conclusa dalla stesura dell'oro a simboleggiare la luce del Divino. La rappresentazione pittorica vera e propria era eseguita a tempera.

Nella sala IV sono ordinate tavole che documentano egregiamente il rinnovamento figurativo del Duecento e del Trecento: si tratta in gran parte di scomparti di polittici, opera di personalità artistiche legate alla bottega di Giotto e Duccio da Boninsegna, alla cerchia di Simone Martini, ai fratelli Lorenzetti, con i loro seguaci e continuatori.
Riccamente documentato il mutamento del linguaggio pittorico, l’abbandono della tradizione bizantina e la creazione di un volgare artistico che, come avveniva in ambito letterario, si diffonde nelle principali città centro-settentrionali.
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Il “polittico” (dal greco “molte pieghe”) è un dipinto (o rilievo) su legno o tela costituito da più parti unite fra loro da una cornice fissa oppure da cerniere in modo da creare sportelli richiudibili.

Visione panoramica della Sala IV



Arte Bizantina

L'imperatore Costantino emana nel 313, l'editto di Milano, con il quale venne liberalizzato il culto del cristianesimo e nel 330, sposta la capitale dell'impero da Roma a Bisanzio, che, prese il nome di Costantinopoli. Alla morte di Costantino, l'impero iniziò quel processo di divisione, che avrebbe portato alla costituzione dell'impero romano d'Oriente, con capitale Costantinopoli, e dell'impero romano d'Occidente, con capitale Roma. L'impero romano d'occidente, a seguito delle invasioni barbariche scomparve nel 476 d. C. L'impero romano d'oriente, impero “bizantino”, sopravvisse, estinguendosi solo nel XVI secolo con la conquista da parte degli ottomani. L'arte bizantina, sorta a Costantinopoli a partire dal IV sec. d. C., si può dire durò fino al 1453. Dopo la scissione della chiesa d'oriente da quella d'occidente, rimase come il linguaggio figurativo della cristianità ortodossa, sopravvivendo pertanto presso le culture, soprattutto dell'Europa orientale, presso le quali la religione ortodossa è ancora presente.
Anche in Oriente lo scopo delle immagini sacre consisteva nell'educare i fedeli al senso religioso. Alcune differenze emersero tuttavia da subito: mentre in Occidente Cristo era rappresentato con immagini più simili alla realtà quotidiana (vedi l'immagine del Buon Pastore), in Oriente era rappresentato con regalità (vedi il Cristo Pantocratore).
Alla naturalezza dei gesti delle rappresentazioni figurative occidentali, in oriente si delinea una figurazione espressa con spiccata frontalità dell'immagine, rigidezza dell'atteggiamento e fissità dello sguardo. Questo perché la cultura artistica bizantina fu permeata della religione cristiana vista come rivelazione, per cui l'arte, non doveva più narrare ma rappresentare la manifestazione del divino -astratto ed immateriale-, la cui rappresentazione non doveva seguire più le leggi della percezione sensoriale, ma quelle della visione spirituale. Per questo punti fondamentali della tecnica pittorica bizantina divennero: sfondi dorati che servivano a dare alle immagini sacre un valore assoluto astraendole da un contesto spaziale; la ieraticità dei volti ed espressioni, quindi, sempre più immutabili e fisse, nell'assenza di qualsiasi dichiarazione di emotività; l'assenza di tridimensionalità per cui le figure, proprio perché immateriali, non potevano mantenere uno spessore proprio delle cose terrene, ma apparire quasi come immagini proiettate, come apparizioni. Forme significative della pittura bizantina sono le famose icone della Madonna, di Cristo o di santi dipinte su tavole di legno. L'icona per la cultura orientale, ha una triplice dimensione, quella della conoscenza scientifica, della visione teologica e infine del valore artistico. Proprio questa eternità ed immutabilità vengono espresse in figure che non possono che risultare eternamente immutabili e solenni.
Esemplari di icone fiorirono già dal VI sec. d.C. Da non trascurare l'arte della miniatura dei codici, dove si nota un incontro tra la cultura orientale e quella classica. Altra tecnica tipica dell'arte bizantina è il mosaico. Per rendere il mondo spirituale ed inavvicinabile il mosaico con il suo scintillare ed i suoi giochi di luce, poteva creare quella atmosfera irreale voluta di assolutezza trascendente dei soggetti sacri. Nel 404 d.C. Ravenna diventa la capitale dell'impero d'occidente. Dal 493 al 526 Teodorico, re degli ostrogoti è Re d'Italia, e nel 535-553, le truppe di Giustiniano, imperatore d'Oriente conquistano l'Italia. Sotto il regno di Giustiniano l'arte bizantina si definisce e realizza dei capolavori.
In questo periodo si intensificano quei contatti tra Ravenna e Costantinopoli che porteranno alle notevoli espressioni artistiche dei mosaici ravennati. Gli interni delle chiese vengono impreziositi da mosaici quasi a volere sottolineare lo splendore dell'anima rispetto al corpo. L'Imperatore Giustiniano appare in un mosaico del 532 d, C. ai lati del presbiterio della chiesa di San Vitale a Ravenna. Le figure sono prive di consistenza materiale, appiattite e con sguardi solenni e fissi, il fondo d'oro partecipa alla evocazione di un'atmosfera irreale. La volta a crociera è occupata da una decorazione vegetale dalla quale spiccano quattro angeli che reggono un medaglione con l'agnello; nelle lunette, sono rappresentati i quattro evangelisti, con i rispettivi simboli, le storie di Mosè e i due quadri simbolici dell'offerta di Abele. Questa rappresentazione di Giustiniano è giustificabile dalla situazione storica- salito al trono d'oriente egli infatti stabilì una unione con la Chiesa tale da fare apparire la sua figura con un carattere quasi divino. Alla morte di Giustiniano i Longobardi occuparono gran parte dell'Italia nel 568.
Noto il periodo iconoclasta, compreso tra il 730 e l'843 che si basa sulla negazione alla rappresentazione in immagine del Divino. Il periodo iconoclasta provocò uno stacco tra l'arte della corte e quella popolare delle icone dipinte nei monasteri. È a questo periodo che si attesta la diaspora di artisti, che da Costantinopoli furono costretti a trasferirsi in Europa occidentale. L'incontro della cultura bizantina con quella occidentale indusse a reciproche influenze e da questo momento l'arte bizantina acquista l'interesse per la narrazione. È a questo periodo che si attesta la diaspora di artisti, che da Costantinopoli furono costretti a trasferirsi in Europa occidentale. Nell' 867, con l'avvento della dinastia macedone, si concluse il periodo iconoclasta.
Dal 867 al 1057 l'arte bizantina conobbe un secondo momento di splendore. Successivamente l'arte bizantina raggiunse alte qualità decorative: nei sec. XI e XII vediamo profondi echi dell'arte bizantina in Sicilia, nel Duomo di Cefalù, (1148,-65), e nella cappella Palatina e nella Martorana -1148- di Palermo. Anche il Duomo di Monreale (Pa) e la Basilica di San Marco di Venezia risentirono ovviamente di influssi bizantini nella realizzazione degli splendidi mosaici.


Arte Romanica

La cultura artistica che si diffonde a partire dal XI sec. sviluppatasi nell'Occidente cristiano, e diffusasi su tutti i territori Europei, che prima avevano fatto parte dei possedimenti dell'Impero Romano, si definisce genericamente romanica ed ha dei caratteri che si possono dire per certi versi comuni. Nelle diverse regioni in cui attecchisce però si connota in modi particolari assumendo elementi localmente riconoscibili. L'arte pittorica, scultorea e musiva, sono comunque in stretta relazione con l'architettura. Il periodo storico in cui si attua questa rifioritura dell'arte, è ricco di eventi.
Cessate le sconvolgenti ondate barbariche, molti territori d'Europa, cominciarono a riconvertirsi verso forme socio-politiche più stabili. La paura dell'Apocalisse, che si era generata in corrispondenza dell'anno 1000 era ormai alle spalle, e l'arte risente di questo rinnovato clima.
Tornano a crescere di nuovo i centri urbani come luoghi di scambi commerciali e culturali. Si comincia a diffondere il sistema feudale che era stato istituito in epoca carolingia, nei domini dei Franchi. Assistiamo ad eventi importantissimi che vanno dalle Crociate, -la prima propugnata da Papa Urbano II- e dalla conquista di Gerusalemme nel 1099, alla lotta per la successione dell'Impero fra la casa di Baviera e quella di Svevia – che vedrà il contrapporsi di Guelfi e Ghibellini-.
E' anche il tempo dei Normanni, che unificheranno i loro possedimenti in Italia attraverso Ruggero II, che diverrà Re di Sicilia e di Puglia. Per l'arte e per la storia comunque eventi decisivi furono anche, la maggior diffusione e la formazione degli ordini monastici: l'ordine cluniacense e cistercense rappresenteranno punti di riferimento per la costruzione di Chiese e Monasteri, spesso mete di imponenti pellegrinaggi. In Italia è l'epoca dei Comuni. Amalfi e Pisa, Genova e Venezia sono le Repubbliche marinare, nelle quali fiorirà un'arte nuova, portatrice di nuovi linguaggi.
Nel XII secolo, si intensificano ulteriormente gli scambi, acquistano importanza i nuovi ceti sociali dei mercanti e dei commercianti e artigiani: essi costituiranno la futura borghesia. Rifiorisce il mercato delle opere d'arte e si riafferma il ruolo dell'artista. L'arte romanica, pur derivando dall'arte Romana Tardo- antica, da cui trae notevoli spunti, come dall'arte bizantina e da quella di matrice celtica e barbarica, si caratterizza da subito con un originale senso plastico, forte ed espressivo.
Pittura e scultura si connettono all'architettura, dando un carattere di unitarietà che contraddistinguerà l'arte romanica. L'arte tutta, sia pittorica che scultorea, si avvale inoltre di un linguaggio simbolico. La Chiesa è un edificio sacro ed è in relazione con il sacro corpo di Cristo. La pianta a croce latina, che ricorda la croce, è pertanto un elemento di forte simbolicità. La decorazione delle chiese deve avere uno scopo didattico. Ovunque le superfici sono utilizzate per istruire, siano esse decorazioni interne che esterne. Ovunque possiamo trovare immagini del Cristo; nella Mandorla, i simboli degli Evangelisti, la Gerusalemme Celeste, l'Apocalisse, le storie del vecchio e nuovo Testamento ma anche un fiorire di immagini allegoriche. Presente anche la fauna fantastica derivata dal repertorio dei “bestiari”. Il repertorio utilizzato si rifà ad i codici miniati, alle Sacre Scritture, ma anche a repertori classici e orientali e a testi scientifici e filosofici. Durante il periodo romanico anche pittura e scultura non pervengono però ad un sostanziale rinnovamento stilistico. Le immagini sono ancora bloccate e proposte senza libertà espressiva, secondo forme stereotipe. In pittura e in scultura non si affronta, se non per qualche eccezione, il tema della visione in profondità. Per questo si nota che le figure di una determinata rappresentazione, sono poste su un unico piano.
Ancora più che alla scultura, alla pittura in epoca romanica fu consegnato il ruolo di illustrare le verità della fede. L'arte pittorica presenta sia elementi derivanti dall'influenza ricevuta dalle forme bizantine ed dall'arte ottoniana (quest'ultima ravvisabile nella esasperazione del colore), che caratteri popolari legati alle nascenti culture romanze. Naturalmente dalla fusion dei diversi apporti si determineranno anche caratteri di assoluta originalità. Il disegno ha contorni netti, colori decisi sia per i tratti del volto che per le pieghe delle vesti.… si mantiene un forte senso plastico delle figure come in scultura, non mancano deformazioni per accentuare l'espressività. Le composizioni sono contraddistinte da una rigidezza, spesso dovuta alla rigorosa simmetria e alla ripetizione ritmica degli elementi figurativi.
Come per l'architettura anche per l'arte pittorica distinguiamo tratti locali. Le regioni maggiormente interessate dallo svilupparsi di una pittura romanica sono la francia e la Catalogna, e la Lombardia. In Francia la pittura comprende tutta quella serie di cicli di affreschi come quello di Saint-Savin o quello del Battistero di Poitiers. Già compiutamente romanici quelli di Berzè-la-ville del 1100 circa.
Nell'Italia settentrionale, si evidenzia un interesse verso un certo realismo, che non appartiene alla tradizione bizantina. Per ciò che riguarda i soggetti delle raffigurazioni notiamo che rispetto alle immagini del repertorio paleocristiano (come quelle del Buon Pastore e dell'Ultima Cena, della simbolica Vendemmia ecc…), sono ora predilette figurazioni che richiamano la severa posizione del giudizio di Dio, assunta di fronte al peccato. Si narrano con la pittura episodi della vita dei Santi o della Bibbia, per indurre i fedeli ad essere timorosi di Dio. I temi riproposti sono sovente quelli della Creazione, del Peccato originale, della cacciata dal Paradiso Terrestre, del Giudizio finale, tutti per indicare le punizioni derivanti dalla disobbedienza a Dio. Gli episodi del Vangelo, prescelti sono soprattutto quelli che si riferiscono alla Passione e alla Crocifissione, per sottolineare il sacrificio del Cristo per salvare l'Umanità. Tutto è pervaso da un gusto narrativo che a volte sfiora il popolaresco.
In Italia, possiamo riscontrare due filoni principali: quello che trae ispirazione dall'arte bizantina; e quello dei grandi cicli affrescati. Questi ultimi si diffondono, anche grazie all'opera di divulgazione da parte dei cluniacensi e benedettini, che decorano le navate e i rilievi, e si ritrovano sia all'interno che sulla facciata delle cattedrali. Le figure appaiono rigide nei movimenti, ma, rispetto al periodo precedente, sono caratterizzate anche dalla ricerca di maggiore volumetria e rilievo. Uno stile particolarmente efficace e semplice, è quello riferibile all'arte benedettina. Essa, espressiva e popolare in qualche modo semplifica il modo che aveva avuto di proporsi l'arte bizantina, rendendo i soggetti di maggiore e più diretta comprensione. Cristo anche quando è crocifisso viene mostrato eroico, con il corpo eretto e gli occhi aperti superiore ad ogni sofferenza umana; la Madonna è sempre contenuta nei gesti anche quando deve esprimere il suo dolore. Oltre agli affreschi si realizzano alcune pitture a tempera su tavola, e nell'Italia centrale nasce la tradizione delle grandi croce lignee dipinte e delle tavole d'altare, -dette pale d'altare e paliotti d'altare-. Sulle pale e sui paliotti la figura del Santo o della Vergine è posta al centro, e si sviluppa per tutta l'altezza della tavola; ai lati, sono dipinte scene della vita del Santo o episodi del Vangelo disposti su fasce sovrapposte.
Le sculture romaniche, sono eseguite a bassorilievo, e presentano figure rigide e prevalentemente geometrizzate. La caratteristica della scultura è la semplicità della composizione che serve ad istruire la popolazione e deve essere quindi compresa da tutti con efficacia e immediatezza. L'espressività pertanto gioca un ruolo fondamentale ed è accentuata, anche ricorrendo a sproporzioni nei volti e nelle rese degli arti; i gesti gravi e solenni, sono esaltati anch'essi. Nella scultura romanica si supera il rilievo piatto, tipico della decorazione bizantina, e anche il gusto per quella ornamentazione a motivi lineari, che aveva avuto successo nell'ambito delle culture barbariche. Viene recuperata la volumetria delle forme, forse idealmente ispirandosi ai rilievi dei sarcofagi e alle sculture a tuttotondo della tarda romanità. Le figure sono studiate nell'espressione dei volti e nella definizione delle vesti. Temi sacri tradizionali, si alternano a soggetti allegorici ma anche ispirati dalle tradizioni popolari. Non mancano riferimenti alla vita lavorativa e alle leggende cavalleresche. Fra i più importanti scultori del periodo romanico, sono Benedetto Antelami, noto per i rilievi della Cattedrale e del Battistero di Parma e Wiligelmo, che realizzò decorazione della facciata della Cattedrale di Modena. Essi superano la rigida frontalità delle figure per approdare ad una più complessa impostazione delle sculture, composte su diversi piani di profondità.
Un cenno a parte merita la tecnica del mosaico, molto apprezzata in epoca romanica. Dopo la grande stagione musiva avutasi nell'arte paleocristiana la tecnica a Mosaico aveva subito un periodo di arresto. La ritroviamo a Roma tra l'XI e il XIII sec. e nel San Marco di Venezia (1063), grazie al quale riceve un nuovo particolare impulso. La presenza di maestranze bizantine specializzate, inoltre accresce il ruolo di Venezia nel diffondere la cultura figurativa bizantina. Nell'ambito della diffusione della narrativa romanica, l'Italia meridionale resta più legata alla tradizione bizantina. Molto belli anche quelli dell'abside del Duomo di Cefalù (1148). I soggetti sono impostati in modo solenne, ieratico, su sfondo oro. Cappella Palatina (1154), e Duomo di Monreale (XII), presentano figurazioni evangeliche che ricordano invece le contemporanee composizioni di san Marco a Venezia. Segno che in Sicilia maestranze venete vanno sostituendosi alle precedenti bizantine. Questi mosaici fanno capire quanto forte fosse ancora in Sicilia la cultura di stampo orientale. A Monreale ad operare saranno maestranze locali formate su mosaicisti bizantini e veneziani. Da ricordare i pregiatissimi mosaici della Cappella Palatina, quelli della sala di Re Ruggero e quelli della Martorana a Palermo.


Arte Gotica

L'arte gotica nasce in Europa nei sec XII-XIV in un periodo che conosce profonde trasformazioni economiche e sociali. Si supera infatti progressivamente la società feudale e si formano nuove classi sociali, come quelle dei commercianti o dei banchieri. Il termine gotico fu adoperato dagli umanisti italiani come sinonimo di barbarico, per distinguerlo dal romanico essendo, il gotico, proveniente dalle regioni d'oltralpe. Di un vero e proprio atto di nascita del Gotico forse si può parlare nel 1140, quando venne ricostruito il coro dell'abbazia di Saint-Denis in Francia.
In pittura si assiste allo sviluppo dei dipinti su tavola. La committenza è adesso anche da parte di nobili e ricchi borghesi. Il clero commissiona invece dei dipinti su tavola, detti pale d'altare o, se su più tavole – detti polittici. Il polittico è la forma più tipica della pittura gotica... ogni scomparto è generalmente definito da un arco acuto, che può essere trilobato e che poggia su esili colonnine.
Tutto richiama l'architettura. Le decorazioni della cornice fanno pensare a pinnacoli e non mancano motivi floreali; vi è in pittura una spiccata attenzione per la resa dei particolari ma tutto è caratterizzato da una mancanza di profondità. Il fondo delle tavole è dorato, al fine di immergere le figure in una atmosfera ultraterrena. I volti, leggermente stilizzati esprimono sempre grazia e compostezza, (le espressioni rivelanti umani sentimenti, di dolore come di gioia, costituiscono un esplicito richiamo all'essere terreno e pertanto sono accuratamente evitate). Anche gli elementi naturali, quando vengono introdotti, sono sempre stilizzati. Nella scultura gotica i Pisano, segneranno una svolta. Famiglia di scultori, il capostipite Nicola era forse originario della Puglia. Essi operarono tra Pisa, Siena ed altre città del centro Italia. In particolare, dallo studio degli antichi sarcofagi romani, trassero indicazioni per il recupero dei volumi e dello spazio. Con loro fu definitivamente superato il limite della scultura romanica di porre le figure su un unico piano di rappresentazione.
Le forme divennero più plastiche e salde, acquistando nel contempo naturalismo e una certa "verità". Le loro composizioni, benché a basso rilievo, agivano in uno spazio dove i piani di rappresentazione si sviluppavano in profondità. La "Madonna con Bambino" di Giovanni Pisano, del 1306, attenua la tensione della linea gotica, dissolvendola in un naturalismo che preluderà ad i futuri sviluppi del Rinascimento. Mentre per l'arte romanica si pervenne a declinazioni locali che sostanzialmente non si allontanarono da una unica matrice, per l'arte gotica si può affermare che sul piano stilistico emersero differenze -ad es. tra arte italiana e arte francese-, molto rilevanti.
In Italia si assisterà ad un ritorno al naturalismo e alla razionalità terrena della visione, che verrà ad opporsi al precedente misticismo antinaturalistico di cui la cultura bizantina era promotrice. Cimabue, intorno al 1265 realizzerà un Crocifisso dipinto, dove il corpo del Cristo è curvo come un arco. Cimabue in tal modo diviene il primo a fare entrare nella tradizione bizantina una ricerca di effetto plastico, anche attraverso l'introduzione del chiaroscuro. Inoltre l'immagine del Cristo, esprime dolore a acquisisce una inedita umanità per le figurazioni di allora.
Si mantiene invece sul piano di una concezione antinaturalistica dell'arte la Francia, dove al posto della razionalità della rappresentazione, viene proposto l'effetto decorativo delle linee curve e dei colori vivaci. In Francia, si perviene ad un'arte più laica che esprime i nuovi ideali cavallereschi dell'Europa cortese.
Nel corso del XIII e XIV secolo, l'arte però continua ad essere per certi versi subordinata all'architettura e vista come decorazione in particolare di edifici religiosi. Mentre in Europa si sviluppa l'arte delle vetrate colorate, il cui fiorire fu sostenuto dal fatto che gli edifici presentano ora sempre più, uno scheletro strutturale che riesce a liberare ampie superfici da destinare proprio alle figurazioni su grandi vetrate e superfici murarie ridotte, e strutture che non saranno più atte ad accogliere i cicli decorativi ad affresco, in Italia l'architettura continuerà a dare ai pittori ampie superfici murarie su cui intervenire con la pittura. Emerge nel 1300, una rivoluzionaria figura che contribuirà allo stacco dalla cultura figurativa bizantina, -che continuerà però per tutto il XIII sec. ancora ad influenzare gli sviluppi di parte dell'arte pittorica italiana-.
Con Giotto la pittura si riscatta e comincia a rappresentare delle azioni. Giotto inserisce i personaggi cui conferisce volume attraverso il chiaroscuro, in uno spazio architettonico reale con l'attribuzione di profondità. Sfrutta la diversa tonalità che il colore assume in funzione della luce che colpisce gli oggetti e i corpi. Illuminante a tal proposito l'osservazione di Argan: “le variazioni della luce- afferma - avvengono all'interno delle figure, come modulazione chiaroscurale del colore che passa da una figura all'altra. Questa costruzione ottenuta con le quantità luminose e le qualità dei colori è già in nuce, una costruzione tonale". Conferisce tridimensionalità alle sue figure. Comincia ad applicare, seppure in maniera intuitiva e non scientifica, lo scorcio e la prospettiva. Egli fu il primo pittore a produrre immagini vicine ad essere definite realistiche. Agisce a Roma e a Milano, a Firenze e a Napoli, ad Assisi e a Padova. Nel 1300 esegue gli affreschi della Cappella degli Scrovegni, a Padova. Nelle “Storie della Madonna e del Cristo” la scena che rappresenta il “Compianto sul Cristo Morto”, già ci porta in un mondo nuovo per la pittura del tempo. Per la prima volta il fulcro compositivo è spostato sull'ideale centro del pathos: la testa di Gesù Cristo, sul quale convergono gli sguardi dei personaggi e le direttrici compositive dell'affresco. “ al centro, il gesto delle braccia di san Giovanni, collegandosi all'obliqua della roccia, saldai due grandi temi del dolore in terra e del dolore in cielo” - Argan, Storia dell'arte italiana, Sansoni.
Questi pochi riferimenti non sono altro, che dei piccoli spunti per comprendere l'enorme portata rivoluzionaria della pittura di Giotto, che si può considerare a buon diritto un personaggio chiave per l'evoluzione della produzione artistica pittorica a seguire. A Siena si afferma invece un linguaggio più affine alla Francia e allo stile gotico.
Protagonista del gotico senese è Simone Martini. Egli realizza nel 1333 l'”Annunciazione” dove, nell'eleganza estrema delle linee e della costruzione di oggetti raffinatissimi, definisce il suo bello ideale che si contrappone alle ricerche orientate all'emergere di un bello di carattere “morale” di Giotto.

 

Compianto sul corpo di Cristo
Lippo di Benivieni
Tempera su tavola
fine del XIII-inizi del XIV secolo





(vedi animazione)
La piccola tavola, attribuita a Lippo di Benivieni, artista attivo a Firenze tra il 1296 e il 1327, è la narrazione del Compianto sul corpo del Cristo.
La croce affiancata da due angeli dolenti si staglia sulla campitura d'oro che occupa l'intera parte superiore. Due colline rocciose, nude e senza vita, si intersecano ai piedi della croce delimitando così il nodo dei dolenti, che piangono la morte del Cristo disteso sul grembo della Vergine. In primissimo piano un crepaccio pare simboleggiare la frattura fra Dio e l'uomo conseguente la morte di Cristo.

Lippo di Benivieni è una delle più importanti personalità artistiche della pittura fiorentina della prima metà del Trecento, influenzato dalla scuola giottesca, ma che vanta uno stile del tutto personale, con spiccati accenti di matrice gotica in tutte le sue opere.
Confrontando le opere certe con altre si arrivati all'attribuzione anche di opere di miniatura, una forma di arte che all'epoca rappresentava la vera palestra per i pittori.

 

San Giovanni Battista
Bernardo Daddi
terzo decennio del XIV secolo


(vedi animazione)
La tavola, che in origine era parte di un polittico, è stata dipinta attorno al 1320 da Bernardo Daddi. Sul fondo oro si staglia la figura di San Giovanni Battista, ritratto come uomo vero, con i capelli scomposti, la barba incolta, il viso ed il corpo segnati dalle privazioni del deserto. E' vestito con la pelle di cammello, suo attributo iconografico, ed avvolto da un manto rosso, premonizione della morte di Cristo.

