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Ritorniamo anche questa
volta sul libro di Qohelet - Ecclesiaste.
Labbiamo esaminato quasi come fosse una
diagnosi su sette malattie dellesistenza.
Già abbiamo visto le crisi della parola,
dellazione, della sapienza, della storia.
Quinta malattia è quella che intacca la
società: «Io mi sono messo a considerare tutte
le violenze perpetrate sotto il sole: ecco le
lacrime delle vittime da nessuno consolate, da
nessuno consolate contro il forte potere dei
violenti» (4,1).
La comunità umana e la vita dei popoli sono
malate di violenza e di ingiustizia. il mondo è
come una giungla in cui luomo impazza, in
attesa di morire o di essere ucciso.
Anche i profeti avevano registrato questa
situazione, ma avevano reagito con veemenza,
denunziando il male e tentando di sovvertire tali
logiche infami. Qohelet si accontenta invece di
tratteggiare con amarezza il disordine sociale,
non lascia trasparire sdegno né tantomeno invita
alla lotta. Anzi, la sua conclusione è del tutto
pessimistica: «Io allora ho proclamato i morti
ormai trapassati più beati dei vivi ancora in
vita e più beato di entrambi chi non esiste
ancora e non ha ancora visto il male perpetrato
sotto il sole» (4,2-3).
Triste e terribile beatitudine!
La sesta malattia è quella che infetta la stessa
esistenza umana ed è dipinta in una delle pagine
poeticamente più alte ove Qohelet coglie la vita
dallangolo di visuale del tramonto, cioè
della vecchiaia (si legga integralmente il testo
di Qohelet da 11,7 a 12,7). Una coltre di tenebra
avvolge tutto lo spazio e tutto il tempo: è
limmagine di un inverno senza sole che non
ha mai fine, sono giorni di vita che non si ha
voglia di assaporare perché fanno nausea.
Linverno è la stagione più vera
delluomo, quella che ne definisce meglio la
qualità e il senso.
Qohelet ci conduce, poi, in un castello in
sfacelo. Sulla porta ci incontriamo con i
guardiani della casa, sono vecchi tremolanti,
incapaci di bloccarci. Superata la portineria, ci
si parano innanzi gli uomini forti,
cioè la polizia privata, la guardia del corpo,
ma ci fanno quasi compassione, decrepiti e curvi
come sono. Siamo ormai nel cortile del palazzo.
Le ultime donne che devono macinare il grano per
il pane sono così vecchie e deboli da essere
incapaci di far ruotare la grossa mola sul
basamento.
Lo sguardo si alza ai graticci delle finestre, in
uso ancor oggi nei palazzi arabi per schermare
lardore e il bagliore dei sole: non
riusciamo a intravedere al di là di essi il
balenare di occhi femminili. Ancor più
insopportabile è il silenzio che ci avvolge in
una fissità atemporale. Sembra che persino gli
uccelli siano fuggiti: il loro cinguettio,
daltronde, non sarebbe neppur sentito dai
vecchi abitanti del palazzo. Anche le canzoni con
le loro melodie e i loro ritmi si sono
affievolite sino a spegnersi perché gli anziani
non amano cantare né essere circondati da
canzoni, segno di allegria e di giovinezza
spensierata.
In questo disegno del castello in sfacelo cui
seguirà quello della campagna circostante e dei
segni della morte si cela unevidente
allusione al corpo delluomo che sta
avvicinandosi alla polvere per dissolversi in
essa: i guardiani della casa sono le
braccia, gli uomini forti le gambe,
le macinatrici i denti, le donne che
guardano dalle inferriate gli occhi, lo spegnersi
dei canti la sordità
dellorecchio...
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