LETTERA ENCICLICA
FIDES ET RATIO
DEL SOMMO PONTEFICE
GIOVANNI PAOLO II
AI VESCOVI DELLA CHIESA CATTOLICA
CIRCA I RAPPORTI
TRA FEDE E RAGIONE
Venerati
Fratelli nell'Episcopato,
salute e Apostolica Benedizione!
La fede e la
ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s'innalza verso la
contemplazione della verità. E Dio ad aver posto nel cuore dell'uomo il
desiderio di conoscere la verità e, in definitiva, di conoscere Lui perché,
conoscendolo e amandolo, possa giungere anche alla piena verità su se stesso
(cfr Es 33, 18; Sal 27 [26], 8-9; 63 [62], 2-3; Gv 14, 8; 1
Gv 3, 2).
INTRODUZIONE
« CONOSCI TE STESSO »
1. Sia in Oriente
che in Occidente, è possibile ravvisare un cammino che, nel corso dei secoli,
ha portato l'umanità a incontrarsi progressivamente con la verità e a
confrontarsi con essa. E un cammino che s'è svolto — né poteva essere
altrimenti — entro l'orizzonte dell'autocoscienza personale: più l'uomo conosce
la realtà e il mondo e più conosce se stesso nella sua unicità, mentre gli
diventa sempre più impellente la domanda sul senso delle cose e della sua
stessa esistenza.
Quanto viene a
porsi come oggetto della nostra conoscenza diventa per ciò stesso parte della
nostra vita. Il monito Conosci te stesso era scolpito sull'architrave
del tempio di Delfi, a testimonianza di una verità basilare che deve essere
assunta come regola minima da ogni uomo desideroso di distinguersi, in mezzo a
tutto il creato, qualificandosi come « uomo » appunto in quanto « conoscitore
di se stesso ».
Un semplice
sguardo alla storia antica, d'altronde, mostra con chiarezza come in diverse
parti della terra, segnate da culture differenti, sorgano nello stesso tempo le
domande di fondo che caratterizzano il percorso dell'esistenza umana: chi
sono? da dove vengo e dove vado? perché la presenza del male? cosa ci sarà dopo
questa vita? Questi interrogativi sono presenti negli scritti sacri di
Israele, ma compaiono anche nei Veda non meno che negli Avesta; li troviamo
negli scritti di Confucio e Lao-Tze come pure nella predicazione dei
Tirthankara e di Buddha; sono ancora essi ad affiorare nei poemi di Omero e
nelle tragedie di Euripide e Sofocle come pure nei trattati filosofici di
Platone ed Aristotele. Sono domande che hanno la loro comune scaturigine nella
richiesta di senso che da sempre urge nel cuore dell'uomo: dalla risposta a
tali domande, infatti, dipende l'orientamento da imprimere all'esistenza.
2. La Chiesa non
è estranea, né può esserlo, a questo cammino di ricerca. Da quando, nel Mistero
pasquale, ha ricevuto in dono la verità ultima sulla vita dell'uomo, essa s'è
fatta pellegrina per le strade del mondo per annunciare che Gesù Cristo è « la
via, la verità e la vita » (Gv 14, 6). Tra i diversi servizi che essa
deve offrire all'umanità, uno ve n'è che la vede responsabile in modo del tutto
peculiare: è la diaconia alla verità.(1) Questa missione, da una parte,
rende la comunità credente partecipe dello sforzo comune che l'umanità compie
per raggiungere la verità; (2) dall'altra, la obbliga a farsi carico
dell'annuncio delle certezze acquisite, pur nella consapevolezza che ogni
verità raggiunta è sempre solo una tappa verso quella piena verità che si
manifesterà nella rivelazione ultima di Dio: « Ora vediamo come in uno
specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo faccia a faccia. Ora conosco in
modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente » (1 Cor 13, 12).
3. Molteplici
sono le risorse che l'uomo possiede per promuovere il progresso nella
conoscenza della verità, così da rendere la propria esistenza sempre più umana.
Tra queste emerge la filosofia, che contribuisce direttamente a porre la
domanda circa il senso della vita e ad abbozzarne la risposta: essa, pertanto,
si configura come uno dei compiti più nobili dell'umanità. Il termine
filosofia, secondo l'etimologia greca, significa « amore per la saggezza ». Di
fatto, la filosofia è nata e si è sviluppata nel momento in cui l'uomo ha
iniziato a interrogarsi sul perché delle cose e sul loro fine. In modi e forme differenti,
essa mostra che il desiderio di verità appartiene alla stessa natura dell'uomo.
E una proprietà nativa della sua ragione interrogarsi sul perché delle cose,
anche se le risposte via via date si inseriscono in un orizzonte che rende
evidente la complementarità delle differenti culture in cui l'uomo vive.
La forte
incidenza che la filosofia ha avuto nella formazione e nello sviluppo delle
culture in Occidente non deve farci dimenticare l'influsso che essa ha
esercitato anche nei modi di concepire l'esistenza di cui vive l'Oriente. Ogni
popolo, infatti, possiede una sua indigena e originaria saggezza che, quale
autentica ricchezza delle culture, tende a esprimersi e a maturare anche in
forme prettamente filosofiche. Quanto questo sia vero lo dimostra il fatto che
una forma basilare di sapere filosofico, presente fino ai nostri giorni, è
verificabile perfino nei postulati a cui le diverse legislazioni nazionali e
internazionali si ispirano nel regolare la vita sociale.
4. È, comunque,
da rilevare che dietro un unico termine si nascondono significati differenti.
Un'esplicitazione preliminare si rende pertanto necessaria. Spinto dal
desiderio di scoprire la verità ultima dell'esistenza, l'uomo cerca di
acquisire quelle conoscenze universali che gli consentono di comprendersi
meglio e di progredire nella realizzazione di sé. Le conoscenze fondamentali
scaturiscono dalla meraviglia suscitata in lui dalla contemplazione del
creato: l'essere umano è colto dallo stupore nello scoprirsi inserito nel
mondo, in relazione con altri suoi simili dei quali condivide il destino. Parte
di qui il cammino che lo porterà poi alla scoperta di orizzonti di conoscenza
sempre nuovi. Senza meraviglia l'uomo cadrebbe nella ripetitività e, poco alla
volta, diventerebbe incapace di un'esistenza veramente personale.
La capacità
speculativa, che è propria dell'intelletto umano, porta ad elaborare, mediante
l'attività filosofica, una forma di pensiero rigoroso e a costruire così, con
la coerenza logica delle affermazioni e l'organicità dei contenuti, un sapere
sistematico. Grazie a questo processo, in differenti contesti culturali e in
diverse epoche, si sono raggiunti risultati che hanno portato all'elaborazione
di veri sistemi di pensiero. Storicamente ciò ha spesso esposto alla tentazione
di identificare una sola corrente con l'intero pensiero filosofico. E però
evidente che, in questi casi, entra in gioco una certa « superbia filosofica »
che pretende di erigere la propria visione prospettica e imperfetta a lettura
universale. In realtà, ogni sistema filosofico, pur rispettato sempre
nella sua interezza senza strumentalizzazioni di sorta, deve riconoscere la
priorità del pensare filosofico, da cui trae origine e a cui deve
servire in forma coerente.
In questo senso è
possibile riconoscere, nonostante il mutare dei tempi e i progressi del sapere,
un nucleo di conoscenze filosofiche la cui presenza è costante nella storia del
pensiero. Si pensi, solo come esempio, ai principi di non contraddizione, di
finalità, di causalità, come pure alla concezione della persona come soggetto
libero e intelligente e alla sua capacità di conoscere Dio, la verità, il bene;
si pensi inoltre ad alcune norme morali fondamentali che risultano comunemente
condivise. Questi e altri temi indicano che, a prescindere dalle correnti di
pensiero, esiste un insieme di conoscenze in cui è possibile ravvisare una
sorta di patrimonio spirituale dell'umanità. E come se ci trovassimo dinanzi a
una filosofia implicita per cui ciascuno sente di possedere questi
principi, anche se in forma generica e non riflessa. Queste conoscenze, proprio
perché condivise in qualche misura da tutti, dovrebbero costituire come un
punto di riferimento delle diverse scuole filosofiche. Quando la ragione riesce
a intuire e a formulare i principi primi e universali dell'essere e a far
correttamente scaturire da questi conclusioni coerenti di ordine logico e
deontologico, allora può dirsi una ragione retta o, come la chiamavano gli
antichi, orthòs logos, recta ratio.
5. La Chiesa, da
parte sua, non può che apprezzare l'impegno della ragione per il raggiungimento
di obiettivi che rendano l'esistenza personale sempre più degna. Essa infatti
vede nella filosofia la via per conoscere fondamentali verità concernenti
l'esistenza dell'uomo. Al tempo stesso, considera la filosofia un aiuto
indispensabile per approfondire l'intelligenza della fede e per comunicare la
verità del Vangelo a quanti ancora non la conoscono.
Facendo pertanto
seguito ad analoghe iniziative dei miei Predecessori, desidero anch'io rivolgere
lo sguardo a questa peculiare attività della ragione. Mi ci spinge il rilievo
che, soprattutto ai nostri giorni, la ricerca della verità ultima appare spesso
offuscata. Senza dubbio la filosofia moderna ha il grande merito di aver
concentrato la sua attenzione sull'uomo. A partire da qui, una ragione carica
di interrogativi ha sviluppato ulteriormente il suo desiderio di conoscere
sempre di più e sempre più a fondo. Sono stati così costruiti sistemi di
pensiero complessi, che hanno dato i loro frutti nei diversi ambiti del sapere,
favorendo lo sviluppo della cultura e della storia. L'antropologia, la logica,
le scienze della natura, la storia, il linguaggio..., in qualche modo l'intero
universo del sapere è stato abbracciato. I positivi risultati raggiunti non
devono, tuttavia, indurre a trascurare il fatto che quella stessa ragione,
intenta ad indagare in maniera unilaterale sull'uomo come soggetto, sembra aver
dimenticato che questi è pur sempre chiamato ad indirizzarsi verso una verità
che lo trascende. Senza il riferimento ad essa, ciascuno resta in balia
dell'arbitrio e la sua condizione di persona finisce per essere valutata con
criteri pragmatici basati essenzialmente sul dato sperimentale, nell'errata
convinzione che tutto deve essere dominato dalla tecnica. E così accaduto che,
invece di esprimere al meglio la tensione verso la verità, la ragione sotto il
peso di tanto sapere si è curvata su se stessa diventando, giorno dopo giorno,
incapace di sollevare lo sguardo verso l'alto per osare di raggiungere la
verità dell'essere. La filosofia moderna, dimenticando di orientare la sua
indagine sull'essere, ha concentrato la propria ricerca sulla conoscenza umana.
Invece di far leva sulla capacità che l'uomo ha di conoscere la verità, ha
preferito sottolinearne i limiti e i condizionamenti.
Ne sono derivate
varie forme di agnosticismo e di relativismo, che hanno portato la ricerca
filosofica a smarrirsi nelle sabbie mobili di un generale scetticismo. Di
recente, poi, hanno assunto rilievo diverse dottrine che tendono a svalutare
perfino quelle verità che l'uomo era certo di aver raggiunte. La legittima
pluralità di posizioni ha ceduto il posto ad un indifferenziato pluralismo,
fondato sull'assunto che tutte le posizioni si equivalgono: è questo uno dei sintomi
più diffusi della sfiducia nella verità che è dato verificare nel contesto
contemporaneo. A questa riserva non sfuggono neppure alcune concezioni di vita
che provengono dall'Oriente; in esse, infatti, si nega alla verità il suo
carattere esclusivo, partendo dal presupposto che essa si manifesta in modo
uguale in dottrine diverse, persino contraddittorie tra di loro. In questo
orizzonte, tutto è ridotto a opinione. Si ha l'impressione di un movimento
ondivago: la riflessione filosofica mentre, da una parte, è riuscita a
immettersi sulla strada che la rende sempre più vicina all'esistenza umana e
alle sue forme espressive, dall'altra, tende a sviluppare considerazioni
esistenziali, ermeneutiche o linguistiche che prescindono dalla questione
radicale circa la verità della vita personale, dell'essere e di Dio. Di
conseguenza, sono emersi nell'uomo contemporaneo, e non soltanto presso alcuni
filosofi, atteggiamenti di diffusa sfiducia nei confronti delle grandi risorse
conoscitive dell'essere umano. Con falsa modestia ci si accontenta di verità
parziali e provvisorie, senza più tentare di porre domande radicali sul senso e
sul fondamento ultimo della vita umana, personale e sociale. E venuta meno,
insomma, la speranza di poter ricevere dalla filosofia risposte definitive a
tali domande.
6. Forte della
competenza che le deriva dall'essere depositaria della Rivelazione di Gesù
Cristo, la Chiesa intende riaffermare la necessità della riflessione sulla
verità. E per questo motivo che ho deciso di rivolgermi a voi, Venerati
Confratelli nell'Episcopato, con i quali condivido la missione di annunziare «
apertamente la verità » (2 Cor 4, 2), come pure ai teologi e ai filosofi
a cui spetta il dovere di indagare sui diversi aspetti della verità, ed anche
alle persone che sono in ricerca, per partecipare alcune riflessioni sul
cammino che conduce alla vera sapienza, affinché chiunque ha nel cuore l'amore
per essa possa intraprendere la giusta strada per raggiungerla e trovare in
essa riposo alla sua fatica e gaudio spirituale.
Mi spinge a
questa iniziativa, anzitutto, la consapevolezza che viene espressa dalle parole
del Concilio Vaticano II, quando afferma che i Vescovi sono « testimoni della
divina e cattolica verità ».(3) Testimoniare la verità è, dunque, un compito
che è stato affidato a noi Vescovi; ad esso non possiamo rinunciare senza venir
meno al ministero che abbiamo ricevuto. Riaffermando la verità della fede,
possiamo ridare all'uomo del nostro tempo genuina fiducia nelle sue capacità
conoscitive e offrire alla filosofia una provocazione perché possa recuperare e
sviluppare la sua piena dignità.
Un ulteriore
motivo mi induce a stendere queste riflessioni. Nella Lettera enciclica Veritatis
splendor, ho richiamato l'attenzione su « alcune verità fondamentali della dottrina
cattolica che nell'attuale contesto rischiano di essere deformate o negate
».(4) Con la presente Lettera, desidero continuare quella riflessione
concentrando l'attenzione sul tema stesso della verità e sul suo fondamento
in rapporto alla fede. Non si può negare, infatti, che questo
periodo di rapidi e complessi cambiamenti esponga soprattutto le giovani
generazioni, a cui appartiene e da cui dipende il futuro, alla sensazione di
essere prive di autentici punti di riferimento. L'esigenza di un fondamento su
cui costruire l'esistenza personale e sociale si fa sentire in maniera
pressante soprattutto quando si è costretti a costatare la frammentarietà di
proposte che elevano l'effimero al rango di valore, illudendo sulla possibilità
di raggiungere il vero senso dell'esistenza. Accade così che molti trascinano
la loro vita fin quasi sull'orlo del baratro, senza sapere a che cosa vanno
incontro. Ciò dipende anche dal fatto che talvolta chi era chiamato per
vocazione a esprimere in forme culturali il frutto della propria speculazione,
ha distolto lo sguardo dalla verità, preferendo il successo nell'immediato alla
fatica di una indagine paziente su ciò che merita di essere vissuto. La
filosofia, che ha la grande responsabilità di formare il pensiero e la cultura
attraverso il richiamo perenne alla ricerca del vero, deve recuperare con forza
la sua vocazione originaria. E per questo che ho sentito non solo l'esigenza,
ma anche il dovere di intervenire su questo tema, perché l'umanità, alla soglia
del terzo millennio dell'era cristiana, prenda più chiara coscienza delle
grandi risorse che le sono state concesse, e s'impegni con rinnovato coraggio
nell'attuazione del piano di salvezza nel quale è inserita la sua storia.
CAPITOLO I
LA RIVELAZIONE
DELLA SAPIENZA DI DIO
Gesù
rivelatore del Padre
7. Alla base di
ogni riflessione che la Chiesa compie vi è la consapevolezza di essere
depositaria di un messaggio che ha la sua origine in Dio stesso (cfr 2 Cor
4, 1-2). La conoscenza che essa propone all'uomo non le proviene da una sua
propria speculazione, fosse anche la più alta, ma dall'aver accolto nella fede
la parola di Dio (cfr 1 Tess 2, 13). All'origine del nostro essere
credenti vi è un incontro, unico nel suo genere, che segna il dischiudersi di
un mistero nascosto nei secoli (cfr 1 Cor 2, 7; Rm 16, 25-26), ma
ora rivelato: « Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e
far conoscere il mistero della sua volontà (cfr Ef 1, 9), mediante il
quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo
hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura ».(5) E,
questa, un'iniziativa pienamente gratuita, che parte da Dio per raggiungere
l'umanità e salvarla. Dio, in quanto fonte di amore, desidera farsi conoscere,
e la conoscenza che l'uomo ha di lui porta a compimento ogni altra vera
conoscenza che la sua mente è in grado di raggiungere circa il senso della
propria esistenza.