Fiorentino nello stile, Bernardo Daddi lavorò nella bottega di Giotto assieme a tutti coloro che saranno gli interpreti dello stile tardo del maestro (quali ad esempio Taddeo Gaddi, Stefano Fiorentino, Maso di Banco, ecc.).
Riguardo a questi pittori, e lo stesso Daddi non è eccezione, la critica è sempre stata, probabilmente non a torto, estremamente severa.
Tuttavia il Daddi fu molto apprezzato e riuscì ad ottenere importanti commissioni sia dalle istituzioni che dalla borghesia divenendo uno dei pittori fiorentini più rinomati e ricchi.
Rispetto agli stilemi giotteschi, nel Daddi si nota una pittura più raffinata che si avvicina probabilmente alla più aristocratica (e più apprezzata dall'alta borghesia) arte senese nei modi di Ambrogio Lorenzetti.
L'utilizzo più complesso e curato del colore e dei tratti si evolverà poi in quelle che saranno le caratteristiche dominanti perfettamente identificabili nelle sue opere più tarde.
La produzione pittorica di Bernardo Daddi fu senza dubbio molto ampia, considerando la fama che raggiunse al suo tempo; dopo la morte di Giotto fu probabilmente a capo della più importante bottega di pittura Firenze.
A parte le poche opere firmate, il catalogo delle opere a lui attribuite come in massima parte opere riconosciutegli dalla critica d'arte; in ogni caso è pressoché impossibile distinguere la sua mano da quella di collaboratori e seguaci della bottega.

 

Vir dolorum
Pietro Lorenzetti
terzo decennio del XIV secolo

(vedi animazione)
Inquadrata da una specie di bordo decorato originale, la tavola è opera di Pietro Lorenzetti e databile agli anni 1320 - 1325. Probabilmente essa era parte di una predella di ragguardevoli dimensioni, a sua volta pertinente a un grande polittico andato disperso, ma di cui sono rintracciabili altri frammenti. All'interno dello spazio quadrilobato e su fondo oro è rappresentato il Cristo, nella sua accezione di Vir dolorum  (*), adagiato nel sepolcro col capo reclinato sulla spalla destra.

Pietro Lorenzetti, fratello maggiore di Ambrogio Lorenzetti, è stato un pittore della scuola senese del Trecento.
La sua formazione dovette compiersi sotto Duccio di Buoninsegna, col coetaneo Simone Martini.
Pietro Lorenzetti sviluppò un linguaggio figurativo autonomo che sintetizzava arte senese e linguaggio giottesco. Emblematica è per esempio la scena dell'Ultima Cena, costruita attorno ad un tavolo al di sotto di una magnifica loggia esagonale, dove viene dimostrata l'assimilazione delle tecniche prospettiche per le virtuose ambientazioni architettoniche derivate da Giotto; ma ancora più sorprendente è la visione della stretta stanzetta dei servitori a sinistra: un quarto della superficie dell'affresco è infatti occupato dalla cucina adiacente, dove il cibo sta bollendo sopra un focolare e due servitori puliscono le stoviglie e gettano gli avanzi; sullo sfondo si riconoscono particolari dell'arredo (una pala da carbone e ripiani con stoviglie) e in primo piano troviamo un gatto che si riscalda al fuoco e un cane che lecca gli avanzi di cibo dai piatti. Nessun giottesco avrebbe probabilmente considerato degno un dettaglio che per quanto quotidiano appare piuttosto “basso”, mentre la curiosità del Lorenzetti appare accesa da questo minuzioso dettaglio, dalla precisa descrizione della realtà.


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Dal punto di vista iconografico i due tipi fondamentali di rappresentazione della figura di Cristo sono:
- “prototipo di bellezza”, per rendere lo splendore della sua divinità attraverso la perfezione delle sue forme umane;
- “brutto”, sfigurato e deformato dai dolori e dalle sofferenze della Passione e Morte (“Vir dolorum”, l'uomo dei dolori).
Ad alimentare questa seconda tendenza artistica, ben diffusa per tutto il Medioevo ed oltre, concorrono nuove istanze spirituali, espresse principalmente da nuovi ordini religiosi: con San Bernardo e poi con i Francescani e Domenicani, la predicazione verte soprattutto sulla dimensione umana di Cristo, le cui sofferenze vengono visualizzate ed offerte alla compassione e alla contemplazione della gente proprio attraverso le tante opere d'arte che mostrano al popolo le carni straziate dalle torture, le piaghe causate dalla Crocifissione, i segni evidenti della Passione, il sangue versato fino all'ultima goccia.
Si vuol così suscitare emozione, compassione, partecipazione intensa alle sofferenze di Cristo, per essere poi veramente partecipi della gioia della Resurrezione.

 

San Giovanni Evangelista
Pietro Lorenzetti
prima metà del XIV secolo







(vedi animazione)
Il dipinto su tavola è riferibile alla tarda attività di Pietro Lorenzetti e databile agli anni quaranta del XIV secolo.
Dal fondo oro, punzonato a definire l'aureola, emerge la figura fortemente volumetrica e vigorosa di San Giovanni Evangelista.
Lorenzetti ce lo descrive come uomo vero segnato dalla vita e dall'età: pochi sono i capelli, evidenti le rughe d'espressione sulla fronte e ai lati degli occhi.

 

Crocifissione
Barnaba da Modena
settimo decennio del XIV secolo circa


(vedi animazione)
La tavola, originariamente parte di un dittico, rappresenta la Crocifissione ed è stata realizzata da Barnaba da Modena intorno al 1370.
Il dipinto suddiviso in episodi narrativi isolati sembra avere un moto ascensionale.
La croce campeggia isolata ed è sormontata da un albero nella cui chioma è riconoscibile il pellicano mistico che si squarcia il petto per nutrire i propri figli, simbolo del sacrificio estremo di Cristo.

Barnaba Agocchiari, detto Barnaba da Modena (nacque infatti a Modena nel 1328), è stato un pittore attivo soprattutto in Liguria, in Piemonte e a Pisa.
Il suo gusto pittorico, partendo dalla vivace scuola emiliana, subì influenze di tipo bizantineggiante (in particolare l'uso di strigilature d'oro nelle vesti, che B. non abbandonerà se non in rarissimi casi) e qualche spunto gotico che avvicinarono l'artista alla scuola senese.

 

Crocifissione
Bottega di Simone Martini
1345 - 1350

(vedi animazione)
Alla cerchia di Simone Martini si riconduce la tavola raffigurante la Crocifissione, databile al 1345 - 1350.
In eccezionale stato di conservazione, questo dipinto, di altissima qualità, era con ogni probabilità la parte destra di un dittico.
La scena su fondo oro è animata da soldati vestiti di ricche armature, che si affacciano increduli sulla scena del martirio o si prestano ad assistere la Vergine svenuta a terra.
Angeli leggeri, quasi composti dello stesso sangue di Cristo, sembrano accorrere straziati incontro alla croce.

Simone Martini, indicato talvolta anche come “Simone Sanese” essendo nato a Siena nel 1284, è stato un pittore e miniatore italiano, considerato uno dei maestri della scuola senese e sicuramente uno dei maggiori e più influenti artisti del Trecento italiano, l'unico in grado di contendere lo scettro di maggiore artista del trecento a Giotto. La sua formazione avvenne, probabilmente, nella bottega di Duccio di Buoninsegna.
Simone Martini è uno dei maggiori rappresentanti del gotico cortese e la sua pittura aulica si richiama al mondo aristocratico-cavalleresco, mentre il realismo di Giotto si rifà alla cultura del mondo borghese-mercantile.

 

Madonna in trono col Bambino
Bottega di Duccio di Buoninsegna
II-III decennio XIV secolo




Duccio, figlio di Buoninsegna, è stato un pittore tradizionalmente indicato come il primo maestro della scuola senese.
L'arte di Duccio aveva in origine una solida componente bizantina e una notevole conoscenza di Cimabue (quasi sicuramente suo maestro nei primi anni di attività), alle quali aggiunse una rielaborazione personale in senso gotico, inteso come linearismo ed eleganza transalpini, una linea morbida e una raffinata gamma cromatica.
Col tempo lo stile di Duccio raggiunse esiti di sempre maggiore naturalezza e morbidezza e seppe anche aggiornarsi alle innovazioni introdotte da Giotto, quali la resa dei chiaroscuri secondo una o poche fonti di luce, la volumetria delle figure e del panneggio, la resa prospettica.
Il suo capolavoro, ovvero la Maestà del Duomo di Siena, è un'opera emblematica dell'arte del Trecento Italiano.

 

La Vergine Annunciata
Seguace di Duccio di Buoninsegna
III decennio XIV secolo



 

Annunciazione
Paolo di Giovanni Fei
1360 - 1410








Paolo di Giovanni Fei è stato un pittore trecentesco attivo a Siena in un periodo in cui gli artisti locali erano per lo più semplici emulatori dell'arte di Simone Martini e di Pietro e Ambrogio Lorenzetti: il F. nell'ultimo quarto del XIV secolo si attesta invece tra pittori senesi come colui che meglio riesce a rivivificare l'arte di Simone Martini.

 

Annunciazione
Maestro della Maddalena
Seconda metà del Duecento







Il “Maestro della Maddalena” è un anonimo pittore dell'area fiorentina, attivo nella seconda metà del Duecento.
In nome gli è stato assegnato a partire dalla grande tavola della Maddalena penitente conservata alla Galleria dell'Accademia di Firenze.
Tra le principali caratteristiche del suo stile l'incisività nel creare scenette narrative e l'attenzione al particolare, con le quali compensa una certa disarmonia nelle figure, la ripetizione sistematica delle tipologie dei volti e una certa macchinosità nelle composizioni.

 

Nascita di Gesù
Maestro della Maddalena
Seconda metà del Duecento



 

La presentazione di Gesù al Tempio
Maestro della Maddalena
Seconda metà del Duecento



 

La visitazione dei magi
Maestro della Maddalena
Seconda metà del Duecento



 

Crocifissione
Maestro della Maddalena
Seconda metà del Duecento



 

Francesco d'Assisi stigmatizzato
Seconda metà del Duecento



 

 

SALA V: I dipinti del Quattrocento




Nella sala V sono conservati i dipinti del Quattrocento che documentano il passaggio dal Medioevo all’età rinascimentale. Accanto ai fondi oro, ecco che compaiono opere in cui la luce del miracolo viene sostituita da un paesaggio reale, geometricamente descritto: lentamente ogni fatto narrato, anche quello religioso, viene calato in un mondo vero e reale.
La sala offre esempi significativi del variegato panorama dell’arte pittorica del Quattrocento di alcuni dei principali centri urbani e di corte dell’Italia del tempo: Milano, Ferrara, Genova, Napoli, Firenze.

Visione panoramica della Sala V



Arte del 400

Il termine Rinascimento fu utilizzato da Vasari nelle “Vite”, proprio per identificare quella rinascita delle arti che, in Italia si stava sviluppando già dall'inizio del XV sec.
Consiste in quella nuova visione culturale, in quel rinnovamento d'arte e di pensiero, che nasce nel 1400, e che si avvale in una prima fase delle tematiche formatesi in seno all'Umanesimo per poi definirsi compiutamente nella prima metà del '500.
L'Umanesimo, sorto come movimento letterario, anche sotto il punto di vista etimologico del termine, ci conduce agli Studia Humanitatis, volti alla conoscenza delle problematiche dell'uomo da un punto di vista etico.
Centro della cultura umanistica sarà Firenze... l'arte, non sarà più considerata come un'attività manuale bensì intellettuale. Da Firenze partiranno quei principi che, anche per ciò che riguarda l'arte e l'architettura, si irradieranno in varie parti d'Italia. La corte di Lorenzo il Magnifico si compone di una vasta cerchia di letterati che mirano a diffondere il pensiero di Platone, in diretta opposizione con le dottrine aristoteliche. La filosofia di Platone viene ripresa per ciò che riguarda il primato dello spirito dell'uomo, e la sua capacità di salire dalle tenebre alla luce. Determinante fu l'influsso dell'Accademia neoplatonica di Firenze, che si era formata proprio nel periodo di Lorenzo il Magnifico.
L'umanista Marsilio Ficino sancisce con i suoi scritti un nuovo rapporto con l'epoca classica: nella saggezza degli antichi si può ritrovare quella valorizzazione del pensiero e dell'azione dell'uomo al di fuori delle tradizionali visioni collegate alla religione cristiana. Ficino aveva tradotto le opere di Platone e un insieme di scritti attribuiti ad Ermete Trimegisto, leggendario personaggio, dal quale si dedussero dei principi esoterici. L'ermetismo voleva indagare i rapporti dell'uomo con il cosmo.
C'è un riferimento con tutto quel repertorio di simboli alchemici e astrologici della tradizione medievale, insieme ai miti dell'antichità. Non bisogna pensare che il recupero della tradizione pagana e del pensiero classico si siano voluti riprendere in contrapposizione alla religione cristiana....Si tenterà anzi, in questo periodo una sorta di mediazione, di conciliazione tra le tematiche dell'umanesimo e la visione religiosa. Conseguenza dell'umanesimo è una nuova concezione dell'arte che conduce ad una ricerca del rapporto uomo-natura.
In arte il “naturalismo”, che parte dal principio che l'arte debba imitare la natura, condurrà a considerare l'uomo al centro dell'universo come misura di tutte le cose. In scultura questo porterà ad una più attenta e consapevole caratterizzazione di gesti ed espressioni, anche se, questo “realismo” sarà sempre attenuato dall'esigenza di tendere agli ideali di bellezza e perfezione. Il classicismo rinascimentale, attuerà quel continuo riferimento, alla produzione artistica dell'antichità classica, latina e greca per risvegliare quel principio di bellezza come equilibrio ed armonia, razionalità e perfezione di proporzioni. Anche se, nelle rappresentazioni non si perverrà nel corso del 1400 a caratteri prettamente descrittivi.
La riscoperta del mondo classico comporterà pertanto il recupero dei modelli artistici dell'antichità e si farà un sempre più esplicito riferimento al “Classicismo”, ma soprattutto l'innovazione consisterà nel fatto che adesso l'uomo, con tutte le sue facoltà intellettive sarà considerato protagonista della storia e la rappresentazione del mondo circostante si porrà in funzione di colui che lo osserva.
Così avviene che al punto di vista dell'osservatore, nella rappresentazione visiva, tutti gli elementi diventano subordinati.
L'arte del Quattrocento pertanto si baserà, su un nuovo modo di rappresentare lo spazio: la prospettiva.
Approccio scientifico alla visione e bisogno di stabilire regole fra le parti, per ottenere l'armonia dell'insieme, si tradurranno anche nello studio delle proporzioni.
Pittura e scultura ormai completamente autonome, esprimeranno la ricerca di armonia ed equilibrio fra i vari elementi compositivi.
Tre le personalità di spicco: Brunelleschi, Donatello e Masaccio.
È il concorso del 1401 per la porta bronzea del Battistero di Firenze, cui parteciperanno Brunelleschi e Ghiberti, a far notare per la prima volta quella nuova tendenza che propende per il naturalismo e il classicheggiante. Mentre la scena realizzata da Ghiberti si inserisce nel riquadro della formella, Brunelleschi carica le sue figure di una dinamica visione che, volendo come rifuggire dalla costrizione della cornice, appare più movimentata e libera dell'opera svolta dal Ghiberti.
Donatello si può senza dubbio considerare l'iniziatore del classicismo rinascimentale del 1400. Egli realizza quella sintesi tra le tendenze culturali ed estetiche dell'epoca, fondendo il gusto dell'antico con una innovativa impostazione naturalistica e le recenti teorie sviluppate nel campo dell'arte: la prospettiva e la teoria delle proporzioni.
Donatello non si fa ingabbiare dai modelli classici della statuaria; trae anzi spunto da essi per delle soluzioni originali.
Tutto il repertorio classico viene filtrato dalla sua capacità di reinterpretazione. Emergono prepotenti le caratteristiche espressive dei volti, gli atteggiamenti posturali. Si è parlato per Donatello addirittura di anticlassicismo.... ed in effetti volendo valutare la scultura in legno della “Maddalena”, spicca una decadenza corporea che si mostra nella sua cruda realtà. Questo ci porta ben lontani dagli ideali classici di bellezza.
Il monumento più canonicamente classico di Donatello è il "Gattamelata", monumento equestre che si riferisce esplicitamente alla statua equestre di Marco Aurelio in Campidoglio. Ma è il "David" di Bronzo del Bargello l'opera più emblematica di questo grande scultore... denominato David, si potrebbe anche trattare del Mercurio vincitore di Argo. L'opera si ispira ai modelli classici, però l'accennata instabilità della postura e l'atteggiamento suggeriscono un qualcosa di nuovo, di straordinariamente umano. Forse un preannuncio dei primi sintomi della successiva crisi degli ideali dell'umanesimo, oltre che della sua particolare sensibilità di render partecipe un rapporto, quello con le antichità classiche, con la realtà umana della gente.
Per ciò che riguarda la pittura, si abbandonano progressivamente i fondi oro ed i corpi sono definiti nell'anatomia e nel movimento. Si afferma il ritratto.
Masaccio è colui che, al pari di Donatello e Brunelleschi opera una rivoluzione nell'arte del 1400, portando alle estreme conseguenze il cammino intrapreso da Giotto. Vi è in Masaccio una definizione rigorosa dello spazio, sulle leggi della prospettiva formulate da Brunelleschi. Le figure non si trovano inserite in uno sfondo che allude semplicemente ad un determinato ambiente, ma in uno spazio architettonico o in un ambiente naturale concreto. La struttura volumetrica delle figure è definita dal sapiente uso delle luci, delle ombre e dal chiaroscuro.
Si fanno strada le caratterizzazioni della fisionomia dei personaggi...
Osservando la “Cacciata dei progenitori”, - 1425- opera realizzata nell'ambito degli affreschi della cappella Brancacci in S. Maria del Carmine a Firenze, notiamo una composizione piena di drammaticità, che non tende alla bellezza ideale ma solamente ad evidenziare il dolore, dovuto al peso della colpa.
Questo dolore, tuttavia, non è mai urlante, ma sempre composto, dignitoso... e le scene, che sono inserite in uno spazio reale, vogliono acquisire il diritto di essere dato nella storia, eterna attualità di una documentazione di un avvenimento universale.
Sensibile all'opera innovativa di Masaccio fu Beato Angelico, frate domenicano.
La concezione dello spazio in chiave prospettica è utilizzata da Beato Angelico per dare spessore alle composizioni che conservano una struttura di tipo rinascimentale, dal carattere ovviamente spirituale e trascendente.
Di Beato Angelico si ricordano sovente le Annunciazioni, che sono un tema ricorrente nella sua arte. Ne definisce un modello iconografico che vede la Vergine Maria seduta a destra inquadrata all'interno di una struttura architettonica in prospettiva. L'angelo a sinistra è nell'atto di svolgere il suo compito di messo.
Un altro modo di concepire il problema della prospettiva è quello di Paolo Uccello, considerato tra i più importanti pittori rinascimentali.
Chi non ricorda la “Battaglia di San Romano”. Qui anche gli spazi vuoti e le linee, diventano elementi compositivi centrali. Danno il senso di un ritmo incalzante. L'autore coltiva proprio una passione per la prospettiva, tanto da aver fatto giungere a noi tramite un aneddoto di Vasari la frase: “Che dolce cosa è questa prospettiva”. La vede non tanto in funzione della rappresentazione dello spazio, ma in se stessa, come un modo per tradurre la realtà in termini geometrici.
I corpi sono oggetti da ridurre a forme geometriche da poter mettere in prospettiva. Ecco perché la figura di P. Uccello si può accostare agli artisti dell'arte contemporanea, ecco perché è così profondamente innovativo.
Principale teorico della nuova concezione dell'arte, esposta in tre trattati sulla pittura, scultura e architettura è L. B. Alberti, architetto.
Ad Urbino è attivo Piero della Francesca. La sua formazione avviene a Firenze. Piero della Francesca si pone in stretta relazione con gli ideali estetici di Alberti, e la sua arte si può comprendere meglio alla luce dello studio di questo Architetto. Piero applica la costruzione prospettica alla figura umana e la concepisce come corpo solido nello spazio.
Altra grande personalità artistica sarà Andrea Mantenga che riuscì a fondere la sua ricerca anatomica con la prospettiva e a realizzare nelle sue opere sorprendenti scorci della figura.
Ad Antonello da Messina, si deve la diffusione in Italia della tecnica della pittura ad olio, appresa dai fiamminghi. Di Antonello, che si confermò come uno dei maggiori maestri del Quattrocento europeo, restano in Sicilia: Ritratto di ignoto marinaio; la "Annunziata" della Galleria di Palermo, il "Polittico di S. Gregorio" del Museo di Messina, e l' "Annunciazione" del Museo di Palazzo Bellomo a Siracusa.
Infine Sandro Botticelli porta il fluido disegno dalle limnee sinuose dei Fiorentini ad uno stile proprio di soavità e bellezza.
In un primo tempo la sua produzione è contraddistinta da una propensione verso le visioni idealizzanti, vicine alle tendenze della corte di Lorenzo il Magnifico.
Successivamente anche lui si avvierà verso una più tormentata visione che lo porterà ad un rifiuto della cultura classica e lo congiungerà alla crisi degli ideali della cultura dell'umanesimo.
C'è da dire che Botticelli era diventato seguace di Savonarola, che venne arso nel 1498.
Addirittura sul finire della sua vita, Botticelli assumerà nei confronti della prospettiva e della anatomia un atteggiamento ostile, giudicando le scienze come malvagie e auspicando un ritorno alla semplicità dei primitivi.
Di Botticelli si ricordano maggiormente “La Primavera” del 1478 e la “Nascita di Venere” del 1485. Tali opere vanno inquadrate nel contesto nel quale Botticelli agiva. Tra gli anni 1470 e 1485 infatti frequenta la corte di Lorenzo il Magnifico e viene influenzato dalle teorie neoplatoniche e dall'ermetismo di Marsilio Ficino. Lui cerca la bellezza ideale, ma non come pura espressione di un fatto estetico, bensì come risultato di una bellezza principalmente spirituale. Ricorre all'allegoria e al simbolo di ispirazione classica.

 

Madonna con Bambino e i santi Antonio da Padova e Domenico
Matteo di Giovanni
Borgo San Sepolcro (AR), 1430 circa – Siena, 1495 Tempera su tavola


(vedi animazione)
Lo straordinario dipinto, in ottimo stato conservativo, è stato realizzato dal senese Matteo di Giovanni alla fine del XV secolo.
La Madonna elegantemente descritta tiene in grembo il Bambino Gesù.
Dietro di loro ci sono i santi Antonio e Domenico, vivacemente dipinti, che, corrucciati, osservano la scena.
Benché l'autore conosca alla perfezione la prospettiva, come si evince dai rapporti spaziali che legano le figure, immerge la scena in un fondo oro.
Questa operazione è quasi un omaggio alla grande tradizione senese trecentesca, ma con lo sguardo attento alla levità proprio di Simone Martini.

Mattèo di Giovanni (detto anche Matteo da Siena) nacque tra il 1425 e il 1430 a Borgo San Sepolcro da Giovanni d’Agnilo (o Agnolo) di Bartolo Manni.
Fu a Siena che si svolse la sua formazione avvenuta con un lungo e influente legame con Lorenzo di Pietro, detto il Vecchietta, forse direttamente nella bottega di quest’ultimo. L’effettiva presenza di M. presso il Vecchietta è ancora oggetto di discussione critica: infatti, se nelle sue prime opere certe il dato stilistico inoppugnabile è l’assoluta aderenza allo stile di quello e in particolare alla personalissima lettura che egli offrì della lezione di Donatello e delle sue opere senesi, è pur vero che il Vecchietta giocò un ruolo forte e capillare nella formazione degli artisti della stessa generazione di M. seppure non tutti presenti nella sua bottega.

 

San Girolamo
Masaccio (ex Bicci di Lorenzo)
1433



(vedi animazione)
La tavola, da sempre considerata opera di Bicci di Lorenzo, è stata recentemente attribuita a Masaccio.
Eseguita nel 1433, essa era parte di un grande polittico, situato originariamente nella chiesa di San Nicolò in Cafaggio a Firenze e da lì rimosso nel 1783.
San Girolamo, in quanto traduttore e divulgatore del Testo Sacro, è descritto qui forte e possente, nell'atto di scrivere; immerso nel fondo oro, il santo appare tanto assorto da essere estraniato dalla realtà circostante.

Masaccio, soprannome di Tommaso di ser Giovanni di Mone Cassai nacque nel 1401 nell'odierna San Giovanni Valdarno.
Fu uno degli iniziatori del Rinascimento a Firenze, rinnovando la pittura secondo una nuova visione rigorosa che rifiutava gli eccessi decorativi e l'artificiosità dello stile allora dominante, il gotico internazionale.
Partendo dalla sintesi volumetrica di Giotto, riletta attraverso la costruzione prospettica brunelleschiana e la forza plastica della statuaria donatelliana, inserì le sue figure in architetture e paesaggi credibili, modellandole attraverso l'uso del chiaroscuro.

 

Madonna dell'umiltà e angeli musicanti
Benedetto Bembo
fine del XV secolo
Tempera su tavola


(vedi animazione)
La tavola, dipinta a Ferrara intorno alla metà del Quattrocento, è stata attribuita al Maccagnino, pittore attivo alla corte estense, e poi ricondotta, con maggior pertinenza, al catalogo di Benedetto Bembo.
Il dipinto rappresenta la Vergine con il Bambino e gli angeli musicanti e mette in luce l'idea di passaggio fra Medioevo e Rinascimento.
La Vergine umile, seduta per terra, regge il Bambino, entrambi enormi rispetto agli angeli che fanno loro da coro.

Benedetto Bembo, figlio di Giovanni, capostipite di una famiglia cremonese di pittori: oltre al padre Giovanni, furono pittori anche i fratelli di Benedetto, Bonifacio e Andrea.
B., anziché seguace della tradizione tardo-gotica come il fratello Bonifacio e l'altro pittore cremonese contemporaneo C. Moretti, appare orientato verso la cultura padovana, squarcionesca(*), caratterizzata da asprezze lineari e coloristiche e da un gusto antiquario contemperato con eleganze tardogotiche.


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(*) Francesco Squarcione, un artista/impresario che accoglieva artisti della provenienza più varia, trasmettendo loro i segreti del mestiere e la passione antiquaria. Il suo amore per l'antico, che negli anni venti del Quattrocento l'aveva portato forse fino in Grecia, era legato nelle sue opere a una spazialità di tipo tardogotico e una preferenza per la linea elaborata e tagliente, che sbalza le figure ed esalta i panneggi.
Dal suo insegnamento ciascun allievo sortì esiti diversi, talvolta opposti, dal severo classicismo di Mantegna, alle esasperaioni fantastiche dei cosiddetti “squarcioneschi”, quali Marco Zoppo, Carlo Crivelli e lo Schiavone (Giorgio Çulinoviç). Questi ultimi, pur con le rispettive varianti personali, sono accomunati da una predilezione per contorni aspri e spezzati, colori intensi che fanno somigliare anche gli incarnati e i tessuti a pietre e smalti, l'uso di elementi antichi per decorazioni dal sapore erudito e l'applicazione di una prospettiva più intuitiva che scientifica.




