IL PREONE

 

Tutto ebbe inizio in una serata umida di primavera, quando, seduti attorno ad un tavolo, a guardarci negli occhi vicendevolmente, ci sentimmo umiliati da una sconfitta che non ammetteva giustificazioni e che era riuscita a scalfire la nostra anima e il nostro cuore indelebilmente.
Quella sera, con la cena indecisa sullo scendere o rimanere ferma lì, in mezzo alla gola, ci ripromettemmo di non lasciare l'onta ricevuta senza un'adeguata riparazione.
L'onore è l'onore, ci dicemmo. E ci dicemmo anche che la vendetta è un piatto che va servito freddo. Ed è per questo principio che, in quel tempo ed in quel luogo, ci siamo dati dodici mesi di riflessione per rimediare.

Oggi, esattamente un anno dopo, il giorno dell'offesa è stato cancellato.

L'arrivo

Centocinquanta chilometri sono concretamente, tangibilmente, spudoratamente centocinquanta chilometri.
Se questi sono percorsi in automobile, arrecano all'ignaro conducente, per la prolungata immobilità, un male insopportabile alla schiena, se, però, la scelta transitoria è una bicicletta, l'effetto sulla schiena, messo a confronto con il dolore presente su tutte le altre parti del corpo, diviene trascurabile.

Arrancando in bicicletta sulla salita che da Tolmezzo porta ad Ampezzo, si hanno circa trenta minuti per capire che il concetto fisico dello spazio-tempo non è una concezione solamente astratta, esclusivamente retorica, preziosa tuttalpiù a qualche uomo di scienza alla capricciosa e vanagloriosa ricerca di qualcosa di nuovo con cui divenire famoso, ma è anche qualcosa di tangibilmente concreto.

Marino, questo lo ha capito bene ed ora, ora si tocca le gambe, si massaggia il dorso, controlla le spalle e il fondoschiena. Anche il basso ventre, non si sa perchè, gli duole.
Tuttavia, riesce ad osservare affettuosamente Cico, mentre, con gesti misurati ed attenti, beve il suo thè caldo aromatizzato con bucce di limone, che un premuroso barista gli ha prontamente servito al tavolo, dove i due, poco prima, hanno trovato ristoro dopo la fatica.
E la sua mente corre, corre veloce, ripercorre in un battito di ciglia il tragitto che li ha portati là, in quel bar di montagna, a bere del thè, uno strano thè, pieno di significati, pieno di pace e serenità.
La sua mente corre, e rivede l'interminabile sequenza di cambi alternati che, con il suo compagno, si è dato, per rompere il vento teso e insistente, per vincere l'attrito dell'aria, per evitare la noia che lo assaliva, costantemente, in quelle lunghe ed interminabili cinque ore in bicicletta. E riconta, uno dopo l'altro, i paesi superati con apprensione e sospetto. E riassapora quel gusto dolce e nauseante che immancabilmente la quarta barretta dietetica profonde a chi è vittima di una crisi di fame proletaria. In cuor suo, riprova la stessa fatica, le stesse ansie e le stesse emozioni. E nonostante tutto, lui è intimamente sicuro: rifarebbe tutto quello a cui ora assiduamente pensa.
Vorrebbe un confronto dialettico con il suo compagno, vorrebbe condividere con lui ogni cosa, ma in quel momento, davanti alla sua tazza fumante, vede solo un corpo febbricitante senza spirito, che si nota essere vitale solo dal rumore rauco e stridere che la sua tosse propaga tutto attorno. E allora tace, guardando fuori dalla piccola finestra che fa vedere le vette montane, ancora bianche di neve, timidamente illuminate dall'ultimo pallido sole del venticinque aprile duemilatre.