8. Riprendendo
quasi alla lettera l'insegnamento offerto dalla Costituzione Dei Filius del
Concilio Vaticano I e tenendo conto dei principi proposti dal Concilio
Tridentino, la Costituzione Dei Verbum del Vaticano II ha proseguito il
secolare cammino di intelligenza della fede, riflettendo sulla
Rivelazione alla luce dell'insegnamento biblico e dell'intera tradizione
patristica. Nel primo Concilio Vaticano, i Padri avevano sottolineato il
carattere soprannaturale della rivelazione di Dio. La critica razionalista, che
in quel periodo veniva mossa contro la fede sulla base di tesi errate e molto
diffuse, verteva sulla negazione di ogni conoscenza che non fosse frutto delle
capacità naturali della ragione. Questo fatto aveva obbligato il Concilio a
ribadire con forza che, oltre alla conoscenza propria della ragione umana,
capace per sua natura di giungere fino al Creatore, esiste una conoscenza che è
peculiare della fede. Questa conoscenza esprime una verità che si fonda sul
fatto stesso di Dio che si rivela, ed è verità certissima perché Dio non
inganna né vuole ingannare.(6)
9. Il Concilio
Vaticano I, dunque, insegna che la verità raggiunta per via di riflessione
filosofica e la verità della Rivelazione non si confondono, né l'una rende
superflua l'altra: « Esistono due ordini di conoscenza, distinti non solo per
il loro principio, ma anche per il loro oggetto: per il loro principio, perché
nell'uno conosciamo con la ragione naturale, nell'altro con la fede divina; per
l'oggetto, perché oltre le verità che la ragione naturale può capire, ci è
proposto di vedere i misteri nascosti in Dio, che non possono essere conosciuti
se non sono rivelati dall'alto ».(7) La fede, che si fonda sulla testimonianza
di Dio e si avvale dell'aiuto soprannaturale della grazia, è effettivamente di
un ordine diverso da quello della conoscenza filosofica. Questa, infatti,
poggia sulla percezione dei sensi, sull'esperienza e si muove alla luce del
solo intelletto. La filosofia e le scienze spaziano nell'ordine della ragione
naturale, mentre la fede, illuminata e guidata dallo Spirito, riconosce nel
messaggio della salvezza la « pienezza di grazia e di verità » (cfr Gv 1,
14) che Dio ha voluto rivelare nella storia e in maniera definitiva per mezzo
di suo Figlio Gesù Cristo (cfr 1 Gv 5, 9; Gv 5, 31-32).
10. Al Concilio
Vaticano II i Padri, puntando lo sguardo su Gesù rivelatore, hanno illustrato
il carattere salvifico della rivelazione di Dio nella storia e ne hanno
espresso la natura nel modo seguente: « Con questa rivelazione, Dio invisibile
(cfr Col 1, 15; 1 Tm 1, 17) nel suo immenso amore parla agli
uomini come ad amici (cfr Es 33, 11; Gv 15, 14-15) e si
intrattiene con essi (cfr Bar 3, 38) per invitarli ed ammetterli alla
comunione con sé. Questa economia della Rivelazione avviene con eventi e parole
intimamente connessi tra loro, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia
della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate
dalle parole, e le parole dichiarano le opere e chiariscono il mistero in esse
contenuto. La profonda verità, poi, su Dio e sulla salvezza degli uomini, per
mezzo di questa Rivelazione risplende a noi in Cristo, il quale è insieme il
mediatore e la pienezza di tutta la rivelazione ».(8)
11. La
rivelazione di Dio, dunque, si inserisce nel tempo e nella storia.
L'incarnazione di Gesù Cristo, anzi, avviene nella « pienezza del tempo » (Gal
4, 4). A duemila anni di distanza da quell'evento, sento il dovere di
riaffermare con forza che « nel cristianesimo il tempo ha un'importanza
fondamentale ».(9) In esso, infatti, viene alla luce l'intera opera della
creazione e della salvezza e, soprattutto, emerge il fatto che con
l'incarnazione del Figlio di Dio noi viviamo e anticipiamo fin da ora ciò che
sarà il compimento del tempo (cfr Eb 1, 2).
La verità che Dio
ha consegnato all'uomo su se stesso e sulla sua vita si inserisce, quindi, nel
tempo e nella storia. Certo, essa è stata pronunciata una volta per tutte nel
mistero di Gesù di Nazareth. Lo dice con parole eloquenti la Costituzione Dei
Verbum: « Dio, dopo avere a più riprese e in più modi parlato per mezzo dei
Profeti, “alla fine, nei nostri giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio”
(Eb 1, 1-2). Mandò infatti suo Figlio, cioè il Verbo eterno, che
illumina tutti gli uomini, affinché dimorasse tra gli uomini e ad essi
spiegasse i segreti di Dio (cfr Gv 1, 1-18). Gesù Cristo, Verbo
fatto carne, mandato come “uomo agli uomini”, “parla le parole di Dio” (Gv 3,
34) e porta a compimento l'opera di salvezza affidatagli dal Padre (cfr Gv 5,
36; 17, 4). Perciò Egli, vedendo il quale si vede anche il Padre (cfr Gv 14,
9), con tutta la sua presenza e con la manifestazione di sé, con le parole e
con le opere, con i segni e con i miracoli, e specialmente con la sua morte e
la gloriosa risurrezione di tra i morti, e infine con l'invio dello Spirito di
verità, compie e completa la Rivelazione ».(10)
La storia,
pertanto, costituisce per il Popolo di Dio un cammino da percorrere
interamente, così che la verità rivelata esprima in pienezza i suoi contenuti
grazie all'azione incessante dello Spirito Santo (cfr Gv 16, 13). Lo
insegna, ancora una volta, la Costituzione Dei Verbum quando afferma che
« la Chiesa, nel corso dei secoli, tende incessantemente alla pienezza della
verità divina, finché in essa giungano a compimento le parole di Dio ».(11)
12. La storia,
quindi, diventa il luogo in cui possiamo costatare l'agire di Dio a favore
dell'umanità. Egli ci raggiunge in ciò che per noi è più familiare e facile da
verificare, perché costituisce il nostro contesto quotidiano, senza il quale
non riusciremmo a comprenderci.
L'incarnazione
del Figlio di Dio permette di vedere attuata la sintesi definitiva che la mente
umana, partendo da sé, non avrebbe neppure potuto immaginare: l'Eterno entra
nel tempo, il Tutto si nasconde nel frammento, Dio assume il volto dell'uomo.
La verità espressa nella Rivelazione di Cristo, dunque, non è più rinchiusa in
un ristretto ambito territoriale e culturale, ma si apre a ogni uomo e donna
che voglia accoglierla come parola definitivamente valida per dare senso
all'esistenza. Ora, tutti hanno in Cristo accesso al Padre; con la sua morte e
risurrezione, infatti, Egli ha donato la vita divina che il primo Adamo aveva
rifiutato (cfr Rm 5, 12-15). Con questa Rivelazione viene offerta
all'uomo la verità ultima sulla propria vita e sul destino della storia: « In realtà
solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo
», afferma la Costituzione Gaudium et spes.(12) Al di fuori di questa
prospettiva il mistero dell'esistenza personale rimane un enigma insolubile.
Dove l'uomo potrebbe cercare la risposta ad interrogativi drammatici come
quelli del dolore, della sofferenza dell'innocente e della morte, se non nella
luce che promana dal mistero della passione, morte e risurrezione di Cristo?
La ragione
dinanzi al mistero
13. Non sarà,
comunque, da dimenticare che la Rivelazione permane carica di mistero. Certo,
con tutta la sua vita Gesù rivela il volto del Padre, essendo Egli venuto per
spiegare i segreti di Dio; (13) eppure, la conoscenza che noi abbiamo di tale
volto è sempre segnata dalla frammentarietà e dal limite del nostro
comprendere. Solo la fede permette di entrare all'interno del mistero,
favorendone la coerente intelligenza.
Insegna il
Concilio che « a Dio che si rivela è dovuta l'obbedienza della fede ».(14) Con
questa breve ma densa affermazione, viene indicata una fondamentale verità del
cristianesimo. Si dice, anzitutto, che la fede è risposta di obbedienza a Dio.
Ciò comporta che Egli venga riconosciuto nella sua divinità, trascendenza e
libertà suprema. Il Dio che si fa conoscere, nell'autorità della sua assoluta
trascendenza, porta anche con sé la credibilità dei contenuti che rivela. Con
la fede, l'uomo dona il suo assenso a tale testimonianza divina. Ciò significa
che riconosce pienamente e integralmente la verità di quanto rivelato, perché è
Dio stesso che se ne fa garante. Questa verità, donata all'uomo e da lui non
esigibile, si inserisce nel contesto della comunicazione interpersonale e
spinge la ragione ad aprirsi ad essa e ad accoglierne il senso profondo. E per
questo che l'atto con il quale ci si affida a Dio è sempre stato considerato
dalla Chiesa come un momento di scelta fondamentale, in cui tutta la persona è
coinvolta. Intelletto e volontà esercitano al massimo la loro natura spirituale
per consentire al soggetto di compiere un atto in cui la libertà personale è
vissuta in maniera piena.(15) Nella fede, quindi, la libertà non è
semplicemente presente: è esigita. E la fede, anzi, che permette a ciascuno di
esprimere al meglio la propria libertà. In altre parole, la libertà non si
realizza nelle scelte contro Dio. Come infatti potrebbe essere considerato un
uso autentico della libertà il rifiuto di aprirsi verso ciò che permette la
realizzazione di se stessi? E nel credere che la persona compie l'atto più
significativo della propria esistenza; qui, infatti, la libertà raggiunge la
certezza della verità e decide di vivere in essa.
In aiuto alla
ragione, che cerca l'intelligenza del mistero, vengono anche i segni presenti
nella Rivelazione. Essi servono a condurre più a fondo la ricerca della verità
e a permettere che la mente possa autonomamente indagare anche all'interno del
mistero. Questi segni, comunque, se da una parte danno maggior forza alla
ragione, perché le consentono di ricercare all'interno del mistero con i suoi
propri mezzi di cui è giustamente gelosa, dall'altra la spingono a trascendere
la loro realtà di segni per raccoglierne il significato ulteriore di cui sono
portatori. In essi, pertanto, è già presente una verità nascosta a cui la mente
è rinviata e da cui non può prescindere senza distruggere il segno stesso che
le viene proposto.
Si è rimandati,
in qualche modo, all'orizzonte sacramentale della Rivelazione e, in
particolare, al segno eucaristico dove l'unità inscindibile tra la realtà e il
suo significato permette di cogliere la profondità del mistero. Cristo
nell'Eucaristia è veramente presente e vivo, opera con il suo Spirito, ma, come
aveva ben detto san Tommaso, « tu non vedi, non comprendi, ma la fede ti
conferma, oltre la natura. E un segno ciò che appare: nasconde nel mistero
realtà sublimi ».(16) Gli fa eco il filosofo Pascal: « Come Gesù Cristo è
rimasto sconosciuto tra gli uomini, così la sua verità resta, tra le opinioni
comuni, senza differenza esteriore. Così resta l'Eucaristia tra il pane comune
».(17)
La conoscenza di
fede, insomma, non annulla il mistero; solo lo rende più evidente e lo
manifesta come fatto essenziale per la vita dell'uomo: Cristo Signore «
rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l'uomo
all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione »,(18) che è quella di
partecipare al mistero della vita trinitaria di Dio.(19)
14.
L'insegnamento dei due Concili Vaticani apre un vero orizzonte di novità anche
per il sapere filosofico. La Rivelazione immette nella storia un punto di
riferimento da cui l'uomo non può prescindere, se vuole arrivare a comprendere
il mistero della sua esistenza; dall'altra parte, però, questa conoscenza
rinvia costantemente al mistero di Dio che la mente non può esaurire, ma solo
ricevere e accogliere nella fede. All'interno di questi due momenti, la ragione
possiede un suo spazio peculiare che le permette di indagare e comprendere,
senza essere limitata da null'altro che dalla sua finitezza di fronte al
mistero infinito di Dio.
La Rivelazione,
pertanto, immette nella nostra storia una verità universale e ultima che
provoca la mente dell'uomo a non fermarsi mai; la spinge, anzi, ad allargare
continuamente gli spazi del proprio sapere fino a quando non avverte di avere
compiuto quanto era in suo potere, senza nulla tralasciare. Ci viene in aiuto
per questa riflessione una delle intelligenze più feconde e significative della
storia dell'umanità, a cui fanno doveroso riferimento sia la filosofia che la
teologia: sant'Anselmo. Nel suo Proslogion, l'Arcivescovo di Canterbury
così si esprime: « Volgendo spesso e con impegno il mio pensiero a questo
problema, a volte mi sembrava di poter ormai afferrare ciò che cercavo, altre
volte invece sfuggiva completamente al mio pensiero; finché finalmente,
disperando di poterlo trovare, volli smettere di ricercare qualcosa che era
impossibile trovare. Ma quando volli scacciare da me quel pensiero perché,
occupando la mia mente, non mi distogliesse da altri problemi dai quali potevo
ricavare qualche profitto, allora cominciò a presentarsi con sempre maggior
importunità [...]. Ma povero me, uno dei poveri figli di Eva, lontani da Dio,
che cosa ho cominciato a fare e a che cosa sono riuscito? A che cosa tendevo e
a che cosa sono giunto? A che cosa aspiravo e di che sospiro? [...]. O Signore,
tu non solo sei ciò di cui non si può pensare nulla di più grande (non solum
es quo maius cogitari nequit), ma sei più grande di tutto ciò che si possa
pensare (quiddam maius quam cogitari possit) [...]. Se tu non fossi
tale, si potrebbe pensare qualcosa più grande di te, ma questo è impossibile
».(20)
15. La verità
della Rivelazione cristiana, che si incontra in Gesù di Nazareth, permette a
chiunque di accogliere il « mistero » della propria vita. Come verità suprema,
essa, mentre rispetta l'autonomia della creatura e la sua libertà, la impegna
ad aprirsi alla trascendenza. Qui il rapporto libertà e verità diventa sommo e
si comprende in pienezza la parola del Signore: « Conoscerete la verità e la
verità vi farà liberi » (Gv 8, 32).
La Rivelazione
cristiana è la vera stella di orientamento per l'uomo che avanza tra i
condizionamenti della mentalità immanentistica e le strettoie di una logica
tecnocratica; è l'ultima possibilità che viene offerta da Dio per ritrovare in
pienezza il progetto originario di amore, iniziato con la creazione. All'uomo
desideroso di conoscere il vero, se ancora è capace di guardare oltre se stesso
e di innalzare lo sguardo al di là dei propri progetti, è data la possibilità
di recuperare il genuino rapporto con la sua vita, seguendo la strada della
verità. Le parole del Deuteronomio bene si possono applicare a questa
situazione: « Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né
troppo lontano da te. Non è nel cielo perché tu dica: Chi salirà per noi in
cielo per prendercelo e farcelo udire sì che lo possiamo eseguire? Non è di là
dal mare, perché tu dica: Chi attraverserà per noi il mare per prendercelo e
farcelo udire sì che lo possiamo eseguire? Anzi, questa parola è molto vicina a
te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica »
(30,11-14). A questo testo fa eco il famoso pensiero del santo filosofo e
teologo Agostino: « Noli foras ire, in te ipsum redi. In interiore homine
habitat veritas ».(21)
Alla luce di
queste considerazioni, una prima conclusione si impone: la verità che la
Rivelazione ci fa conoscere non è il frutto maturo o il punto culminante di un
pensiero elaborato dalla ragione. Essa, invece, si presenta con la
caratteristica della gratuità, produce pensiero e chiede di essere accolta come
espressione di amore. Questa verità rivelata è anticipo, posto nella nostra
storia, di quella visione ultima e definitiva di Dio che è riservata a quanti
credono in lui o lo ricercano con cuore sincero. Il fine ultimo dell'esistenza
personale, dunque, è oggetto di studio sia della filosofia che della teologia.
Ambedue, anche se con mezzi e contenuti diversi, prospettano questo « sentiero
della vita » (Sal 16 [15], 11) che, come la fede ci dice, ha il suo
sbocco ultimo nella gioia piena e duratura della contemplazione del Dio Uno e
Trino.
CAPITOLO II
CREDO UT INTELLEGAM
« La
sapienza tutto conosce e tutto comprende » (Sap 9, 11)
16. Quanto
profondo sia il legame tra la conoscenza di fede e quella di ragione è indicato
già nella Sacra Scrittura con spunti di sorprendente chiarezza. Lo documentano
soprattutto i Libri sapienziali. Ciò che colpisce nella lettura, fatta
senza preconcetti, di queste pagine della Scrittura è il fatto che in questi
testi venga racchiusa non soltanto la fede di Israele, ma anche il tesoro di
civiltà e di culture ormai scomparse. Quasi per un disegno particolare,
l'Egitto e la Mesopotamia fanno sentire di nuovo la loro voce ed alcuni tratti
comuni delle culture dell'antico Oriente vengono riportati in vita in queste
pagine ricche di intuizioni singolarmente profonde.
Non è un caso
che, nel momento in cui l'autore sacro vuole descrivere l'uomo saggio, lo
dipinga come colui che ama e ricerca la verità: « Beato l'uomo che medita sulla
sapienza e ragiona con l'intelligenza, considera nel cuore le sue vie, ne
penetra con la mente i segreti. La insegue come uno che segue una pista, si
apposta sui suoi sentieri. Egli spia alle sue finestre e sta ad ascoltare alla
sua porta. Fa sosta vicino alla sua casa e fissa un chiodo nelle sue pareti;
alza la propria tenda presso di essa e si ripara in un rifugio di benessere;
mette i propri figli sotto la sua protezione e sotto i suoi rami soggiorna; da
essa sarà protetto contro il caldo, egli abiterà all'ombra della sua gloria » (Sir
14, 20-27).
Per l'autore
ispirato, come si vede, il desiderio di conoscere è una caratteristica che
accomuna tutti gli uomini. Grazie all'intelligenza è data a tutti, sia credenti
che non credenti, la possibilità di « attingere alle acque profonde » della
conoscenza (cfr Pro 20, 5). Certo, nell'antico Israele la conoscenza del
mondo e dei suoi fenomeni non avveniva per via di astrazione, come per il
filosofo ionico o il saggio egiziano. Ancor meno il buon israelita concepiva la
conoscenza con i parametri propri dell'epoca moderna, tesa maggiormente alla
divisione del sapere. Nonostante questo, il mondo biblico ha fatto confluire
nel grande mare della teoria della conoscenza il suo apporto originale.