Tipi iconografici della Madonna nell’arte cristiana.

 

Apoteosi di San Nicolò da Tolentino
Giovanni Mazone
settimo decennio del XV secolo


(vedi animazione)
Il grande dipinto rappresentante l'Apoteosi di San Nicolò da Tolentino era lo scomparto centrale di un polittico eseguito per Santa Maria della Cella a Sampiardarena: la committenza di questa grandiosa opera si pensa sia della potente famiglia Doria.
La tavola è stata eseguita da Giovanni Mazone attorno al 1466 ed è stata successivamente adeguata alla forma ovale, che noi oggi possiamo ammirare.

Giovanni Mazone nacque da una famiglia di pittori originaria della città di Alessandria trasferitasi a Genova agli inizi del XV secolo (come molti altri pittori settentrionali del tempo).
Giovanni che non poté attingere alcun influsso dalla città nativa tradizionalmente negata alle arti, svolse la sua lunga attività artistica a Genova, vero crogiuolo dei più diversi stili unificati in una scuola pittorica raramente autonoma e vissuta per secoli all’ombra della tradizione toscana.
Attorno al 1450 il panorama artistico non solo italiano, ma europeo mutò profondamente: a Firenze ed in altri centri vicini era nato il “Rinascimento”.
In Liguria il Mazone fu l’artista che maggiormente risentì di questo mutato clima di circolazione artistica nel Mediterraneo.
I documenti attestano che Giovanni Mazone fu artista molto celebre e richiesto ai suoi tempi, ma non si può dire che il suo destino postumo sia stato altrettanto felice. A poco a poco le sue opere furono trascurate, molte andarono perdute e il suo nome fu dimenticato, in quella generale trascuratezza che coinvolse tutta la produzione pittorica ligure del Quattrocento a cominciare dai primi decenni del '500, quando il clima culturale della regione mutò profondamente, soprattutto per il prevalere dei toscani, dei fiamminghi e dei leonardeschi. Questo spiega perché nella critica posteriore sul pittore alessandrino si sia creata una grande incertezza attributiva con errori a volte vistosi.
Ancora oggi, sebbene molti errori di attribuzione siano stati corretti già da tempo, per alcune opere l’incertezza attributiva rimane e la formazione del pittore è tuttora un problema oscuro.

 

San Girolamo penitente
Alvise Vivarini
fine del XV secolo


(vedi animazione)
Alvise Vivarini, grande interprete della cultura figurativa veneziana, dipinge questa tavoletta intorno alla fine del Quattrocento.
San Girolamo penitente, che si batte il petto, è inserito in un paesaggio che con la sua luce e la sua qualità meteorologica diventa il vero protagonista.
L'oro della santità viene abbandonato per lasciare il posto ad un umido deserto di laguna.

Alvise Vivarini nacque a Venezia tra il 1445 e il 1451.
Figlio di Antonio Vivarini e nipote di Bartolomeo Vivarini, la sua formazione avvenne inizialmente sotto la loro guida.
Rispetto al padre e allo zio, si tenne maggiormente al passo coi tempi, addolcendo la lezione padovana sull'esempio di Antonello da Messina, mantenendo però un contorno secco e una luce fredda che fa apparire i colori lucidi come smalto, senza assimilare la rivoluzione luministica del messinese.

 

San Giuseppe
Ambrogio da Fossano detto Bergognone
Milano 1481-1522

In carenza di dati biografici, si suppone che Ambrogio da Fossano (Ambrogio di Stefano) detto il Bergognone sia nato tra il 1451 e il 1456, e ancora si discute sul luogo di nascita (Milano o Fossano), sul casato (Fossano, Bergognone), sul soprannome (Brecognone, Bergognone, Borgognone). È comunque pacifico l'ambiente esclusivamente lombardo della sua formazione, del suo mondo poetico, della sua arte.
Fondamentale fu per A. la lezione di Vincenzo Foppa. Tra i due corre all'incirca l'età di una generazione e vi furono quasi certamente rapporti di alunnato diretto, anche se può dirsi che le conquiste plastiche, formali, prospettiche del grande bresciano non furono veramente comprese e assimilate da Ambrogio.
Col tempo le contemporanee opere dei due maestri divergono sempre più come atmosfera e spirito e profondamente diversa risulta l'intuizione luministica delle forme.
Accanto alla tradizione lombarda e alla lezione foppesca sono palesi influenze fiamminghe e franco-borgognone, a lui giunte col peregrinare degli artisti e soprattutto con la miniatura.
Nell'ultima parte della vita e dell'attività di A., la suggestione leonardesca rimasta affatto in superficie, in uno sforzo saltuario di segno grafico diverso e non sentito, indebolisce se mai e disperde l'intima poesia della sua arte in quanto essa ha di particolare.

Tra il 1488 e il 1495 Bergognone fu il principale pittore attivo nella fabbrica della Certosa di Pavia, dove realizzò, oltre ad un gran numero di affreschi, ben nove pale d'altare e una serie di opere minori. Il notevole impegno alla Certosa non gli impedì di operare anche a Milano, a Lodi, a Melegnano e a Bergamo.


 

San Bartolomeo
Nicola di Maestro Antonio
seconda metà XV sec.






Nicola di Maestro Antonio d'Ancona, figlio del pittore fiorentino Antonio di Domenico, si forma forse a Padova, poi ritorna nella nativa Ancona.

 

Madonna con Bimbo
Bottega di Sano di Pietro






Sano di Pietro di Mencio è stato un pittore e miniatore italiano del primo Rinascimento a Siena.
La formazione di Sano sembra sia avvenuta presso il Sassetta (dopo la morte di questo, S. ne terminò alcuni dipinti).
Rimasto sempre agganciato agli stilemi del primo quattrocento, dopo il 1450 si dedicherà anche alla miniatura, in cui meglio esprimerà la sua vena narrativa e descrittiva.

 

San Rocco
Andrea De Passeri
Tempera su Tavola
74x27 cm








Andrea de Passeri, detto “de Passeris”, nato a Torno sulla riva orientale del lago di Como, è probabilmente quell' “Andrea da Como” che fu allievo a Ferrara di Baldassarre Estense: notevoli infatti nei suoi lavori sono i rimandi allo stile e alla cultura figurativa ferrarese.
Tra il 1487 e il 1490 lavora al Duomo di Como, quindi al monastero di Brunate. Compone diversi polittici e maestà nell'area comasca e valtellinese.

 

Crocifisso
Collaboratore del Beato Angelico (Zanobi Strozzi ?)
Tempera su tavola
1450 c.





Accanto al Crocifisso: Maria addolorata e Tommaso d'Aquino
Nel riquadro in basso: S. Caterina da Siena, Redentore benedicente, Pietro martire

Fra' Giovanni da Fiesole, al secolo Guido di Pietro, detto il “Beato Angelico”, fu un frate domenicano che cercò di saldare i nuovi principi rinascimentali, come la costruzione prospettica e l'attenzione alla figura umana, con i vecchi valori medievali, quali la funzione didattica dell'arte e il valore mistico della luce.
Fu effettivamente beatificato da papa Giovanni Paolo II nel 1984, anche se già dopo la sua morte era stato chiamato Beato Angelico sia per l'emozionante religiosità di tutte le sue opere che per le sue personali doti di umanità e umiltà.
Fu il Vasari ad aggiungere al suo nome l'aggettivo “Angelico”.

Zanobi Strozzi fu uno dei principali aiutanti di Beato Angelico.

 

Santa Caterina da Siena intercede per l'anima di suor Palmerina
Maestro di San Miniato
1450-1475





Palmerina fu consorella di Caterina e le fu nemica, calunniandola dentro e fuori il monastero.
La leggenda vuole che Caterina durante l'agonia di Palmerina pregasse per lei e per il bene della sua anima.

 

Nascita di sant'Eligio di Noyon, patrono degli orafi
Maestro dei santi Severino e Sossio
1450 circa



 

Madonna della misericordia e santi
Giovanni da Modena
1409-1456








Frontespizio della Matricola dell'arte dei Cortovani di Bologna.
I “cortovani” erano i calzolai del cuoio fine; la loro matricola conteneva quindi i nomi di chi faceva quel mestiere nella città di Bologna.

 

Due frati in un paesaggio
Antonio Vivarini
XV secolo








Antonio Vivarini nacque nel 1418 a Murano e per questo è detto anche “Antonio da Murano”.
Con il cognato Giovanni da Murano iniziò la decorazione ad affresco della cappella Ovetari nella chiesa degli Eremitani a Padova.
Dopo il 1450 Antonio dipinse principalmente da solo o insieme al fratello minore Bartolomeo, realizzando numerose pale d'altare e polittici, in particolare per le chiese di Venezia: le sue opere presentano una considerevole attenzione ad una cromaticità delicata e raffinata, soprattutto negli incarnati.

 

Episodi di una leggenda profana
Giovanni Di Marco (Giovanni dal Ponte)
Inizio del XV secolo


La tavola, che misura complessivamente 158 x 54 cm, raffigura una leggenda profana che non è stata individuata.
Da sinistra a destra si possono riconoscere le seguenti scene: un re visita un giovane ammalato; un rogo nel quale viene bruciato un morto; il re unisce in nozze un gentiluomo ed una donna; danze e festeggiamenti dopo il matrimonio.

Copiosa è la quantità di documenti conservati presso gli archivi fiorentini nei quali G. appare nominato sia come “Giovanni dal Ponte” sia come “Giovanni di Marco”. In realtà Giovanni nacque da “Marco” a Firenze nel 1385 e, dopo essersi formato nell'ambito di quelle botteghe fiorentine di tradizione ancora trecentesca che tuttavia cercavano di allontanarsi dall'accademismo ancora di matrice postgiottesca, fece «bottega presso Santo Stefano a Ponte» da cui l'appellativo “Giovanni dal Ponte”.

 

Episodio di storia antica
Guidoccio Cozzarelli
Tempera su tavola 35,5 x 53 cm
Seconda metà del XV secolo






Guidoccio Cozzarelli, allievo e collaboratore di Matteo di Giovanni, fu più apprezzato come miniatore che come pittore.

 

 

SALA VI: I dipinti del Cinquecento




Al Cinquecento, secolo del pieno Rinascimento, ma anche della crisi e della contraddizione, si datano le opere delle sale VI, VII e VIII.
Sono presenti opere di Giampietrino, Mazzolino, Schedoni, un piccolo dipinto forse attribuito a Raffaello e ancora Cariani, Sebastiano del Piombo, Tintoretto, il Romanino, Giovanni e Gentile Bellini.
Interessante la sezione dedicata ai ritratti e fra quelli esposti spicca l’”Autoritratto” di Pontormo, eseguito su un embrice di terracotta e il ritratto d’uomo di Tiziano.

Visione panoramica della Sala VI



Arte del 500

E' il 1550, e Giorgio Vasari, nelle sue “vite” consacra il 1500 a secolo classico per eccellenza, con un apogeo che vede al suo vertice la figura di Michelangelo e una decadenza, con quegli artisti che ne ripetono le forme. Il pensiero critico contemporaneo ha successivamente ampiamente rivalutato il Manierismo, facendolo addirittura risalire come fenomeno già talvolta compreso in seno allo stesso Classicismo. Il 1500 rimanda immediatamente al genio creativo di Leonardo, Michelangelo e Raffaello. Senza dubbio, proprio grazie alla presenza di queste tre figure dominanti il panorama storico-artistico, il 1500 rimane nell'immaginario collettivo, come una sorta di vetta sublime, di traguardo acquisito nell'ambito della cultura espressiva italiana. Questo secolo tuttavia, sia per gli eventi storici che lo caratterizzarono, sia per gli sconvolgimenti che si concretizzarono nell'universo scientifico, culturale, religioso e sociale in genere sarà segnato da profondi contrasti.
Nel 1500 Leonardo è a Firenze. Artista e scienziato, ritiene che l'esperienza della realtà debba essere diretta, e che l'arte possa essere uno strumento di tale ricerca. Nel 1506 realizza la sua opera più emblematica destinata a diventare nel tempo una delle opere pittoriche più note al mondo: la “Gioconda”. Dietro la donna, appare un paesaggio... “infinitamente profondo, fatto di rocce corrose e sfaldate tra corsi d'acqua, con un'atmosfera satura di vapori in cui si rifrange e filtra la luce. Non è un paesaggio veduto né un paesaggio fantastico; è l'immagine della natura naturans, del farsi e disfarsi, del ciclico trapasso della materia dallo stato solido al liquido, all'atmosferico: la figura non è più l'opposto della natura, ma il termine ultimo del suo continuo evolvere” - G. C. Argan Storia dell'Arte Italiana, Sansoni vol. III, 1982.
Michelangelo sarà pittore, scultore e architetto. Egli dedicherà la sua vita alla ricerca della perfezione ideale secondo un criterio filosofico di stampo neoplatonico. Sosteneva, Michelangelo, che la scultura in fondo esistesse già all'interno del blocco di marmo, occorreva solamente liberarla. Ciò basti per comprendere come l'azione di Michelangelo si configura in un certo senso, come una missione condotta per l'uomo e per l'arte. Afferma Argan: “Michelangelo non si propone tanto di imitare o emulare l'antico quanto di trovare la sintesi, la continuità profonda tra la spiritualità sublimata dell'antico e la spiritualità cristiana o medievale, ben più tormentata e drammatica”. L'ansia e il tormento interiore costituiranno per Michelangelo la spinta per la creazione di molte delle sue opere artistiche. La drammatica espressione, il senso di smarrimento, la tensione verso la ricerca... tutti sentimenti di cui il secolo 1500, sarà portatore sono sintetizzati in questa straordinaria figura di artista che alla fine della ricerca intuirà il senso ultimo dell'esistenza con la poetica del “non finito”. Un artista che regalerà al mondo, oltre le sue numerosissime opere sublimi, la scultura della “Pietà”, simbolo della pietà divina, simbolo della pietà terrena. L'unione dell'umano e del divino nel comune sentimento di pietà universale verso tutte le creature della terra.
Raffaello caratterizzerà tutta la sua opera con una assidua ricerca di perfezione formale. Sublime interprete degli ideali estetici del Rinascimento, seppe coniugare in modo personale la visione spirituale del Cristianesimo con gli ideali classici diventando un eccellente interprete dell'arte ufficiale della Chiesa del tempo. Ma attenzione, questo non deve generare l'equivoco che l'arte di Raffaello sia idealizzante. “Compito dell'artista – afferma a proposito di Raffaello, G.C. Argan – non è di correggere la sembianza illusoria, ma di rendere manifesta, dimostrare la verità della sembianza. E' proprio per questa unità di contingente e trascendente nella solare evidenza della forma che l'arte di Raffaello è stata immediatamente capita, è diventata subito ed è rimasta popolare; ed è stata l'arte ufficiale della Chiesa in un momento in cui era di fondamentale importanza difendere l'evidenza della rivelazione contro l'ansia del problema religioso”.
Nel 1508, Raffaello si trasferisce a Roma dove ha inizio una delle sue più importanti opere: la decorazione della “Stanza della Segnatura” nell'appartamento di Giulio II in Vaticano, in cui esprime magistralmente il tema della continuità ideale tra il pensiero antico e quello cristiano. La “Scuola d'Atene” presenta tutti i filosofi riuniti, fra i quali spiccano al centro Platone e Aristotele: uno indicante con un dito verso l'alto il mondo delle idee, l'altro a sua volta con la mano verso il basso, lo studio della natura. Le bellissime Madonne invece appartengono al periodo in cui, Raffaello si trova a Firenze, nel 1504. La cosiddetta scuola romana di Raffaello, si inserisce nella tendenza alla costante ripresa del mondo classico e nella reinterpretazione di scene desunte dalla mitologia e dalla iconografia astrologica. La scoperta della “Domus Aurea”, dona a Raffaello motivo di ispirazione e, le decorazioni parietali a grottesche, diventano un motivo ricorrente del suo repertorio decorativo.
Come per Raffaello fonte di ispirazione fu il ritrovamento della Domus Aurea, così per molti altri artisti del tempo, fattore non trascurabile fu la scoperta nel 1506 del gruppo scultoreo del Laocoonte a Roma. Questo rinvenimento archeologico, alimentò infatti un vero e proprio culto per le antichità classiche, che vennero prese a riferimento per la successiva produzione artistica. In sintesi si può affermare che l'arte del 1500 si divide in due periodi principali: uno che ricopre il primo trentennio, nel quale si raggiunge l'apice dell'arte rinascimentale anche se in esso si possono cogliere già i primi segnali del futuro sviluppo del Manierismo; e uno che comprende i successivi decenni caratterizzati, non dalla mera imitazione dei grandi maestri come spesso si tende ad affermare, bensì dalla nascita ed evoluzione di un particolare linguaggio denominato Manierismo. L'arte diventa essa stessa ricerca inquieta di un equilibrio, di una armonia ormai perduta. Allo scopo di comprenderne le motivazioni, è utile tentare di inquadrare il contesto storico-politico di questo periodo, anche perché, proprio in relazione a questo, cambiò la committenza, elemento di fondamentale importanza per l'evoluzione dell'arte cinquecentesca.
Infatti, ai Signori del 1400 si sostituiscono nel '500 le corti papali e quelle dei potenti sovrani. Nel corso del 1500, l'impostazione degli assetti politici europei muta anche in relazione alla riforma luterana, che, avendo messo in discussione la supremazia della Chiesa romana, causa una divisione del mondo cristiano. La Spagna assumerà un ruolo di rilievo con l'acquisizione della corona imperiale, mentre l'Italia perderà progressivamente quella autonomia che nel corso di tutto il 1400 l'aveva contraddistinta. Nel 1527 il “sacco di Roma” compiuto dalle truppe di Carlo V, assesta un duro colpo al già vacillante potere dei Papi, tanto da fare accettare a Clemente VII di incoronare Carlo V a Bologna nel 1530. Tra il 1500 e il 1525 Roma aveva rappresentato il ruolo di capitale del mondo Cattolico, e i Papi, come Giulio II, avevano avuto parte attiva nella politica e nell'arte. Agli inizi del 1500 erano infatti stati convogliati a Roma i massimi artisti dell'epoca come Bramante, Michelangelo e Raffaello.
Con il sacco di Roma molte personalità artistiche lasciano però la città e si avrà quella crisi profonda che contribuirà alla nascita delle manifestazioni artistiche tipiche del manierismo. Anche la sconfitta della Repubblica fiorentina determinerà un crollo degli ideali umanistici sui quali si era fondato gran parte del pensiero artistico. Firenze fino al primo decennio del 1500 aveva mantenuto un ruolo di preminenza nelle arti. Basti dire che qui avevano operato all'inizio proprio Leonardo, Michelangelo e Raffaello. Solamente dopo il 1530, con il ritorno sulla scena fiorentina dei Medici, Firenze si riapproprierà di un ruolo nello sviluppo delle arti. Anche il mondo della scienza fornì il suo contributo agli sconvolgimenti socio- culturali e religiosi del tempo. Nel 1543, Copernico, esponendo la sua teoria sulle orbite dei pianeti, scardina la visione geocentrica del sistema tolemaico sul quale si fondava tutta la cosmologia aristotelica. Emerge un universo eliocentrico e la scienza si conferma come basata sull'indagine della realtà.
La Chiesa, vede sgretolarsi a poco a poco tutti i pilastri sui quali aveva basato le sue teorie... alleatasi con la Spagna, instaurerà il periodo della Controriforma per opporsi alla Riforma di Lutero, riaffermando l'autorità papale. La Chiesa cattolica con la controriforma si irrigidirà su posizioni che coinvolgeranno la produzione artistica poichè tenderà ad abolire ogni personale interpretazione dei testi sacri. Non rappresentando più la religione garanzia di verità assolute, l'arte risentirà di quel clima di ricerca ansiosa di verità e di Dio. In questo periodo si fondano nuovi ordini religiosi, come quello della Compagnia di Gesù di St. Ignazio di Loyola, che contribuirà alla diffusione di un certo tipo di arte.
L'intramontabile suggestione del mondo classico rimarrà tuttavia per tutto il corso del XVI sec. Anche se la Chiesa, tenterà una restaurazione morale del Cristianesimo cercando di contenere l'interesse per il mondo pagano e per tutti i suoi simboli. Nel corso del 1500 emergeranno diverse scuole locali: quella veneta, quella lombarda e quella emiliana. Vedremo pertanto il prevalere del disegno nell'area toscana e romana, e quello del colore tonale nell'area veneta. La Repubblica veneziana in questo periodo mantiene la sua indipendenza. Crea una scuola con delle prerogative originali e un proprio linguaggio. Il colore assume, come accennato, un ruolo determinante e l'esperienza veneta si orienterà essenzialmente sulla ricerca di variazioni tonali, rese in tutte le sue variazioni di intensità e prive di contrasti. Si sviluppa quella che viene definita pittura tonale, in cui il colore e la luce, sono intesi quali elementi fondamentali della composizione.
Cresce l'interesse per la rappresentazione del paesaggio: Giorgione, nell'opera dal titolo “La tempesta”, rende il paesaggio vero ed unico protagonista dell'opera e, se “l'istante è, qui, quello che precede il temporale”, come afferma Argan, senza dubbio di una tempesta che spazza via le vecchie concezioni si tratta, quest'opera, profondamente riformatrice e rivoluzionaria per tutti i contenuti di cui si fa promotrice. Adesso, grazie a Giorgione possiamo affermare di notare un paesaggio con figure piuttosto che delle figure in un paesaggio. I raggi X eseguiti per indagine sull'opera rivelano che in una prima versione il quadro al posto dell'uomo presentava un'altra donna, che scendeva nell'acqua. Quale sia stato il ragionamento che condusse l'artista a ritornare sulla sua decisione rimarrà, aldilà delle possibili ipotesi formulabili, un mistero, come in fondo, un mistero sono un po' i soggetti delle sue composizioni artistiche. Come la “tempesta” anche i “Tre filosofi” rappresenta un'opera emblematica di Giorgione. Anche qui vi è una mancanza di soggetti tradizionali che possono decifrarsi attraverso delineati e sperimentati codici di interpretazione. Altra personalità di immenso rilievo artistico è Tiziano.
Tiziano coinvolge l'osservatore in un modo da fargli rasentare la convinzione di una possibilità di totale immedesimazione, una fusione con le immagini del quadro. La compenetrazione rende l'uomo capace di comprendere la lezione di Dio. E in Tiziano tutto ruota sulla sapiente disposizione delle figure, dei movimenti che creano spirali, vortici dai quali è difficile uscire, staccarsi. Egli  basa la sua arte su una maggiore dinamicità delle figure e sulla grandiosità compositiva. Ma questo suo modo di saper rendere il movimento non può non derivare da una veloce resa dell'immagine iniziale. E' come, cioè, se bloccasse tutto i tempi rapidissimi e poi definisse tutti i particolari successivamente, per confermare l'emozione provata in primo luogo da egli stesso. In Tiziano troviamo una libertà di pose e una vitalità che si impongono come realtà e negli stacchi di luce e di ombre, risaltano immagini espresse in composizioni complesse. L'”Assunta” dei Frari a Venezia, del 1516, vede una Madonna che sale al cielo e in questo moto ascendente coinvolge tutto l'intorno che sembra aspirato in un vortice serpentinato. Il colore azzurro-grigio dietro gli apostoli, si stempera verso l'arancione del cielo del Paradiso. Altra opera straordinaria di Tiziano, è il “Ritratto di Paolo Farnese coi nipoti Alessandro e Ottavio”- 1546-. Qui Tiziano riesce a cogliere la psicologia del personaggio che dice tutto dalla sua espressione. Il Papa è mostrato vecchio e debole, ma trasuda una energia incredibile...forse Tiziano rivede un po' se stesso da vecchio, e conferisce a questa immagine una vitalità espressiva fortissima.
La vita di Tiziano fu estremamente lunga (1487-1576), ed egli non si stancò mai di dipingere. È quindi normale che nel corso della sua vita il suo linguaggio si sia evoluto verso nuove forme espressive. Due opere a confronto, lo stesso soggetto: il “Cristo coronato di spine”. Quello del 1542, e quello realizzato nel 1570. Si può notare che l'uso della luce è estremamente cambiato. La superficie, che prima faceva spandere la luce nella materia del quadro, conferendo morbidamente volume pur nella dinamicità della composizione, ora si dissolve in una molteplicità di tocchi vibranti di luce, più caldi, e l'effetto è molto più drammatico e al contempo realistico. Nel 1555 aveva eseguito il suo “Autoritratto”. È come se il pittore emergesse dal fondo solamente grazie alla poca luce filtrata ed è come se essa ne rivelasse l'essenza. Un uomo estremamente intenso nell'espressione e nello sguardo che appare inumidito, sentitamente commosso da qualcosa che non vede al di fuori di sé, ma dentro sé. E quella stessa luce che rivela così delicatamente la sua intima verità, spara sulle superfici anonime dell'apparenza esterna, la camicia che indossa, il tavolino sul quale è poggiata una mano.
Grazie alla critica moderna si è avuta una rivalutazione del Manierismo, che dal 1600 fino alla fine del 1800, fu giudicato se non in modo sempre negativo, sicuramente poco aderente alla reale portata artistica. Il manierismo può anch'esso suddividersi in un primo e in un secondo manierismo. Il primo si può inquadrare dal 1520/30, si attesta alla Toscana dove troviamo tre artisti: Beccafumi, Rosso Fiorentino e Pontormo.
Ed è proprio dalla loro opera che, nella II decade del 500 si sviluppa la tendenza pittorica del Manierismo.
Domenico Beccafumi detto Mecherino si forma a Roma intorno al 1510. Ebbe una particolare tendenza all'utilizzo della luce realizzando nelle sue opere degli inediti effetti di colore-luce-ombra. Pontormo è noto per il suo sovversivo senso del colore. Un colore irreale, incoerente, livido eppure chiaro e luminoso nelle gradazioni tonali dei colori puri. La composizione delle figure, irreale, si evidenzia in una delle opere più note: la “Deposizione”. Osservando il quadro notiamo subito una incoerenza. Dove si poggia il peso del Cristo? Come si manifesta, visto che i personaggi che lo reggono non mostrano tensione dei muscoli, e tengono la postura dei piedi in punta, come se dovessero danzare piuttosto che sostenere? Le figure sembrano agitarsi, non per esprimere un evento tragico, ma per assecondare la composizione di un ritmo, di un ballo. A questo contribuisce il colore, reso senza luci né ombre.
Rosso Fiorentino è noto per la “Deposizione” di Volterra, dai colori squillanti, intensi e dai gesti scomposti. Le figure sono come geometrizzate quasi a sottolineare la tragicità di un evento che irrigidisce nel dolore. Gli uomini sembrano indaffarati nel deporre il Cristo come se si trattasse di un lavoro da compiere con estrema cura. Solo l'immagine del volto del Cristo richiama un senso di spiritualità. Egli sorride, come in una beatitudine ritrovata dopo il dolore. E i colori gridano, ma non esprimono gioia, liberazione, ma la condanna terrena dell'uomo imprigionato da una condizione che non lo allontanerà mai dalla presenza della morte.
Nel Veneto invece opereranno Paolo Veronese, noto per gli affreschi delle ville nobiliari venete, e Tintoretto che si esprime con violenti contrasti di luce e ombra che conferiscono particolare drammaticità alle opere. Veronese ama i colori chiari, i toni freddi e gli effetti di nitida trasparenza. Passato alla storia per l'avere saputo esprimere nelle sue opere il gusto della gioia di vivere e le fastosità della vita mondana, crea opere a sfondo allegorico.
Una delle sue composizioni più note è la decorazione di Villa Barbaro a Maser del 1561. Uno dei particolari dell'affresco più noti al pubblico è senza dubbio quello della Giustiniani-Barbaro al balcone, presente nella volta della sala chiamata dell'Olimpo. Qui più che altrove si notano, oltre alle perfette armonie tra la struttura architettonica e gli affreschi, le espressioni dei personaggi, quasi colti in gesti casuali. Tutto è come nell'atto di rappresentare … Veronese fissa i personaggi nella luce e nel colore, come presi prima delle fasi di ripresa di un film, prima del ciak.
Tintoretto invece, dipinge con pennellate di luce rapide, accennate eppure definite, la sua è una concezione molto evoluta che desidera suscitare rapidamente sensazioni visive, le immagini sono come messe in scena, per colpire più che per raccontare. C'è quasi sempre ritmo, nelle sue composizioni. Un ritmo dato dalla ripetizione delle linee, dalla direzionalità dei gesti, dalla ripetitività di determinati contrasti. E tutto è dramma e nel gioco di luci ed ombre, si concretizza la struggente, solenne essenzialità dell'evento. L'opera dal titolo “ultima cena” del 1594, trasporta l'osservatore dentro la dimensione del quadro. Questo coinvolgimento il pittore lo ottiene attraverso la composizione delle figure che sembrano popolare uno spazio realmente esistente, se non nella verosimiglianza reale, sicuramente in quella del piano emotivo. L'improvvisa luminosità che appare vibrante sulla tela come materia viva, è accentuata da profondi toni scuri.
Infine un cenno alla pittura emiliana del tempo che si esprimerà attraverso il suo massimo esponente: il Correggio, e che determinerà successivamente la nascita della scuola eclettica dei Carracci che fondarono l'accademia degli Incamminati. In Emilia il manierismo fu inoltre diffuso dal Parmigianino a Bologna. Egli riceve dal Correggio la tendenza ad una eccezionale morbidezza del disegno che si mescola ad un gusto per le forme sinuose e allungate solennemente espresse nel suo noto capolavoro: “La Madonna dal collo lungo” del 1534. L'eleganza predomina sulla bellezza. L'atteggiamento sulla realtà delle forme che sono contraddette, per assecondare i contorni lineari del disegno allungato.
Continuatore del Parmigianino, sarà il Primaticcio, che contribuì alla nascita della scuola di Fointainebleau.