Sono trovati così, inerti e muti, nell'attesa infinita di un perché mai reclamato, da quei quattro intrepidi che con le loro fuori strada, percorrendo una comoda statale, li hanno raggiunti.
Giancarlo, Gianni, Fabrizio e Stefano. Chissà chi è arrivato per primo, quassù, in cima?
I quattro guardano con stupore misto a genuina compassione i due che, ancora malfermi sulle gambe, rivelano con indomabile orgoglio e con il poco fiato che ancora gli rimane in gola, di aver sporcato con il loro sudore buona parte delle Alpi Carniche.
Li lasciano parlare. E parlano, parlano.

Il Vaticano

In quel bar, un po' in disparte, quasi nell'ombra, c'è anche un vecchio di cinquant'anni che li ascolta. E' vestito con pantaloni di velluto grigio a coste larghe e una camicia di flanella consumata sui gomiti. Forse è il padrone dell'osteria. Ha un'aria dimessa ma certamente non trasandata. Dall'espressione dei suoi piccoli occhi azzurri, si legge l'interesse per quegli stranieri venuti da lontano. Vorrebbe intervenire, ma non lo fa subito. Aspetta. Tentenna.
Poi, raccolto un tacito consenso dai bevitori di tè e birra, trova il coraggio e inizia a raccontare.
E narra di una vita forse più lunga di quel mezzo secolo di storia che gli appartiene e che vigliaccamente, senza dargli il tempo di accorgersene, è trascorso troppo velocemente, invecchiandolo più del necessario.
Ma Vaticano, questo è il suo nome, oltre a disturbare le loro intime confidenze, oltre ad interrompere i loro discorsi, fa una cosa che si rivelerà impagabilmente saggia. Con un sorriso tanto beffardo quanto taciuto, fa loro intendere di capire la loro fame, e li consiglia:
-"Se avete appetito, andate da "Tuta" e ditele che vi mando io. ……. Vedrete, rimarrete soddisfatti."-
In verità, le sue parole non sono state proprio queste. Questa è solo la traduzione di quello che il "Vaticano", a fatica, ha provato a comunicargli, con quella sua voce un po' incerta, tipica di chi ha già assaggiato troppi bicchieri di vino senza dare importanza al sapore aspro e al profumo pungente, inconfutabilmente propri del nettare preferito dagli dei.
Il tempo passa e mancano ancora gli ultimi tre all'appello: quelli di Fumane.
Poi eccoli. E Cico e Marino ricominciano da capo la loro novella, con qualche colpo di tosse in più e qualche particolare in meno, come se volessero mettere al sicuro la memoria di quel gesto, come se volessero preservarla dall'inevitabile oblio. E allora di nuovo, paesi, sudore, cambi, barrette, salite, e poi asfalto, asfalto e ancora asfalto.
Quelli di Fumane, Enrico, Beppe ed Ennio, capendo che ormai è ora di cena, rinunciano a raccontare quanto avevano nel cuore e si accontentano di esternare le loro passioni con un semplice: -CI SIAMO DIVERTITI MOLTISSIMO-, frase gridata a bassa voce che riusciva da sola a far intendere quanto ci fosse dietro.
Ora siamo al completo.
Abbiamo fame, tanta fame.
C'impegniamo nella ricerca di "Tuta".

Tuta

Bisogna conoscere il territorio per arrivarci. La sua baita è nascosta in basso, tra gli alberi. Il fiume la cinge, disegnando un'ansa che la protegge da inattesi quanto improbabili invasori. Le fronde dei castagni piegate dal vento, i grilli in amore che cercano la compagna per una vita e l'acqua che scorre instancabile forniscono i rumori che rendono incantato questo luogo, lontano da tutti e da tutto.
Poi c'è lei, Tuta.
Anche Tuta è in sublime accordo con quanto la circonda, quasi fosse lei stessa figlia di quella prorompente natura che trova ragion d'essere in ogni cosa là attorno.
All'inizio entriamo timidamente. Uno alla volta, per non disturbare la magica quiete che ingenuamente immaginiamo esserci in luoghi come questo. Anche i commensali che troviamo intenti a saziarsi, sono conformi. Noi ci conformeremo presto. Presto faremo parte dell'insieme.