Quale? La
peculiarità che distingue il testo biblico consiste nella convinzione che
esista una profonda e inscindibile unità tra la conoscenza della ragione e
quella della fede. Il mondo e ciò che accade in esso, come pure la storia e le
diverse vicende del popolo, sono realtà che vengono guardate, analizzate e
giudicate con i mezzi propri della ragione, ma senza che la fede resti estranea
a questo processo. Essa non interviene per umiliare l'autonomia della ragione o
per ridurne lo spazio di azione, ma solo per far comprendere all'uomo che in
questi eventi si rende visibile e agisce il Dio di Israele. Conoscere a fondo
il mondo e gli avvenimenti della storia non è, pertanto, possibile senza
confessare al contempo la fede in Dio che in essi opera. La fede affina lo
sguardo interiore aprendo la mente a scoprire, nel fluire degli eventi, la
presenza operante della Provvidenza. Un'espressione del libro dei Proverbi è
significativa in proposito: « La mente dell'uomo pensa molto alla sua via, ma
il Signore dirige i suoi passi » (16, 9). Come dire, l'uomo con la luce della
ragione sa riconoscere la sua strada, ma la può percorrere in maniera spedita,
senza ostacoli e fino alla fine, se con animo retto inserisce la sua ricerca
nell'orizzonte della fede. La ragione e la fede, pertanto, non possono essere
separate senza che venga meno per l'uomo la possibilità di conoscere in modo
adeguato se stesso, il mondo e Dio.
17. Non ha dunque
motivo di esistere competitività alcuna tra la ragione e la fede: l'una è
nell'altra, e ciascuna ha un suo spazio proprio di realizzazione. E sempre il
libro dei Proverbi che orienta in questa direzione quando esclama: « E gloria
di Dio nascondere le cose, è gloria dei re investigarle » (Pro 25, 2).
Dio e l'uomo, nel loro rispettivo mondo, sono posti in un rapporto unico. In Dio
risiede l'origine di ogni cosa, in Lui si raccoglie la pienezza del mistero, e
questo costituisce la sua gloria; all'uomo spetta il compito di investigare con
la sua ragione la verità, e in ciò consiste la sua nobiltà. Un'ulteriore
tessera a questo mosaico è aggiunta dal Salmista quando prega dicendo: « Quanto
profondi per me i tuoi pensieri, quanto grande il loro numero, o Dio; se li
conto sono più della sabbia, se li credo finiti, con te sono ancora » (139
[138], 17-18). Il desiderio di conoscere è così grande e comporta un tale
dinamismo, che il cuore dell'uomo, pur nell'esperienza del limite invalicabile,
sospira verso l'infinita ricchezza che sta oltre, perché intuisce che in essa è
custodita la risposta appagante per ogni questione ancora irrisolta.
18. Possiamo
dire, pertanto, che Israele con la sua riflessione ha saputo aprire alla
ragione la via verso il mistero. Nella rivelazione di Dio ha potuto
scandagliare in profondità quanto con la ragione cercava di raggiungere senza
riuscirvi. A partire da questa più profonda forma di conoscenza, il popolo
eletto ha capito che la ragione deve rispettare alcune regole di fondo per
poter esprimere al meglio la propria natura. Una prima regola consiste nel
tener conto del fatto che la conoscenza dell'uomo è un cammino che non ha
sosta; la seconda nasce dalla consapevolezza che su tale strada non ci si può
porre con l'orgoglio di chi pensa che tutto sia frutto di personale conquista;
una terza si fonda nel « timore di Dio », del quale la ragione deve riconoscere
la sovrana trascendenza ed insieme il provvido amore nel governo del mondo.
Quando
s'allontana da queste regole, l'uomo s'espone al rischio del fallimento e
finisce per trovarsi nella condizione dello « stolto ». Per la Bibbia, in
questa stoltezza è insita una minaccia per la vita. Lo stolto infatti si illude
di conoscere molte cose, ma in realtà non è capace di fissare lo sguardo su
quelle essenziali. Ciò gli impedisce di porre ordine nella sua mente (cfr Pro
1, 7) e di assumere un atteggiamento adeguato nei confronti di se stesso e
dell'ambiente circostante. Quando poi giunge ad affermare « Dio non esiste »
(cfr Sal 14 [13], 1), rivela con definitiva chiarezza quanto la sua
conoscenza sia carente e quanto lontano egli sia dalla verità piena sulle cose,
sulla loro origine e sul loro destino.
19. Alcuni testi
importanti, che gettano ulteriore luce su questo argomento, sono contenuti nel
Libro della Sapienza. In essi l'Autore sacro parla di Dio che si fa conoscere
anche attraverso la natura. Per gli antichi lo studio delle scienze naturali
coincideva in gran parte con il sapere filosofico. Dopo aver affermato che con
la sua intelligenza l'uomo è in grado di « comprendere la struttura del mondo e
la forza degli elementi [...] il ciclo degli anni e la posizione degli astri,
la natura degli animali e l'istinto delle fiere » (Sap 7, 17.19-20), in
una parola, che è capace di filosofare, il testo sacro compie un passo in
avanti di grande rilievo. Ricuperando il pensiero della filosofia greca, a cui
sembra riferirsi in questo contesto, l'Autore afferma che, proprio ragionando
sulla natura, si può risalire al Creatore: « Dalla grandezza e bellezza delle
creature, per analogia si conosce l'autore » (Sap 13, 5). Viene quindi
riconosciuto un primo stadio della Rivelazione divina, costituito dal
meraviglioso « libro della natura », leggendo il quale, con gli strumenti
propri della ragione umana, si può giungere alla conoscenza del Creatore. Se
l'uomo con la sua intelligenza non arriva a riconoscere Dio creatore di tutto,
ciò non è dovuto tanto alla mancanza di un mezzo adeguato, quanto piuttosto
all'impedimento frapposto dalla sua libera volontà e dal suo peccato.
20. La ragione,
in questa prospettiva, viene valorizzata, ma non sopravvalutata. Quanto essa
raggiunge, infatti, può essere vero, ma acquista pieno significato solamente se
il suo contenuto viene posto in un orizzonte più ampio, quello della fede: «
Dal Signore sono diretti i passi dell'uomo e come può l'uomo comprendere la
propria via? » (Pro 20, 24). Per l'Antico Testamento, pertanto, la fede
libera la ragione in quanto le permette di raggiungere coerentemente il suo
oggetto di conoscenza e di collocarlo in quell'ordine supremo in cui tutto
acquista senso. In una parola, l'uomo con la ragione raggiunge la verità, perché
illuminato dalla fede scopre il senso profondo di ogni cosa e, in particolare,
della propria esistenza. Giustamente, dunque, l'autore sacro pone l'inizio
della vera conoscenza proprio nel timore di Dio: « Il timore del Signore è il
principio della scienza » (Pro 1, 7; cfr Sir 1, 14).
« Acquista
la sapienza, acquista l'intelligenza » (Pro 4, 5)
21. La
conoscenza, per l'Antico Testamento, non si fonda soltanto su una attenta
osservazione dell'uomo, del mondo e della storia, ma suppone anche un indispensabile
rapporto con la fede e con i contenuti della Rivelazione. Qui si trovano le
sfide che il popolo eletto ha dovuto affrontare e a cui ha dato risposta.
Riflettendo su questa sua condizione, l'uomo biblico ha scoperto di non potersi
comprendere se non come « essere in relazione »: con se stesso, con il popolo,
con il mondo e con Dio. Questa apertura al mistero, che gli veniva dalla
Rivelazione, è stata alla fine per lui la fonte di una vera conoscenza, che ha
permesso alla sua ragione di immettersi in spazi di infinito, ricevendone
possibilità di comprensione fino allora insperate.
Lo sforzo della
ricerca non era esente, per l'Autore sacro, dalla fatica derivante dallo
scontro con i limiti della ragione. Lo si avverte, ad esempio, nelle parole con
cui il Libro dei Proverbi denuncia la stanchezza dovuta al tentativo di
comprendere i misteriosi disegni di Dio (cfr 30, 1-6). Tuttavia, malgrado la
fatica, il credente non si arrende. La forza per continuare il suo cammino
verso la verità gli viene dalla certezza che Dio lo ha creato come un «
esploratore » (cfr Qo 1, 13), la cui missione è di non lasciare nulla di
intentato nonostante il continuo ricatto del dubbio. Poggiando su Dio, egli
resta proteso, sempre e dovunque, verso ciò che è bello, buono e vero.
22. San Paolo,
nel primo capitolo della sua Lettera ai Romani, ci aiuta a meglio apprezzare
quanto penetrante sia la riflessione dei Libri Sapienziali. Sviluppando
un'argomentazione filosofica con linguaggio popolare, l'Apostolo esprime una
profonda verità: attraverso il creato gli « occhi della mente » possono
arrivare a conoscere Dio. Egli, infatti, mediante le creature fa intuire alla
ragione la sua « potenza » e la sua « divinità » (cfr Rm 1, 20). Alla
ragione dell'uomo, quindi, viene riconosciuta una capacità che sembra quasi
superare gli stessi suoi limiti naturali: non solo essa non è confinata entro
la conoscenza sensoriale, dal momento che può riflettervi sopra criticamente,
ma argomentando sui dati dei sensi può anche raggiungere la causa che sta
all'origine di ogni realtà sensibile. Con terminologia filosofica potremmo dire
che, nell'importante testo paolino, viene affermata la capacità metafisica
dell'uomo.
Secondo
l'Apostolo, nel progetto originario della creazione era prevista la capacità della
ragione di oltrepassare agevolmente il dato sensibile per raggiungere l'origine
stessa di tutto: il Creatore. A seguito della disobbedienza con la quale l'uomo
scelse di porre se stesso in piena e assoluta autonomia rispetto a Colui che lo
aveva creato, questa facilità di risalita a Dio creatore è venuta meno.
Il Libro della
Genesi descrive in maniera plastica questa condizione dell'uomo, quando narra
che Dio lo pose nel giardino dell'Eden, al cui centro era situato « l'albero
della conoscenza del bene e del male » (2, 17). Il simbolo è chiaro: l'uomo non
era in grado di discernere e decidere da sé ciò che era bene e ciò che era
male, ma doveva richiamarsi a un principio superiore. La cecità dell'orgoglio
illuse i nostri progenitori di essere sovrani e autonomi, e di poter
prescindere dalla conoscenza derivante da Dio. Nella loro originaria
disobbedienza essi coinvolsero ogni uomo e ogni donna, procurando alla ragione
ferite che da allora in poi ne avrebbero ostacolato il cammino verso la piena
verità. Ormai la capacità umana di conoscere la verità era offuscata
dall'avversione verso Colui che della verità è fonte e origine. E ancora
l'Apostolo a rivelare quanto i pensieri degli uomini, a causa del peccato,
fossero diventati « vani » e i ragionamenti distorti e orientati al falso (cfr Rm
1, 21-22). Gli occhi della mente non erano ormai più capaci di vedere con
chiarezza: progressivamente la ragione è rimasta prigioniera di se stessa. La
venuta di Cristo è stata l'evento di salvezza che ha redento la ragione dalla
sua debolezza, liberandola dai ceppi in cui essa stessa s'era imprigionata.
23. Il rapporto
del cristiano con la filosofia, pertanto, richiede un discernimento radicale.
Nel Nuovo Testamento, soprattutto nelle Lettere di san Paolo, un dato emerge con
grande chiarezza: la contrapposizione tra « la sapienza di questo mondo » e
quella di Dio rivelata in Gesù Cristo. La profondità della sapienza rivelata
spezza il cerchio dei nostri abituali schemi di riflessione, che non sono
affatto in grado di esprimerla in maniera adeguata.
L'inizio della
prima Lettera ai Corinzi pone con radicalità questo dilemma. Il Figlio di Dio
crocifisso è l'evento storico contro cui s'infrange ogni tentativo della mente
di costruire su argomentazioni soltanto umane una giustificazione sufficiente
del senso dell'esistenza. Il vero punto nodale, che sfida ogni filosofia, è la
morte in croce di Gesù Cristo. Qui, infatti, ogni tentativo di ridurre il piano
salvifico del Padre a pura logica umana è destinato al fallimento. « Dov'è il
sapiente? Dov'è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non
ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? » (1 Cor 1,
20), si domanda con enfasi l'Apostolo. Per ciò che Dio vuole realizzare non è
più possibile la sola sapienza dell'uomo saggio, ma è richiesto un passaggio
decisivo verso l'accoglienza di una novità radicale: « Dio ha scelto ciò che
nel mondo è stolto per confondere i sapienti [...]; Dio ha scelto ciò che nel
mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose
che sono » (1 Cor 1, 27-28). La sapienza dell'uomo rifiuta di vedere
nella propria debolezza il presupposto della sua forza; ma san Paolo non esita
ad affermare: « Quando sono debole, è allora che sono forte » (2 Cor 12,
10). L'uomo non riesce a comprendere come la morte possa essere fonte di vita e
di amore, ma Dio ha scelto per rivelare il mistero del suo disegno di salvezza
proprio ciò che la ragione considera « follia » e « scandalo ». Parlando il
linguaggio dei filosofi suoi contemporanei, Paolo raggiunge il culmine del suo
insegnamento e del paradosso che vuole esprimere: « Dio ha scelto ciò che nel
mondo [...] è nulla per ridurre a nulla le cose che sono » (1 Cor 1, 28).
Per esprimere la natura della gratuità dell'amore rivelato nella croce di
Cristo, l'Apostolo non ha timore di usare il linguaggio più radicale che i
filosofi impiegavano nelle loro riflessioni su Dio. La ragione non può svuotare
il mistero di amore che la Croce rappresenta, mentre la Croce può dare alla
ragione la risposta ultima che essa cerca. Non la sapienza delle parole, ma la
Parola della Sapienza è ciò che san Paolo pone come criterio di verità e,
insieme, di salvezza.
La sapienza della
Croce, dunque, supera ogni limite culturale che le si voglia imporre e obbliga
ad aprirsi all'universalità della verità di cui è portatrice. Quale sfida viene
posta alla nostra ragione e quale vantaggio essa ne ricava se vi si arrende! La
filosofia, che già da sé è in grado di riconoscere l'incessante trascendersi
dell'uomo verso la verità, aiutata dalla fede può aprirsi ad accogliere nella «
follia » della Croce la genuina critica a quanti si illudono di possedere la
verità, imbrigliandola nelle secche di un loro sistema. Il rapporto fede e
filosofia trova nella predicazione di Cristo crocifisso e risorto lo scoglio
contro il quale può naufragare, ma oltre il quale può sfociare nell'oceano
sconfinato della verità. Qui si mostra evidente il confine tra la ragione e la fede,
ma diventa anche chiaro lo spazio in cui ambedue si possono incontrare.
CAPITOLO III
INTELLEGO UT CREDAM
In cammino
alla ricerca della verità
24. Racconta
l'evangelista Luca negli Atti degli Apostoli che, durante i suoi viaggi
missionari, Paolo arrivò ad Atene. La città dei filosofi era ricolma di statue
rappresentanti diversi idoli. Un altare colpì la sua attenzione ed egli ne
trasse prontamente lo spunto per individuare una base comune su cui avviare
l'annuncio del kerigma: « Cittadini ateniesi, — disse — vedo che in tutto siete
molto timorati degli dei. Passando, infatti, e osservando i monumenti del
vostro culto, ho trovato anche un'ara con l'iscrizione: Al Dio ignoto. Quello
che voi adorate senza conoscere, io ve lo annunzio » (At 17, 22-23). A partire
da qui, san Paolo parla di Dio come creatore, come di Colui che trascende ogni
cosa e che a tutto dà vita. Continua poi il suo discorso così: « Egli creò da
uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia
della terra. Per essi ha stabilito l'ordine dei tempi e i confini del loro
spazio, perché cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a
tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi » (At 17, 26-27).
L'Apostolo mette
in luce una verità di cui la Chiesa ha sempre fatto tesoro: nel più profondo
del cuore dell'uomo è seminato il desiderio e la nostalgia di Dio. Lo ricorda
con forza anche la liturgia del Venerdì Santo quando, invitando a pregare per
quanti non credono, ci fa dire: « O Dio onnipotente ed eterno, tu hai messo nel
cuore degli uomini una così profonda nostalgia di te, che solo quando ti
trovano hanno pace ».(22) Esiste quindi un cammino che l'uomo, se vuole, può
percorrere; esso prende il via dalla capacità della ragione di innalzarsi al di
sopra del contingente per spaziare verso l'infinito.
In differenti
modi e in diversi tempi l'uomo ha dimostrato di saper dare voce a questo suo
intimo desiderio. La letteratura, la musica, la pittura, la scultura,
l'architettura ed ogni altro prodotto della sua intelligenza creatrice sono
diventati canali attraverso cui esprimere l'ansia della sua ricerca. La
filosofia in modo peculiare ha raccolto in sé questo movimento ed ha espresso,
con i suoi mezzi e secondo le modalità scientifiche sue proprie, questo universale
desiderio dell'uomo.
25. « Tutti gli
uomini desiderano sapere »,(23) e oggetto proprio di questo desiderio è la
verità. La stessa vita quotidiana mostra quanto ciascuno sia interessato a
scoprire, oltre il semplice sentito dire, come stanno veramente le cose. L'uomo
è l'unico essere in tutto il creato visibile che non solo è capace di sapere,
ma sa anche di sapere, e per questo si interessa alla verità reale di ciò che
gli appare. Nessuno può essere sinceramente indifferente alla verità del suo
sapere. Se scopre che è falso, lo rigetta; se può, invece, accertarne la
verità, si sente appagato. E la lezione di sant'Agostino quando scrive: « Molti
ho incontrato che volevano ingannare, ma che volesse farsi ingannare, nessuno
».(24) Giustamente si ritiene che una persona abbia raggiunto l'età adulta
quando può discernere, con i propri mezzi, tra ciò che è vero e ciò che è
falso, formandosi un suo giudizio sulla realtà oggettiva delle cose. Sta qui il
motivo di tante ricerche, in particolare nel campo delle scienze, che hanno
portato negli ultimi secoli a così significativi risultati, favorendo un
autentico progresso dell'umanità intera.