 

Madonna col Bambino e con San Giovannino
Giampietrino
fine XV secolo



(vedi animazione)
Questa intensa Madonna rinascimentale è stata attribuita a Giampietrino, allievo di Leonardo, operante nella bottega del grande maestro alla fine del XV secolo.
In questo dipinto ogni riferimento religioso resta sotto tono rispetto agli elementi profani: la bella signora elegantemente vestita ed ornata di gioielli, è in posa e regge in grembo il Figlio, mentre San Giovannino dal basso si rivolge al Bambino che è San Giovanni Battista.
E' però una semplice mela, posata sul mobile alle spalle della scena, a dare il significato ultimo all'opera. Bacata e corrotta la mela è simbolo della decadenza che ogni essere reca con sé, monito, allo stesso tempo, della caducità della bellezza e del benessere della giovane madre.

Pittore della prima metà sec. 16º attivo a Milano. Mancano documenti né vi sono di lui opere firmate; la sua figura è costruita solo su base stilistica.
Formatosi sugli esempî milanesi di Leonardo Da Vinci, fu un significativo esponente della scuola lombarda.

 

Nascita di Adone
Morte di Adone
Sebastiano del Piombo
1510 circa


     


(vedi animazione)
Le due opere nascono probabilmente come parti di un mobile dipinto.
Realizzate da Sebastiano Luciani (Sebastiano del Piombo) attorno al 1510, mostrano evidenti influssi di Giorgione, grande maestro veneziano dei primi decenni del Cinquecento.
Le due tavole rappresentano due episodi del mito di Adone, così come descritti nelle “Metamorfosi” da Ovidio.
Nel primo dipinto è narrata la Nascita di Adone proprio nel momento in cui il bellissimo bambino viene letteralmente cavato dall'albero di mirra da Afrodite, ostetrica d'eccezione.
Il secondo narra invece la Morte di Adone ucciso da un cinghiale durante una battuta di caccia.
Col sangue versato da Adone morente si tingeranno le rose fino ad allora solo bianche e da ogni lacrima versata da Afrodite nasceranno gli anemoni.
E' questa una storia di nascita e morte, di stagioni che si avvicendano.

Sebastiano Luciani nacque a Venezia nel 1485 circa.
Le sue prinme opere veneziane mostrano, oltre a un influsso di Giorgione nei tipi fisici e nella morbidezza dei contorni, l'influenza dell'opera tarda di G. Bellini e un'impostazione monumentale, sottolineata anche dall'ambientazione architettonica, che sarà sempre più sviluppata dall'artista a contatto con l'ambiente romano.
Nel 1511 S. andò infatti a Roma per decorare una sala di una villa sul Tevere, poi chiamata Farnesina: l'incontro con l'opera di Raffaello, attivo nella stessa sala, si evidenzia soprattutto in alcuni ritratti.
La successiva collaborazione con Michelangelo accentuò la tendenza di S. verso la monumentalità compositiva e il plasticismo delle figure che si unisce al caldo colore veneto.
La protezione e l'amicizia del maestro procurò a S. importanti committenze, oltre a onori e cariche presso la corte pontificia.
Nel 1531 ottenne infatti la carica di piombatore pontificio, ossia di guardasigilli delle bolle e delle lettere apostoliche (da cui il nome di “Sebastiano del Piombo”).

 

Compianto sul corpo di Cristo
Jacopo Robusti, detto Tintoretto
Olio su tela
1555-1556



(vedi animazione)
Il Compianto sul corpo di Cristo è stato dipinto da Jacopo Robusti, detto Tintoretto tra il 1555-1556.
Il nodo dei dolenti, ai piedi della croce, si stringe con un ritmo di danza sincopata ed un movimento sofferto e decisamente teatrale intorno al corpo eroico di Cristo, al quale si contrappone quello della Vergine svenuta.


Jacopo Robusti, nato a Venezia nel 1518, è stato uno dei più grandi esponenti della scuola veneziana e probabilmente l'ultimo grande pittore del Rinascimento italiano.
Il soprannome di “Tintoretto” gli derivò dal mestiere paterno, tintore di stoffe.
Jacopo non nascondeva le proprie origini, anzi nei suoi dipinti si firmava come “Jacobus Tentorettus” o “Jacomo Tentor”.
In realtà anche “Robusti” è un soprannome ereditato dal padre che durante la guerra della Lega di Cambrai, scatenata dai principali stati europei allo scopo di arrestare l'espansione della potentissima Repubblica di Venezia in terraferma, aveva energicamente difeso le porte di Padova contro le truppe imperiali.

Il Tintoretto è stato uno dei massimi innovatori del Rinascimento veneziano: armonizzò la tradizione veneta di Giorgione e Tiziano, basata sulla funzione espressiva autonoma del colore, con la cultura fiorentina e romana, rivolte al ruolo primario del disegno.

A parte un tardo soggiorno a Mantova, il T. non si mosse mai da Venezia dove la sua opera occupa un posto importante e particolare, rivolta prevalentemente a una committenza di confraternite e comunità religiose, in contrasto con i modi pittorici apprezzati dall'aristocrazia veneziana che trovano nell'arte di Paolo Veronese l'espressione più compiuta.

 

 

SALA VII: I ritratti



E' noto che uno dei temi portanti del Rinascimento è l'uomo che diviene misura e centro del mondo intero.
Non è certo un caso che in questo clima culturale nasca il ritratto come genere autonomo, spesso celebrativo del personaggio che viene ad essere rappresentato.

Visione panoramica della Sala VII

 

Ritratto d'uomo
Tiziano Vecellio
Olio su tela
1510 circa


(vedi animazione)
Questo Ritratto d'uomo è stato eseguito da Tiziano Vecellio intorno al 1510.
Di forte cultura giorgionesca, il dipinto esalta la luce sulla superficie delle vesti e sul volto dell'uomo, senza che tra questi vi siano cesure grafiche.
E' questa la tecnica del tonalismo, vale a dire il passaggio dei timbri cromatici senza campitura, caratteristica della cultura figurativa veneta tra XV e XVI secolo.
Niente ci distrae dall'effigiato, non un particolare superfluo, nessuna architettura che lo ospiti: solo la figura umana fra buio e luce.

Tiziano Vecellio, nato a Pieve di Cadore negli anni 1480/1485 cittadina dolomitica ai confini dei domini della Serenissima, è stato un artista innovatore e poliedrico, maestro con Giorgione del colore tonale: il “tonalismo” è una tecnica artistica tipica della tradizione veneta del XVI secolo, legata a una particolare sensibilità del colore: con la graduale stesura tono su tono, in velature sovrapposte, si ottiene un morbido effetto plastico e di fusione tra soggetti e ambiente circostante.
A questo processo contribuirono i soggiorni di Leonardo da Vinci e dei leonardeschi in laguna, portatori dello sfumato e della prospettiva aerea (che dà il senso della scansione dello spazio tramite passaggi cromatici più chiari per gli oggetti più lontani, velati dalla foschia) e il passaggio dal colore a tempera alla pittura con legante oleoso, che permetteva una più lenta elaborazione dell'opera, con un chiaroscuro morbido e avvolgente che annullava i bruschi passaggi tra luce ed ombra.
La definizione pratica del tonalismo è dovuta essenzialmente alla figura di Giorgione che nel primo decennio del Cinquecento impresse alla pittura una svolta decisiva verso l'uso di un impasto cromatico più ricco e sfumato che determina il volume delle figure tramite la stesura in strati sovrapposti, senza il confine netto dato dal contorno, tendendo così a fondere leggermente soggetti e paesaggio. Tale rivoluzione fu ripresa ed approfondita dai suoi seguaci, in particolare Tiziano, Lorenzo Lotto e Sebastiano del Piombo.
Tiziano in particolare usò contrasti cromatici più decisi, infondendo, soprattutto nell'ultima fase della sua carriera, un inedito dinamismo alla superficie pittorica di straordinaria modernità, arrivando ad impastare i colori direttamente sulla tela, con pennellate veloci e volutamente imprecise arrivando alla totale dissoluzione della forma, in un linguaggio fatto di tocchi di luce e colore, spesso dato sulla tela direttamente con le dita.
A questo stile attinse Tintoretto, forse l'ultimo dei grandi tonalisti, in cui tra le figure e lo sfondo esistono campiture sfocate di tonalità medie.
Il suo esempio venne poi portato alle estreme conseguenze da artisti stranieri quali Rembrandt ed El Greco.

 

Ritratto di Donna
Giovan Battista Moroni
c. 1570
51 x 42 cm


(vedi animazione)
Il Ritratto di Donna è opera di Giovan Battista Moroni.
La dama ci appare abbigliata e vestita sontuosamente secondo la moda degli anni settanta del Cinquecento; in posa sul fondo monocromo la donna nella sua fissità è specchio della rigida classificazione sociale, senza lasciar trasparire nulla di sé ed affidando ogni messaggio all'esteriorità del suo mostrarsi.

Giovan Battista Moroni è famoso soprattutto per la sua attività di ritrattista, abile nel raffigurare i caratteri psicologici e fisionomici con verosimiglianza e vivacità attraverso morbide gamme cromatiche dai dominanti toni bruni e grigi.
I suoi dipinti possono essere definiti “ritratti in azione”, presentando personaggi nell'attimo in cui stanno compiendo un gesto, in modo da evitare l'aridà fissità del ritratto ufficiale.
È operoso a Bergamo per tutti gli anni Cinquanta, che segnano la maggior fortuna dell'artista, come attestano i numerosi ritratti di esponenti dei circoli aristocratici, intellettuali e politici, spagnoleggianti e neofeudali, della città.
Dagli anni Sessanta la fortuna del Moroni declina di colpo per un decennio, sia per la caduta in disgrazia della potente famiglia Albani, sia per l'ostilità della locale Curia, che gli preclude l'accesso alle committenze della nobiltà cittadina e Moroni deve limitarsi a ritrarre personaggi della provincia bergamasca di mediocre condizione sociale.
Il Moroni ottiene un'improvvisa rivalutazione a Bergamo, ai primi anni Settanta, grazie al ritorno, da cardinale, del suo vecchio mecenate Gian Gerolamo Albani. Ebbe tuttavia poco tempo per godere del ritrovato interesse per la sua pittura, essendo venuto a mancare pochi anni dopo.

 

Autoritratto
Iacopo Carucci detto il Pontormo
1520 circa





(vedi animazione)
E' degli anni venti del XVI secolo quest' Autoritratto eseguito a Firenze con ogni probabilità da Iacopo Carucci, detto il Pontormo.
Su insolito supporto pittorico, un embrice di terracotta, il pittore volge il capo e si ritrae così come è, con la sua veste da lavoro ed il cappello calato sulla fronte.
Lo sguardo, accentuato dal violento chiaro scuro, appare segnato da un filo di malinconia e di stralunato realismo.

Jacopo Carrucci, conosciuto come “Jacopo da Pontormo”, o semplicemente come “il Pontormo”, dal nome del quartiere Pontorme del comune di Empoli, in cui nacque nel 1494, è stato un notevole ritrattista del tardo rinascimento italiano e uno dei più importanti esponenti di quella corrente, il Manierismo, che cercò di reagire al classicismo pittorico attraverso un'inesauribile vena sperimentale e anticlassicista durante i primi anni del XVI secolo.
Le opere più mature del Pontormo, che pure ebbe protettori importanti come i Medici, non furono apprezzate dal Vasari e le citazioni di Pontormo furono per molti secoli rare e poco interessate.
Ai primi del '900, dopo la maturazione delle esperienze dell'impressionismo, dell'espressionismo e del cubismo, cominciarono ad essere rivalutate le anticipazioni del linguaggio pittorico moderno, liberato dall'obbligo di riprodurre fedelmente la realtà e dall'ideale rinascimentale dell'armonia della natura. Della maturità di Pontormo sono apprezzate le prospettive audaci e talvolta bizzarre, i gesti stilizzati e lontani dall'idea di naturalezza, le vesti drappeggiate in modo artificioso, le espressioni impaurite o pensose dei suoi ritratti: che è proprio quello che invece il Vasari giudicava severamente.

 

Ritratto di giovane conversa
Paolo Caliari, detto il Veronese
(Verona 1528-Venezia 1588)





Paolo Veronese, al secolo Paolo Caliari, è detto “il Veronese” per via della sua città di origine, Verona dove nacque nel 1528, anche se spese gran parte della sua carriera a Venezia.
La gran parte dei lavori del Veronese sono realizzati in uno spettacolare e colorato stile manierista veneziano.
Mentre della Venezia del Cinquecento Tintoretto esprime la coscienza del dovere e della responsabilità civile, lo spirito profondamente cristiano che la conduce alla guerra contro i turchi e al drammatico trionfo di Lepanto, il Veronese è l'interprete dell'apertura intellettuale e del civile modo di vita che fanno della società veneziana, in un tempo di conformiismo moralistico e di involuzione neo-feudale, la società più libera e culturalmente avanzata.
Il sentimento del dovere e quello della libertà hanno una fonte comune, l'ideale umanistico della dignità umana; e poiché questo è sentito, nell'arte del tempo, soltanto dai maestri veneti, si spiega come la loro opera custodisca e tramandi al secolo successivo (al Caravaggio, al Bernini, al Borromini) la grande eredità della cultura umanistica.
Storicamente P.V. fu un rinnovatore formidabile, sebbene a scadenza assai lunga: il seme ch'egli gettò nel Cinquecento, difatti, non fiorì rigoglioso che nel Settecento.

 

Ritratto di procuratore
Giovanni Bellini
1450 circa

Giovanni Bellini, noto anche con il nome “Giambellino” nacque a Venezia nel 1433 circa dall'affermato artista veneziano Iacopo e si formò nella sua bottega.
Mentre il padre rimase legato alla ieraticità bizantina e al tardogotico, G.B. in sessant'anni di attività sempre ai massimi livelli, portò grandi innovazioni nella pittura veneziana traghettandola attraverso le esperienze più diverse:
  • Andrea Mantegna, divenuto suo cognato nel 1453, lo fece entrare in contatto con le innovazioni del Rinascimento fiorentino e lo influenzò nell'espressività dei volti e nella forza emotiva che trasmettono i paesaggi sullo sfondo.
  • Accolse la chiara luminosità di Piero della Francesca e fu uno dei primi a comprendere le innovazioni atmosferiche di Antonello da Messina, che trasformavano la luce in un legante dorato tra le figure, capace di dare la senzazione della circolazione dell'aria.
  • Già anziano, apprezzò le qualità di artisti di passaggio in laguna, quali Leonardo da Vinci e Albrecht Dürer, assimilandone rispettivamente lo sfumato e il gusto nordico per il panneggio tagliente.
  • Ma la sua conquista più grande fu, ormai settantenne, di aver riconosciuto la portata della rivoluzione del tonalismo di Giorgione e, poco più tardi, del giovane Tiziano, applicando il colore in campi più ampi e pastosi, senza un confine netto dato dalla linea di contorno e tendendo a fondere i soggetti col paesaggio che li circonda.
Nelle sue opere Bellini seppe accogliere tutti questi stimoli rinnovandosi continuamente, ma senza tradire mai il legame con la propria tradizione, valorizzandolo anzi e facendone un punto di forza.

 

Cristo di pietà con gli angeli
Giovanni Busi, detto Cariani
(Bergamo 1480-85 Venezia 1547)



Giovanni Busi detto “il Cariani” nacque nel 1485 a San Giovanni Bianco in Val Brembana, ma si formò a Venezia risentendo dell'ambiente artistico che gravitava attorno al Bellini e al Giorgione.
Tra il 1517 e il 1523 operò in Lombardia, fra Bergamo e Crema, subendo soprattutto l'influenza di Sebastiano del Piombo.
La sua attività di ritrattista rivela anche l'influsso del Lotto, attivo a Bergamo in quegli anni, liberando le componenti realiste pur distinguendosi chiaramente dal Lotto per la struttura grandiosa e il ricco colorismo delle immagini.

 

San Martino e il povero
Raffaello (attribuito)


Raffaello Sanzio nacque a Urbino nel 1483 da Giovanni Santi, pittore alla corte ducale dei Montefeltro.
Il cognome “Sanzio” infatti non è che una delle possibili declinazioni di “Santi”, in particolare derivata dal latino “Sancti” con cui Raffaello sarà poi solito, nella maturità, firmare le sue opere.
Urbino in quel periodo era un centro artistico di primaria importanza che irradiava in Italia e in Europa gli ideali del Rinascimento. Qui Raffaello, avendo accesso con il padre alle sale del Palazzo Ducale, ebbe modo di studiare le opere di Piero della Francesca, Antonio del Pollaiolo, Melozzo da Forlì e altri.
Nella bottega del padre, il giovanissimo Raffaello apprese le nozioni di base delle tecniche artistiche; quando però Raffaello aveva undici anni, morì il padre ridimensionando così il contributo della bottega paterna nella formazione dell'artista.

Non è noto attraverso quali vie il giovanissimo pittore arrivò a far parte della bottega del Perugino: le sue prime opere rivelano però una piena assimilazione dei modi di Perugino anche se si notano i primi sviluppi verso uno stile proprio, con una migliore interazione tra figure e personaggi e con accorgimenti ottici che testimoniano la piena conoscenza degli studi di matrice urbinate, dove l'ottica e la prospettiva erano materia di studio fin dai tempi di Piero della Francesca.

Verso il 1503 l'artista dovette intraprendere una serie di brevi viaggi che lo portarono ai primi contatti con importanti realtà artistiche.
Oltre alle città umbre e alla nativa Urbino, visitò quasi sicuramente Firenze (dove vide forse le prime opere di Leonardo da Vinci), a Roma (dove entrò in contatto con la cultura figurativa classica) e Siena (invitato da Pinturicchio, con il quale intesseva una stretta amicizia: il pittore, ben più anziano, chiese l'aiuto di Raffaello per svecchiare il suo stile ormai in una fase di declino). Quando Raffaello si trovava a Siena, da Pinturicchio, gli giunse notizia delle straordinarie novità di Leonardo e Michelangelo e decise di «stare qualche tempo in fiorenza per imparare».

Il soggiorno fiorentino fu di fondamentale importanza nella formazione di Raffaello: da Leonardo apprese i principi compositivi per creare gruppi di figure strutturati plasticamente nello spazio; da Michelangelo invece assimilò il chiaroscuro plastico, la ricchezza cromatica, il senso dinamico delle figure.

Verso la fine del 1508 per Raffaello arrivò la chiamata a Roma che cambiò la sua vita. In quel periodo infatti papa Giulio II aveva messo in atto una straordinaria opera di rinnovo urbanistico e artistico della città in generale e del Vaticano in particolare, chiamando a sé i migliori artisti sulla piazza, tra cui Michelangelo e Bramante. Fu proprio Bramante, secondo la testimonianza di Vasari, a suggerire al papa il nome del conterraneo Raffaello.
A Roma affiancò un team di pittori di tutta Italia per la decorazione, da poco avviata, dei nuovi appartamenti papali: le sue prove nella volta della prima stanza piacquero così tanto al papa che decise di affidargli, fin dal 1509, tutta la decorazione dell'appartamento, a costo anche di distruggere quanto già era stato fatto.

Mentre la fama di Raffaello si andava espandendo, nuovi committenti desideravano avvalersi dei suoi servigi, ma solo quelli più influenti alla corte papale poterono riuscire a distoglierlo dai lavori in Vaticano.
Per far fronte alla sua crescita di popolarità e alla conseguente mole di lavoro richiesto, Raffaello mise su una grande bottega, strutturata come una vera e propria impresa capace di dedicarsi a incarichi sempre più impegnativi e nel minor tempo possibile, garantendo comunque un alto livello qualitativo. Prese così all'apprendistato non solo garzoni e artisti giovani, ma anche maestri già affermati e di talento.
Il suo atelier fu per certi versi opposto a quello di Michelangelo, che preferiva lavorare con appena i modesti aiuti indispensabili (preparazione dei colori, degli intonaci per gli affreschi, ecc.) mantenendo una leadership assoluta sull'esito dell'opera finale. Raffaello invece, con l'andare degli anni, delegava invece sempre più spesso parti consistenti del lavoro ai suoi assistenti, che ebbero così una crescita professionale notevole.
Raffaello morì nel 1520, a soli 37 anni.

 

 

SALA VIII: Gli stranieri





Questa saletta ospita una vetrina con tre dipinti di piccole dimensioni e due tavole cinquecentesche non pertinenti al percorso figurativo italiano.
Il primo è un dipinto fiammingo attribuito ad un Maestro convenzionalmente detto “del Pappagallo”, per il fatto che in alcuni suoi dipinti un bambino gioca appunto con un pappagallo.
L'attività di questo Maestro si svolge nella prima metà del Cinquecento, epoca alla quale è ricondotta la santa ritratta da Lucas Cranach posta accanto.

Visione panoramica della Sala VIII

 

Santa Caterina d'Alessandria
Lucas Cranach il Vecchio
quarto decennio del XVI secolo




(vedi animazione)
La piccola tavola ovale, già parte di una composizione più ampia, è stata dipinta, intorno agli anni trenta del Cinquecento, da Lucas Cranach.
Vi è ritratta una valorosa santa, Santa Caterina d'Alessandria, armata di spada e abbigliata con vesti regali in velluto rosso decorate in oro.
Porta sul capo una corona che fa da pendant con il gioiello che reca al collo.

Lucas Cranach detto “il Vecchio” è stato uno dei principali interpreti della Riforma luterana nell'arte.
Il suo toponimico deriva dalla città in cui nacque (Kronach, in Germania) nel 1472.
Il suo stile è caratterizzato da una linea grafica ed elegante, che si allunga in forme quasi stilizzate andando a ripescare nel repertorio del tardo gotico, attualizzandolo e facendone qualcosa di nuovo.

 

 

SALA IX: I dipinti del Seicento




Nella sala IX sono ordinate le tele seicentesche, ad esemplificare il vivace dibattito tra “naturalismo” e “classicismo” sviluppatosi in seno alla storiografia controriformista e alla reazione verso la Maniera.
Il Seicento è stato un secolo dominato dalla lezione pittorica del Caravaggio: il realismo dei soggetti, il valore simbolico della luce, la gestualità marcata dei personaggi.
Da segnalare il “San Girolamo” di anonimo caravaggesco, le tele di Pietro della Vecchia, un originale interprete dei motivi caravaggeschi, di Salvator Rosa e del Grechetto.

