|
Avevamo lascialo Paolo che
nella prima parte del suo capolavoro teologico,
la lettera ai Romani, descriveva la drammatica
situazione dell'uomo, dominato da tre stelle
oscure: la sarx-carne, l'hamartía-peccato, il
nómos legge.
Ma quest'uomo non è abbandonato a sé stesso.
Entrano in scena - soprattutto nella seconda
parte dello scritto paolino (capitoli 6-8) -
quattro stelle luminose che incarnano la salvezza
offerta da Dio.
La prima è espressa con la parola greca
cháaris, "grazia", un termine che è
rimasto nel nostro "caro-carezza", nel
francese "charme" e nell'inglese
"charm" ("fascino"): è
l'apparire gioioso e amoroso di Dio nella notte
dell'anima.
Egli squarcia la nostra solitudine, mettendosi
lui per primo alla nostra ricerca, incamminandosi
sulle nostre strade.
In principio c'è l'amore divino che non
abbandona l'uomo a sé stesso.
È questo il senso del grido finale del celebre
romanzo Diario di un curato di campagna di
Georges Bemanos (1888-1948): «Tutto è
grazia!».
Illuminato dalla grazia, l'uomo deve rispondere
con la sua libertà di adesione o di rifiuto.
Ecco allora la seconda stella luminosa, la
pístis, "fede".
Essa è simile a braccia aperte che accolgono la
cháris, cioè l'amore divino donato.
È afferrare una mano sicura che ci impedisce di
sprofondare nel terreno molle della nostra carne
e del nostro peccato.
È a questo punto che s'accende la terza stella,
quella del pneuma, lo "Spirito".
Ora, questo vocabolo può indicare anche il
respiro della vita.
Potremmo, perciò, dire che, con l'abbraccio
d'amore tra la grazia divina e fede umana sopra
descritto, Dio infonde in noi il suo stesso
respiro, il suo Spirito, cioè la sua vita.
È per questo che noi lo possiamo considerare
come padre e ci possiamo sentire come fratelli di
suo figlio, Gesù Cristo.
Tra lui e noi corre la stessa vita: «Voi avete
ricevuto uno spirito (pneuma) di figli adottivi
per mezzo del quale gridiamo Abba', padre»
(8,16).
L'uomo che, attraverso la fede, ha accolto la
grazia e ha ricevuto lo Spirito della vita divina
acquista una nuova condizione che è descritta
con la quarta e ultima parola greca che Paolo usa
in modo originale, la dikaiosyne, la
"giustificazione".
Essa è la stella terminale che sigilla la
vicenda della nostra salvezza, partita dalle
tenebre e approdata alla luce: l'uomo è ora
"giustificato', cioè reso giusto e
perfetto: è - per usare un'immagine paolina -
una "creatura nuova". Le opere giuste
che egli compirà saranno il frutto della
salvezza ottenuta.
Attraverso sette parole, usate dall'Apostolo in
modo creativo, abbiamo così ricostruito
l'avventura della redenzione compiuta da Cristo e
che Paolo precisa nelle pagine molto dense della
lettera ai Romani. Ricordiamole ora in finale,
distribuendole nei due ambiti. Innanzitutto
quello negativo: sarx-carne, hamartía-peccato,
nómos-legge.
Poi quello positivo: cháris-grazia,
pístis-fede, pneuma-Spirito,
dikaiosyne-giustificazione.
|
|
|