Non meno
importante della ricerca in ambito teoretico è quella in ambito pratico:
intendo alludere alla ricerca della verità in rapporto al bene da compiere. Con
il proprio agire etico, infatti, la persona, operando secondo il suo libero e
retto volere, si introduce nella strada della felicità e tende verso la
perfezione. Anche in questo caso si tratta di verità. Ho ribadito questa
convinzione nella Lettera enciclica Veritatis splendor: « Non si dà
morale senza libertà [...]. Se esiste il diritto di essere rispettati nel
proprio cammino di ricerca della verità, esiste ancora prima l'obbligo morale
grave per ciascuno di cercare la verità e di aderirvi una volta conosciuta
».(25)
E necessario,
dunque, che i valori scelti e perseguiti con la propria vita siano veri, perché
soltanto valori veri possono perfezionare la persona realizzandone la natura.
Questa verità dei valori, l'uomo la trova non rinchiudendosi in se stesso ma
aprendosi ad accoglierla anche nelle dimensioni che lo trascendono. E questa
una condizione necessaria perché ognuno diventi se stesso e cresca come persona
adulta e matura.
26. La verità
inizialmente si presenta all'uomo in forma interrogativa: ha un senso la
vita? verso dove è diretta? A prima vista, l'esistenza personale potrebbe
presentarsi radicalmente priva di senso. Non è necessario ricorrere ai filosofi
dell'assurdo né alle provocatorie domande che si ritrovano nel Libro di Giobbe
per dubitare del senso della vita. L'esperienza quotidiana della sofferenza,
propria ed altrui, la vista di tanti fatti che alla luce della ragione appaiono
inspiegabili, bastano a rendere ineludibile una questione così drammatica come
quella sul senso.(26) A ciò si aggiunga che la prima verità assolutamente certa
della nostra esistenza, oltre al fatto che esistiamo, è l'inevitabilità della
nostra morte. Di fronte a questo dato sconcertante s'impone la ricerca di una
risposta esaustiva. Ognuno vuole — e deve — conoscere la verità sulla propria
fine. Vuole sapere se la morte sarà il termine definitivo della sua esistenza o
se vi è qualcosa che oltrepassa la morte; se gli è consentito sperare in una
vita ulteriore oppure no. Non è senza significato che il pensiero filosofico
abbia ricevuto un suo decisivo orientamento dalla morte di Socrate e ne sia
rimasto segnato da oltre due millenni. Non è affatto casuale, quindi, che i
filosofi dinanzi al fatto della morte si siano riproposti sempre di nuovo
questo problema insieme con quello sul senso della vita e dell'immortalità.
27. A questi
interrogativi nessuno può sfuggire, né il filosofo né l'uomo comune. Dalla
risposta ad essi data dipende una tappa decisiva della ricerca: se sia
possibile o meno raggiungere una verità universale e assoluta. Di per sé, ogni
verità anche parziale, se è realmente verità, si presenta come universale. Ciò
che è vero, deve essere vero per tutti e per sempre. Oltre a questa
universalità, tuttavia, l'uomo cerca un assoluto che sia capace di dare
risposta e senso a tutta la sua ricerca: qualcosa di ultimo, che si ponga come
fondamento di ogni cosa. In altre parole, egli cerca una spiegazione
definitiva, un valore supremo, oltre il quale non vi siano né vi possano essere
interrogativi o rimandi ulteriori. Le ipotesi possono affascinare, ma non
soddisfano. Viene per tutti il momento in cui, lo si ammetta o no, si ha
bisogno di ancorare la propria esistenza ad una verità riconosciuta come
definitiva, che dia certezza non più sottoposta al dubbio.
I filosofi, nel
corso dei secoli, hanno cercato di scoprire e di esprimere una simile verità,
dando vita a un sistema o una scuola di pensiero. Al di là dei sistemi
filosofici, tuttavia, vi sono altre espressioni in cui l'uomo cerca di dare
forma a una sua « filosofia »: si tratta di convinzioni o esperienze personali,
di tradizioni familiari e culturali o di itinerari esistenziali in cui ci si
affida all'autorità di un maestro. In ognuna di queste manifestazioni ciò che
permane sempre vivo è il desiderio di raggiungere la certezza della verità e
del suo valore assoluto.
I
differenti volti della verità dell'uomo
28. Non sempre, è
doveroso riconoscerlo, la ricerca della verità si presenta con una simile
trasparenza e consequenzialità. La nativa limitatezza della ragione e
l'incostanza del cuore oscurano e deviano spesso la ricerca personale. Altri
interessi di vario ordine possono sopraffare la verità. Succede anche che
l'uomo addirittura la sfugga non appena comincia ad intravederla, perché ne
teme le esigenze. Nonostante questo, anche quando la evita, è sempre la verità
ad influenzarne l'esistenza. Mai, infatti, egli potrebbe fondare la propria
vita sul dubbio, sull'incertezza o sulla menzogna; una simile esistenza sarebbe
minacciata costantemente dalla paura e dall'angoscia. Si può definire, dunque,
l'uomo come colui che cerca la verità.
29. Non è
pensabile che una ricerca così profondamente radicata nella natura umana possa
essere del tutto inutile e vana. La stessa capacità di cercare la verità e di
porre domande implica già una prima risposta. L'uomo non inizierebbe a cercare
ciò che ignorasse del tutto o stimasse assolutamente irraggiungibile. Solo la
prospettiva di poter arrivare ad una risposta può indurlo a muovere il primo passo.
Di fatto, proprio questo è ciò che normalmente accade nella ricerca
scientifica. Quando uno scienziato, a seguito di una sua intuizione, si pone
alla ricerca della spiegazione logica e verificabile di un determinato
fenomeno, egli ha fiducia fin dall'inizio di trovare una risposta, e non
s'arrende davanti agli insuccessi. Egli non ritiene inutile l'intuizione
originaria solo perché non ha raggiunto l'obiettivo; con ragione dirà piuttosto
che non ha trovato ancora la risposta adeguata.
La stessa cosa deve
valere anche per la ricerca della verità nell'ambito delle questioni ultime. La
sete di verità è talmente radicata nel cuore dell'uomo che il doverne
prescindere comprometterebbe l'esistenza. E sufficiente, insomma, osservare la
vita di tutti i giorni per costatare come ciascuno di noi porti in sé l'assillo
di alcune domande essenziali ed insieme custodisca nel proprio animo almeno
l'abbozzo delle relative risposte. Sono risposte della cui verità si è
convinti, anche perché si sperimenta che, nella sostanza, non differiscono
dalle risposte a cui sono giunti tanti altri. Certo, non ogni verità che viene
acquisita possiede lo stesso valore. Dall'insieme dei risultati raggiunti,
tuttavia, viene confermata la capacità che l'essere umano ha di pervenire, in linea
di massima, alla verità.
30. Può essere
utile, ora, fare un rapido cenno a queste diverse forme di verità. Le più
numerose sono quelle che poggiano su evidenze immediate o trovano conferma per
via di esperimento. E questo l'ordine di verità proprio della vita quotidiana e
della ricerca scientifica. A un altro livello si trovano le verità di carattere
filosofico, a cui l'uomo giunge mediante la capacità speculativa del suo
intelletto. Infine, vi sono le verità religiose, che in qualche misura
affondano le loro radici anche nella filosofia. Esse sono contenute nelle
risposte che le varie religioni nelle loro tradizioni offrono alle domande
ultime.(27)
Quanto alle
verità filosofiche, occorre precisare che esse non si limitano alle sole
dottrine, talvolta effimere, dei filosofi di professione. Ogni uomo, come già
ho detto, è in certo qual modo un filosofo e possiede proprie concezioni
filosofiche con le quali orienta la sua vita. In un modo o in un altro, egli si
forma una visione globale e una risposta sul senso della propria esistenza: in
tale luce egli interpreta la propria vicenda personale e regola il suo
comportamento. E qui che dovrebbe porsi la domanda sul rapporto tra le verità
filosofico-religiose e la verità rivelata in Gesù Cristo. Prima di rispondere a
questo interrogativo è opportuno valutare un ulteriore dato della filosofia.
31. L'uomo non è
fatto per vivere solo. Egli nasce e cresce in una famiglia, per inserirsi più
tardi con il suo lavoro nella società. Fin dalla nascita, quindi, si trova immerso
in varie tradizioni, dalle quali riceve non soltanto il linguaggio e la
formazione culturale, ma anche molteplici verità a cui, quasi istintivamente,
crede. La crescita e la maturazione personale, comunque, implicano che queste
stesse verità possano essere messe in dubbio e vagliate attraverso la peculiare
attività critica del pensiero. Ciò non toglie che, dopo questo passaggio,
quelle stesse verità siano « ricuperate » sulla base dell'esperienza che se ne
è fatta, o in forza del ragionamento successivo. Nonostante questo, nella vita
di un uomo le verità semplicemente credute rimangono molto più numerose di
quelle che egli acquisisce mediante la personale verifica. Chi, infatti,
sarebbe in grado di vagliare criticamente gli innumerevoli risultati delle
scienze su cui la vita moderna si fonda? Chi potrebbe controllare per conto
proprio il flusso delle informazioni, che giorno per giorno si ricevono da ogni
parte del mondo e che pure si accettano, in linea di massima, come vere? Chi,
infine, potrebbe rifare i cammini di esperienza e di pensiero per cui si sono
accumulati i tesori di saggezza e di religiosità dell'umanità? L'uomo, essere
che cerca la verità, è dunque anche colui che vive di credenza.
32. Nel credere,
ciascuno si affida alle conoscenze acquisite da altre persone. E ravvisabile in
ciò una tensione significativa: da una parte, la conoscenza per credenza appare
come una forma imperfetta di conoscenza, che deve perfezionarsi
progressivamente mediante l'evidenza raggiunta personalmente; dall'altra, la
credenza risulta spesso umanamente più ricca della semplice evidenza, perché
include un rapporto interpersonale e mette in gioco non solo le personali
capacità conoscitive, ma anche la capacità più radicale di affidarsi ad altre
persone, entrando in un rapporto più stabile ed intimo con loro.
E bene
sottolineare che le verità ricercate in questa relazione interpersonale non
sono primariamente nell'ordine fattuale o in quello filosofico. Ciò che viene
richiesto, piuttosto, è la verità stessa della persona: ciò che essa è e ciò
che manifesta del proprio intimo. La perfezione dell'uomo, infatti, non sta
nella sola acquisizione della conoscenza astratta della verità, ma consiste
anche in un rapporto vivo di donazione e di fedeltà verso l'altro. In questa
fedeltà che sa donarsi, l'uomo trova piena certezza e sicurezza. Al tempo
stesso, però, la conoscenza per credenza, che si fonda sulla fiducia
interpersonale, non è senza riferimento alla verità: l'uomo, credendo, si
affida alla verità che l'altro gli manifesta.
Quanti esempi si
potrebbero portare per illustrare questo dato! Il mio pensiero, però, corre
direttamente alla testimonianza dei martiri. Il martire, in effetti, è il più
genuino testimone della verità sull'esistenza. Egli sa di avere trovato
nell'incontro con Gesù Cristo la verità sulla sua vita e niente e nessuno potrà
mai strappargli questa certezza. Né la sofferenza né la morte violenta lo
potranno fare recedere dall'adesione alla verità che ha scoperto nell'incontro
con Cristo. Ecco perché fino ad oggi la testimonianza dei martiri affascina,
genera consenso, trova ascolto e viene seguita. Questa è la ragione per cui ci
si fida della loro parola: si scopre in essi l'evidenza di un amore che non ha
bisogno di lunghe argomentazioni per essere convincente, dal momento che parla
ad ognuno di ciò che egli nel profondo già percepisce come vero e ricercato da
tanto tempo. Il martire, insomma, provoca in noi una profonda fiducia, perché
dice ciò che noi già sentiamo e rende evidente ciò che anche noi vorremmo
trovare la forza di esprimere.
33. Si può così
vedere che i termini del problema vanno progressivamente completandosi. L'uomo,
per natura, ricerca la verità. Questa ricerca non è destinata solo alla
conquista di verità parziali, fattuali o scientifiche; egli non cerca soltanto
il vero bene per ognuna delle sue decisioni. La sua ricerca tende verso una
verità ulteriore che sia in grado di spiegare il senso della vita; è perciò una
ricerca che non può trovare esito se non nell'assoluto.(28) Grazie alle
capacità insite nel pensiero, l'uomo è in grado di incontrare e riconoscere una
simile verità. In quanto vitale ed essenziale per la sua esistenza, tale verità
viene raggiunta non solo per via razionale, ma anche mediante l'abbandono
fiducioso ad altre persone, che possono garantire la certezza e l'autenticità
della verità stessa. La capacità e la scelta di affidare se stessi e la propria
vita a un'altra persona costituiscono certamente uno degli atti antropologicamente
più significativi ed espressivi.
Non si dimentichi
che anche la ragione ha bisogno di essere sostenuta nella sua ricerca da un
dialogo fiducioso e da un'amicizia sincera. Il clima di sospetto e di
diffidenza, che a volte circonda la ricerca speculativa, dimentica
l'insegnamento dei filosofi antichi, i quali ponevano l'amicizia come uno dei
contesti più adeguati per il retto filosofare.
Da quanto ho fin
qui detto, risulta che l'uomo si trova in un cammino di ricerca, umanamente
interminabile: ricerca di verità e ricerca di una persona a cui affidarsi. La
fede cristiana gli viene incontro offrendogli la possibilità concreta di vedere
realizzato lo scopo di questa ricerca. Superando lo stadio della semplice
credenza, infatti, essa immette l'uomo in quell'ordine di grazia che gli
consente di partecipare al mistero di Cristo, nel quale gli è offerta la
conoscenza vera e coerente del Dio Uno e Trino. Così in Gesù Cristo, che è la
Verità, la fede riconosce l'ultimo appello che viene rivolto all'umanità,
perché possa dare compimento a ciò che sperimenta come desiderio e nostalgia.
34. Questa
verità, che Dio ci rivela in Gesù Cristo, non è in contrasto con le verità che
si raggiungono filosofando. I due ordini di conoscenza conducono anzi alla
verità nella sua pienezza. L'unità della verità è già un postulato fondamentale
della ragione umana, espresso nel principio di non-contraddizione. La
Rivelazione dà la certezza di questa unità, mostrando che il Dio creatore è
anche il Dio della storia della salvezza. Lo stesso e identico Dio, che fonda e
garantisce l'intelligibilità e la ragionevolezza dell'ordine naturale delle
cose su cui gli scienziati si appoggiano fiduciosi,(29) è il medesimo che si
rivela Padre di nostro Signore Gesù Cristo. Quest'unità della verità, naturale
e rivelata, trova la sua identificazione viva e personale in Cristo, così come
ricorda l'Apostolo: « La verità che è in Gesù » (Ef 4, 21; cfr Col 1,
15-20). Egli è la Parola eterna, in cui tutto è stato creato, ed è
insieme la Parola incarnata, che in tutta la sua persona (30) rivela il
Padre (cfr Gv 1, 14.18). Ciò che la ragione umana cerca « senza
conoscerlo » (cfr At 17, 23), può essere trovato soltanto per mezzo di
Cristo: ciò che in Lui si rivela, infatti, è la « piena verità » (cfr Gv 1,
14-16) di ogni essere che in Lui e per Lui è stato creato e quindi in Lui trova
compimento (cfr Col 1, 17).
35. Sullo sfondo
di queste considerazioni generali, è necessario ora esaminare in maniera più
diretta il rapporto tra la verità rivelata e la filosofia. Questo rapporto
impone una duplice considerazione, in quanto la verità che ci proviene dalla
Rivelazione è, nello stesso tempo, una verità che va compresa alla luce della
ragione. Solo in questa duplice accezione, infatti, è possibile precisare la
giusta relazione della verità rivelata con il sapere filosofico. Consideriamo,
pertanto, in primo luogo i rapporti tra la fede e la filosofia nel corso della
storia. Da qui sarà possibile individuare alcuni principi, che costituiscono i
punti di riferimento a cui rifarsi per stabilire il corretto rapporto tra i due
ordini di conoscenza.
CAPITOLO IV
IL RAPPORTO
TRA LA FEDE E LA RAGIONE
Tappe
significative dell'incontro tra fede e ragione
36. Secondo la
testimonianza degli Atti degli Apostoli, l'annuncio cristiano venne a confronto
sin dagli inizi con le correnti filosofiche del tempo. Lo stesso libro
riferisce della discussione che san Paolo ebbe ad Atene con « certi filosofi
epicurei e stoici » (17, 18). L'analisi esegetica di quel discorso all'Areopago
ha posto in evidenza le ripetute allusioni a convincimenti popolari di
provenienza per lo più stoica. Certamente ciò non era casuale. Per farsi
comprendere dai pagani, i primi cristiani non potevano nei loro discorsi
rinviare soltanto « a Mosè e ai profeti »; dovevano anche far leva sulla
conoscenza naturale di Dio e sulla voce della coscienza morale di ogni uomo
(cfr Rm 1, 19-21; 2, 14-15; At 14, 16-17). Poiché però tale conoscenza
naturale, nella religione pagana, era scaduta in idolatria (cfr Rm 1,
21-32), l'Apostolo ritenne più saggio collegare il suo discorso al pensiero dei
filosofi, i quali fin dagli inizi avevano opposto ai miti e ai culti misterici
concetti più rispettosi della trascendenza divina.
Uno degli sforzi
maggiori che i filosofi del pensiero classico operarono, infatti, fu quello di
purificare la concezione che gli uomini avevano di Dio da forme mitologiche.