Visione panoramica della Sala IX



Arte del 600

Per comprendere l'arte di questo periodo, fatta di ombre e di luci, di squarci fantastici e deliranti come di approcci, di tipo scientifico orientati alla visione della realtà, è necessario dare uno sguardo alla condizione socio-politica del tempo.
Il 1600, che è considerato il secolo del Barocco, si apre con il supplizio di Giordano Bruno. Si manifesta una crisi economico-sociale proprio a partire dai primi decenni del 1600 in tutti i paesi dell'Europa Occidentale, per cui si acuisce la differenza tra quei paesi in cui si assiste ad un ritorno ad una economia di tipo agricolo, come l'Italia, e quelli in cui invece cominciano a svilupparsi sistemi basati sul commercio, come Francia e Olanda.
La prima metà del 1600 in Europa, è caratterizzata storicamente dalla predominanza delle case d'Asburgo di Spagna e d'Austria.
Nel 1659, la pace dei Pirenei conclusa tra Filippo di Spagna con la Francia, segna la fine della supremazia Asburgica in Europa. Dopo, politicamente la situazione volgerà a favore della Francia e si imporrà la supremazia assolutistica di Luigi XIV, che è già Re nel 1643, e che assumerà il governo della Francia nel 1661.
L'Italia che, per tutto il Seicento era rimasta al centro della cultura europea, nel Settecento cederà tale predominio alle grandi corti d'Europa, e la Francia assumerà un ruolo principale.
Può definirsi barocca l'arte che inizia alla fine del 1500 e che si sviluppa fino agli inizi del 1700.
Ovviamente, gli spunti sono molteplici, e l'arte ne accoglie le varianti arricchendosi di varie sfumature espressive. Pertanto possiamo distinguere all'interno di una unica matrice, alcune principali correnti come: quella relativa alla cosiddetta pittura di genere, di stampo pittorico-naturalista; quella classicistica, come ad es. quella che si sviluppa a Versailles, e quella molto più orientata ad una ricerca sociale e veristica.
Ma andiamo con ordine. Nel Seicento l'arte è fortemente condizionata dalla Chiesa, che comunque anche nel Settecento rimane una dei massimi committenti delle opere d'arte che usa per affascinare e convincere i fedeli.
L'osservatore deve essere stimolato e coinvolto, e all'artista viene concesso a tal fine di esprimersi in forme libere, aperte e variamente articolate pur di raggiungere l'obbiettivo. L'arte è lo strumento di propaganda religiosa più importante e pertanto assume caratteristiche di popolarità, realisticità e monumentalità decorativa. In alcuni casi è anche “convenzionale”, dal momento che i vari repertori iconografici, proposti dalla Controriforma, mirano a stabilire le modalità di rappresentazione della scene sacre.
Trionfa il Barocco che però non si deve immaginare come limitato ad esprimere l'arte della Chiesa, ma bensì anche interprete di altri fermenti culturali. Il termine riunisce infatti come accennato tendenze anche molto diverse tra loro come, ad es. il classicismo della corte di Luigi XIV, il realismo della pittura di Rembrandt o Vermeer o ancora la pittura di Caravaggio. Espressione delle inquietudini politiche e dei drammatici contrasti religiosi del suo tempo, il Barocco esprime l'ansia di soluzioni sempre nuove, proprie di una società che ha perduto molte certezze, e in cui la concezione rinascimentale dell'uomo centro dell'universo è da ritenersi superata.
I protagonisti sono dei grandi nomi della storia dell'arte. Spicca infatti ad esempio, il Bernini, che seppe coniugare magistralmente l'attività di scultore, con quella di architetto e scenografo. Egli, non rinnega la tradizione rinascimentale, della quale accoglie il classico equilibrio, ma infonde attraverso una nuova sensibilità verso le forme, un gusto particolarmente scenografico e spettacolare alle sue opere, nell'esaltazione della componente del movimento, che si traduce come in un soffio di vitalità alla materia inerte, per farla diventare viva. Per citare qualcuna delle sue note sculture, “Il ratto di Proserpina”, il “David” e “Apollo e Dafne”.
La pittura del 1600, vede lo svilupparsi di una corrente artistica mirante al recupero di una naturalezza, e di una efficacia comunicativa legata al disegno dal vero e al ripensamento delle opere dei maestri del 1500. Sono i Carracci, che fondano la cosiddetta Accademia degli incamminati. Bollati come “eclettici” i Carracci, sono stati poi rivalutati dalla critica contemporanea. Spicca soprattutto la figura di Annibale; con lui si supera quella impostazione iniziale che vedeva preponderanti le motivazioni a carattere religioso e si apre una nuova strada per la pittura decorativa.
Nelle prime opere bolognesi - come ad es. “La Macelleria”-, non vi è traccia di compiacimento per i particolari, ma ricerca di possibilità di rappresentazione oggettiva. Carracci riesce a fondere, una certa impostazione di stampo “pittorico-naturalista” lombardo, veneto ed emiliano, al carattere aulico e classico derivante dalla tradizione decorativa Romana. Si serve della mimesi, ma non come mera imitazione, ma piuttosto come spunto per liberare la fantasia nell'evocare le forme. Una delle opere più note è quella che lo vede impegnato nella realizzazione, a Roma alla fine del 1500, della Galleria di Palazzo Farnese, dove si ispira alle Metamorfosi di Ovidio. Si tratta del trionfo di Bacco e Arianna, che sono attorniati da coppie altrettanto mitologiche e racconti aventi come tema centrale, l'amore. Per dipingere questi affreschi pensa all'opera di Michelangelo e di Raffaello. Rivede e rivaluta l'arte della cultura classica e del Rinascimento. La sua interpretazione naturalistica è disinvolta, mescola elementi veneti, con quelli romani e emiliani, e non mancano i riferimenti a figurazioni allegoriche e agli stemmi dei Farnese. Nel 1602, realizza la lunetta, “La fuga in Egitto”: qui, si nota che l'elemento naturalistico non è solo sfondo, ma in un certo senso prevale sul tema narrativo. L'evento religioso si lega alla rappresentazione della natura, e il sentimento religioso appartiene ad essa, in armoniosa sintesi che lega l'uomo a Dio, attraverso la natura, che è umana, che è divina nel suo vario manifestarsi sulla terra. Carracci fece scuola.
Molti pittori nel 1600 si ispirarono al suo linguaggio. Ad esempio Guido Reni, di cui ricordiamo il noto “Atalanta e Ippomene”, del 1620, dove l'armonia delle forme e degli atteggiamenti comunicano un senso di grazia pervasa da atteggiamenti patetici, quasi distaccata dalla dimensione reale. Il contrasto che deriva dal colore scuro dello sfondo e della luce che pervade le figure con tutti i toni intermedi, eleggono quest'opera a capolavoro della visione artistica di Reni, che si conferma autore singolare, originalissimo nel suo reinterpretare. Infine come non citare il Guercino, con le sue opere intrise di una atmosfera rarefatta nelle ricche gradazioni tonali e il Domenichino, che, con i suoi paesaggi, gettò le basi per la definizione della pittura del paesaggio seicentesco (vedi: Paesaggio con la fuga in Egitto del 1625).
Altro grande protagonista della pittura del 1600, è Caravaggio. Se Carracci tendeva all'ideale, in arte, Michelangiolo da Caravaggio vuole esprimere il reale. Una personalità discussa; a giudicare dai suoi trascorsi ebbe certamente un temperamento impetuoso. Da Roma, a causa di un omicidio, fuggì recandosi a Napoli prima e poi a Malta ed in Sicilia. Eppure per lui l'arte non è evasione, ma rigore morale nel denunciare i fatti. Come un documentarista, come un fotoreporter, analizza la realtà, la restituisce in tutti i suoi toni altamente drammatici. E per far questo usa la luce, e per far questo esaspera le ombre. Utilizza cioè tutti quei codici di comunicazione che collegano l'emotività alla percezione e diviene così l'autentico interprete, di tutte le ansie e le contraddizioni di questo secolo, metafora dei drammi del presente di ogni epoca. Per l'artista il divino si manifesta negli umili. Questo è il filo conduttore che unisce le sue opere a carattere religioso. In questo Caravaggio osò molto, tanto da giungere a raffigurare la Vergine nei panni di una donna qualunque. La “morte della Madonna”, del 1606, mostra una donna lontana da modelli idealizzati e irreali cui si era abituati; accanto a Lei, gli apostoli, e la Maddalena, disperata e impotente come lo può essere ogni donna, costretta a subire una perdita... e la tragedia è umana e immensa nel suo schiacciante realismo. Caravaggio traduce in pittura un sentimento oscuro, quello che pervade la vita di tutti gli uomini, ma che solo pochi sanno come rappresentare: quello della morte. La morte e la vita, due aspetti compresi nello stesso piano, condividono la stessa superficie, quella della vita e quella della tela. Cosa c'è, se non un profondo senso di malinconia, nello sguardo del “Bacco adolescente” che Caravaggio dipinse già nel 1590? Quel cesto di frutta, che evoca gioia e dovizia, non è forse una natura morta? Cosa dire infine del particolare dei piedi segnati, e le mani gonfie nelle vene, di “San Matteo e l'Angelo”. La natura del Santo, è umana. Umane sono le sue caratteristiche, e il suo sguardo, nel vedere l'angelo, è forse anche un po' stupefatto, se non atterrito.

 

Lot e le figlie
Salvator Rosa
Olio su tela
1660 - 1665
Altezza 76 cm
Larghezza 63 cm

(vedi animazione)
La tela è stata dipinta alla metà del Seicento da Salvator Rosa, come si può notare dalla sigla posta in un piccolo cartiglio presente nella parte bassa del quadro.
Il dipinto, di forte impatto scenico, narra la vicenda di Lot ubriacato dalle figlie.
La scena è sormontata da un cielo scuro carico di nubi squarciato da lampi di luce dorata; le tre figure, indagate da una luce interna che ne mette in risalto gli ampi panneggi ed i corpi scultorei, sono animate da gesti teatrali.

Salvator Rosa è stato un pittore, incisore e poeta italiano di epoca barocca, nato a Napoli nel 1615 ed attivo oltre che nella sua città, anche a Roma e Firenze.
Fu un personaggio eterodosso e ribelle, quasi un pre-romantico e dalla vita movimentata.
Il vivace artista fu soprannominato “Salvator delle battaglie” per le numerose rappresentazioni pittoriche di grandiose e sceniche battaglie.

 

Memento Mori / Vanitas
Anonimo Senese
terzo decennio del XVII secolo circa



(vedi animazione)
La tela, probabilmente prodotta in Toscana attorno al 1620, rappresenta una Vanitas atroce, l'orrenda fuggevolezza della vita.
E' la terribile narrazione di un uomo comune: scaduto il suo tempo di vita terreno, rappresentato dalla clessidra, la Morte lesta coglierà il malcapitato che, tenace e senza rassegnazione, sembra volere afferrare con le mani quel po' di luce che ancora ha davanti a sé.

 

Mosè e Aronne col Faraone
Pietro della Vecchia
seconda metà del XVII secolo


(vedi animazione)
Il dipinto, risalente alla seconda metà del XVII secolo, è stato ricondotto a Pietro della Vecchia.
Nella sua monumentalità di gusto veneto neocinquecentesco la tela rappresenta Mosè e Aronne col Faraone.
I toni rivelano chiaramente la lezione caravaggesca, pur calata nell'intensa temperie culturale veneziana.

Pietro Della Vecchia (Dalla Vecchia), figlio del pittore Gasparo, di famiglia veneziana, nacque probabilmente a Vicenza nel 1602-1603.
Il cognome “Muttoni” era stato introdotto basandosi su una errata lettura di «Le pitture, sculture ed architetture della città di Rovigo, Venezia 1793», che cita un quadro di Pietro Della Vecchia, indicato come «Vecchia, in casa Muttoni».

Verso la fine del quarto decennio il D. era noto come uno dei più importanti pittori di Venezia, soprattutto di arte sacra.
All'apice della sua carriera, il D. era un maestro molto ricercato e con una grande bottega.

E' probabile che il D. abbia lavorato per un certo tempo nella bottega del Padovanino alla cui influenza si deve forse l'interesse per l'arte del secolo XVI che è considerato l'aspetto più marcato della pittura del D. e che gli ha valso il soprannome di “simia di Zorzon”, imitatore di Giorgione.
Dalla metà del quarto decennio fino alla sua morte, il D. eseguì, con l'assistenza della sua bottega, un'interminabile serie di quadri nello stile di artisti quali il Giorgione e il Tiziano.
Queste imitazioni, eseguite spesso in maniera notevolmente ingegnosa, erano esempi di virtuosismo («queste imitazioni non sono coppie, ma astratti del suo intelletto per imitare i tratti Giorgioneschi») che, secondo l'ottica del secolo XVII, erano ritenuti molto apprezzabili.

La reputazione del D. come pittore ha risentito negativamente delle innumerevoli rappresentazioni di guerrieri pittorescamente intabarrati e di tipi popolari, che sotto il suo nome si trovano nelle collezioni di mezzo mondo. La maggior parte di questi quadri sono opere della sua bottega. Nelle sue migliori opere autografe il D. risulta invece pittore di grande talento

 

San Girolamo
Anonimo caravaggesco
prima metà del XVII secolo



(vedi animazione)
In questa tela, dipinta nella prima metà del XVII secolo da un pittore di chiara ascendenza caravaggesca, troviamo i moduli aspri e potenti riconducibili alla lezione di Michelangelo Merisi.
San Girolamo è qui rappresentato come un vecchio cardinale spogliato della veste in una mortificata nudità e intento a scrivere e tradurre i testi sacri.

 

Bacco e Arianna
Ermanno Stroifi
XVII secolo
Olio su tela
Altezza 91 cm
Larghezza 150 cm


(vedi animazione)
La tela, dopo una lunga attribuzione a Bernardo Strozzi, è stata ricondotta ad Ermanno Stroifi, allievo veneziano del grande maestro genovese.
Il dipinto raffigura le nozze tra Bacco e Arianna, nel momento in cui il diadema donato dallo sposo sta per essere lanciato nel cielo e divenire costellazione.
Bacco è descritto con toni caravaggeschi, con le mani arrossate ed il carnato bruno di chi vive all'aria aperta.
Incapace di sostenere altri sguardi, Arianna, nella sua sensuale nudità, porge in presenza del piccolo Cupido la sua mano allo sposo in un gesto michelangiolesco.


Ermanno Stroifi nato a Padova nel 1616, fu allievo di Bernardo Strozzi (*) ed uno dei suoi più vicini imitatori finchè, influenzato dalle opere di Tiziano, deviò alquanto dalla prima maniera.
Morì in Venezia nel 1693 dopo avervi fondata la “congregazione di San Filippo Neri”.

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(*) Bernardo Strozzi nacque a Genova nel 1581.
Nel 1598, all'età di diciassette anni, aderì all'Ordine dei frati minori Cappuccini che poi lasciò nel 1608 alla morte del padre per mantenere la madre con il proprio lavoro di pittore. Gli resterà, come nome d'arte, quello de “il Cappuccino”.
Nel 1625 fu accusato di pratica illegale della pittura e quando sua madre morì, intorno al 1630, Strozzi fu costretto da un'ordinanza giudiziaria, dopo un breve periodo di reclusione, a rientrare nell'ordine dei Cappuccini.
Per evitare il confino in monastero, decise così di trovare asilo nella Repubblica di Venezia, dove venne soprannominato “il Prete genovese”.

La sua opera si è ispirata inizialmente alla scuola pittorica toscana per risentire, successivamente, delle influenze di artisti lombardi e fiamminghi, sia pure restituite in una matrice comune reinterpretata con personale visione.
Nella sua carriera, Strozzi operò anche a Venezia - città nella quale morì - e sulla laguna seppe raccogliere le nuove influenze artistiche, derivate prevalentemente dall'opera di Paolo Veronese, in grado di meglio focalizzare l'aspetto di pura scenografia dei lavori che andava realizzando.

 

La Natività
La Fuga in Egitto
Monsù Desiderio (François Didier Nomé)
XVII secolo

     


(vedi animazione)
La tela con La Natività costituisce pendant con La Fuga in Egitto.
Le due opere, in buono stato conservativo, raffigurano in modo minuzioso singolari architetture, in cui a rovine antiche si accostano costruzioni gotiche.
Appare un mondo tempestoso, in cui gli eventi atmosferici sono esaltati e concorrono ad interpretare l'avvenuto tramonto delle certezze dell'uomo rinascimentale.

Monsù Desidèrio è il soprannome di tre pittori attivi a Napoli nella prima metà del sec. 17º, già considerati come un'unica personalità.
  1. Il più significativo dei tre è stato François Didier Nomé (n. Metz 1593 circa), giunto a Roma nel 1602 e stabilitosi a Napoli dal 1610 circa.
    Artista dalla forte carica fantastica ambienta le sue scene bibliche in architetture capricciose e irreali, popolate di piccole figure; i suoi bizzarri e spettrali dipinti di architetture spesso in rovina e fantastiche appartengono al mondo del tardo manierismo e introducono a Napoli il gusto per un tipo di pittura elaborato poi da S. Rosa.

  2. Il secondo pittore, Didier Barra, anch'egli originario di Metz e attivo a Napoli ancora nel 1647, forse subentrando nella bottega di François Didier Nomé, fu autore di vedute minuziosamente riprodotte.

  3. Il terzo pittore, ancora anonimo, sembra essere un imitatore di F. Nomé.

 

San Luca
Johann Ulrich Loth (1615-1662)


Johann Ulrich Loth nacque probabilmente a Monaco prima del 1599 e fu un pittore tedesco del primo barocco, attivo prevalentemente in Baviera.
Viaggiò in Italia tra il 1619 e il 1623, dove ebbe modo di conoscere le opere di Caravaggio (a Roma), di acquisire numerose idee compositive dai dipinti di Carlo Saraceni (a Venezia) e di entrare in contatto con le opere di Rubens (a Mantova).
Rientrato a Monaco, lavorò diversi anni come stimato pittore di corte, prima di dedicarsi alle crescenti commesse private.

 

L'elemosina di Santa Elisabetta
Bartolomeo Schedoni
Olio su tela
Altezza 134 cm
Larghezza 101 cm
Da 1598 a 1610



museo «Amedeo Lia»

Palazzo reale di Napoli

Bartolomeo Ludovico Schedoni nacque a Modena nel 1578.
Il padre Guido, trasferitosi a Parma, vi teneva una bottega di “mascararo”, ossia di fabbricante e fornitore di maschere per le feste e le cerimonie della corte ducale di Ranuccio Farnese.
Il giovane Bartolomeo collaborava all'attività del padre e doveva mostrare un certo ingegno per la pittura perché fu notato dal duca che lo raccomandò per un corso di istruzione a Roma.
Non si trattenne però a lungo a Roma a causa di una malattia che ne consigliò il ritorno a Parma.
Il soggiorno romano, soprattutto per la sua brevità, non pare lo abbia influenzato in qualche modo, anche perché il Caravaggio, pur già attivo a Roma, non aveva ancora rivelato il suo stile rivoluzionario.
Si formò quindi tra Modena e Parma, sulle principali fonti del manierismo emiliano e soprattutto su Correggio che rimane un riferimento costante in tutta la sua attività.
Alla formazione di S. contribuì soprattutto la conoscenza delle collezioni artistiche estensi e farnesiane che lo condusse a uno stile molto personale, in cui la luce diretta e contrastata isola ed evidenzia le forme solide e quasi geometricamente costruite e dà risalto al colore vivo e brillante.

 

Apollo come pastore che suona il flauto
1625-1650 circa



 

Rissa fra giocatori di carte
Nicola Maria Rossi
1690 circa






Nicola Maria Rossi è stato un pittore del periodo tardo barocco.
A soli 16 anni di età entrò nello studio di Francesco Solimena che si stava allontanado dal barocco estremo andando verso uno stile più classico.
Rossi imitò lo stile del suo maestro con molto successo e Napoli, oltre sua città natale, fu anche la vetrina delle sue opere.

 

 

SALA X: Il Settecento



Nella sala X sono ordinati dipinti del 1700.
La divisione dei generi artistici effettuata nel 1600 si radicalizza nel corso di questo secolo.
La sala X offre un’interessante spaccato di alcuni generi pittorici della complessa vicenda artistica del Settecento come il paesaggio, il ritratto e la veduta.

Il paesaggio, sia dipinto con precisione e realismo sia come capriccio, costituisce di certo uno dei generi preferiti; da segnalare “Il banchetto di Antonio e Cleopatra” di Giovan Battista Tiepolo e il “Bagno di Betsabea” di Gaspare Diziani, interpreti significativi del rococò veneziano.

Relativamente al ritratto, la tela di Giacomo Ceruti detto il Pitocchetto, “Ritratto di viandante”, mostra la crescente attenzione nel settecento ai soggetti umili e quotidiani.

La sala ospita tele dei principali interpreti del vedutismo veneziano, Antonio Canal detto Canaletto, il nipote Bernardo Bellotto, Michele Marieschi e Francesco Guardi.

Visione panoramica della Sala X



Il Settecento, dal Rococò al Neoclassicismo

Con Luigi XIV l'arte francese si era orientata alla esaltazione dello Stato, attraverso quelle forme auliche e maestose passate alla storia come Grande Maniere.
L'ispirazione partiva dalle forme monumentali del barocco romano, che venivano modificate e adattate al gusto delle monarchie francesi.
La nascita dell'Accademie Royale, nella II metà del 1600, aveva incentivato la formazione di uno specifico gusto di ispirazione aulica e classicheggiante.
Pertanto, dagli inizi del 1700 si cominciò a determinare una sorta di reazione, contro le espressioni dell'arte di corte che trovò, nella contrapposizione al monumentalismo e all'arte della Grande Maniere la sua ragion d'essere.
Tale reazione divenne un elemento comune allo sviluppo di numerose correnti artistiche europee.
Successivamente il periodo della reggenza di Filippo d'Orleans si assiste allo spostamento del potere dalla Reggia di Versailles a Parigi; ciò determina la fine del monopolio artistico della corte.

Durante il regno di Luigi XV nasce il Rococò.
Il Rococò, che dilagherà in arte e in architettura, si rivolgerà tuttavia maggiormente alla decorazione degli interni.
Sarà un'arte che dilagherà nei costumi di vita, nelle arti minori, nell'abbigliamento, nei giardini. I colori si smorzeranno nei toni tenui degli ambienti di corte. Gli specchi contribuiranno alla realizzazione di ambienti dove l'ambiguo gioco dei rimandi estenderà gli spazi all'infinito. La leggerezza lentamente sostituirà il fasto, denso di corposità, del barocco. Si è concordi nell'affermare che con il Rococò, il Barocco cede il passo ad un gusto più frivolo, raffinato e disinvolto, ma dietro l'apparente spensieratezza si cela forse la consapevolezza di un'epoca che è irrimediabilmente finita. Il Rococò esprimerà un'arte che si rivolgerà all'effimero, indicando in tal modo che la fine del barocco è ormai giunta.
Il termine Rococò deriva da rocaille, cioè grottesca, in riferimento ad uno dei principali tipi di decorazione utilizzata da questo stile.
Il Rococò si orientò anche ad un recupero dell'esotico e del pittoresco, oltre che ad un gusto elegante, bizzarro e insieme fantastico. Le linee da ondulate diventano estremamente mosse, quasi accartocciate. Le linee generatrici sono quella ad “esse”, e a “c”. Si comincia a preferire la decorazione in stucco a quella marmorea, proprio per assecondare questa tendenza; Le pose sono languide e l'atteggiamento “cortigiano” delle figure è quasi sempre presente. I contrasti forti del barocco, fatti di colori accesi nelle pitture e di luci e di ombre nette in scultura, si stemperano e si noterà un abbandono progressivo dei temi grandiosi che avevano caratterizzato le rappresentazioni negli ultimi cicli pittorici del barocco. I contenuti che prima erano aulici, verranno sostituiti con altri meno impegnativi. Le divinità mitologiche più importanti ad es. ora si eclissano a favore di tutta quella schiera di divinità minori come ninfe, satiri e baccanti. Il gioco delle forme, dei colori e dei contenuti è l'elemento essenziale per l'arte rococò. Alle proporzioni maestose subentreranno quelle più minute e si rivaluteranno le arti minori. La piacevolezza formale, l'eleganza e la grazia espressa ad esempio, nelle pose delle tipiche statuette, troveranno nella porcellana il loro materiale più idoneo.

La Germania estenderà il nuovo stile anche alle architetture civili e religiose e alla scultura, sostituendo i temi di ispirazione profana. Durante il barocco, i pittori si erano dedicati a grandiose decorazioni ad affresco di interni, con arditi scorci e effetti illusionistici atti a simulare sempre più grandi spazi che si popolavano di diverse ed innumerevoli figure. Nel 1700 si attua il passaggio: al grande affresco illusionistico subentreranno schemi asimmetrici che tralasceranno la figurazione illusionistica dell'architettura.
Nei primi anni del secolo, gli ultimi dipinti eseguiti a Versailles mostrano già come alle forme e al dinamismo del barocco, subentrino l'agilità e le linee del nuovo gusto. Successivamente la pittura negli edifici sarà posta in grandi tele o lunette.
In pittura Watteau, rappresenterà la società del tempo, vista come un paradiso sognante. Fragonard, uno dei maggiori interpreti della pittura rococò, a sua volta trasfonderà nelle sue tele la vera essenza del gioco sottile e malizioso del rococò. Caricatura e pittura sociale troveranno in Hogarth, in Inghilterra, la loro primaria espressione. Proprio ad Hogarth si dovrà la teorizzazione dei principi del Rococò e della bellezza come un armonico intreccio della forma.
In Italia il passaggio verso una sensibilità nuova si può notare già nella pittura di Giordano, pittore napoletano dei primi del 1700. Con lui la grandiosità barocca di P. Da Cortona si dissolve nella ariosità di un nuovo modo “atmosferico” di dipingere in cui spariscono i riferimenti naturalistici e si anticipano le opere che caratterizzeranno molte espressioni del gusto decorativo europeo del settecento. Sorgono in questo periodo numerose scuole che seguono tendenze differenti presso le corti o nei centri più importanti. Emerge fra tutte quella veneta, che già nel Seicento si era distinta soprattutto per la particolare tendenza “coloristica”. A Venezia la pittura del 700 conosce la sua sublimazione e la pittura veneziana torna ad essere in primo piano. Alla base di questo recupero sta il fatto che Venezia aveva ripreso i contatti con le correnti artistiche del tempo. Giovan Battista Tiepolo, 1696-1770 chiude la grande pittura veneta, superando la tradizione dell'arte come mimesi. Con Tiepolo la finzione è manifesta poiché si evidenzia nella ostentata esagerazione. Successivamente a Venezia saranno molte le personalità ad acquisire rilievo in pittura: il figlio del Tiepolo, Giandomenico; Giovan Battista Piazzetta; Pietro Longhi; Canaletto e Francesco Guardi. La scultura in Italia concepisce un proprio modo di intendere il Rococò in maniera del tutto originale partendo dalle esperienze tardobarocche. In Sicilia emerge la figura di Giacomo Serpotta, di origine palermitana, che produce una infinita varietà di sculture a stucco animate in composizioni di sorprendente grazia e inquadrate come fondali prospettici di scene teatrali. Lo stucco inoltre consente una rapidità esecutiva maggiore e la duttilità della materia apre a nuove soluzioni decorative più confacenti al nuovo spirito.