Ma all'inizio ci sentiamo come pesci fuori dall'acqua, noi, sprovveduti cittadini, non intuiamo ancora quanto possa essere incredibilmente conviviale un ristoro di montagna.
Come una regina nel suo castello, Tuta propone, consiglia, decide. E' assoluta padrona della situazione. E anche il nostro capo manipolo Cico, travolto da tanta forza e decisione, si arrende, lasciandola servire incontrastata il nostro banchetto.
Alla fine ripensiamo alle parole del "vecchio" all'osteria.

La Casa di Beppe

La casa di Beppe, dove dormiremo, è avvolta da un'aura di inestricabile primitivo mistero. Nondimeno, tutto ci è straordinariamente famigliare, come se le nostre origini, in qualche modo, fossero state proprie di quel luogo. Tutto ci è congeniale, quasi ci appartenesse da sempre, fin dai giorni del peccato originale.
La casa, dal carattere tipicamente patriarcale, effonde un caratteristico odore che richiama alla mente quella moltitudine di persone che di lì, nei lustri andati, deve esserci passata, lasciandovi la traccia indelebile di una vita consumata tra boschi di sempreverdi, a chiedersi il perché di tanto travaglio, di tanta fatica, di tanta fame, di tanto freddo. Una sofferenza che qui, in Carnia, è comunione tra genti che hanno conosciuto un'esistenza precaria tra l'altalenante dilemma di trovare un motivo per continuare a vivere e uno per perdersi nel buio di un'esistenza finita.
Uomini che alla vita per la vita hanno dato tutto.
Una vita, tante vite. E di quelle vite, spese con piena coscienza, quell'odore, ora ne è il solo ricordo.
Come ci si può sentire tra queste mura? Come non sentirsi qualcosa di infinitamente piccolo, che prende parte, da marginale comparsa, alla rappresentazione dell'evento primato dei misteri, il soffio vitale?

Ed è tra ambienti che incessantemente ricordano un passato non tanto remoto che noi siamo convinti che ogni attimo va vissuto nella sua pienezza interiore senza che lo spreco di un solo secondo possa trovarci posto.
Questo luogo ci fa valutare ogni cosa qui attorno.
Filosofia, ricerca del sapere, ricerca del vero, o semplice quanto modesta riflessione? Chi può dirlo?
Stiamo bene insieme ed è per questo che, come l'anno scorso, nonostante il caldo, c'è chi accende il fuoco
...E ci adeguiamo al nostro pensiero.
Poi il sonno, che da queste parti arriva presto.

La Sveglia


Ieri abbiamo preso tre strade diverse che portano allo stesso punto. Da quel punto, quelle tre strade diverse, sono diventate una sola. Ed è da qui, su un'unica via, che insieme, oggi sfideranno il PREONE.
La giornata è accesa dall'allegria di sempre.
La sveglia non è per tutti uguale. Beppe non ama trattenersi pigramente a letto. Il caldo delle coperte non riesce ad ammaliarlo. La magia che subisce, invece, è quella dei primi raggi di sole che, fendendo l'aria ferma della stanza dove egli dorme, lo accarezzano garbatamente. Qualche attimo dopo, lui è già in piedi. Si alza e si veste in silenzio, per non destare gli altri che respirano ancora profondamente, intenti come sono a sognare cose ineffabili.
E dopo poco, passeggia solitario sull'unico marciapiede del paese. Sembra quasi voglia accertarsi di persona che, nel borgo, tutto sia in ordine e pronto per l'avvento del nuovo giorno.
Concluso il suo ideale mandato, fa ritorno con una sacca ricolma di fragranti cornetti alla crema che, divisi in parti eque, formeranno parte della nostra colazione mattutina. Attraversando l'uscio di casa, Beppe si sente accolto da un brusio incalzante che, provenendo dalla cucina, sembra dargli il ben tornato. Qualcun altro s'è svegliato.
L'acqua nella teiera bolle da un bel po', quando gli ostinati del sonno, ancora con le bocche impastate dalla saliva di una notte e gli occhi nascosti da un velo di filato sottile, raggiungono gli altri da qualche tempo seduti attorno al desco.
E' tempo di progetti. E tra un progetto e l'altro, si fa gara a chi mangia di più.