Come sappiamo, anche la religione greca, non diversamente da gran parte delle
religioni cosmiche, era politeista, giungendo fino a divinizzare cose e
fenomeni della natura. I tentativi dell'uomo di comprendere l'origine degli dei
e, in loro, dell'universo trovarono la loro prima espressione nella poesia. Le
teogonie rimangono, fino ad oggi, la prima testimonianza di questa ricerca
dell'uomo. Fu compito dei padri della filosofia far emergere il legame tra la
ragione e la religione. Allargando lo sguardo verso i principi universali, essi
non si accontentarono più dei miti antichi, ma vollero giungere a dare
fondamento razionale alla loro credenza nella divinità. Si intraprese, così,
una strada che, uscendo dalle tradizioni antiche particolari, si immetteva in
uno sviluppo che corrispondeva alle esigenze della ragione universale. Il fine
verso cui tale sviluppo tendeva era la consapevolezza critica di ciò in cui si
credeva. La prima a trarre vantaggio da simile cammino fu la concezione della
divinità. Le superstizioni vennero riconosciute come tali e la religione fu,
almeno in parte, purificata mediante l'analisi razionale. Fu su questa base che
i Padri della Chiesa avviarono un dialogo fecondo con i filosofi antichi,
aprendo la strada all'annuncio e alla comprensione del Dio di Gesù Cristo.
37.
Nell'accennare a questo movimento di avvicinamento dei cristiani alla
filosofia, è doveroso ricordare anche l'atteggiamento di cautela che in essi
suscitavano altri elementi del mondo culturale pagano, quali ad esempio la
gnosi. La filosofia, come saggezza pratica e scuola di vita, poteva facilmente
essere confusa con una conoscenza di tipo superiore, esoterico, riservato a
pochi perfetti. E senza dubbio a questo genere di speculazioni esoteriche che
san Paolo pensa, quando mette in guardia i Colossesi: « Badate che nessuno vi
inganni con la sua filosofia e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana,
secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo » (2, 8). Quanto mai
attuali si presentano le parole dell'Apostolo, se le riferiamo alle diverse
forme di esoterismo che dilagano oggi anche presso alcuni credenti, privi del
dovuto senso critico. Sulle orme di san Paolo, altri scrittori dei primi
secoli, in particolare sant'Ireneo e Tertulliano, sollevano a loro volta
riserve nei confronti di un'impostazione culturale che pretendeva di
subordinare la verità della Rivelazione all'interpretazione dei filosofi.
38. L'incontro
del cristianesimo con la filosofia, dunque, non fu immediato né facile. La
pratica di essa e la frequentazione delle scuole apparve ai primi cristiani più
come un disturbo che come un'opportunità. Per loro, primo e urgente dovere era
l'annuncio di Cristo risorto da proporre in un incontro personale capace di
condurre l'interlocutore alla conversione del cuore e alla richiesta del
Battesimo. Ciò non significa, comunque, che essi ignorassero il compito di
approfondire l'intelligenza della fede e delle sue motivazioni. Tutt'altro.
Ingiusta e pretestuosa, pertanto, risulta la critica di Celso, che accusa i
cristiani di essere gente « illetterata e rozza ».(31) La spiegazione di questo
loro iniziale disinteresse va ricercata altrove. In realtà, l'incontro con il
Vangelo offriva una risposta così appagante alla questione, fino a quel momento
ancora non risolta, circa il senso della vita, che la frequentazione dei
filosofi appariva loro come una cosa lontana e, per alcuni versi, superata.
Ciò appare oggi
ancora più chiaro, se si pensa a quell'apporto del cristianesimo che consiste
nell'affermazione dell'universale diritto d'accesso alla verità. Abbattute le
barriere razziali, sociali e sessuali, il cristianesimo aveva annunciato fin
dai suoi inizi l'uguaglianza di tutti gli uomini dinanzi a Dio. La prima
conseguenza di questa concezione si applicava al tema della verità. Veniva
decisamente superato il carattere elitario che la sua ricerca aveva presso gli
antichi: poiché l'accesso alla verità è un bene che permette di giungere a Dio,
tutti devono essere nella condizione di poter percorrere questa strada. Le vie
per raggiungere la verità rimangono molteplici; tuttavia, poiché la verità
cristiana ha un valore salvifico, ciascuna di queste vie può essere percorsa,
purché conduca alla meta finale, ossia alla rivelazione di Gesù Cristo.
Quale pioniere di
un incontro positivo col pensiero filosofico, anche se nel segno di un cauto
discernimento, va ricordato san Giustino: questi, pur conservando anche dopo la
conversione grande stima per la filosofia greca, asseriva con forza e chiarezza
di aver trovato nel cristianesimo « l'unica sicura e proficua filosofia ».(32)
Similmente, Clemente Alessandrino chiamava il Vangelo « la vera filosofia
»,(33) e interpretava la filosofia in analogia alla legge mosaica come una
istruzione propedeutica alla fede cristiana (34) e una preparazione al
Vangelo.(35) Poiché « la filosofia brama quella sapienza che consiste nella
rettitudine dell'anima e della parola e nella purezza della vita, essa è ben
disposta verso la sapienza e fa tutto il possibile per raggiungerla. Presso di
noi si dicono filosofi coloro che amano la sapienza che è creatrice e maestra
di ogni cosa, cioè la conoscenza del Figlio di Dio ».(36) La filosofia greca,
per l'Alessandrino, non ha come primo scopo quello di completare o rafforzare
la verità cristiana; suo compito è, piuttosto, la difesa della fede: « La
dottrina del Salvatore è perfetta in se stessa e non ha bisogno di appoggio,
perché essa è la forza e la sapienza di Dio. La filosofia greca, col suo
apporto, non rende più forte la verità, ma siccome rende impotente l'attacco
della sofistica e disarma gli attacchi proditori contro la verità, la si è
chiamata a ragione siepe e muro di cinta della vigna ».(37)
39. Nella storia
di questo sviluppo è possibile, comunque, verificare l'assunzione critica del
pensiero filosofico da parte dei pensatori cristiani. Tra i primi esempi che si
possono incontrare, quello di Origene è certamente significativo. Contro gli
attacchi che venivano mossi dal filosofo Celso, Origene assume la filosofia
platonica per argomentare e rispondergli. Riferendosi a non pochi elementi del
pensiero platonico, egli inizia a elaborare una prima forma di teologia
cristiana. Il nome stesso, infatti, insieme con l'idea di teologia come
discorso razionale su Dio, fino a quel momento era ancora legato alla sua
origine greca. Nella filosofia aristotelica, ad esempio, il nome designava la
parte più nobile e il vero apogeo del discorso filosofico. Alla luce della
Rivelazione cristiana, invece, ciò che in precedenza indicava una generica
dottrina sulle divinità venne ad assumere un significato del tutto nuovo, in
quanto definiva la riflessione che il credente compiva per esprimere la vera
dottrina su Dio. Questo nuovo pensiero cristiano che si andava sviluppando
si avvaleva della filosofia, ma nello stesso tempo tendeva a distinguersi
nettamente da essa. La storia mostra come lo stesso pensiero platonico assunto
in teologia abbia subito profonde trasformazioni, in particolare per quanto
riguarda concetti quali l'immortalità dell'anima, la divinizzazione dell'uomo e
l'origine del male.
40. In
quest'opera di cristianizzazione del pensiero platonico e neoplatonico,
meritano particolare menzione i Padri Cappadoci, Dionigi detto l'Areopagita e
soprattutto sant'Agostino. Il grande Dottore occidentale era venuto a contatto
con diverse scuole filosofiche, ma tutte lo avevano deluso. Quando davanti a
lui si affacciò la verità della fede cristiana, allora ebbe la forza di
compiere quella radicale conversione a cui i filosofi precedentemente
frequentati non erano riusciti ad indurlo. Il motivo lo racconta lui stesso: «
Dal quel momento però cominciai a rendermi conto che una preferenza per
l'insegnamento cattolico mi avrebbe imposto di credere a cose non dimostrate
(sia che una dimostrazione ci fosse ma non apparisse convincente, sia che non
ci fosse del tutto) in misura minore e con rischio d'errore trascurabile in
confronto all'insegnamento manicheo. Il quale prima si prendeva gioco della
credulità con temerarie promesse di conoscenza, e poi imponeva di credere a
tante fantasie favolose ed assurde, dato che non poteva dimostrarle ».(38) Agli
stessi platonici, a cui si faceva riferimento in modo privilegiato, Agostino
rimproverava che, pur avendo conosciuto il fine verso cui tendere, avevano
ignorato però la via che vi conduce: il Verbo incarnato.(39) Il Vescovo di
Ippona riuscì a produrre la prima grande sintesi del pensiero filosofico e
teologico nella quale confluivano correnti del pensiero greco e latino. Anche
in lui, la grande unità del sapere, che trovava il suo fondamento nel pensiero
biblico, venne ad essere confermata e sostenuta dalla profondità del pensiero
speculativo. La sintesi compiuta da sant'Agostino rimarrà per secoli come la
forma più alta della speculazione filosofica e teologica che l'Occidente abbia
conosciuto. Forte della sua storia personale e aiutato da una mirabile santità
di vita, egli fu anche in grado di introdurre nelle sue opere molteplici dati
che, facendo riferimento all'esperienza, preludevano a futuri sviluppi di
alcune correnti filosofiche.
41. Diverse,
dunque, sono state le forme con cui i Padri d'Oriente e d'Occidente sono
entrati in rapporto con le scuole filosofiche. Ciò non significa che essi
abbiano identificato il contenuto del loro messaggio con i sistemi a cui
facevano riferimento. La domanda di Tertulliano: « Che cosa hanno in comune
Atene e Gerusalemme? Che cosa l'Accademia e la Chiesa? »,(40) è chiaro sintomo
della coscienza critica con cui i pensatori cristiani, fin dalle origini,
affrontarono il problema del rapporto tra la fede e la filosofia, vedendolo
globalmente nei suoi aspetti positivi e nei suoi limiti. Non erano pensatori
ingenui. Proprio perché vivevano intensamente il contenuto della fede, essi
sapevano raggiungere le forme più profonde della speculazione. E pertanto
ingiusto e riduttivo limitare la loro opera alla sola trasposizione delle
verità di fede in categorie filosofiche. Fecero molto di più. Riuscirono, infatti,
a far emergere in pienezza quanto risultava ancora implicito e propedeutico nel
pensiero dei grandi filosofi antichi.(41) Costoro, come ho detto, avevano avuto
il compito di mostrare in quale modo la ragione, liberata dai vincoli esterni,
potesse uscire dal vicolo cieco dei miti, per aprirsi in modo più adeguato alla
trascendenza. Una ragione purificata e retta, quindi, era in grado di elevarsi
ai livelli più alti della riflessione, dando fondamento solido alla percezione
dell'essere, del trascendente e dell'assoluto.
Proprio qui si
inserisce la novità operata dai Padri. Essi accolsero in pieno la ragione
aperta all'assoluto e in essa innestarono la ricchezza proveniente dalla
Rivelazione. L'incontro non fu solo a livello di culture, delle quali l'una
succube forse del fascino dell'altra; esso avvenne nell'intimo degli animi e fu
incontro tra la creatura e il suo Creatore. Oltrepassando il fine stesso verso
cui inconsapevolmente tendeva in forza della sua natura, la ragione poté
raggiungere il sommo bene e la somma verità nella persona del Verbo incarnato.
Dinanzi alle filosofie, i Padri non ebbero tuttavia timore di riconoscere tanto
gli elementi comuni quanto le diversità che esse presentavano rispetto alla
Rivelazione. La coscienza delle convergenze non offuscava in loro il
riconoscimento delle differenze.
42. Nella
teologia scolastica il ruolo della ragione filosoficamente educata diventa
ancora più cospicuo sotto la spinta dell'interpretazione anselmiana dell'intellectus
fidei. Per il santo Arcivescovo di Canterbury la priorità della fede non è
competitiva con la ricerca propria della ragione. Questa, infatti, non è
chiamata a esprimere un giudizio sui contenuti della fede; ne sarebbe incapace,
perché a ciò non idonea. Suo compito, piuttosto, è quello di saper trovare un
senso, di scoprire delle ragioni che permettano a tutti di raggiungere una
qualche intelligenza dei contenuti di fede. Sant'Anselmo sottolinea il fatto
che l'intelletto deve porsi in ricerca di ciò che ama: più ama, più desidera conoscere.
Chi vive per la verità è proteso verso una forma di conoscenza che si infiamma
sempre più di amore per ciò che conosce, pur dovendo ammettere di non aver
ancora fatto tutto ciò che sarebbe nel suo desiderio: « Ad te videndum
factus sum; et nondum feci propter quod factus sum ».(42) Il desiderio di
verità spinge, dunque, la ragione ad andare sempre oltre; essa, anzi, viene
come sopraffatta dalla costatazione della sua capacità sempre più grande di ciò
che raggiunge. A questo punto, però, la ragione è in grado di scoprire ove stia
il compimento del suo cammino: « Penso infatti che chi investiga una cosa
incomprensibile debba accontentarsi di giungere con il ragionamento a
riconoscerne con somma certezza la realtà, anche se non è in grado di penetrare
con l'intelletto il suo modo di essere [...]. Che cosa c'è peraltro di tanto
incomprensibile ed inesprimibile quanto ciò che è al di sopra di ogni cosa? Se
dunque ciò di cui finora si è disputato intorno alla somma essenza è stato
stabilito su ragioni necessarie, quantunque non possa essere penetrato con
l'intelletto in modo da potersi chiarire anche verbalmente, non per questo
vacilla minimamente il fondamento della sua certezza. Se, infatti, una
precedente riflessione ha compreso in modo razionale che è incomprensibile (rationabiliter
comprehendit incomprehensibile esse) il modo in cui la sapienza superna sa
ciò che ha fatto [...], chi spiegherà come essa stessa si conosce e si dice,
essa di cui l'uomo nulla o pressoché nulla può sapere? ».(43)
L'armonia fondamentale
della conoscenza filosofica e della conoscenza di fede è ancora una volta
confermata: la fede chiede che il suo oggetto venga compreso con l'aiuto della
ragione; la ragione, al culmine della sua ricerca, ammette come necessario ciò
che la fede presenta.
La novità
perenne del pensiero di san Tommaso d'Aquino
43. Un posto
tutto particolare in questo lungo cammino spetta a san Tommaso, non solo per il
contenuto della sua dottrina, ma anche per il rapporto dialogico che egli seppe
instaurare con il pensiero arabo ed ebreo del suo tempo. In un'epoca in cui i
pensatori cristiani riscoprivano i tesori della filosofia antica, e più
direttamente aristotelica, egli ebbe il grande merito di porre in primo piano
l'armonia che intercorre tra la ragione e la fede. La luce della ragione e
quella della fede provengono entrambe da Dio, egli argomentava; perciò non
possono contraddirsi tra loro.(44)
Più radicalmente,
Tommaso riconosce che la natura, oggetto proprio della filosofia, può
contribuire alla comprensione della rivelazione divina. La fede, dunque, non
teme la ragione, ma la ricerca e in essa confida. Come la grazia suppone la
natura e la porta a compimento,(45) così la fede suppone e perfeziona la
ragione. Quest'ultima, illuminata dalla fede, viene liberata dalle fragilità e
dai limiti derivanti dalla disobbedienza del peccato e trova la forza
necessaria per elevarsi alla conoscenza del mistero di Dio Uno e Trino. Pur
sottolineando con forza il carattere soprannaturale della fede, il Dottore
Angelico non ha dimenticato il valore della sua ragionevolezza; ha saputo,
anzi, scendere in profondità e precisare il senso di tale ragionevolezza. La
fede, infatti, è in qualche modo « esercizio del pensiero »; la ragione
dell'uomo non si annulla né si avvilisce dando l'assenso ai contenuti di fede;
questi sono in ogni caso raggiunti con scelta libera e consapevole.(46)
E per questo
motivo che, giustamente, san Tommaso è sempre stato proposto dalla Chiesa come
maestro di pensiero e modello del retto modo di fare teologia. Mi piace
ricordare, in questo contesto, quanto ha scritto il mio Predecessore, il Servo
di Dio Paolo VI, in occasione del settimo centenario della morte del Dottore
Angelico: « Senza dubbio, Tommaso possedette al massimo grado il coraggio della
verità, la libertà di spirito nell'affrontare i nuovi problemi, l'onestà
intellettuale di chi non ammette la contaminazione del cristianesimo con la
filosofia profana, ma nemmeno il rifiuto aprioristico di questa. Perciò, egli
passò alla storia del pensiero cristiano come un pioniere sul nuovo cammino
della filosofia e della cultura universale. Il punto centrale e quasi il
nocciolo della soluzione che egli diede al problema del nuovo confronto tra la
ragione e la fede con la genialità del suo intuito profetico, è stato quello
della conciliazione tra la secolarità del mondo e la radicalità del Vangelo,
sfuggendo così alla innaturale tendenza negatrice del mondo e dei suoi valori,
senza peraltro venire meno alle supreme e inflessibili esigenze dell'ordine
soprannaturale ».(47)
44. Tra le grandi
intuizioni di san Tommaso vi è anche quella relativa al ruolo che lo Spirito
Santo svolge nel far maturare in sapienza la scienza umana. Fin dalle prime
pagine della sua Summa Theologiae (48) l'Aquinate volle mostrare il
primato di quella sapienza che è dono dello Spirito Santo ed introduce alla
conoscenza delle realtà divine. La sua teologia permette di comprendere la
peculiarità della sapienza nel suo stretto legame con la fede e la conoscenza
divina. Essa conosce per connaturalità, presuppone la fede e arriva a formulare
il suo retto giudizio a partire dalla verità della fede stessa: « La sapienza
elencata tra i doni dello Spirito Santo è distinta da quella che è posta tra le
virtù intellettuali. Infatti quest'ultima si acquista con lo studio: quella
invece “viene dall'alto”, come si esprime san Giacomo. Così pure è distinta
dalla fede. Poiché la fede accetta la verità divina così com'è, invece è
proprio del dono di sapienza giudicare secondo la verità divina ».(49)
La priorità riconosciuta
a questa sapienza, tuttavia, non fa dimenticare al Dottore Angelico la presenza
di altre due complementari forme di sapienza: quella filosofica, che si
fonda sulla capacità che l'intelletto ha, entro i limiti che gli sono
connaturali, di indagare la realtà; e quella teologica, che si fonda
sulla Rivelazione ed esamina i contenuti della fede, raggiungendo il mistero
stesso di Dio.