Il Neoclassicismo

Successivamente, si ricorrerà a forme più sobrie che daranno luogo alla formazione del cosiddetto gusto neoclassico. Si avvierà una vera e propria contrapposizione fra la tematica del pittoricismo e quella del classicismo. L'esaltazione dei valori della ragione, condurrà gli artisti verso un atteggiamento più analitico nei confronti dell'arte e si perverrà in alcuni casi, ad una rivalutazione della purezza dei canoni classici, visti come il risultato di una limpida razionalità di rigore ed insieme di armonia. È la conseguenza dell'illuminismo che ha contagiato tutte le espressioni culturali e che avvicinerà anche l'arte al metodo di analisi razionale.
Il Neoclassicismo nasce in opposizione alle tematiche del Barocco e del Rococò. Della produzione artistica rococò si rifiutano gli eccessi che vengono ora accostati allo stile di vita delle monarchie assolute insieme alla voluta enfasi e teatralità. Al modo tutto barocco di esibire virtuosismi tecnici, subentra l'ideale neoclassico del rigore nella tecnica e all'immaginazione si sostituisce ora il valore della “ideazione”, che pur avendo affinità con l'immaginazione, si assimila all'azione del progettare, utilizzando i procedimenti della ragione. Il barocco, che per suscitare meraviglia aveva utilizzato effetti scenografici ed esibito il dramma, i sentimenti, le passioni, cede il passo ad un modo di rappresentare che non vuole più turbare. Che non vuole più coinvolgere emotivamente lo spettatore. Invece di toccare le corde del cuore si desidera adesso stimolare il senso della ragione in sintonia con le tematiche dell'illuminismo.

Il Neoclassicismo ebbe una poderosa spinta dalla scoperta di Ercolano e Pompei. Due personalità furono considerate determinanti per la diffusione del Neoclassicismo: WincKelmann e Mengs. A loro si devono i principi teorici del Neoclassicismo, visto come “imitazione” dell'arte classica. Sarà l'affresco del “Parnaso” del 1761, eseguito da Mengs nella volta della Galleria di Villa Albani a Roma, a costituire il manifesto ideale della pittura del Neoclassicismo. WincKelmann, e Mengs tuttavia non saranno i soli a sollecitare il dibattito sulle antichità. Nel 1740, si trasferisce a Roma Giovan Battista Piranesi. Incisore e architetto, Piranesi, divenne famoso per le sue incisioni dove esalta il valore delle antichità romane e diffonde l'idea del fascino delle rovine. Piranesi, pur essendo ancora interprete del gusto barocco, ha contribuito con queste sue opere alla formazione stessa del gusto neoclassico. Si configura quindi come un personaggio chiave per la comprensione del passaggio dal barocco al neoclassicismo. Le note vedute di Roma, realizzate tra il 1748 ed il 1775, formano un complesso di incisioni che costituiscono le sue opere più famose. La sua opera tuttavia non rinuncia ad una evasione nella fantasia. La sua unica opera architettonica, Santa Maria del Priorato a Roma, è un piccolo capolavoro, dove l'invenzione si fonte al gusto della ricerca. Si ispira liberamente alle antichità romane, tuttavia le reinventa essendo il suo scopo evocarle e non imitarle.
Molti artisti tra la fine del Settecento e i primi dell'Ottocento tendono a definire le proprie opere, in pittura come in scultura, ispirandosi ai modelli antichi, per pervenire attraverso il loro studio ad una “assoluta perfezione formale” al “bello ideale”.
In Italia, in scultura, spicca la figura di Canova.
Con Canova, alle forme mosse, ricche di decorazione, impostate sui forti contrasti, si sostituiscono opere rigorose, per alcuni addirittura dotate di fredda immobilità. La freddezza, intesa come mancanza di espressività e calore, delle opere canoviane in realtà è conseguenza dell'adesione dell'artista alle teorie del Winckelmann, che dettava di non raffigurare mai le passioni, di suggerire quella quieta grandezza e quella semplicità proprie dell'arte classica.
Canova voleva pervenire alla sublimazione della figura, fino al suo identificarsi con una idea trascendente di bello, il “bello ideale”. Dallo studio, condotto a Roma, sui capolavori classici lo scultore definisce il suo linguaggio basato essenzialmente su di una assoluta perfezione delle forme. Conteso dalle maggiori corti d'Europa, la produzione di Canova è imponente. Egli faceva eseguire quasi completamente da dei tecnici, le sue opere scultoree, forse proprio perché, come afferma Argan, “voleva che le sue sculture diventassero fredde e quasi impersonali passando attraverso una esecuzione non emozionata”. Questo a dimostrazione che l'arte neoclassica si servì dei mezzi che la tecnica offriva, sia in architettura che in arte. Se Canova si rivolgerà a delle rappresentazioni idealizzate, collocabili al di fuori dal tempo, in ambito neoclassico altri artisti utilizzeranno il passato (ad esempio avvenimenti storici - o anche leggendari - delle antiche civiltà greca e romana) per affrontare problematiche del presente. Ai modelli classici in questo caso vengono attribuiti caratteri etico-ideologici. “L'arte neoclassica - afferma Argan - vuol essere arte moderna, impegnata a fondo nella problematica del proprio tempo”.
La pittura del Neoclassicismo a Parigi, avrà particolare risalto attraverso l'opera David (1748-1825) che è considerato un caposcuola della pittura neoclassica. Il concetto dell'arte come strumento di persuasione, viene trasferito in immagini che esaltano la nobiltà d'animo dei capi rivoluzionari e il loro sacrificio per il popolo. Per questo motivo l'arte del Neoclassicismo, si prestò inizialmente a divenire espressione degli ideali patriottici ed eroici della rivoluzione francese, e poi arte ufficiale dell'impero napoleonico. David, le cui prime opere maturarono in periodo prerivoluzionario, divenne poi il pittore ufficiale nel periodo napoleonico. Egli si ispirerà ai modelli antichi, greci e romani, non solo dal punto di vista formale, ma per fornire un esempio di virtù morale. Realizzerà opere grandiose in pittura, di rievocazione storica. Noto il “Giuramento degli Orazi” del 1784 e la “La morte di Marat”. Quest'ultima opera rivela la capacità di David di creare rimandi visivi ad opere come la Pietà di Michelangelo, o la Deposizione del Cristo di Caravaggio, allo scopo di esaltare la figura di Marat, il medico rivoluzionario ucciso con l'inganno pochi mesi prima della realizzazione del quadro. David aderì alle idee della rivoluzione al punto di divenire un seguace di Robespierre. Successivamente la sua arte si appiattisce verso forme più retoriche. L'opera l'”Incoronazione di Napoleone” del 1807, rivela questa ulteriore fase.
Allievo di David, fu Ingres. In lui, il gusto Neoclassico si stempera verso forme dal disegno lineare, libero ma preciso. Non rimase indifferente alla lezione del Canova del “bello ideale”. Non c'è tuttavia in Ingres, né la tendenza conservatrice di Canova, né quella rivoluzionaria di David. Egli, non aveva un particolare interesse nei confronti della politica, e, pur avendo da giovane fatto dei ritratti di Napoleone, concepiva l'arte come pura forma. Tale forma era però “legata alla realtà, alla singolarità della cosa; era quello che si vede... con chiarezza assoluta” - Argan. Ricordiamo lo splendido quadro del 1808, “La baigneuse de Valpincon”. Qui nei colori chiari, sottilmente pervasi da una luce tenue si ricerca un bello in senso assoluto. Si intuisce che il bello non risiede solamente nella figura della donna, ma nello spazio dove si trova. Tutte le componenti insite nella composizione formeranno una unità che perviene all'idea di bello. I contorni, la sfumatura e i tenui colori delle forme, tutto concorre alla bellezza. La definizione dei particolari, le pieghe dei tessuti, la luce.. luce di cui non si percepisce la fonte diretta, e che – come nota Argan- “si genera dal rapporto del colore leggermente caldo e dorato della pelle con i grigi freddi dei piani del fondo”.
Successivamente grazie alla revisione in chiave critica del passato, non si permetterà più di pervenire solamente alla adesione ai canoni classici, ma si tenderà invece alla esaltazione dell'immaginazione pervenendo addirittura al recupero del sentimento. Questo perché, derivando dall'empirismo, l'illuminismo attribuirà importanza alle sensazioni dell'artista e ad un più generale riconoscimento della libertà della creazione artistica. La sensazione “non è apparenza ingannevole che l'intelletto corregge, ma la materia prima del lavoro dell'intelletto. Nulla essendo nell'intelletto che prima non sia nel senso”. Argan – Storia dell'Arte italiana- vol III. Ecco perché il Romanticismo, che seguirà al Neoclassicismo è in fondo figlio della medesima matrice illuminista. Afferma P. Adorno nel testo “L'arte Italiana” casa editrice D'Anna- :” il neoclassicismo ha in sé molti atteggiamenti romantici o, almeno, preromantici: la fuga nostalgica verso una civiltà scomparsa, quella classica, come un modello di perfezione irrimediabilmente perduto; il senso della morte e della vanità del tutto; l'ardore, anzi il furore eroico; l'anelito di libertà”.

In tale contesto nasce il Vedutismo.
Van Wittel, pittore olandese spesso a Napoli, inizia il cosiddetto “vedutismo”.
Per la prima volta si desidera nella pittura di paesaggio cogliere aspetti reali.
Napoli grazie a questo artista apre nuove vie alla pittura di paesaggio.
La veduta prospettica di van Wittel è “uno strumento ottico che inquadra e permette i vedere meglio la realtà... vedere con ordine, con gli occhi e la mente insieme. Vedere le singole cose e il contesto che formano; ma sapendo che l'ordine non è della realtà oggettiva, bensì della mente che valuta e coordina i dati del senso”. - Argan.
Il Vedutismo vede come protagonisti in Italia Canaletto e Guardi.
Il Canaletto realizza sulla tela le famose vedute di Venezia, che avranno il merito di diffondere l'immagine della città e costituirne una attendibile documentazione grazie anche alla cura con cui dipingeva le sue architetture.
Guardi, attraverso luminosissimi giochi di luce, ottenuti con rapide pennellate, crea una sorta di unità tra figure e ambiente.
La differenza tra i due artisti si deve cogliere principalmente nel fatto che mentre Canaletto affronta con rigore quasi fotografico la rappresentazione delle sue vedute, Guardi ama filtrarle con la memoria, giungendo a delle rappresentazioni che nella sostanza si allontanano dalla realtà a favore del sentimento.
Altri artisti si distinguono nel panorama italiano.
A Bologna nel 700, emerge la figura di Crespi e in Lombardia quella di Ceruti.
Crespi, di cui si ricorda la “Fiera di Poggio a Caiano” del 1709, realizza una pittura “naturalistica”, con forti effetti luministici. Vi è in lui una commossa partecipazione agli episodi della vita quotidiana.
Ceruti, detto il Pitocchetto realizza invece quadri a soggetto religioso, ma anche nature morte e ritratti. Le sue opere si distinguono per un forte spirito popolaresco che vuole descrivere la miseria delle classi più disagiate servendosi anche di un crudo realismo. Nell'opera intitolata “I due pitocchi” si può ravvisare un influsso dei pittori spagnoli Velasquez e Murillo.
Nel 1740 Longhi, influenzato proprio dalle opere di Crespi decide di dedicarsi alla pittura di genere prediligendo scene di vita quotidiana o familiare. Notissimo il dipinto “La mostra del rinoceronte-” del 1751.

 

Ritratto di giovane
Fra Galgario
prima metà del XVIII secolo


(vedi animazione)
Il Ritratto di giovane di Fra Galgario è databile attorno al quarto decennio del XVIII secolo.
Il giovane, disinvolto e con un atteggiamento piuttosto naturale, guarda al suo secolo con occhi spalancati.
Di probabile medio ceto sociale, egli indossa un copricapo a mo' di turbante, un ampio soprabito che scende sulle spalle ed i guanti.

Giuseppe Ghislandi nacque a Bergamo nel 1655 da Domenico, pittore.
L'appellativo di “Fra Galgario” trova origine nel nome del convento (del Galgario) dove egli risiedette durante la sua permanenza a Bergamo.
Il nome fu invece mutato in “Vittore” allorché nel 1675 a Venezia entrò nell'Ordine dei frati minimi (paolotti), facendo il suo ingresso come frate laico nella comunità del locale convento di S. Francesco di Paola.
A Venezia ebbe modo di studiare le opere di Tiziano e Paolo Veronese.
Rientrato a Bergamo nel 1701, manifestò quella decisa e pressoché esclusiva propensione per il ritratto che scandirà tutta la sua carriera.
Nella sua città natale iniziarono le maggiori commesse da parte dell'aristocrazia locale.
Il Ghislandi era famoso già nel suo tempo per quelle luminosissime “lacche rosse” che l'artista produceva personalmente e che nei suoi ritratti stendeva su rossi opachi come il cinabro, o anche da sole, per velare gli incarnati e far brillare i tessuti sfarzosi indossati da nobili e dame.
Celebri artisti del suo tempo, come Sebastiano Ricci, erano disposti a fare carte false e a scomodare - come testimoniano i carteggi - le loro illustri amicizie a Bergamo, perché il pittore concedesse loro una libbra di quella lacca finissima e ineguagliabile, dalle tonalità brillanti e vinose.
La ricetta della lacca di Fra Galgario è rimasta fino ad oggi un mistero, ma recenti scoperte nelle fonti e i risultati di indagini scientifiche condotte sui dipinti con le più moderne tecnologie diagnostiche, hanno finalmente consentito di svelarne i segreti.
La ricerca incrociata di storici dell'arte e scienziati conferma come l'esperienza del pittore nella preparazione di lacche e di pigmenti fosse in parte debitrice della grande tradizione veneziana e bergamasca dei tintori della seta, dai quali il pittore prendeva in prestito materiali e residui della colorazione delle stoffe, per poi confezionare per i suoi dipinti rossi rimasti unici e inconfondibili in tutta la storia della ritrattistica settecentesca.

Nel 1717 si cimentò con ritratti definiti dai contemporanei “capricciosi”: in essi i personaggi sono in abiti inconsueti e orientaleggianti, a volte in pose arroganti.
Dal 1732 cominciò a dipignere col dito anulare tutte le carnagioni mantenendo la nuova tecnica sino alla morte avvenuta nel 1743 nel Convento del Galgario (oggi dormitorio per immigrati).

 

Ritratto di viandante
Pitocchetto
seconda metà del XVIII secolo




(vedi animazione)
Al campionario figurativo del Pitocchetto si riconduce il Ritratto di viandante, probabilmente eseguito attorno al 1788.
In linea con le teorie illuministiche l'artista si sofferma ad osservare e rappresentare un pitocco, un miserabile e sbandato uomo di strada.
Il protagonista, coperto di abiti stracciati, appare segnato in volto dalle difficoltà della sua esistenza; tuttavia viene rappresentato con la dignità monumentale del grande signore secondo i canoni della ritrattistica ufficiale.

Giacomo Antonio Melchiorre Ceruti nacque a Milano, ma la sua patria di elezione fu Brescia, città in cui l'artista si guadagnò il soprannome di “Pitocchetto” per il genere pittorico - di cui è considerato il capostipite - che aveva come soggetti principali i poveri, i reietti, i mendicanti (i “pitocchi”, appunto), raffigurati in quadri a grande formato e ripresi con stile documentaristico e con uno spirito di umana empatia (*).
Il suo percorso artistico è parte di quel filone della pittura di realtà che ha in Lombardia una tradizione secolare: prima di lui grandissimi artisti come Vincenzo Foppa, la scuola bresciana intorno a Moretto e Savoldo, Caravaggio, tutti avevano toccato l'argomento, ma nessuno prima del Cerruti seppe indagare con tanta spietata lucidità la verità quotidiana.
Nel 1736 l'artista lombardo si trasferì prima a Venezia (dove poteva osservare le opere del Tiepolo) e poi a Padova, dove operò per la Basilica del Santo.
Nel triennio dal 1742 al 1745 è documentata la sua presenza a Milano e in seguito a Piacenza: a testimonianza della permanenza in quest'ultima città attualmente rimane nella chiesa di S. Teresa la pala dipinta dall'artista dal 27 marzo al 5 giugno 1745 per la parrocchiale di S. Alessandro, con il Santo patrono che rovescia l'altare pagano.
Pittore cimentatosi in ogni genere, il C. dimostra la duttilità comune a molti artisti del Settecento. Le sue pale sacre, sebbene alcune siano di buona qualità, non lo pongono in primo piano; le nature morte, denotanti squisito senso del colore, sono assai poche; più importante è la produzione ritrattistica, varia e, in certi casi, di alto livello. Ma ciò che rende il C. artista tra i più singolari del XVIII secolo è la serie di quadri che rappresentano, in chiave realistica e con grande potenza pittorica, tutta una folla di umili e illustrano aspetti della vita quotidiana. Sono dipinti che, se pure certamente non motivati da consapevolezza sociale e politica, descrivono senza indulgenza molte delle piaghe sociali dell'epoca: il lavoro imposto ai fanciulli o svolto in locali non igienici, i vecchi costretti a mendicare, il bisogno che induce alla disonestà e così via.

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(*) empatia = capacità di comprendere cosa un'altra persona sta provando
Da en- = dentro, e pathos = sentimento
L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva (simpatia, antipatia).

 

Capriccio con il Colosseo
Giovanni Paolo Pannini
XVIII secolo

(vedi animazione)
La tela, forse risultato di un lavoro condotto dall'artista avvalendosi della collaborazione della bottega, è chiaro esito della pittura di paesaggio, secondo i moduli del XVII secolo.
Pannini, senza alcuna verità storica, dipinge la città di Roma già distrutta ai tempi dei Romani: un paesaggio archeologico immaginario, in cui vengono accostati celebri monumenti antichi fra loro distanti e dove personaggi abbigliati all'antica animano il dipinto come una scena teatrale.

Giovanni Paolo Panini (o Pannini) nacque nel 1691 a Piacenza dove studiò come scenografo teatrale.
Recatosi a Roma, divenne famoso come decoratore di palazzi.
Come pittore, Pannini è più conosciuto per le sue vedute di Roma; si interessò in particolare delle antichità della città.

 

Veduta della piazza del Quirinale
Gaspar van Wittel
fine del XVII secolo
Olio su tela, cm 50x99

(vedi animazione)
Veduta della Piazza del Quirinale e del Palazzo di Monte Cavallo.
Dal palazzo del Quirinale, allora residenza del papa, la descrizione giunge fino alla cupola di San Pietro.
Il quadro non è firmato né datato, ma l'assenza nel panorama di Roma del grande orologio di Montecitorio ha fatto ipotizzare una datazione anteriore al 1697.

Gaspar Adriaensz van Wittel detto Gaspare Vanvitelli o “Gaspare degli Occhiali” perché per dipingere i minimi particolari usava delle lenti) è stato un pittore olandese naturalizzato italiano.
Risiedeva a Roma, sede di una nutrita colonia di pittori olandesi.
Il gusto per il dettaglio e l’impostazione descrittiva e tersa tipici del vedutismo nordico caratterizzeranno la sua produzione, dedicata a ritrarre Roma e le sponde cittadine del Tevere.
Ottenne tali risultati anche grazie ad alcuni strumenti già usati dai vedutisti del nord, come la “scatola ottica” (o camera oscura, dispositivo ottico la cui invenzione è alla base di tutta la tecnica fotografica).
Fu essenzialmente un artista vedutista, un anticipatore dei Canaletto.

Suo figlio era Luigi Vanvitelli uno dei più importanti architetti italiani del periodo fra il Barocco e il Neoclassicismo, autore della reggia di Caserta.

 

Veduta di piazza San Marco
Bernardo Bellotto
XVIII secolo


(vedi animazione)
La tela è stata eseguita da Bernardo Bellotto, nipote di Canaletto, forse con il concorso di qualche collaboratore. Piazza San Marco è vista da uno scorcio della piazzetta dei Leoni, ritratta di sottecchi da un punto di vista insolito, ma viva e attiva nelle vicende di ogni giorno.

Bernardo Bellotto (Bellotti, Belotti, Belotto), nacque a Venezia nel 1721 da Lorenzo e da Fiorenza Canal, sorella del “Canaletto”.
Nei paesi tedeschi il B. è conosciuto con il soprannome di “Canaletto”.
Già intorno al 1735 egli entrò nella bottega dello zio Antonio Canal a Venezia, e come allievo, aiuto e poi collaboratore, vi rimase fino agli inizi del quinto decennio del secolo.

Nel 1742 si recò a Roma: è quasi certo che in questo viaggio il B. non era in compagnia del Canaletto, come è stato spesso affermato; l'interesse per i soggetti romani del Canaletto negli anni 1742-45 è probabilmente dovuto agli stimoli forniti dal materiale documentario portato dal nipote da Roma.

La sua prima attività si intreccia con quella del Canaletto, che proprio in quegli anni era alle prese con sempre più numerose commissioni.
Il lavoro preparatorio del Canaletto per una veduta consisteva in genere in vari tipi di schizzi dal vero fatti per lo più con l'ausilio della camera ottica e in disegni d'insieme e di dettaglio che venivano eseguiti in bottega.
Il B., assimilando dal Canaletto non solo i motivi e gli schemi compositivi, ma anche gli accorgimenti tecnici per l'incisione e la pittura, collaborava con lo zio sia preparandogli i disegni sia anche aiutandolo nell'esecuzione dei quadri.

Con il viaggio a Roma lo stile del B. matura; le caratteristiche stilistiche del B., che con il procedere degli anni diventano sempre più palesi, sono:
  • macchie di colore più grasse, più “descrittive”, ed un diverso senso cromatico nei confronti del Canaletto (il B. propende infatti per toni più freddi, azzurro-grigi, grigioverdi, verdi freschi);
  • il sempre crescente interesse al paesaggio;
  • il contrasto più scenografico tra le parti in luce e quelle in ombra, che porta alla creazione di uno spazio atmosfericamente profondo, imbevuto di una luce cristallina e malinconica;
  • una tendenza più narrativa e una adesione umana alla vita di tutti i giorni. Al contrario di quello del maestro, il disegno del B. è sempre in funzione delle necessità del quadro da eseguire e non assume mai quell'indipendenza così tipica del Canaletto.
Il B. raggiunse la piena maturità dello stile in dipinti dai soggetti mai trattati dal Canaletto, ispirati dai soggiorni nel 1743 a Venezia, nel 1744 in Lombardia e nel 1745 a Torino alla corte di Carlo Emanuele III.

Nel 1746 si trasferi a Dresda alla corte di Augusto III dove dipinse una serie di tele di grande formato con vedute della capitale con l'Elba e le piazze, le vie e gli edifici più importanti.

La maturazione del suo stile, già visibile nei dipinti, trova la sua piena affermazione nelle acquaforti: l'artista traduce nell'espressione formale propria dell'incisione il suo nuovo senso di monumentalità, di atmosfera tersa, di spazio e di luce, del tutto indipendente dai suoi inizi canalettiani.

In seguito allo scoppio della guerra dei Sette anni, la critica situazione della capitale sassone minacciata dalla guerra lo indusse a trasferirsi nel 1758 a Vienna dove soggiornò dal fino all'inizio del 1761. Per l'imperatrice Maria Teresa eseguì la seconda grande serie di vedute: quella di Vienna e di alcuni dintorni.

Nel 1761 egli fu attivo a Monaco, dove eseguì per quella corte tre grandi vedute.

I quadri viennesi e bavaresi illustrano lo sviluppo dell'arte del B. nel senso di una narrazione più dettagliata della vita cittadina; alcune macchiette in primo piano sono ora dei veri ritratti; il colore diventa più caldo, mentre i verdi smeraldo diventano grigi argentei, i contrasti di luce e di ombra si fanno più scenografici.

Nel 1763 finiva la guerra dei Sette anni: la Sassonia ne usciva indebolita anche per la separazione della Polonia in seguito alla morte di Augusto III e il B. perse il posto alla corte ormai impoverita.

Nel 1767 il B. lasciò Dresda diretto a Pietroburgo, alla ricerca di un posto più conveniente presso la corte imperiale russa: si fermò a Varsavia solo per avere dal re Stanislao Augusto Poniatowski lettere di raccomandazione per l'imperatrice, ma il sovrano lo trattenne nominandolo pittore di corte.
L'opera principale del B. in questo periodo (1767-1780) è la terza grande serie di vedute. In tali opere Varsavia appare nella veste barocca che assunse nei secc. XVII-XVIII. Le macchiette formano vere scene di genere a cui prendono parte abitanti appartenenti a tutte le classi sociali. Il B. si interessa ora di più alla natura e l'architettura quasi scompare, dando posto ad ampi paesaggi.
Le Vedute di Varsavia del B. hanno costituito una delle più importanti fonti di documentazione, dopo la seconda guerra mondiale, per la ricostruzione di interi quartieri del centro storico della città.

Il B., accanto ad Antonio Canal e a Francesco Guardi, fu uno dei principali “vedutisti” veneziani del Settecento. Una rivalutazione della sua arte incominciò verso il 1900, in Italia, per essere poi largamente confermata negli anni recenti. Su questa rivalutazione hanno molto influito alcune caratteristiche dell'arte del B., con le quali egli si distacca dalla tradizione barocca, a cui però appartiene, e che rispondono più al gusto moderno: il verismo dei contenuto e di alcuni mezzi formali della sua narrazione della vita della città, gli sfondi di paesaggio già vicini a ciò che ci darà in seguito la scuola di Barbizon.

 

Capriccio con torre ed edificio gotico in distanza sulla laguna
Antonio Canal detto Canaletto
Venezia, 1697 - 1768
Olio su tela



Il dipinto, in buono stato di conservazione, si data agli ultimi anni del 1700.
Si tratta di uno dei tipici capricci di Canaletto in cui, in un ambiente lagunare che ricorda Venezia, si affacciano un'antica torre circolare usata come abitazione e sul fondo un edificio goticheggiante di chiara matrice anglosassone.


Giovanni Antonio Canal, nato a Venezia nel 1697, è stato un pittore e incisore italiano, noto soprattutto come vedutista.
Il soprannome “Canaletto” gli venne probabilmente dato per distinguerlo dal padre Bernardo, che era pittore di scenografie teatrali, o forse per la bassa statura. Sarà proprio attraverso il padre che il giovane Giovanni Antonio viene avviato alla pittura.
Tra il 1718 e il 1720 il giovane si trasferisce, insieme al padre, a Roma dove ha i primi contatti con i pittori vedutisti. In particolare, i suoi modelli di riferimento sono tre importanti artisti che si cimentarono con il genere della veduta:
  • Viviano Codazzi, che Antonio non può conoscere da vivo in quanto scomparso nel 1670,
  • Giovanni Paolo Pannini, famoso per le sue vedute fantastiche, molte delle quali ispirate alle antichità romane,
  • Gaspar van Wittel, olandese, considerato tra i padri del vedutismo.
Il giovane Canal prende notevoli spunti e suggestioni dalle opere dei succitati artisti e nel frattempo continua a perfezionare la sua tecnica.