L'approccio al Preone

Poi, in strada, qualcuno si attarda, e riceve le giuste proteste di chi lo aspetta impaziente.
In carovana scendiamo lungo un'ininterrotta sequenza di tornanti verso valle. Scendendo ci accorgiamo che tutto, non solo il panorama, cambia repentinamente. Il lungo serpente grigio ci accompagna verso una civiltà appartenente alla dimensione propria dell'avere, dove tutto risplende ed è a misura di chi vuol possedere. Lasciamo l'imperturbabile ritmo di quiete che regola ogni cosa in montagna per affrontare la frenesia dei giorni d'oggi, che ci appartiene. Ma come può, ci chiediamo, quasi con ossessione, qualche decina di chilometri, rendere così diversa la gente, le case, la natura?
Ma soprattutto, quanto, questa decina di chilometri, può rendere diversi noi, anche se solo per pochi giorni?

La nostra meta è la piscina di Tolmezzo.
Là, incontriamo il presidente del "Triathlon Udine" che ci offre, esattamente come l'anno scorso, tutta la sua generosa disponibilità, oltre ad un ricco sconto sul biglietto di ingresso all'impianto che gestisce.
La piscina diviene anche la nostra base logistica, da cui muovere per il nostro allenamento di corsa, con il quale il protocollo di avvicinamento "All'assalto del Preone" prevede si inizi.

Siamo pronti.
Tutti elegantemente agghindati, con capi all'ultimo grido abbinati ad accessori firmati. Mi sto chiedendo se il nostro abbigliamento high-tec sia in armonia con l'ambiente che stiamo vivendo, ma non ho il tempo di darmi una risposta. Interrompo le mie riflessioni, impegnato come sono a sorridere all'improvvisato fotografo, che ci sta ritraendo in posa, in un artefatto atteggiamento plastico e disinvolto. E quando voglio riprendere il pensiero che avevo lasciato sospeso a mezz'aria, mi accorgo che l'ossigeno che sto avidamente inspirando mi concede appena la facoltà di attivare i muscoli delle gambe, non certo quella di utilizzare, con dignità, quello che presuntuosamente chiamo cervello.
Stiamo già correndo, da Tolmezzo verso il Lago di Cavazzo.
Non sono il solo a soffrire. C'è chi lo fa dignitosamente, chi dissimulando un vigore che non c'è, chi lagnosamente. C'è chi protesta per il ritmo oltremodo intenso e chi incalza sostenendo che "se si soffre è bello".
Per tutto il tragitto però si scherza, ogni occasione è buona per divertirsi, per burlarci vicendevolmente.
Anche quando Marino cade in maniera rovinosa, c'è chi non perde l'occasione per ironizzare sul fatto che lui è più sicuro in bicicletta che a piedi. E gli altri, come ragazzini nell'intervallo a scuola, approfittano per rincarare la dose di espressioni di scherno e sberleffi. Crudelmente.
Alla fine, orgogliosi della nostra fatica, rientriamo alla base. E' giunto il momento di nuotare.
Riempiamo, con i nostri corpi, la piscina, che a mezzogiorno non ha molti clienti.
Ci dedichiamo, con eccessivo entusiasmo, a contare le mattonelle in maiolica, ordinate ed infinite, del fondo vasca. Quando questo esercizio matematico finisce, ci ritroviamo sollevati, tutti nove, sotto le docce. L'atmosfera è rilassata. Qualcuno trova anche il tempo per sbarbarsi e depilarsi.
Tra noi uomini, si intensifica uno scambio di creme emollienti e di deodoranti speziati. Sembra incredibile, ma stiamo facendo toletta.
Chissà quanti ricordano l'ultima volta che, prima di un appuntamento galante, abbiamo impegnato il nostro tempo in assidui preparativi, insolitamente dedicati alla cura della nostra persona.
Dobbiamo farlo, abbiamo un appuntamento sentimentale.
Non possiamo tralasciare alcun particolare, il nostro incontro galante è con una grande signora, dal carattere forte e indomabile, una signora che non perdona: la Montagna.
Il "rendez-vous" è oramai imminente. E noi siamo pronti.