Intimamente
convinto che « omne verum a quocumque dicatur a Spiritu Sancto est »,(50)
san Tommaso amò in maniera disinteressata la verità. Egli la cercò dovunque
essa si potesse manifestare, evidenziando al massimo la sua universalità. In
lui, il Magistero della Chiesa ha visto ed apprezzato la passione per la
verità; il suo pensiero, proprio perché si mantenne sempre nell'orizzonte della
verità universale, oggettiva e trascendente, raggiunse « vette che
l'intelligenza umana non avrebbe mai potuto pensare ».(51) Con ragione, quindi,
egli può essere definito « apostolo della verità ».(52) Proprio perché alla
verità mirava senza riserve, nel suo realismo egli seppe riconoscerne
l'oggettività. La sua è veramente la filosofia dell'essere e non del semplice
apparire.
Il dramma
della separazione tra fede e ragione
45. Con il
sorgere delle prime università, la teologia veniva a confrontarsi più
direttamente con altre forme della ricerca e del sapere scientifico.
Sant'Alberto Magno e san Tommaso, pur mantenendo un legame organico tra la
teologia e la filosofia, furono i primi a riconoscere la necessaria autonomia
di cui la filosofia e le scienze avevano bisogno, per applicarsi efficacemente
ai rispettivi campi di ricerca. A partire dal tardo Medio Evo, tuttavia, la
legittima distinzione tra i due saperi si trasformò progressivamente in una nefasta
separazione. A seguito di un eccessivo spirito razionalista, presente in alcuni
pensatori, si radicalizzarono le posizioni, giungendo di fatto a una filosofia
separata e assolutamente autonoma nei confronti dei contenuti della fede. Tra
le altre conseguenze di tale separazione vi fu anche quella di una diffidenza
sempre più forte nei confronti della stessa ragione. Alcuni iniziarono a
professare una sfiducia generale, scettica e agnostica, o per riservare più
spazio alla fede o per screditarne ogni possibile riferimento razionale.
Insomma, ciò che
il pensiero patristico e medievale aveva concepito e attuato come unità
profonda, generatrice di una conoscenza capace di arrivare alle forme più alte
della speculazione, venne di fatto distrutto dai sistemi che sposarono la causa
di una conoscenza razionale separata dalla fede e alternativa ad essa.
46. Le
radicalizzazioni più influenti sono note e ben visibili, soprattutto nella
storia dell'Occidente. Non è esagerato affermare che buona parte del pensiero
filosofico moderno si è sviluppato allontanandosi progressivamente dalla
Rivelazione cristiana, fino a raggiungere contrapposizioni esplicite. Nel
secolo scorso, questo movimento ha toccato il suo apogeo. Alcuni rappresentanti
dell'idealismo hanno cercato in diversi modi di trasformare la fede e i suoi
contenuti, perfino il mistero della morte e risurrezione di Gesù Cristo, in
strutture dialettiche razionalmente concepibili. A questo pensiero si sono
opposte diverse forme di umanesimo ateo, elaborate filosoficamente, che hanno
prospettato la fede come dannosa e alienante per lo sviluppo della piena
razionalità. Non hanno avuto timore di presentarsi come nuove religioni
formando la base di progetti che, sul piano politico e sociale, sono sfociati
in sistemi totalitari traumatici per l'umanità.
Nell'ambito della
ricerca scientifica si è venuta imponendo una mentalità positivista che non
soltanto si è allontanata da ogni riferimento alla visione cristiana del mondo,
ma ha anche, e soprattutto, lasciato cadere ogni richiamo alla visione
metafisica e morale. La conseguenza di ciò è che certi scienziati, privi di
ogni riferimento etico, rischiano di non avere più al centro del loro interesse
la persona e la globalità della sua vita. Di più: alcuni di essi, consapevoli delle
potenzialità insite nel progresso tecnologico, sembrano cedere, oltre che alla
logica del mercato, alla tentazione di un potere demiurgico sulla natura e
sullo stesso essere umano.
Come conseguenza
della crisi del razionalismo ha preso corpo, infine, il nichilismo.
Quale filosofia del nulla, esso riesce ad esercitare un suo fascino sui nostri
contemporanei. I suoi seguaci teorizzano la ricerca come fine a se stessa,
senza speranza né possibilità alcuna di raggiungere la meta della verità.
Nell'interpretazione nichilista, l'esistenza è solo un'opportunità per
sensazioni ed esperienze in cui l'effimero ha il primato. Il nichilismo è
all'origine di quella diffusa mentalità secondo cui non si deve assumere più
nessun impegno definitivo, perché tutto è fugace e provvisorio.
47. Non è da
dimenticare, d'altra parte, che nella cultura moderna è venuto a cambiare il
ruolo stesso della filosofia. Da saggezza e sapere universale, essa si è
ridotta progressivamente a una delle tante province del sapere umano; per alcuni
aspetti, anzi, è stata limitata a un ruolo del tutto marginale. Altre forme di
razionalità si sono nel frattempo affermate con sempre maggior rilievo, ponendo
in evidenza la marginalità del sapere filosofico. Invece che verso la
contemplazione della verità e la ricerca del fine ultimo e del senso della
vita, queste forme di razionalità sono orientate — o almeno orientabili — come
« ragione strumentale » al servizio di fini utilitaristici, di fruizione o di
potere.
Quanto sia
pericoloso assolutizzare questa strada l'ho fatto osservare fin dalla mia prima
Lettera enciclica quando scrivevo: « L'uomo di oggi sembra essere sempre
minacciato da ciò che produce, cioè dal risultato del lavoro delle sue mani e,
ancor più, del lavoro del suo intelletto, delle tendenze della sua volontà. I
frutti di questa multiforme attività dell'uomo, troppo presto e in modo spesso
imprevedibile, sono non soltanto e non tanto oggetto di 'alienazione', nel
senso che vengono semplicemente tolti a colui che li ha prodotti; quanto, almeno
parzialmente, in una cerchia conseguente e indiretta dei loro effetti, questi
frutti si rivolgono contro l'uomo stesso. Essi sono, infatti, diretti, o
possono essere diretti contro di lui. In questo sembra consistere l'atto
principale del dramma dell'esistenza umana contemporanea, nella sua più larga e
universale dimensione. L'uomo, pertanto, vive sempre più nella paura. Egli teme
che i suoi prodotti, naturalmente non tutti e non nella maggior parte, ma
alcuni e proprio quelli che contengono una speciale porzione della sua
genialità e della sua iniziativa, possano essere rivolti in modo radicale
contro lui stesso ».(53)
Sulla scia di
queste trasformazioni culturali, alcuni filosofi, abbandonando la ricerca della
verità per se stessa, hanno assunto come loro unico scopo il raggiungimento
della certezza soggettiva o dell'utilità pratica. Conseguenza di ciò è stato
l'offuscamento della vera dignità della ragione, non più messa nella condizione
di conoscere il vero e di ricercare l'assoluto.
48. Ciò che emerge
da questo ultimo scorcio di storia della filosofia è, dunque, la constatazione
di una progressiva separazione tra la fede e la ragione filosofica. E ben vero
che, ad una attenta osservazione, anche nella riflessione filosofica di coloro
che contribuirono ad allargare la distanza tra fede e ragione si manifestano
talvolta germi preziosi di pensiero, che, se approfonditi e sviluppati con
rettitudine di mente e di cuore, possono far scoprire il cammino della verità.
Questi germi di pensiero si trovano, ad esempio, nelle approfondite analisi
sulla percezione e l'esperienza, sull'immaginario e l'inconscio, sulla
personalità e l'intersoggettività, sulla libertà ed i valori, sul tempo e la
storia. Anche il tema della morte può diventare severo richiamo, per ogni
pensatore, a ricercare dentro di sé il senso autentico della propria esistenza.
Questo tuttavia non toglie che l'attuale rapporto tra fede e ragione richieda
un attento sforzo di discernimento, perché sia la ragione che la fede si sono
impoverite e sono divenute deboli l'una di fronte all'altra. La ragione,
privata dell'apporto della Rivelazione, ha percorso sentieri laterali che
rischiano di farle perdere di vista la sua meta finale. La fede, privata della
ragione, ha sottolineato il sentimento e l'esperienza, correndo il rischio di
non essere più una proposta universale. E illusorio pensare che la fede,
dinanzi a una ragione debole, abbia maggior incisività; essa, al contrario,
cade nel grave pericolo di essere ridotta a mito o superstizione. Alla stessa stregua,
una ragione che non abbia dinanzi una fede adulta non è provocata a puntare lo
sguardo sulla novità e radicalità dell'essere.
Non sembri fuori
luogo, pertanto, il mio richiamo forte e incisivo, perché la fede e la
filosofia recuperino l'unità profonda che le rende capaci di essere coerenti
con la loro natura nel rispetto della reciproca autonomia. Alla parresia della
fede deve corrispondere l'audacia della ragione.
CAPITOLO V
GLI INTERVENTI DEL MAGISTERO
IN MATERIA FILOSOFICA
Il
discernimento del Magistero come diaconia alla verità
49. La Chiesa non
propone una propria filosofia né canonizza una qualsiasi filosofia particolare
a scapito di altre.(54) La ragione profonda di questa riservatezza sta nel
fatto che la filosofia, anche quando entra in rapporto con la teologia, deve
procedere secondo i suoi metodi e le sue regole; non vi sarebbe altrimenti
garanzia che essa rimanga orientata verso la verità e ad essa tenda con un
processo razionalmente controllabile. Di poco aiuto sarebbe una filosofia che
non procedesse alla luce della ragione secondo propri principi e specifiche
metodologie. In fondo, la radice della autonomia di cui gode la filosofia è da
individuare nel fatto che la ragione è per sua natura orientata alla verità ed
è inoltre in se stessa fornita dei mezzi necessari per raggiungerla. Una
filosofia consapevole di questo suo « statuto costitutivo » non può non
rispettare anche le esigenze e le evidenze proprie della verità rivelata.
La storia,
tuttavia, ha mostrato le deviazioni e gli errori in cui non di rado il pensiero
filosofico, soprattutto moderno, è incorso. Non è compito né competenza del
Magistero intervenire per colmare le lacune di un discorso filosofico carente.
E suo obbligo, invece, reagire in maniera chiara e forte quando tesi
filosofiche discutibili minacciano la retta comprensione del dato rivelato e
quando si diffondono teorie false e di parte che seminano gravi errori,
confondendo la semplicità e la purezza della fede del popolo di Dio.
50. Il Magistero
ecclesiastico, quindi, può e deve esercitare autoritativamente, alla luce della
fede, il proprio discernimento critico nei confronti delle filosofie e delle
affermazioni che si scontrano con la dottrina cristiana.(55) Al Magistero
spetta di indicare, anzitutto, quali presupposti e conclusioni filosofiche
sarebbero incompatibili con la verità rivelata, formulando con ciò stesso le
esigenze che si impongono alla filosofia dal punto di vista della fede. Nello
sviluppo del sapere filosofico, inoltre, sono sorte diverse scuole di pensiero.
Anche questo pluralismo pone il Magistero di fronte alla responsabilità di
esprimere il suo giudizio circa la compatibilità o meno delle concezioni di
fondo, a cui queste scuole si attengono, con le esigenze proprie della Parola
di Dio e della riflessione teologica.
La Chiesa ha il
dovere di indicare ciò che in un sistema filosofico può risultare incompatibile
con la sua fede. Molti contenuti filosofici, infatti, quali i temi di Dio,
dell'uomo, della sua libertà e del suo agire etico, la chiamano in causa
direttamente, perché toccano la verità rivelata che essa custodisce. Quando
esercitiamo questo discernimento, noi Vescovi abbiamo il compito di essere «
testimoni della verità » nell'adempimento di una diaconia umile ma tenace,
quale ogni filosofo dovrebbe apprezzare, a vantaggio della recta ratio, ossia
della ragione che riflette correttamente sul vero.
51. Questo
discernimento, comunque, non deve essere inteso primariamente in forma
negativa, come se intenzione del Magistero fosse di eliminare o ridurre ogni
possibile mediazione. Al contrario, i suoi interventi sono tesi in primo luogo
a provocare, promuovere e incoraggiare il pensiero filosofico. I filosofi per
primi, d'altronde, comprendono l'esigenza dell'autocritica, della correzione di
eventuali errori e la necessità di oltrepassare i limiti troppo ristretti in
cui la loro riflessione è concepita. Si deve considerare, in modo particolare,
che una è la verità, benché le sue espressioni portino l'impronta della storia
e, per di più, siano opera di una ragione umana ferita e indebolita dal
peccato. Da ciò risulta che nessuna forma storica della filosofia può
legittimamente pretendere di abbracciare la totalità della verità, né di essere
la spiegazione piena dell'essere umano, del mondo e del rapporto dell'uomo con
Dio.
Oggi poi, col
moltiplicarsi dei sistemi, dei metodi, dei concetti e argomenti filosofici,
spesso estremamente particolareggiati, un discernimento critico alla luce della
fede si impone con maggiore urgenza. Discernimento non facile, perché se è già
laborioso riconoscere le capacità congenite e inalienabili della ragione, con i
suoi limiti costitutivi e storici, ancora più problematico qualche volta può
risultare il discernimento, nelle singole proposte filosofiche, di ciò che, dal
punto di vista della fede, esse offrono di valido e di fecondo rispetto a ciò
che, invece, presentano di erroneo o di pericoloso. La Chiesa, comunque, sa che
i « tesori della sapienza e della scienza » sono nascosti in Cristo (Col 2,
3); per questo interviene stimolando la riflessione filosofica, perché non si
precluda la strada che conduce al riconoscimento del mistero.
52. Non è solo di
recente che il Magistero della Chiesa è intervenuto per manifestare il suo
pensiero nei confronti di determinate dottrine filosofiche. A titolo
esemplificativo basti ricordare, nel corso dei secoli, i pronunciamenti circa
le teorie che sostenevano la preesistenza delle anime,(56) come pure circa le
diverse forme di idolatria e di esoterismo superstizioso, contenute in tesi astrologiche;
(57) per non dimenticare i testi più sistematici contro alcune tesi
dell'averroismo latino, incompatibili con la fede cristiana.(58)
Se la parola del
Magistero si è fatta udire più spesso a partire dalla metà del secolo scorso è
perché in quel periodo non pochi cattolici sentirono il dovere di opporre una
loro filosofia alle varie correnti del pensiero moderno. A questo punto,
diventava obbligatorio per il Magistero della Chiesa vegliare perché queste
filosofie non deviassero, a loro volta, in forme erronee e negative. Furono
così censurati simmetricamente: da una parte, il fideismo (59) e il tradizionalismo
radicale,(60) per la loro sfiducia nelle capacità naturali della ragione;
dall'altra parte, il razionalismo (61) e l'ontologismo,(62)
perché attribuivano alla ragione naturale ciò che è conoscibile solo alla luce
della fede. I contenuti positivi di questo dibattito furono formalizzati nella
Costituzione dogmatica Dei Filius, con la quale per la prima volta un
Concilio ecumenico, il Vaticano I, interveniva in maniera solenne sui rapporti
tra ragione e fede. L'insegnamento contenuto in quel testo caratterizzò
fortemente e in maniera positiva la ricerca filosofica di molti credenti e
costituisce ancora oggi un punto di riferimento normativo per una corretta e
coerente riflessione cristiana in questo particolare ambito.
53. Più che di
singole tesi filosofiche, i pronunciamenti del Magistero si sono occupati della
necessità della conoscenza razionale e, dunque, ultimamente filosofica per l'intelligenza
della fede. Il Concilio Vaticano I, sintetizzando e riaffermando in modo
solenne gli insegnamenti che in maniera ordinaria e costante il Magistero
pontificio aveva proposto per i fedeli, mise in evidenza quanto fossero
inseparabili e insieme irriducibili la conoscenza naturale di Dio e la
Rivelazione, la ragione e la fede. Il Concilio partiva dall'esigenza
fondamentale, presupposta dalla Rivelazione stessa, della conoscibilità
naturale dell'esistenza di Dio, principio e fine di ogni cosa,(63) e concludeva
con l'asserzione solenne già citata: « esistono due ordini di conoscenza,
distinti non solo per il loro principio, ma anche per il loro oggetto ».(64)
Bisognava affermare, dunque, contro ogni forma di razionalismo, la distinzione
dei misteri della fede dai ritrovati filosofici e la trascendenza e precedenza
di quelli rispetto a questi; d'altra parte, contro le tentazioni fideistiche,
era necessario che si ribadisse l'unità della verità e, quindi, anche l'apporto
positivo che la conoscenza razionale può e deve dare alla conoscenza di fede: «
Ma anche se la fede è sopra la ragione, non vi potrà mai essere una vera
divergenza tra fede e ragione: poiché lo stesso Dio, che rivela i misteri e
comunica la fede, ha anche deposto nello spirito umano il lume della ragione,
questo Dio non potrebbe negare se stesso, né il vero contraddire il vero ».(65)
54. Anche nel
nostro secolo, il Magistero è ritornato più volte sull'argomento mettendo in
guardia contro la tentazione razionalistica. E su questo scenario che si devono
collocare gli interventi del Papa san Pio X, il quale rilevava come alla base
del modernismo vi fossero asserti filosofici di indirizzo fenomenista,
agnostico e immanentista.(66) Non si può neppure dimenticare l'importanza che
ebbe il rifiuto cattolico della filosofia marxista e del comunismo ateo.(67)
Successivamente,
il Papa Pio XII fece sentire la sua voce quando, nella Lettera enciclica Humani
generis, mise in guardia contro interpretazioni erronee, collegate con le
tesi dell'evoluzionismo, dell'esistenzialismo e dello storicismo. Egli
precisava che queste tesi erano state elaborate e venivano proposte non da
teologi, avendo la loro origine « fuori dall'ovile di Cristo »; (68)
aggiungeva, comunque, che tali deviazioni non erano semplicemente da rigettare,
ma da esaminare criticamente: « Ora queste tendenze, che più o meno deviano
dalla retta strada, non possono essere ignorate o trascurate dai filosofi o dai
teologi cattolici, che hanno il grave compito di difendere la verità divina ed
umana e di farla penetrare nelle menti degli uomini. Anzi, essi devono
conoscere bene queste opinioni, sia perché le malattie non si possono curare se
prima non sono ben conosciute, sia perché qualche volta nelle stesse false
affermazioni si nasconde un po' di verità, sia, infine, perché gli stessi
errori spingono la mente nostra a investigare e a scrutare con più diligenza
alcune verità sia filosofiche sia teologiche ».(69)
Da ultimo, anche
la Congregazione per la Dottrina della Fede, in adempimento del suo specifico
compito a servizio del magistero universale del Romano Pontefice,(70) ha dovuto
intervenire per ribadire il pericolo che comporta l'assunzione acritica, da
parte di alcuni teologi della liberazione, di tesi e metodologie derivanti dal
marxismo.(71)
Nel passato il
Magistero ha dunque esercitato ripetutamente e sotto diverse modalità il
discernimento in materia filosofica. Quanto i miei Venerati Predecessori hanno
apportato costituisce un prezioso contributo che non può essere dimenticato.