Tornato nella città natale, il Canaletto stringe contatti con i vedutisti veneziani, tra i quali spiccavano i nomi di Luca Carlevarijs e di Marco Ricci, e comincia a dedicarsi a tempo pieno alla pittura di vedute.
Grazie alla sua notevole abilità e alla sua tecnica che nel giro di pochi anni aveva fatto grandi progressi, il Canaletto riesce in breve tempo a diventare uno dei pittori più affermati di Venezia, e, nel corso della seconda metà degli anni venti, per lui le committenze cominciano ad aumentare.

Molte opere realizzate dal Canaletto durante la prima fase della sua carriera, al contrario delle abitudini del tempo, sono state dipinte “dal vero” (piuttosto che da abbozzi e da studi presi sul luogo per poi essere rielaborati nello studio dell'artista). Alcuni dei suoi lavori tardi tornano a questa abitudine, suggerita dalla tendenza per le figure distanti a essere dipinte come macchie di colore - un effetto prodotto dall'uso della camera oscura, che confonde gli oggetti distanti. I dipinti del Canaletto comunque si distinguono sempre per la loro grande accuratezza.

Durante il Settecento Venezia era molto frequentata dall'aristocrazia britannica e il Canaletto comincia a essere notato dai committenti inglesi entrando in particolare in contatto con Joseph Smith, personaggio che si rivelò poi decisivo per la carriera dell'artista. Smith, console britannico a Venezia, era un ricchissimo collezionista d'arte e inizialmente fu un cliente del pittore diventando in seguito l'intermediario tra il Canaletto e gli altri collezionisti inglesi.

Nel 1740 moriva improvvisamente, privo di figli maschi, Carlo VI d'Asburgo e saliva al trono d'Austria la figlia primogenita Maria Teresa provocando l'insorgere di numerosi dissensi tra le case regnanti in Europa che sfociarono in una sanguinosa guerra, passata alla storia come “guerra di successione austriaca”.
La guerra portò a un forte decremento dei visitatori britannici a Venezia e il mercato del Canaletto si ridusse drasticamente.
Fu così che nel 1746 il Canaletto decise di trasferirsi a Londra: accolto con iniziale diffidenza, riesce a ricevere comunque diverse commissioni da parte dell'aristocrazia inglese.
Il Canaletto, abituato a dipingere gli scorci urbani di una Venezia ricca di edifici e piena di persone indaffarate, in Inghilterra comincia a raffigurare i tipici paesaggi calmi e privi di architetture complesse della brughiera.

Nel 1755 il Canaletto torna nella città natale dove realizza alcuni dipinti tra i quali due suggestivi notturni e approfondisce il tema del capriccio, già affrontato in gioventù: importante in questo senso è il celeberrimo Capriccio palladiano, una veduta del quartiere di Rialto con il Ponte raffigurato secondo il progetto di Andrea Palladio.
L'opera coniuga elementi reali (il quartiere di Rialto) a elementi altrettanto reali, ma collocati altrove (la Basilica di Vicenza) e a elementi di fantasia (il Ponte di Rialto secondo il progetto palladiano): è interessante perché permette di vedere come sarebbe stato il quartiere di Rialto se fosse stato scelto il progetto di Andrea Palladio piuttosto che quello di Antonio da Ponte.

I quadri del Canaletto, oltre a unire nella rappresentazione topografica architettura e natura, risultavano dall'attenta resa atmosferica, dalla scelta di precise condizioni di luce per ogni particolare momento della giornata e da un'indagine condotta con criteri di scientifica oggettività, in concomitanza col maggiore momento di diffusione delle idee razionalistiche dell'Illuminismo.
Insistendo sul valore matematico della prospettiva, l'artista, per dipingere le sue opere si avvaleva talvolta della camera ottica.
Anche per questo alcuni critici si sono espressi in modo poco tenero nei suoi confronti ritenendolo un «pittore-fotografo», un meccanico riproduttore della realtà circostante. Di recente molti storici dell'arte hanno cominciato a prendere le distanze dalla critica che vede il Canaletto come un «pittore-fotografo» definendo il Canaletto come il primo vero vedutista, per via della sua nuova forza e del suo nuovo senso della natura.

Il Canaletto è lo zio di Bernardo Bellotto, altro importante pittore vedutista veneziano, anch'egli talvolta noto come “Canaletto”.

 

Paesaggio con cacciatore
Francesco Zuccarelli
Seconda metà del XVIII secolo


Francesco Zuccarelli nacque a Pitigliano, in provincia di Grosseto, nel 1702.
Studiò a Firenze ed in seguito si trasferì a Roma.
Fu inizialmente un pittore di soggetti storici ispirato dalla conoscenza della pittura di Claude Lorrain, pittore francese del '600 vissuto a Roma che fu maestro di questo genere.
Trasferitosi a Venezia, Zuccarelli, si rivolse alla pittura di soggetto arcadico: i suoi paesaggi, animati da figure, trattati con tocco leggero e arioso, sono di piacevole effetto decorativo; lo spirito eroico e romantico dei paesaggi di M. Ricci, attivo a Venezia, si trasforma in grazia arcadica.
Come successe ad altri pittori veneti suoi contemporanei, quali Canaletto e Bernardo Bellotto, la sua pittura fu molto apprezzata all'estero dove fu chiamato a dipingere per ricchi mecenati come ad esempio il Console inglese Joseph Smith, lo stesso che fu decisivo per la carriera del Canaletto.
Zuccarelli lavorò molto in Inghilterra dove influenzò importanti pittori locali.
Tornò in Italia nel 1773 ricco e ammirato dal pubblico britannico.

 

Marinai turchi in un porto italiano
Anonimo fiorentino
Prima metà del XVIII secolo




 

Discussione al tavolo di un'osteria
Anonimo fiorentino
Inizio del XVIII secolo



 

Interno di un teatro
Gherardo e Giuseppe Poli
Olio su tela
Altezza 42 cm
Larghezza 28 cm
1730 - 1739









I fratelli Poli sono stati esponenti di spicco della pittura di “capriccio” nella Toscana di primo Settecento; sono infatti noti come autori di vedute e dipinti con rovine in cui l’elemento reale tratto dal contesto urbano viene trasfigurato in modo fantastico.

 

Paesaggio marino con figure
Gherardo e Giuseppe Poli
1730 - 1739



Nei Musei Civici di Pavia è conservato un quadro di Gherardo Poli che rappresenta la Battaglia di Pavia che si combattè il 24 febbraio 1525.


Gherardo Poli (Firenze, 1676 – Pisa, 1739)
La battaglia di Pavia
olio su tela
cm 84x128






Sullo sfondo è rappresentata Pavia con torri, mura e il Castello Visconteo; in primo piano invece è visibile il re francese Francesco I prossimo alla cattura, dopo esser stato disarcionato.
Nella rappresentazione della Pavia cinquesentesca ci sono due errori evidenti:

  • il Castello viene dipinto già mutilato del suo lato nord, mentre solo nel 1527 i Francesi riuscirono a distruggere quest’ala dell’edificio;
  • il secondo errore riguarda la Torre Civica che si trovava di fianco al Duomo e che crollò nel 1989. Nel dipinto compare sulla sommità della torre la cella campanaria che fu realizzata solo nel 1583 dall’architetto Pellegrino Tibaldi.
Non ci sono riproduzioni pittoriche della Battaglia che si possano considerare aderenti alla realtà paesaggistica di quel periodo. Gli artisti non conoscevano la città di Pavia né il campo di battaglia e prendevano spunto, per rappresentarla, da fonti letterarie.
Tuttavia risponde al vero la netta separazione tra città e campagna definita dal perimetro delle mura, come mostrano diverse altre fonti iconografiche.

Il campo di battaglia fu il Parco Visconteo, che si sviluppava alle spalle del Castello e arrivava fino alla Certosa.
Il Parco fu costruito per volere di Gian Galeazzo Visconti alla fine del XIV secolo. Nacque come riserva di caccia completamente circondata da mura e come spazio per la conduzione di attività agricole come la coltivazione di frumento, segale, vite, ecc.
Esistevano inoltre vari luoghi e strutture dedicati allo svago e divertimento come il bagno, la peschiera, una villa di delizia e il castello di Mirabello dove viveva il guardiaparco che presiedeva alla selvaggina destinata alle cacce.
Dopo la Battaglia di Pavia, in seguito alle mutate condizioni politiche e anche a causa della sottrazione di materiale edilizio dalle brecce aperte dagli eserciti nelle sue mura, il Parco iniziò a disgregarsi.
Oggi la presenza secolare del Parco è quasi illeggibile a causa dell’urbanizzazione attorno a Pavia, anche se la visione dall’alto del territorio rivela ancora, nel tracciato delle strade e del canale del Naviglio, l’antico perimetro del Parco.

Nel dipinto si può notare come la città e la campagna erano nettamente separate, grazie alle mura che cingevano Pavia, mentre oggi, abbattute le mura, questa separazione non esiste più; Pavia si è estesa oltre le sue vecchie mura occupando il territorio limitrofo lungo le principali vie di comunicazione e contemporaneamente sono sorti, in promissità di antiche cascine, centri urbani più piccoli che costellano la campagna.

 

Piazza San Marco
Francesco Guardi
XVIII secolo

Francesco Lazzaro Guardi, figlio del pittore Domenico Guardi, nacque nel 1712 a Venezia.
Entrambi i genitori appartengono alla piccola nobiltà trentina della Val di Sole. Il padre muore nel 1716: il figlio primogenito Gianantonio eredita la bottega paterna; la secondogenita Maria Cecilia sposa nel 1719 il pittore Giovanni Battista Tiepolo.
Nella bottega del fratello, Francesco apprende «quella pittura illusionistica, cioè tutta a strappi e sfregature a macchie, la quale non indulgeva punto allo studio del disegno in senso accademico e dei volumi ben definiti, per affidare tutto il suo peso agli effetti luministici in un'atmosfera estremamente variata».
Nel 1735 passa nella bottega di Michele Marieschi, pittore di vedute e di capricci.

Alla produzione di figure Francesco alterna quella di vedute e capricci, mantenendo la stesura pittorica trepidante tipica del fratello, e disponendola in un’impalcatura formale coerente, ma maggiormente variegata, con l'articolazione di profili figurativi zigzaganti e un tono sentimentale teso e introspettivo.

Alla fine del Seicento inizia e si sviluppa per tutto il Settecento, il turismo europeo; nobili e borghesi benestanti, soprattutto inglesi e francesi, visitano l'Italia: le mete d'obbligo sono Venezia, per l'unicità dei suoi ambienti, Firenze, per l'arte rinascimentale, Roma, per l'arte, le chiese e le memorie classiche, Napoli, la città italiana più grande a quel tempo e la Sicilia, per i templi greci e il suo clima mediterraneo.
Si apre così un nuovo mercato artistico: si vuole un ricordo di ciò che si è visitato ma anche il monumento, che non può essere comprato, può essere rappresentato in pittura, come una veduta di un luogo urbano o di un paesaggio, che può rappresentare topograficamente il luogo visitato ma può essere anche di fantasia, un capriccio, magari arricchito di rovine architettoniche, così tipiche dell'ambiente italiano del tempo.
A Venezia si forma una importante scuola di vedutisti dove emergono Canaletto, Bernardo Bellotto e Francesco Guardi.
F.G., al contrario del Canaletto, non mira, nelle sue pitture, a risultati di nitida percezione, ma propone un'interpretazione del dato reale soggettiva ed evocativa, realizzando immagini di città evanescenti e irreali; raggiungendo a volte una sensibilità definibile pre-romantica, grazie allo sfaldamento delle forme e a malinconiche penombre.


 

Giocatori di bocce
Anonimo fiorentino
Inizio del XVIII secolo


 

Ritratto di giovane gentiluomo
Pietro Longhi
1750 circa







Pietro Antonio Falca nasce a Venezia nel 1702 e adotta il cognome “Longhi” quando intraprende l'attività artistica.
Per l'opera del Longhi bisogna tener presente i costanti riferimenti al mondo teatrale e può essere tracciato uno sviluppo parallelo tra l'opera del pittore e quella del commediografo Goldoni: quest'ultimo, attraverso il superamento della commedia dell'arte, crea un nuovo tipo di teatro ispirato alla vita reale; allo stesso modo l'artista propone nella sua pittura un'attenta osservazione e la cronaca puntuale del costume sociale di un'intera epoca.

 

Capriccio con rovine
Michele Marieschi
1750 circa







Michele Marieschi è stato un pittore contemporaneo di Canaletto e di Francesco Guardi che ha dipinto inizialmente capricci e in seguito paesaggi realistici principalmente a Venezia.
______________
Il “capriccio” si precisa nella pittura veneziana del XVIII secolo come un genere caratterizzato dalla raffigurazione di architetture fantastiche o invenzioni di tipo prospettico, spesso combinate con elementi tratti liberamente dalla realtà.
Nel Capriccio con rovine classiche ( 1723 ) Canaletto accosta, per esempio, la piramide di Caio Cestio a Roma (al centro del dipinto) alla cinquecentesca Basilica vicentina del Palladio (sullo sfondo, a sinistra).
Oltre a Marco Ricci e a Canaletto, tra gli artisti che nella Venezia del Settecento praticarono il genere del capriccio si possono menzionare Francesco Guardi e Michele Marieschi.

 

Il trionfo di Bacco
Charles Joseph Natoire
1750







Il francese Charles-Joseph Natoire è il pittore della grazia, della voluttà e della gioia di vivere. Il suo tocco caldo e sensuale è senza dubbio troppo grazioso per la pittura di genere storico, troppo frivolo per la pittura religiosa.
Nel 1751 Natoire fu nominato direttore dell' “Académie de France” a Roma. La nomina era prestigiosa, ma sancì la fine della sua carriera: si limitò a realizzare numerosi disegni della campagna romana, ma poche tele.

 

Il molo del bacino di San Marco
Francesco Albotto
1750 circa





L'Albotto era stato discepolo di Michele Marieschi e pertanto veniva considerato un pittore vedutista. Veniva chiamato “il secondo Marieschi” anche perché di quest'ultimo aveva sposato la vedova.
L'Albotto morì a soli 35 anni e per diversi anni l'artista fu ignorato dalla critica e la sua figura venne dimenticata.
Nel 1972 venne passata nell'asta Sotheby's di New York una “Veduta del Molo e del Bacino di San Marco” con l'assegnazione a “seguace di Michele Marieschi”, ma nel verso della tela chiaramente si poteva leggere la segnatura: “Francesco Albotto F., in Cale de Ca' Loredan a San Luca”.
Si tratta della prima opera da assegnare con certezza all'artista per dare inizio alla ricostruzione di questa misteriosa personalità artistica molto vicina a Michele Marieschi sia nell'impianto prospettico che nell'impasto pittorico.





Differenze stilistiche erano state percepite più volte fra i molti dipinti assegnati al Marieschi: in realtà molte opere assegnate al Marieschi dovevano invece essere attribuite all'allievo.
Ad esempio, il “Bacino di San Marco” attribuito al Marieschi è risultato essere simile (salvo qualche piccolo dettaglio) a quello della vendita di Sotheby's di New York e quindi da attribuire a Francesco Albotto.
In realtà era stato proprio l'Albotto a contrabbandare molti suoi dipinti o incisioni come autografi del Maestro: identico tema veniva ripetuto dall'Albotto che puntigliosamente si adeguava ai modelli del Maestro servendosi, probabilmente, anche delle matrici di rame avute dalla moglie, vedova di Marieschi.

 

Il banchetto di Marco Antonio e Cleopatra
Seguace di Giambattista Tiepolo
Seconda metà del XVIII secolo


 

 

SALA XI: Sculture in bronzo e marmo




Nella sala XI sono ordinate una serie di piccole sculture, per la stragrande maggioranza in bronzo, ad eccezione di alcuni marmi fra cui spiccano due pezzi della cultura figurativa toscana del Trecento: un “Angelo in adorazione” e una “Testa d’angelo”.
L’articolata varietà della collezione dei bronzetti permette di ripercorrere tutta la gamma dei soggetti trattati in età classica, medievale, rinascimentale, barocca e moderna: divinità classiche e temi sacri, ma anche molti oggetti d'arredo e d'uso domestico, come candelieri, lucerne, calamai, battenti.
Il pezzo più pregiato dell’intera collezione è sicuramente lo “Scudiero reggistemma” forse di Andrea del Verrocchio.

Visione panoramica della Sala XI

 

Angelo in adorazione
Gano di Fazio
secondo decennio del XIV secolo

(vedi animazione)
La lastra in marmo grigiastro è stata attribuita a Gano di Fazio, artista attivo a Siena fra il 1302 e il 1318, per motivi di affinità stilistica.
La formella rappresenta, all'interno di una cornice, un angelo che tiene la mano destra sul petto e la sinistra in basso.
In questo rilievo si possono cogliere i caratteri della migliore scultura senese del primo Trecento: la virtuosistica lavorazione a trapano delle ciocche avvolte in ampie spirali, l'efficace articolazione spaziale ed una toccante intensità sentimentale.
Gano propone quindi una ricerca plastica pacata ed essenziale, in opposizione all'espressionismo drammatico di Giovanni Pisano.
La lastra doveva fare parte di un complesso monumentale di destinazione forse sepolcrale.

Gano di Fazio (conosciuto anche come “Gano da Siena”) è stato uno dei fondatori della scuola senese di scultura.
La sua unica opera certa e firmata è il monumento funebre di Tommaso Andrei vescovo di Pistoia, eseguito nel primo decennio del XIV secolo; si tratta del più antico monumento funebre dell'area senese.
Di lui non sono documentate altre opera ma per motivi di affinità stilistica gliene vengono attribuite diverse.

 

Uno dei figli di Laocoonte
Silvio Cosini
prima metà del XVI secolo






(vedi animazione)
L'intensa testa marmorea pare compiuta nell'ambito della cerchia michelangiolesca ed è quasi certamente riconducibile al pisano Silvio Cosini.
Il pezzo riecheggia il capo torto di uno dei figli di Laocoonte, celebre gruppo scultoreo scoperto a Roma presso Santa Maria Maggiore nel 1506, opera fortemente apprezzata nella cerchia michelangiolesca.
Questa testa di giovane dolente, realizzata impiegando un marmo greco già scolpito, è copia del celebre gruppo scultoreo ellenistico.

Cosini Silvio nacque a Fiesole alla fine del 15º sec.
Fu uno scultore attento, oltre che all'arte di Michelangelo (per il quale lavorò tra il 1521 e il 1533, a quella di A. Sansovino, del Rustici e del Montorsoli.

 

Bassorilievo



 

Rospo; Lucertole
Severo Calzetta e Andrea (Antonio?) Briosco detto il Riccio
XVI secolo



     


(vedi animazione)
Il rospo e le lucertole in bronzo sono ottenute da un calco dal vero e si riconducono rispettivamente alle botteghe di Severo Calzetta e di Antonio Briosco detto il Riccio.
Il repertorio degli animali utilizzati per questo tipo particolare di fusione comprendeva, oltre a lucertole e rospi, anche serpenti e granchi.
Si trattava di una tecnica di fusione precisa ed impegnativa, che permetteva di riprodurre la grana della pelle senza il bisogno di ulteriore cesellatura dopo la fusione.
Piccoli calchi come questi, straordinari per il loro sorprendente realismo, divennero estremamente popolari a partire dalla prima metà del secolo XVI, come oggetti da scrivania, come amuleti o per le Wunderkammer.

Severo Calzetta è stato uno scultore italiano del Rinascimento e del Manierismo specializzato in piccoli bronzi.
Svolse la sua attività tra il 1496 e il 1543 e lavorò a Ravenna, Ferrara e Padova.


Antonio di Piero Briòsco (o Briòschi) è stato uno scultore milanese menzionato in documenti della fabbrica del duomo dal 1414 al 1457; autore, nel duomo, delle statue della Maddalena e di S. Nazaro.


Andrea Briosco detto “il Riccio” verosimilmente per la sua folta e riccia capigliatura quale la vediamo in medaglie e in varie rappresentazioni che si presumono autografe, si ritiene nato a Trento nel 1470 da Ambrogio, orefice milanese.
Il padre risulta aver viaggiato e lavorato in varie parti dell'Italia settentrionale, ma si stabili a Padova nell'ultimo decennio del secolo.
Padova fu il centro dell'attività artistica del B., svoltasi principalmente nel campo della scultura in bronzo.
All'inizio del sec. XVI il B. si era già solidamente affermato come uno dei più importanti artisti attivi a Padova: dal 1500 riceveva importanti commissioni dai sovraintendenti alla Fabbrica della basilica di S. Antonio.
Gli si attribuisce inoltre la produzione di una grandissima varietà di piccole opere in bronzo - a uso di soprammobili - per lo più vagamente ispirate a temi classici.
Nessuna delle sue opere documentate rivela con altrettanta evidenza l'inventiva e il potere di immaginazione dell'artista quanto i migliori tra questi bronzetti.

 

La Francia
La Navarra
Bottega di Barthelemy Prieur
fine del XVI secolo


La Navarra

La Francia


(vedi animazione)
I due busti bronzei, opera dello scultore di corte Barthelemy Prieur, rappresentano La Francia e La Navarra, i due regni governati da Enrico IV di Francia.
E' probabile che originariamente al centro della coppia di busti fosse collocata la raffigurazione dello stesso sovrano Enrico IV, oggi perduta, verso il quale le due giovani paiono volgersi delicatamente.
La Francia è cinta dalla corona chiusa ed ornata di fiordalisi, indossa un corpetto e porta sulle spalle un manto regale, trattenuto da fibbie quadrilobate ingioiellate.
La Navarra invece indossa un semplice abito dallo scollo quadrato ed un mantello che ricade dalla spalla destra.
Il museo «Amedeo Lia» è l'unico che possegga entrambe le sculture accoppiate.

Barthélemy Prieur è stato uno scultore francese.
Lavorò a Torino dal 1564 al 1568 per il Duca di Savoia Emanuele Filiberto.
Ritornato in Francia, lavorò principalmente a monumenti funebri e busti, ma anche a piccoli bronzi.
Dal 1594 ebbe la qualifica di scultore reale alla corte di Enrico IV re di Francia e Navarra.

 

Scudiero reggistemma
Seguace di Andrea del Verrocchio
ultimo quarto del XV secolo
Bronzo






(vedi animazione)
Ad Andrea del Verrocchio o ad un suo seguace è riconducibile la scultura in bronzo pieno raffigurante uno scudiero reggistemma.
Utilizzata originariamente come fermaporta, è stata prodotta a Roma intorno alla fine del 1400. Infatti lo stemma che lo scudiero regge è quello di Pierre d'Aubusson, Gran Maestro dell'Ordine degli Ospitalieri di San Giovanni in Gerusalemme e di Rodi, in carica dal 1476 al 1503.
A questo arco di tempo si data dunque questa importante statuina.
Inoltre essa trova stringenti confronti con altre due analoghe sculture conservate a Roma nel Palazzo dei Conservatori, prodotte con funzione di fermaporta.

Andrea di Michele di Francesco di Cione detto “il Verrocchio”, nato a Firenze nel 1437, è stato uno scultore, pittore e orafo italiano.
Fu attivo soprattutto alla corte di Lorenzo de' Medici.
Alla sua bottega si formarono allievi come Leonardo da Vinci, Botticelli, Perugino, Domenico Ghirlandaio.
Rivestì un ruolo importante nella tendenza a misurarsi con diverse tecniche artistiche, manifestatasi nella Firenze di fine Quattrocento, e infatti la sua bottega divenne polivalente, con opere di pittura, scultura, oreficeria e decorazione, così da poter far fronte all'insistente domanda proveniente da tutta l'Italia di prodotti fiorentini.
Tecnicamente molto esperto e curato (grazie anche alla sua lunga attività di orefice), fu consapevole dell'importanza fondamentale e dell'inarrivabilità dell'opera di Piero della Francesca, da cui assimilò l'uso della linea, che in lui diventò marcata e incisiva, indagatrice del dinamismo psicologico dei soggetti (soggetti spesso tipizzati in base alla loro categoria di appartenenza).

 

Nettuno
Maestro del Fitzwilliam Museum
XVII secolo




(vedi animazione)
Nettuno, incoronato, ha le braccia sollevate nell'atto di affondare il tridente nei flutti; i tratti del volto, la capigliatura, le sopracciglia sporgenti e ondulate sono resi con grande perizia.
Il motivo iconografico, derivato da una statua monumentale in bronzo di Stoldo Lorenzi (1565-1568), venne riutilizzato dal Bernini per la celebre statua in marmo di Nettuno e Tritone (1620 circa).
La statuina, che per stile, scala ed esecuzione si riconduce al Maestro del Fitzwilliam (Università di Cambridge), doveva essere accoppiata ad un'altra simile raffigurante, forse, Marte.

 

Guliano de' Medici (fratello di Lorenzo)
Seconda metà del Cinquecento


Copia della statua che Michelangelo creò pochi anni prima
per la Cappella dei Medici in San Lorenzo a Firenze.


 

 

SALA XII: Vetri, terrecotte e maioliche




Varia la tipologia degli oggetti contenuti nella sala XII: vetri archeologici dai colori vivaci, una scelta selezionata di vetri veneziani a filigrana, alcuni esempi di vetri veneziani dipinti e graffiti della fine del Cinquecento,le sculture in terracotta e vasi in maiolica.

Visione panoramica della Sala XII

 

Alabastra
Area Mediterranea
VI-V secolo a.C.

(vedi animazione)
Queste piccole fiale dai colori vivaci, detti alabastra, erano usati come contenitori per unguenti e profumi.
Questo tipo di alabastron, diffuso nel bacino del Mediterraneo per un periodo di tempo molto ampio, dal VI al I secolo a.C. circa, è attestato in una vasta area geografica: dal Mar Nero ai Balcani, fino alla Gallia.
Tali fialette sono dotate di un corpo tubolare, spalla poco distinta, orlo espanso e piccola ansa per la sospensione.
Questo tipo di manufatti veniva prodotto con la tecnica del nucleo friabile; essa consisteva nel preparare un nucleo d'argilla ed erba, avvolto probabilmente in una tela leggerissima, e raccolto attorno ad un'asticella metallica; veniva poi immerso nel vetro fuso di consistenza vischiosa.
Ad operazione conclusa, quando il vetro si era del tutto raffreddato, il nucleo veniva eliminato.
La decorazione a fili era applicata successivamente facendo ruotare manualmente la fialetta per comporre eleganti motivi a zig zag, a piume o a festoni.