La sfida

Ecco, la foto che ricorderà la nostra partenza verso il Peone è stata appena scattata.
Si parte.
Oltre le borracce, portiamo con noi solo il nostro carico di incertezze, timori e inquietudini.
L'ansia è palpabile.
Si potrebbe, senza fatica alcuna, misurare il livello di apprensione che riempie il nostro io più profondo.
E' una sfida, e come tale, tutti ci apprestiamo a viverla.

Una salita è una salita, ci ripetiamo continuamente, anche se sappiamo benissimo che questa non è come le altre. Rappresenta il confronto con noi stessi, la prova del nove che ci dirà sino a che punto riusciamo a spingerci.
E non è importante uscirne vincitori, importante è riuscire ad affrontare il "mostro" che c'è in ognuno di noi, che ci impedisce di essere quello che siamo, con i nostri umili dubbi e le nostre arroganti paure.
Lo facciamo insieme, perché insieme siamo più forti.
Più forti e più amici di sempre, come se il nostro affiatamento fosse il termine d'unione delle nostre forze.

Stiamo pedalando verso il Preone, e questa è quasi una vittoria.
Lo stiamo facendo uniti, e questa è già più che una vittoria.

Tutto si perde in una manciata di minuti, forse una decina.
Siamo in cima, ce l'abbiamo fatta.

Stiamo tornando a casa….

Un'interminabile, lunga lingua di asfalto unisce Ampezzo a Trieste. Ma non è sufficientemente lunga per raccogliere tutte le sensazioni che ruotano vorticose nelle nostre menti. Sensazioni positive, quasi frenetiche fantasie che incontrano e scacciano quelle voraci inquietudini che avevamo seminato, proprio là, proprio su quell'asfalto caldo e asciutto, tre giorni prima.

Turbine di esperienze e di sensazioni, che sono intensamente nostre e ci arricchiscono, ci fanno sentire "Attivi";
e al riguardo, qualcuno ha detto qualcosa del genere:
" …che essere attivi significa dare espressione alle proprie facoltà e talenti, alla molteplicità di doti che ogni essere umano possiede, sia pure in vario grado. Significa rinnovarsi, crescere, espandersi, amare, trascendere il carcere del proprio io isolato, essere interessato, dare…..
Purtroppo, nessuna di queste esperienze, può compiutamente essere espressa con parole. Le parole sono recipienti colmi di un'esperienza che ne trabocca. Inoltre, le parole designano un'esperienza, ma non sono l'esperienza.
Nel momento in cui proviamo a descrivere con pensieri e parole ciò che abbiamo sperimentato, l'esperienza stessa va in fumo, si prosciuga, è morta, è divenuta mera idea.
Ne consegue che le nostre sensazioni sono indescrivibili in parole e sono comunicabili solo a patto che l'esperienza venga condivisa."

Pertanto, se non siamo stati chiari nel trasmettere quello che abbiamo provato in questi giorni, vi ricordiamo che, evidentemente, non è colpa nostra. Eh si, perché per capirci meglio dovete venire con noi:
ad Ampezzo, nella primavera del 2004, tutti insieme, a cogliere le stesse emozioni, a cavalcare la stessa onda.

FINE


di Ennio Giordani