55. Se guardiamo
alla nostra condizione odierna, vediamo che i problemi di un tempo ritornano,
ma con peculiarità nuove. Non si tratta più solamente di questioni che
interessano singole persone o gruppi, ma di convinzioni diffuse nell'ambiente
al punto da divenire in qualche misura mentalità comune. Tale è, ad esempio, la
radicale sfiducia nella ragione che rivelano i più recenti sviluppi di molti
studi filosofici. Da più parti si è sentito parlare, a questo riguardo, di «
fine della metafisica »: si vuole che la filosofia si accontenti di compiti più
modesti, quali la sola interpretazione del fattuale o la sola indagine su campi
determinati del sapere umano o sulle sue strutture.
Nella stessa
teologia tornano ad affacciarsi le tentazioni di un tempo. In alcune teologie
contemporanee, ad esempio, si fa nuovamente strada un certo razionalismo,
soprattutto quando asserti ritenuti filosoficamente fondati sono assunti come
normativi per la ricerca teologica. Ciò accade soprattutto quando il teologo,
per mancanza di competenza filosofica, si lascia condizionare in modo acritico
da affermazioni entrate ormai nel linguaggio e nella cultura corrente, ma prive
di sufficiente base razionale.(72)
Non mancano
neppure pericolosi ripiegamenti sul fideismo, che non riconosce l'importanza
della conoscenza razionale e del discorso filosofico per l'intelligenza della
fede, anzi per la stessa possibilità di credere in Dio. Un'espressione oggi
diffusa di tale tendenza fideistica è il « biblicismo », che tende a fare della
lettura della Sacra Scrittura o della sua esegesi l'unico punto di riferimento
veritativo. Accade così che si identifichi la parola di Dio con la sola Sacra
Scrittura, vanificando in tal modo la dottrina della Chiesa che il Concilio
Ecumenico Vaticano II ha ribadito espressamente. La Costituzione Dei Verbum,
dopo aver ricordato che la parola di Dio è presente sia nei testi sacri che
nella Tradizione,(73) afferma con forza: « La Sacra Tradizione e la Sacra
Scrittura costituiscono un solo sacro deposito della parola di Dio affidato
alla Chiesa. Aderendo ad esso tutto il popolo santo, unito ai suoi Pastori,
persevera costantemente nell'insegnamento degli Apostoli ».(74) La Sacra
Scrittura, pertanto, non è il solo riferimento per la Chiesa. La « regola
suprema della propria fede »,(75) infatti, le proviene dall'unità che lo
Spirito ha posto tra la Sacra Tradizione, la Sacra Scrittura e il Magistero
della Chiesa in una reciprocità tale per cui i tre non possono sussistere in
maniera indipendente.(76)
Non è da
sottovalutare, inoltre, il pericolo insito nel voler derivare la verità della
Sacra Scrittura dall'applicazione di una sola metodologia, dimenticando la
necessità di una esegesi più ampia che consenta di accedere, insieme con tutta
la Chiesa, al senso pieno dei testi. Quanti si dedicano allo studio delle Sacre
Scritture devono sempre tener presente che le diverse metodologie ermeneutiche
hanno anch'esse alla base una concezione filosofica: occorre vagliarla con
discernimento prima di applicarla ai testi sacri.
Altre forme di
latente fideismo sono riconoscibili nella poca considerazione che viene
riservata alla teologia speculativa, come pure nel disprezzo per la filosofia
classica, alle cui nozioni sia l'intelligenza della fede sia le stesse
formulazioni dogmatiche hanno attinto i loro termini. Il Papa Pio XII, di
venerata memoria, ha messo in guardia contro tale oblio della tradizione
filosofica e contro l'abbandono delle terminologie tradizionali.(77)
56. Si nota,
insomma, una diffusa diffidenza verso gli asserti globali e assoluti,
soprattutto da parte di chi ritiene che la verità sia il risultato del consenso
e non dell'adeguamento dell'intelletto alla realtà oggettiva. E certo
comprensibile che, in un mondo suddiviso in molti campi specialistici, diventi
difficile riconoscere quel senso totale e ultimo della vita che la filosofia
tradizionalmente ha cercato. Nondimeno alla luce della fede che riconosce in
Gesù Cristo tale senso ultimo, non posso non incoraggiare i filosofi, cristiani
o meno, ad avere fiducia nelle capacità della ragione umana e a non prefiggersi
mete troppo modeste nel loro filosofare. La lezione della storia di questo
millennio, che stiamo per concludere, testimonia che questa è la strada da
seguire: bisogna non perdere la passione per la verità ultima e l'ansia per la
ricerca, unite all'audacia di scoprire nuovi percorsi. E la fede che provoca la
ragione a uscire da ogni isolamento e a rischiare volentieri per tutto ciò che
è bello, buono e vero. La fede si fa così avvocato convinto e convincente della
ragione.
L'interesse
della Chiesa per la filosofia
57. Il Magistero,
comunque, non si è limitato solo a rilevare gli errori e le deviazioni delle
dottrine filosofiche. Con altrettanta attenzione ha voluto ribadire i principi
fondamentali per un genuino rinnovamento del pensiero filosofico, indicando
anche concreti percorsi da seguire. In questo senso, il Papa Leone XIII con la
sua Lettera enciclica Æterni Patris compì un passo di autentica portata
storica per la vita della Chiesa. Quel testo è stato, fino ad oggi, l'unico
documento pontificio di quel livello dedicato interamente alla filosofia. Il
grande Pontefice riprese e sviluppò l'insegnamento del Concilio Vaticano I sul
rapporto tra fede e ragione, mostrando come il pensare filosofico sia un
contributo fondamentale per la fede e la scienza teologica.(78) A più di un
secolo di distanza, molte indicazioni contenute in quel testo non hanno perduto
nulla del loro interesse dal punto di vista sia pratico che pedagogico; primo
fra tutti, quello relativo all'incomparabile valore della filosofia di san
Tommaso. La riproposizione del pensiero del Dottore Angelico appariva a Papa
Leone XIII come la strada migliore per ricuperare un uso della filosofia
conforme alle esigenze della fede. San Tommaso, egli scriveva, « nel momento
stesso in cui, come conviene, distingue perfettamente la fede dalla ragione, le
unisce ambedue con legami di amicizia reciproca: conserva ad ognuna i propri
diritti e ne salvaguarda la dignità ».(79)
58. Si sa quante
felici conseguenze abbia avuto quell'invito pontificio. Gli studi sul pensiero
di san Tommaso e di altri autori scolastici ricevettero nuovo slancio. Fu dato
vigoroso impulso agli studi storici, con la conseguente riscoperta delle
ricchezze del pensiero medievale, fino a quel momento largamente sconosciute, e
si costituirono nuove scuole tomistiche. Con l'applicazione della metodologia
storica, la conoscenza dell'opera di san Tommaso fece grandi progressi e
numerosi furono gli studiosi che con coraggio introdussero la tradizione tomista
nelle discussioni sui problemi filosofici e teologici di quel momento. I
teologi cattolici più influenti di questo secolo, alla cui riflessione e
ricerca molto deve il Concilio Vaticano II, sono figli di tale rinnovamento
della filosofia tomista. La Chiesa ha potuto così disporre, nel corso del XX
secolo, di una vigorosa schiera di pensatori formati alla scuola dell'Angelico
Dottore.
59. Il
rinnovamento tomista e neotomista, comunque, non è stato l'unico segno di
ripresa del pensiero filosofico nella cultura di ispirazione cristiana. Già
prima, e in parallelo con l'invito leoniano, erano emersi non pochi filosofi
cattolici che, ricollegandosi a correnti di pensiero più recenti, secondo una
propria metodologia, avevano prodotto opere filosofiche di grande influsso e di
valore durevole. Ci fu chi organizzò sintesi di così alto profilo che nulla
hanno da invidiare ai grandi sistemi dell'idealismo; chi, inoltre, pose le basi
epistemologiche per una nuova trattazione della fede alla luce di una rinnovata
comprensione della coscienza morale; chi, ancora, produsse una filosofia che,
partendo dall'analisi dell'immanenza, apriva il cammino verso il trascendente;
e chi, infine, tentò di coniugare le esigenze della fede nell'orizzonte della
metodologia fenomenologica. Da diverse prospettive, insomma, si è continuato a
produrre forme di speculazione filosofica che hanno inteso mantenere viva la
grande tradizione del pensiero cristiano nell'unità di fede e ragione.
60. Il Concilio
Ecumenico Vaticano II, per parte sua, presenta un insegnamento molto ricco e
fecondo nei confronti della filosofia. Non posso dimenticare, soprattutto nel
contesto di questa Lettera enciclica, che un intero capitolo della Costituzione
Gaudium et spes costituisce quasi un compendio di antropologia biblica,
fonte di ispirazione anche per la filosofia. In quelle pagine si tratta del
valore della persona umana creata a immagine di Dio, si motiva la sua dignità e
superiorità sul resto del creato e si mostra la capacità trascendente della sua
ragione.(80) Anche il problema dell'ateismo viene considerato nella Gaudium
et spes e ben si motivano gli errori di quella visione filosofica,
soprattutto nei confronti dell'inalienabile dignità della persona e della sua
libertà.(81) Certamente possiede anche un profondo significato filosofico
l'espressione culminante di quelle pagine, che ho ripreso nella mia prima
Lettera enciclica Redemptor hominis e che costituisce uno dei punti di
riferimento costante del mio insegnamento: « In realtà solamente nel mistero
del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo. Adamo, infatti, il
primo uomo, era figura di quello futuro e cioè di Cristo Signore. Cristo, che è
il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela
anche pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione
».(82)
Il Concilio si è
occupato anche dello studio della filosofia, a cui devono dedicarsi i candidati
al sacerdozio; sono raccomandazioni estensibili più in generale
all'insegnamento cristiano nel suo insieme. Afferma il Concilio: « Le
discipline filosofiche si insegnino in maniera che gli alunni siano anzitutto
guidati all'acquisto di una solida e armonica conoscenza dell'uomo, del mondo e
di Dio, basandosi sul patrimonio filosofico perennemente valido, tenuto conto
anche delle correnti filosofiche moderne ».(83)
Queste direttive
sono state a più riprese ribadite e specificate in altri documenti magisteriali
con lo scopo di garantire una solida formazione filosofica, soprattutto per
coloro che si preparano agli studi teologici. Da parte mia, più volte ho
sottolineato l'importanza di questa formazione filosofica per quanti dovranno
un giorno, nella vita pastorale, confrontarsi con le istanze del mondo
contemporaneo e cogliere le cause di alcuni comportamenti per darvi pronta
risposta.(84)
61. Se in diverse
circostanze è stato necessario intervenire su questo tema, ribadendo anche il
valore delle intuizioni del Dottore Angelico e insistendo per l'acquisizione
del suo pensiero, ciò è dipeso dal fatto che le direttive del Magistero non
sono state sempre osservate con la desiderabile disponibilità. In molte scuole
cattoliche, negli anni che seguirono il Concilio Vaticano II, si è potuto
osservare, in materia, un certo decadimento dovuto ad una minore stima, non solo
della filosofia scolastica, ma più in generale dello stesso studio della
filosofia. Con meraviglia e dispiacere devo costatare che non pochi teologi
condividono questo disinteresse per lo studio della filosofia.
Diverse sono le
ragioni che stanno alla base di questa disaffezione. In primo luogo, è da
registrare la sfiducia nella ragione che gran parte della filosofia
contemporanea manifesta, abbandonando largamente la ricerca metafisica sulle
domande ultime dell'uomo, per concentrare la propria attenzione su problemi
particolari e regionali, talvolta anche puramente formali. Si deve aggiungere,
inoltre, il fraintendimento che si è creato soprattutto in rapporto alle «
scienze umane ». Il Concilio Vaticano II ha più volte ribadito il valore
positivo della ricerca scientifica in ordine a una conoscenza più profonda del
mistero dell'uomo.(85) L'invito fatto ai teologi perché conoscano queste
scienze e, all'occorrenza, le applichino correttamente nella loro indagine non
deve, tuttavia, essere interpretato come un'implicita autorizzazione ad
emarginare la filosofia o a sostituirla nella formazione pastorale e nella praeparatio
fidei. Non si può dimenticare, infine, il ritrovato interesse per
l'inculturazione della fede. In modo particolare la vita delle giovani Chiese
ha permesso di scoprire, accanto ad elevate forme di pensiero, la presenza di
molteplici espressioni di saggezza popolare. Ciò costituisce un reale
patrimonio di cultura e di tradizioni. Lo studio, tuttavia, delle usanze
tradizionali deve andare di pari passo con la ricerca filosofica. Sarà questa a
permettere di far emergere i tratti positivi della saggezza popolare, creando
il necessario collegamento con l'annuncio del Vangelo.(86)
62. Desidero
ribadire con vigore che lo studio della filosofia riveste un carattere
fondamentale e ineliminabile nella struttura degli studi teologici e nella
formazione dei candidati al sacerdozio. Non è un caso che il curriculum di
studi teologici sia preceduto da un periodo di tempo nel quale è previsto uno
speciale impegno nello studio della filosofia. Questa scelta, confermata dal
Concilio Lateranense V,(87) affonda le sue radici nell'esperienza maturata
durante il Medio Evo, quando è stata posta in evidenza l'importanza di una
costruttiva armonia tra il sapere filosofico e quello teologico. Questo
ordinamento degli studi ha influenzato, facilitato e promosso, anche se in
maniera indiretta, una buona parte dello sviluppo della filosofia moderna. Un
esempio significativo è dato dall'influsso esercitato dalle Disputationes
metaphysicae di Francesco Suárez, le quali trovavano spazio perfino nelle
università luterane tedesche. Il venire meno di questa metodologia, invece, fu
causa di gravi carenze sia nella formazione sacerdotale che nella ricerca
teologica. Si consideri, ad esempio, la disattenzione nei confronti del
pensiero e della cultura moderna, che ha portato alla chiusura ad ogni forma di
dialogo o alla indiscriminata accoglienza di ogni filosofia.
Confido vivamente
che queste difficoltà siano superate da un'intelligente formazione filosofica e
teologica, che non deve mai venire meno nella Chiesa.
63. In forza
delle ragioni espresse, mi è sembrato urgente ribadire, con questa Lettera
enciclica, il forte interesse che la Chiesa dedica alla filosofia; anzi, il
legame intimo che unisce il lavoro teologico alla ricerca filosofica della
verità. Di qui deriva il dovere che il Magistero ha di discernere e stimolare
un pensiero filosofico che non sia in dissonanza con la fede. Mio compito è di
proporre alcuni principi e punti di riferimento che ritengo necessari per poter
instaurare una relazione armoniosa ed efficace tra la teologia e la filosofia.
Alla loro luce sarà possibile discernere con maggior chiarezza se e quale
rapporto la teologia debba intraprendere con i diversi sistemi o asserti
filosofici, che il mondo attuale presenta.
CAPITOLO VI
INTERAZIONE
TRA TEOLOGIA E FILOSOFIA
La scienza
della fede e le esigenze della ragione filosofica
64. La parola di
Dio si indirizza a ogni uomo, in ogni tempo e in ogni parte della terra; e
l'uomo è naturalmente filosofo. La teologia, da parte sua, in quanto
elaborazione riflessa e scientifica dell'intelligenza di questa parola alla
luce della fede, sia per alcuni suoi procedimenti come anche per adempiere a
specifici compiti, non può fare a meno di entrare in rapporto con le filosofie
di fatto elaborate nel corso della storia. Senza voler indicare ai teologi
particolari metodologie, cosa che non compete al Magistero, desidero piuttosto
richiamare alla mente alcuni compiti propri della teologia, nei quali il
ricorso al pensiero filosofico si impone in forza della natura stessa della
Parola rivelata.
65. La teologia
si organizza come scienza della fede alla luce di un duplice principio
metodologico: l'auditus fidei e l'intellectus fidei. Con il primo, essa
entra in possesso dei contenuti della Rivelazione così come sono stati
esplicitati progressivamente nella Sacra Tradizione, nella Sacra Scrittura e
nel Magistero vivo della Chiesa.(88) Con il secondo, la teologia vuole
rispondere alle esigenze proprie del pensiero mediante la riflessione
speculativa.