 

Bottiglietta a bande d'oro
Arte romana
dalla metà del I secolo a.C. al I secolo d.C.





(vedi animazione)
La bottiglietta è esempio raffinatissimo di suppellettile domestica, utilizzata, quasi certamente, come balsamario.
Essa è realizzata grazie a tecniche complesse, forse nell'ambito di botteghe egiziane, con probabile centro in Alessandria, anche se non si può escludere che officine specializzate fossero attive in Italia.
Tale produzione è attestata da un numero limitatissimo di esemplari, meno di venti, come limitato risulta l'arco cronologico di appartenenza, tra la metà del I secolo a.C. e l'inizio del I secolo d.C.

 

Redentore benedicente sull'asinello
Arte veneziana
seconda metà del XIII secolo

(vedi animazione)
La lastra di vetro dorato e graffita è inserita in un piatto di fattura moderna.
Ispirata al classicismo ellenistico e all'ultima ondata della cultura artistica bizantina di epoca medioevale, la lastra vitrea raffigura il Redentore benedicente sull'asinello e costituisce testimonianza di una tipica produzione veneziana altamente specializzata.
La tecnica di lavorazione della lastrina, nota in epoca tardoantica, è attestata nei secoli III e IV d.C.; usando il vetro come supporto ed applicando a freddo sul retro la foglia d'oro, si disegnavano o si grattavano le figure, poi ricoperte da una vernice scura che metteva in risalto la doratura del fondo.
I manufatti così ottenuti, che volevano assimilarsi per aspetto alla più costosa lavorazione dello smalto e del niello (*), venivano utilizzati per decorare piccoli oggetti di oreficeria sacra, o come fregi per gli ornamenti all'interno di lastre marmoree nei pulpiti.
________
(*) Il niello è una lega metallica di colore nero che include zolfo, rame, argento e spesso anche piombo, usata come intarsio nell'incisione di metalli.

 

Vaso con stemma della famiglia Tiepolo
Arte veneziana
inizi del XVI secolo





(vedi animazione)
La superficie del vaso, dal corpo cilindrico lievemente incavato e piede svasato, è coperta dal collo all'attacco della base da una foglia d'oro decorata a squame con punticelli in smalto di vario colore.
Nella parte inferiore del corpo si staglia lo stemma della famiglia Tiepolo.
Il decoro è caratteristico della manifattura vetraria muranese rinascimentale e venne impiegato per ornare vetri e suppellettili di lusso.
L'oggetto trova preciso confronto con altri vetri analogamente decorati e appartenuti al nobile casato dei Tiepolo.

 

Giovane Santo (San Lorenzo?)
Francesco Laurana
metà del XV secolo



(vedi animazione)
La testa di Giovane santo dai lineamenti delicati e nobili, oggi priva dell'originaria policromia, apparteneva ad una statua a grandezza naturale, probabilmente collocata in una nicchia, come lascia supporre la parte tergale sommariamente lavorata.
La scultura, in terracotta, si deve a Francesco Laurana, grande artista dalmata attivo attorno alla metà del 1400, presso la corte aragonese di Napoli e successivamente in Francia.
L'opera, di livello qualitativo assai elevato, sembra modellata su di un'anima di stoffa avvolta intorno ad un perno di legno, poi eliminata durante l'essiccazione, praticando un'apertura alla sommità della testa.

Francesco Laurana nacque probabilmente a Vrana, l'odierna Vrana, vicino a Zara in Dalmazia. Fu anche chiamato Francesco “da Zara” o “Atzara”.
A quell'epoca parte della Dalmazia era sotto il dominio della Repubblica di Venezia, ma era anche una zona ricca di una sua cultura autonoma, in parte erede dell'antica romanità. Infatti la zona di Vrana, centro nato in epoca romana, conserva numerosissimi resti romani.
Dopo una possibile formazione iniziale in Dalmazia iniziò probabilmente a lavorare in Italia come scultore itinerante.
Sicuramente dal 1453 al 1458 fu a Napoli: la Dalmazia era lo sbocco al mare del Regno d'Ungheria, dominato allora dagli Angioini imparentati con quelli di Napoli, che spesso si rivolgevano agli artisti della zona.
Tra il 1461 e il 1466 venne chiamato in Francia alla corte del re Renato d'Angiò per il quale realizzò diverse medaglie.
Intorno al 1467 Laurana arrivò in Sicilia e vi restò fino al 1471: la sua presenza rappresentò un momento cruciale nell'introduzione del linguaggio rinascimentale in Sicilia.
La fama del Laurana è però soprattutto legata alla rarefatta bellezza dei suoi busti femminili, dalle forme estremamente pure e levigate, che ricordano le opere di Piero della Francesca e Antonello da Messina.

 

Madonna dolente
Benedetto da Maiano
ultimo decennio del XV secolo



(vedi animazione)
La mezza figura della Madonna addolorata probabilmente faceva parte di un gruppo statuario in terracotta, un compianto a quattro figure, realizzato in più pezzi cotti separatamente.
La figura policroma, modellata forse su di un'anima effimera, è stata poi svuotata prima della cottura, creando spessori uniformi e ridotti e profonde cavità sotto il manto.
La definizione anatomica del volto, non più giovane e segnato dall'età, l'intensità sentimentale e gli ampi panneggi sono aspetti stilistici sufficienti per sostenere l'attribuzione a Benedetto da Maiano.
Scultore assai significativo della scena artistica fiorentina interessato in modo particolare alla plastica in terracotta, interprete di una vena naturalistica e monumentale che sembra anticipare soluzioni cinquecentesche.

Benedetto da Maiano, nato nel 1442 a Maiano, frazione nel comune di Fiesole, è stato un architetto e scultore italiano.
La sua formazione artistica si compì all'interno della sua famiglia, grazie alla guida del padre intagliatore ed al contatto con i due fratelli Giuliano e Giovanni.
Iniziò l'attività artistica come scultore, soprattutto di legno intagliato, e con questa tecnica divenne presto famoso, tanto da decorare i soffiti di Palazzo Vecchio a Firenze.
Negli anni settanta del Quattrocento fu uno degli scultori più richiesti a Firenze, grazie al suo stile morbido e armonico, dove convivevano in giusta misura il naturalismo, l'idealizzazione e il virtuosismo tecnico. Ricevette importanti commissioni, soprattutto di busti per l'aristocrazia cittadina.

 

Vaso stemmato
Pesaro
fine del XV secolo




(vedi animazione)
Il vaso monoansato in maiolica, prodotto alla fine del XV secolo in una bottega pesarese, è del tipo "a palla": ha il corpo sferoidale rastremato in alto e in basso, il collo largo con bocca svasata, una grossa ansa a nastro.
Nella fascia centrale una "cornice orientale", tipica della produzione pesarese, inquadra due paggi che sorreggono uno stemma, per ora non identificato, a losanghe gialle su palo blu.
Il resto della superficie del vaso è decorata in giallo e blu a motivi floreali e vegetali.

 

Una teca che contiene vasi ed ampolle di epoca romana ed etrusca



 

 

SALA XIII: Le Nature Morte




Alle Nature Morte è dedicata la sala XIII: un trionfo di tavole imbandite, cesti di frutta, vasi di fiori, alzate con pere, libri ed altri oggetti comuni.
Tale genere pittorico, nato autonomo alla fine del Cinquecento e sviluppatosi nel corso del secolo successivo, ebbe ampia fortuna nei paesi fiamminghi e in Italia dove nel Seicento ebbe in Roma, Napoli, Bologna e Bergamo i principali centri di produzione.
Quando nel XVII secolo si gerarchizzarono i generi artistici, alla natura morta viene assegnato il rango più basso (alla pittura di storia quello più alto) e divenne quindi esercizio di apprendistato.

Visione panoramica della Sala XIII

 

Natura morta con tulipani in bottiglia
Andrea Belvedere
fine del XVIII secolo




(vedi animazione)
Andrea Belvedere, pittore e scenografo napoletano è autore del Vaso di tulipani.
Su fondo scuro e con una disposizione quasi circolare, il fiore viene descritto in ogni sua fase dallo schiudere dei petali fino al momento della sfioritura.
Il tulipano è qui metafora del tempo che passa, della vita che scorre inesorabile.


Andrea Belvedere, detto “Abate Andrea”, nacque nel 1652 a Napoli dove proseguì la tradizione dei “fioranti napoletani”.

Il B. si caratterizza come l'unico grande pittore di natura morta in un momento in cui a Napoli questo genere andava oramai rapidamente declinando attardandosi in convenzionalismi barocchi o comunque accademizzanti: a cavallo tra il Seicento e il Settecento, egli è già in realtà artista del secolo nuovo, anche se la sua attività pittorica si è svolta tutta nella seconda metà del sec. XVII.

Il B. muove dalla grande arte di Paolo Porpora, cioè dal momento più intensamente caravaggesco della pittura di natura morta e di fiori, e del Porpora sente a sé congeniale il rifiuto di ogni valore meramente “decorativo” della pittura di genere.
Questo senso di meditato e insieme commosso pensamento innanzi al dato di natura si fa in lui più profondo al contatto con l'arte di Giuseppe Recco e si arricchisce rinnovandosi in un esaltante senso di luce e di vitalità, quali gli derivano dalla straordinaria, ma mai retorica esuberanza “barocca” di Giovan Battista Ruoppolo.
Mai però, e qui appare l'autonomia dei grande artista, il B. è scaduto a compromessi eclettici, anzi la sua pittura si caratterizza in una continua ricerca di verità, in un'adesione intima alla più profonda realtà dell'immagine.
Egli rifugge dalle grandiose cascate di fiori e di frutta dei suoi contemporanei per focalizzare la sua indagine nella intima vitalità che scaturisce dal mondo vegetale in una gioiosa vibrazione di colori e di luce.

L'attività pittorica Andrea Belvedere si svolge a Napoli per un ventennio dal 1674 al 1694, anno in cui si trasferisce in Spagna, chiamato dal re Carlo II.
Il soggiorno spagnolo si protrae fino alla morte di Carlo II nel 1700, ma al ritorno a Napoli il B. abbandona la pittura per dedicarsi all'attività teatrale.

 

Natura morta con frutta, porcellane e strumenti musicali
Natura morta con frutta, libri, piatti e spartiti musicali
Cristoforo Munari
1710-1720

     
(vedi animazione)
Le due tele, correlate fra loro, sono state dipinte nel decennio compreso fra il 1710 ed il 1720.
Appaiono come un'esaltazione dei sensi, evocati dalla tattilità delle stoffe, dal suono degli strumenti, dal sapore e dai profumi dei frutti raccolti.
Gli spartiti che si vedono da una parte si legano agli strumenti musicali dall'altra.
Gli oggetti rappresentati sono comunque segnati dallo scorrere del tempo e dalla fugacità e vulnerabilità della vita; molti di loro sono privati della loro funzione: come le porcellane capovolte, o ancora il mandolino milanese dalla corda spezzata.

Cristoforo Munari nacque a Reggio Emilia nel 1667.
Si formò alla scuola emiliana; verso la fine del secolo, si trasferì a Roma.
Abilissimo pittore di nature morte, iniziò dipingendo le cosiddette «cucine rustiche» (utensili, selvaggina, salumi, punte di formaggio grana), poi il suo stile si evolse e nei suoi dipinti iniziarono ad apparire raffinate porcellane cinesi, che diventarono quasi una sua firma.
Fra il 1706 ed il 1715 fu a Firenze, dove dipinse anche trofei di guerra e trompe-l'oeil (*). Si trasferì quindi a Pisa, occupandosi quasi esclusivamente di restauri.

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(*) Il trompe l'oeil, dal francese “tromper”, ingannare, e l'“oeil”, occhio, è una tecnica pittorica, basata sull'uso del chiaroscuro e della prospettiva, che riproduce la realtà in modo tale da sembrare agli occhi dello spettatore illusione del reale. Essa crea un'ambiguità tra il piano pittorico e quello dell'osservatore, facendo risultare tridimensionale ciò che in realtà è bidimensionale.
Dal punto di vista tecnico, il trompe l'oeil richiede un'assoluta conoscenza del disegno, delle regole prospettiche, dell'uso delle ombre e degli effetti di luce, oltre alla perfetta padronanza dell'uso del colore e delle sfumature, tecniche ben precise e severamente sottoposte a regole matematiche e geometriche che permettono la realizzazione di rappresentazioni creative quali appunto quelle basate sulla tecnica del trompe l'oeil.

 

Tavola imbandita con fiori e frutta
Anonimo Romano
terzo decennio del XVII secolo
Olio su tela

(vedi animazione)
Alla cultura romana ed alla personalità del Maestro di Hartford, nome convenzionale di un pittore anonimo, si riconduce l'ampia tela databile al terzo/quarto decennio del XVII secolo.
Il dipinto rappresenta una tavola imbandita con fiori e frutta; dietro ai melograni un vaso di iris bianchi e blu, un pettirosso posato su un tralcio di vite e sul fondo scuro una farfalla che vola.
Un fascio di luce giunge dall'angolo in alto a sinistra a colpire obliquamente i singoli oggetti sulla tavola, come posti sul palcoscenico di teatro, mettendoli in evidenza e creando forti contrasti, come a voler fermare il fluire del tempo.

 

Natura morta con alzata di pere
Fede Galizia
olio su tavola
cm 29 x 37
terzo decennio del XVII secolo circa

(vedi animazione)
La tavola è ritenuta unanimemente autografa di Fede Galizia, pittrice trentina di cultura lombarda.
Com'è tipico del linguaggio pittorico dell'artista, questa natura morta è caratterizzata dalla semplicità compositiva e dai raffinati toni bruni dominanti.
In una maiolica bianca sono disposte alcune pere, ed alla base di questa sul bordo del tavolo, vi sono tre noci simbolo del sacrificio della Croce, ed un aperta tagliata a metà, ormai decomposta che pare alludere alla fugacità della vita.

Fede Galizia giunse bambina da Trento a Milano, o più probabilmente nacque in questa città tra il 1574 e il 1578.
Si formò nella bottega del padre Nunzio, miniaturista e costumista nato a Trento e giunto a Milano intorno agli anni Settanta.
All'inizio degli anni Novanta, per diretto interessamento di G. Arcimboldi, alcuni quadri della G. raggiunsero la corte praghese di Rodolfo II, dove pare che la maniera della giovane fosse particolarmente apprezzata. I contatti con la corte imperiale contribuirono, insieme con quelli con l'aristocrazia e con l'élite culturale milanese, a confermare la visibilità della G. nel panorama artistico cittadino.

Nel 1596 firmò e datò la prima delle “Giuditte” in cui l'attenzione verte sulla perfetta resa delle vesti e dei gioielli, trattati con cura meticolosa, piuttosto che sulle potenzialità drammatiche della scena.
Il tema della Giuditta è una costante nell'opera della G., non per le implicazioni ideologiche del soggetto, quanto per le possibilità combinatorie che consentiva l'abbigliamento dell'eroina.
Nelle “Giuditte” la G. mise a punto gli insegnamenti del padre costumista, nonché una sbrigliata fantasia personale di creatrice di stoffe e gioie.

L'artista non appartenne ad alcuna scuola, ma nella sua cultura autodidatta confluirono tutti gli spunti offerti dalla tradizione lombarda e dal panorama artistico contemporaneo: il tardo manierismo emiliano (evidente nelle Giuditte), la ritrattistica borghese di L. Lotto e di G.B. Morone, la pittura sacra di G.B. Crespi e G.C. Procaccini. A tali referenti va aggiunta la meditazione personale sui testi di Leonardo e Correggio, dai quali la G. approntò diverse copie.
Quest'attività di copia è una delle molte specialità di mestiere della G. oscurate dalla sua fama di pittrice di “nature morte”, nella maggior parte delle quali, accanto ai frutti, figuravano animali vivi o morti, per lo più uccelli.
Le nature morte attribuite alla G. hanno un'impostazione seriale: un piano d'appoggio inquadrato da presso, quasi sempre frontale, su sfondo cupo; frutti e fiori - pesche, pere e gelsomini, per lo più - trattati con un gusto geometrico della forma; un forte senso di rarefazione atmosferica e sospensione temporale.

 

Piatto di maiolica con frutta
Panfilo Nuvolone
primi anni del XVII secolo

(vedi animazione)
Al pittore lombardo Panfilo Nuvolone si deve probabilmente la tela databile ai primi anni del XVII secolo circa.
Su di un piano color rosso intenso è posato un piatto di maiolica decorata che contiene quattro meloni, in diverso stato di maturazione, di cui uno tagliato ed aperto.
Ancora una volta il frutto è elevato a simbolo della brevità della vita e dello scorrere inesorabile del tempo.

Panfilo Nuvolone, nato a Cremona nel 1581, fu un pittore specializzato in opere di tema sacro e nature morte.
Iniziato alla pittura da Giovanni Battista Trotti, detto “il Malosso”, artista del tardo Manierismo cremonese, si trasferì poi a Milano dove fu influenzato da Camillo e Giulio Cesare Procaccini.
Panfilo dipinse molte opere di carattere religioso, considerate però meno interessanti delle sue nature morte.
Una delle sue poche nature morte documentate, in cui viene raffigurato un piatto di pesche, mostra una contiguità notevole con le nature morte di Caravaggio e di Fede Galizia.
Panfilo ebbe quattro figli, due dei quali furono pittori: Carlo Francesco Nuvolone, divenuto famoso in Lomardia, e Giuseppe Nuvolone.

 

Natura morta



 

 

LA "CAMERA DELLE MERAVIGLIE"




Il percorso del Museo «Amedeo Lia» si conclude con la Camera delle meraviglie, una stanza in cui sono ordinati curiosa et pretiosa: naturalia, frammenti di pietra, conchiglie esotiche ed essenze pregiate, ed artificialia, oggetti prodotti dall'uomo particolari per la loro originalità ed unicità.

Visione panoramica della Camera delle Meraviglie



Wunderkammer

Wunderkammer (in italiano “Camera delle meraviglie”) è un'espressione tedesca usata per indicare particolari ambienti in cui, dal XVI secolo al XVIII secolo, i collezionisti erano soliti conservare raccolte di oggetti che, per le loro caratteristiche intrinseche ed esteriori, “destavano meraviglia”.
Quello delle Wunderkammern fu un fenomeno tipico del Cinquecento che poi si sviluppò per tutto il Seicento alimentandosi delle grandiosità barocche e si protrasse fino al Settecento favorito dal tipico amore per le curiosità scientifiche, proprio dell'Illuminismo.

Gli oggetti straordinari delle Wunderkammern provenivano dal mondo della natura o erano stati creati dalle mani dell'uomo.
Quelli forniti la natura erano detti, con termine latino, naturalia e potevano avere in sé qualcosa di eccezionale relativamente alla forma o alle dimensioni, come, ad esempio, una coppia di gemelli con una parte del corpo in comune, animali con due teste, pesci o uccelli rari o sconosciuti, ortaggi o frutti di dimensioni superiori alla media.
Gli oggetti creati dalle mani dell'uomo, detti artificialia, erano particolari per la loro originalità ed unicità, fatti con tecniche complicate o segrete e provenienti da ogni parte del mondo.
Ma non erano solo questi gli oggetti degni di far bella mostra di sé in una Wunderkammer: ve ne erano altri, come libri e stampe rare, quadri, cammei, filigrane, collane di perle e coralli, vasi, reperti archeologici, monete antiche.
Poiché però tutti questi oggetti avevano un prezzo ingente, possedere una Wunderkammer degna di essere mostrata agli amici e ad illustri visitatori non era un fatto molto comune: generalmente averne una era appannaggio di re e nobili, di emeriti scienziati e di uomini dotti e ricchi, di conventi e monasteri. Questi ultimi erano stati sin dal loro primo apparire, non solo luoghi destinati ad accogliere i religiosi, ma anche fari di civiltà e custodi della cultura.
Nelle abbazie frequentemente vi erano biblioteche che ospitavano libri rari e Wunderkammern dove si potevano trovare di preferenza oggetti che erano argomenti di studio per gli scienziati, o manoscritti di opere ormai introvabili altrove e persino qualche papiro egiziano. I monasteri, poi, ricevevano donazioni, eredità, ex voto offerti in cambio delle grazie ottenute.

Wunderkammern famose furono quelle di Rodolfo II d'Asburgo (1552-1612), di Federico Augusto il Forte, principe elettore e re di Polonia (1679-1733), di cui esiste ancora la “Grünes Gewolbe” (Cripta Verde) a Dresda, di Anna Maria Luisa de' Medici (1667-1743), la Camera dell'arte e delle curiosità di Ferdinando II d'Asburgo e, fra le abbazie, la Wunderkammer del Monastero di San Martino delle Scale vicino Palermo che, nei primi decenni del XVIII secolo, si trasformò in museo per poi venire smembrato nella seconda metà del XIX secolo.

 

Calice
Norimberga
XVII secolo













(vedi animazione)
Il calice prodotto a Norimberga nel XVII secolo, è costituito da una coppa ricavata da un uovo di struzzo sostenuta da un alto piedistallo in argento riccamente lavorato.
L'uovo, tagliato orizzontalmente a circa tre quarti della sua altezza, è inciso e annerito a rappresentare due episodi del giudizio di Salomone.
Il piedistallo, straordinaria opera di oreficeria, forma in alto morbidi nastri, il nodo posto lungo lo stelo diviene un nido, dove vivono animali; la base circolare bombata e a doppio bordo è decorata con motivi vegetali e volute.
Questo tipico oggetto di gusto Wunderkammer, si collega alla produzione nordica rinascimentale, celebre per originali e virtuosistici lavori in argenteria.

 

Vaso a navicella
Milano
seconda metà del XVI secolo






(vedi animazione)
Questo vaso biansato a navicella è scolpito in sei blocchi di cristallo di rocca, pregiata qualità di quarzo, a tal punto tenace da dover essere molato con la polvere di diamante.
Simbolo del tempo congelato, il cristallo di rocca viene scolpito e inciso con perizia in raffinati prodotti, composto con altre pietre dure e montato in straordinarie oreficerie di fine XVI e XVII secolo.
Il corpo di questo vaso a navicella o galera, ricavato da un solo pezzo di pietra, è decorato a motivi vegetali.
Due mascheroni con le fauci spalancate corrispondono ai beccucci, le anse sopraelevate a voluta sono decorate a tralci, il piede ovale è decorato a bacellature come il coperchio.
Impreziosito ulteriormente da alcune montature in oro smaltato e dalla cimasa che sormonta il coperchio, il vaso si riconduce alla produzione milanese della seconda metà del XVI secolo

 

Vassoio
Milano
seconda metà del XVI secolo





(vedi animazione)
Il vassoio di forma ovale, in argento dorato e cesellato, è composto da cinque placche ovali in cristallo di rocca alternate a quattro medaglioni in ametista.
Le placche in cristallo virtuosisticamente incise a raffigurare scene venatorie, mostrano punti di contatto con opere realizzate nelle botteghe milanesi attive durante la seconda metà del XVI.
Il vassoio si riconduce forse alla nota bottega dei Sarachi, abili orefici ed intagliatori di pietre dure.

 

Coppia di anelli con miniature
Inghilterra
primo quarto del XVII secolo


(vedi animazione)
I due anelli a fascia liscia hanno ognuno un castone a placca circolare, su cui è applicata una miniatura su carta, protetta da una piccola lastra di vetro bombato.
Esempi di virtuosismo amanuense, questi anelli recano rispettivamente micrografie in lingua inglese: il Padre nostro, il Credo e i Dieci Comandamenti, dall'esterno verso l'interno l'uno, e il ritratto di Enrico VIII, attorno al quale è scritto il testo del Padre nostro, l'altro.
Le due miniature risalgono agli anni di Giacomo I (1556-1625), periodo in cui da poco era stata concessa l'autorizzazione alla traduzione della Bibbia, e sono datate al 1622.

 

Cofanetto
Anonimo
XVI secolo


L'oggetto in legno, vetro e maiolica, è stato realizzato ad Augusta.
Misura 11 x 15 x 11 cm.


 

 

Bibliografia


Museo Amedeo Lia Comune della Spezia
(http://mal.spezianet.it/)

Marco Brando - articolo pubblicato su «Corriere della sera» del 15/12/2004
(http://www.mondimedievali.net/microstorie/collezionista.htm)

Comune di Milano
(http://www.comune.milano.it/portale/wps/portal/searchresultdetail?WCM_GLOBAL_CONTEXT=/wps/wcm/connect/ContentLibrary/ giornale/giornale/tutte+le+notizie/sindaco/sindaco_ambrogino_lia)

Original Italy
(http://www.originalitaly.it/editoriali/arte-e-cultura/dettaglio/museo-amedeo-lia-luogo-delle-meraviglie-della-spezia)

Trivago
(http://www.trivago.it/la-spezia-45562/museomostragalleria-darte/museo-civico-amedeo-lia-866096/foto-i5785830)

Immagini di Storia
(http://www.immaginidistoria.it/luoghi1.php?id=10)
OoCities.org
(http://www.oocities.org/it/speziamusei/Lia/Inizio_Lia.htm)

Dipinti - La Spezia, Museo Civico Amedeo Lia, Fondazione Cassa di Risparmio della Spezia, 1997
Guida alla visita, Fondazione Cassa di Risparmio della Spezia, 1999

http://turismocultura.spezianet.it/MuseoAmedeoLiaFlash/salaI.html ecc.
http://turismocultura.spezianet.it/MuseoAmedeoLiaFlash/index.html
http://turismocultura.spezianet.it/MuseoAmedeoLiaFlash/camera_meravF.html

Storia dell'Arte
http://www.fotoartearchitettura.it/storia-arte/

Minuti Menarini
(http://www.fondazione-menarini.it/minuti/pdf/307%20Il%20collezionistico%20di%20Amedeo%20Lia.pdf)

Fondazione Federico Zeri
http://fe.fondazionezeri.unibo.it
http://fe.fondazionezeri.unibo.it/catalogo/ricerca.jsp?percorso_ricerca=OA&tipo_ricerca= semplice&decorator=layout&apply=true&mod_autore_OA=contiene&autore_OA=&mod_titolo_OA= contiene&titolo_OA=&mod_tipo_OA=contiene&tipo_OA=&mod_data_OA=contiene&data_OA= &mod_localita_OA=contiene&localita_OA=lia&galleria=&ordine_OA=localizzazione