Per quanto
concerne la preparazione ad un corretto auditus fidei, la filosofia reca
alla teologia il suo peculiare contributo nel momento in cui considera la
struttura della conoscenza e della comunicazione personale e, in particolare,
le varie forme e funzioni del linguaggio. Ugualmente importante è l'apporto
della filosofia per una più coerente comprensione della Tradizione ecclesiale,
dei pronunciamenti del Magistero e delle sentenze dei grandi maestri della
teologia: questi infatti si esprimono spesso in concetti e forme di pensiero
mutuati da una determinata tradizione filosofica. In questo caso, è richiesto
al teologo non solo di esporre concetti e termini con i quali la Chiesa
riflette ed elabora il suo insegnamento, ma anche di conoscere a fondo i
sistemi filosofici che hanno eventualmente influito sia sulle nozioni che sulla
terminologia, per giungere a interpretazioni corrette e coerenti.
66. Per quanto
riguarda l'intellectus fidei, si deve considerare, anzitutto, che la
Verità divina, « a noi proposta nelle Sacre Scritture, interpretate rettamente
dalla dottrina della Chiesa »,(89) gode di una propria intelligibilità così
logicamente coerente da proporsi come un autentico sapere. L'intellectus
fidei esplicita questa verità, non solo cogliendo le strutture logiche e
concettuali delle proposizioni nelle quali si articola l'insegnamento della
Chiesa, ma anche, e primariamente, nel far emergere il significato di salvezza
che tali proposizioni contengono per il singolo e per l'umanità. E dall'insieme
di queste proposizioni che il credente arriva a conoscere la storia della
salvezza, la quale culmina nella persona di Gesù Cristo e nel suo mistero
pasquale. A questo mistero egli partecipa con il suo assenso di fede.
La teologia
dogmatica, per parte sua, deve essere in grado di articolare il senso
universale del mistero del Dio Uno e Trino e dell'economia della salvezza sia
in maniera narrativa sia, soprattutto, in forma argomentativa. Lo deve fare,
cioè, mediante espressioni concettuali, formulate in modo critico e
universalmente comunicabile. Senza l'apporto della filosofia, infatti, non si
potrebbero illustrare contenuti teologici quali, ad esempio, il linguaggio su
Dio, le relazioni personali all'interno della Trinità, l'azione creatrice di
Dio nel mondo, il rapporto tra Dio e l'uomo, l'identità di Cristo che è vero
Dio e vero uomo. Le stesse considerazioni valgono per diversi temi della
teologia morale, dove è immediato il ricorso a concetti quali: legge morale,
coscienza, libertà, responsabilità personale, colpa ecc., che ricevono una loro
definizione a livello di etica filosofica.
E necessario,
dunque, che la ragione del credente abbia una conoscenza naturale, vera e
coerente delle cose create, del mondo e dell'uomo, che sono anche oggetto della
rivelazione divina; ancora di più, essa deve essere in grado di articolare tale
conoscenza in modo concettuale e argomentativo. La teologia dogmatica
speculativa, pertanto, presuppone ed implica una filosofia dell'uomo, del mondo
e, più radicalmente, dell'essere, fondata sulla verità oggettiva.
67. La teologia
fondamentale, per il suo carattere proprio di disciplina che ha il compito
di rendere ragione della fede (cfr 1 Pt 3, 15), dovrà farsi carico di giustificare
ed esplicitare la relazione tra la fede e la riflessione filosofica. Già il
Concilio Vaticano I, recuperando l'insegnamento paolino (cfr Rm 1,
19-20), aveva richiamato l'attenzione sul fatto che esistono verità conoscibili
naturalmente, e quindi filosoficamente. La loro conoscenza costituisce un
presupposto necessario per accogliere la rivelazione di Dio. Nello studiare la
Rivelazione e la sua credibilità insieme con il corrispondente atto di fede, la
teologia fondamentale dovrà mostrare come, alla luce della conoscenza per fede,
emergano alcune verità che la ragione già coglie nel suo autonomo cammino di
ricerca. A queste la Rivelazione conferisce pienezza di senso, orientandole
verso la ricchezza del mistero rivelato, nel quale trovano il loro ultimo fine.
Si pensi, ad esempio, alla conoscenza naturale di Dio, alla possibilità di
discernere la rivelazione divina da altri fenomeni o al riconoscimento della
sua credibilità, all'attitudine del linguaggio umano a parlare in modo
significativo e vero anche di ciò che eccede ogni esperienza umana. Da tutte
queste verità, la mente è condotta a riconoscere l'esistenza di una via
realmente propedeutica alla fede, che può sfociare nell'accoglienza della
rivelazione, senza in nulla venire meno ai propri principi e alla propria
autonomia.(90)
Alla stessa
stregua, la teologia fondamentale dovrà mostrare l'intima compatibilità tra la
fede e la sua esigenza essenziale di esplicitarsi mediante una ragione in grado
di dare in piena libertà il proprio assenso. La fede saprà così « mostrare in
pienezza il cammino ad una ragione in ricerca sincera della verità. In tal modo
la fede, dono di Dio, pur non fondandosi sulla ragione, non può certamente fare
a meno di essa; al tempo stesso, appare la necessità per la ragione di farsi
forte della fede, per scoprire gli orizzonti ai quali da sola non potrebbe
giungere ».(91)
68. La teologia
morale ha forse un bisogno ancor maggiore dell'apporto filosofico. Nella Nuova
Alleanza, infatti, la vita umana è molto meno regolamentata da prescrizioni che
nell'Antica. La vita nello Spirito conduce i credenti ad una libertà e
responsabilità che vanno oltre la Legge stessa. Il Vangelo e gli scritti
apostolici, comunque, propongono sia principi generali di condotta cristiana
sia insegnamenti e precetti puntuali. Per applicarli alle circostanze
particolari della vita individuale e sociale, il cristiano deve essere in grado
di impegnare a fondo la sua coscienza e la forza del suo ragionamento. In altre
parole, ciò significa che la teologia morale deve ricorrere ad una visione
filosofica corretta sia della natura umana e della società che dei principi
generali di una decisione etica.
69. Si può forse
obiettare che nella situazione attuale il teologo, piuttosto che alla
filosofia, dovrebbe ricorrere all'aiuto di altre forme del sapere umano, quali
la storia e soprattutto le scienze, di cui tutti ammirano i recenti
straordinari sviluppi. Altri poi, a seguito di una cresciuta sensibilità nei confronti
della relazione tra fede e culture, sostengono che la teologia dovrebbe
rivolgersi, di preferenza, alle saggezze tradizionali, piuttosto che a una
filosofia di origine greca ed eurocentrica. Altri ancora, a partire da una
concezione errata del pluralismo delle culture, negano semplicemente il valore
universale del patrimonio filosofico accolto dalla Chiesa.
Queste
sottolineature, tra l'altro già presenti nell'insegnamento conciliare,(92)
contengono una parte di verità. Il riferimento alle scienze, utile in molti
casi perché permette una conoscenza più completa dell'oggetto di studio, non
deve tuttavia far dimenticare la necessaria mediazione di una riflessione
tipicamente filosofica, critica e tesa all'universale, richiesta peraltro da
uno scambio fecondo tra le culture. Ciò che mi preme sottolineare è il dovere
di non fermarsi al solo caso singolo e concreto, tralasciando il compito
primario che è quello di manifestare il carattere universale del contenuto di
fede. Non si deve, inoltre, dimenticare che l'apporto peculiare del pensiero
filosofico permette di discernere, sia nelle diverse concezioni di vita che
nelle culture, « non che cosa gli uomini pensino, ma quale sia la verità
oggettiva ».(93) Non le varie opinioni umane, ma solamente la verità può essere
di aiuto alla teologia.
70. Il tema, poi,
del rapporto con le culture merita una riflessione specifica, anche se
necessariamente non esaustiva, per le implicanze che ne derivano sia sul
versante filosofico che su quello teologico. Il processo di incontro e
confronto con le culture è un'esperienza che la Chiesa ha vissuto fin dagli
inizi della predicazione del Vangelo. Il comando di Cristo ai discepoli di
andare in ogni luogo, « fino agli estremi confini della terra » (At 1,
8), per trasmettere la verità da Lui rivelata, ha posto la comunità cristiana
nella condizione di verificare ben presto l'universalità dell'annuncio e gli
ostacoli derivanti dalla diversità delle culture. Un brano della lettera di san
Paolo ai cristiani di Efeso offre un valido aiuto per comprendere come la
comunità primitiva abbia affrontato questo problema. Scrive l'Apostolo: « Ora
invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i
vicini grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che ha
fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era
frammezzo » (2, 13-14).
Alla luce di
questo testo la nostra riflessione s'allarga alla trasformazione che si è
venuta a creare nei Gentili una volta arrivati alla fede. Davanti alla
ricchezza della salvezza operata da Cristo, cadono le barriere che separano le
diverse culture. La promessa di Dio in Cristo diventa, adesso, un'offerta
universale: non più limitata alla particolarità di un popolo, della sua lingua
e dei suoi costumi, ma estesa a tutti come patrimonio a cui ciascuno può
attingere liberamente. Da diversi luoghi e tradizioni tutti sono chiamati in
Cristo a partecipare all'unità della famiglia dei figli di Dio. E Cristo che
permette ai due popoli di diventare « uno ». Coloro che erano « i lontani »
diventano « i vicini » grazie alla novità operata dal mistero pasquale. Gesù
abbatte i muri di divisione e realizza l'unificazione in modo originale e
supremo mediante la partecipazione al suo mistero. Questa unità è talmente
profonda che la Chiesa può dire con san Paolo: « Non siete più stranieri né
ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio » (Ef 2, 19).
In una così
semplice annotazione è descritta una grande verità: l'incontro della fede con
le diverse culture ha dato vita di fatto a una realtà nuova. Le culture, quando
sono profondamente radicate nell'umano, portano in sé la testimonianza
dell'apertura tipica dell'uomo all'universale e alla trascendenza. Esse
presentano, pertanto, approcci diversi alla verità, che si rivelano di indubbia
utilità per l'uomo, a cui prospettano valori capaci di rendere sempre più umana
la sua esistenza.(94) In quanto poi le culture si richiamano ai valori delle
tradizioni antiche, portano con sé — anche se in maniera implicita, ma non per
questo meno reale — il riferimento al manifestarsi di Dio nella natura, come si
è visto precedentemente parlando dei testi sapienziali e dell'insegnamento di
san Paolo.
71. Essendo in
stretto rapporto con gli uomini e con la loro storia, le culture condividono le
stesse dinamiche secondo cui il tempo umano si esprime. Si registrano di
conseguenza trasformazioni e progressi dovuti agli incontri che gli uomini
sviluppano e alle comunicazioni che reciprocamente si fanno dei loro modelli di
vita. Le culture traggono alimento dalla comunicazione di valori, e la loro
vitalità e sussistenza è data dalla capacità di rimanere aperte all'accoglienza
del nuovo. Qual è la spiegazione di queste dinamiche? Ogni uomo è inserito in
una cultura, da essa dipende, su di essa influisce. Egli è insieme figlio e
padre della cultura in cui è immerso. In ogni espressione della sua vita, egli
porta con sé qualcosa che lo contraddistingue in mezzo al creato: la sua
apertura costante al mistero ed il suo inesauribile desiderio di conoscenza.
Ogni cultura, di conseguenza, porta impressa in sé e lascia trasparire la
tensione verso un compimento. Si può dire, quindi, che la cultura ha in sé la
possibilità di accogliere la rivelazione divina.
Il modo in cui i
cristiani vivono la fede è anch'esso permeato dalla cultura dell'ambiente
circostante e contribuisce, a sua volta, a modellarne progressivamente le
caratteristiche. Ad ogni cultura i cristiani recano la verità immutabile di
Dio, da Lui rivelata nella storia e nella cultura di un popolo. Nel corso dei
secoli continua così a riprodursi l'evento di cui furono testimoni i pellegrini
presenti a Gerusalemme nel giorno di Pentecoste. Ascoltando gli Apostoli, si
domandavano: « Costoro che parlano non sono forse tutti Galilei? E com'è che li
sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamiti e
abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadocia, del Ponto e
dell'Asia, della Frigia e della Panfilia, dell'Egitto e delle parti della Libia
vicino a Cirene, stranieri di Roma, Ebrei e proseliti, Cretesi e Arabi e li
udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio » (At 2,
7-11). L'annuncio del Vangelo nelle diverse culture, mentre esige dai singoli
destinatari l'adesione della fede, non impedisce loro di conservare una propria
identità culturale. Ciò non crea divisione alcuna, perché il popolo dei
battezzati si distingue per una universalità che sa accogliere ogni cultura,
favorendo il progresso di ciò che in essa vi è di implicito verso la sua piena
esplicazione nella verità.
Conseguenza di
ciò è che una cultura non può mai diventare criterio di giudizio ed ancor meno
criterio ultimo di verità nei confronti della rivelazione di Dio. Il Vangelo
non è contrario a questa od a quella cultura come se, incontrandosi con essa,
volesse privarla di ciò che le appartiene e la obbligasse ad assumere forme
estrinseche che non le sono conformi. Al contrario, l'annuncio che il credente
porta nel mondo e nelle culture è forma reale di liberazione da ogni disordine
introdotto dal peccato e, nello stesso tempo, è chiamata alla verità piena. In
questo incontro, le culture non solo non vengono private di nulla, ma sono anzi
stimolate ad aprirsi al nuovo della verità evangelica per trarne incentivo
verso ulteriori sviluppi.
72. Il fatto che
la missione evangelizzatrice abbia incontrato sulla sua strada per prima la
filosofia greca, non costituisce indicazione in alcun modo preclusiva per altri
approcci. Oggi, via via che il Vangelo entra in contatto con aree culturali rimaste
finora al di fuori dell'ambito di irradiazione del cristianesimo, nuovi compiti
si aprono all'inculturazione. Problemi analoghi a quelli che la Chiesa dovette
affrontare nei primi secoli si pongono alla nostra generazione.
Il mio pensiero
va spontaneamente alle terre d'Oriente, così ricche di tradizioni religiose e
filosofiche molto antiche. Tra esse, l'India occupa un posto particolare. Un
grande slancio spirituale porta il pensiero indiano alla ricerca di
un'esperienza che, liberando lo spirito dai condizionamenti del tempo e dello
spazio, abbia valore di assoluto. Nel dinamismo di questa ricerca di
liberazione si situano grandi sistemi metafisici.
Spetta ai
cristiani di oggi, innanzitutto a quelli dell'India, il compito di estrarre da
questo ricco patrimonio gli elementi compatibili con la loro fede così che ne
derivi un arricchimento del pensiero cristiano. Per questa opera di
discernimento, che trova la sua ispirazione nella Dichiarazione conciliare Nostra
aetate, essi terranno conto di un certo numero di criteri. Il primo è
quello dell'universalità dello spirito umano, le cui esigenze fondamentali si
ritrovano identiche nelle culture più diverse. Il secondo, derivante dal primo,
consiste in questo: quando la Chiesa entra in contatto con grandi culture
precedentemente non ancora raggiunte, non può lasciarsi alle spalle ciò che ha
acquisito dall'inculturazione nel pensiero greco-latino. Rifiutare una simile
eredità sarebbe andare contro il disegno provvidenziale di Dio, che conduce la
sua Chiesa lungo le strade del tempo e della storia. Questo criterio, del
resto, vale per la Chiesa di ogni epoca, anche per quella di domani, che si
sentirà arricchita dalle acquisizioni realizzate nell'odierno approccio con le
culture orientali e troverà in questa eredità nuove indicazioni per entrare
fruttuosamente in dialogo con quelle culture che l'umanità saprà far fiorire
nel suo cammino incontro al futuro. In terzo luogo, ci si guarderà dal
confondere la legittima rivendicazione della specificità e dell'originalità del
pensiero indiano con l'idea che una tradizione culturale debba rinchiudersi
nella sua differenza ed affermarsi nella sua opposizione alle altre tradizioni,
ciò che sarebbe contrario alla natura stessa dello spirito umano.
Quanto è qui
detto per l'India vale anche per l'eredità delle grandi culture della Cina, del
Giappone e degli altri Paesi dell'Asia, come pure delle ricchezze delle culture
tradizionali dell'Africa, trasmesse soprattutto per via orale.
73. Alla luce di
queste considerazioni, il rapporto che deve opportunamente instaurarsi tra la
teologia e la filosofia sarà all'insegna della circolarità. Per la teologia,
punto di partenza e fonte originaria dovrà essere sempre la parola di Dio
rivelata nella storia, mentre obiettivo finale non potrà che essere
l'intelligenza di essa via via approfondita nel susseguirsi delle generazioni.
Poiché, d'altra parte, la parola di Dio è Verità (cfr Gv 17, 17), alla
sua migliore comprensione non può non giovare la ricerca umana della verità,
ossia il filosofare, sviluppato nel rispetto delle leggi che gli sono proprie.
Non si tratta semplicemente di utilizzare, nel discorso teologico, l'uno o
l'altro concetto o frammento di un impianto filosofico; decisivo è che la
ragione del credente eserciti le sue capacità di riflessione nella ricerca del
vero all'interno di un movimento che, partendo dalla parola di Dio, si sforza
di raggiungere una migliore comprensione di essa. E chiaro, peraltro, che,
muovendosi entro questi due poli — parola di Dio e migliore sua conoscenza —,
la ragione è come avvertita, e in qualche modo guidata, ad evitare sentieri che
la porterebbero fuori della Verità rivelata e, in definitiva, fuori della
verità pura e semplice; essa viene anzi stimolata ad esplorare vie che da sola
non avrebbe nemmeno sospettato di poter percorrere. Da questo rapporto di
circolarità con la parola di Dio la filosofia esce arricchita, perché la
ragione scopre nuovi e insospettati orizzonti.
74. La conferma
della fecondità di un simile rapporto è offerta dalla vicenda personale di
grandi teologi cristiani che si segnalarono anche come grandi filosofi,
lasciando scritti di così alto valore speculativo, da giustificarne
l'affiancamento ai maestri della filosofia antica. Ciò vale sia per i Padri
della Chiesa, tra i quali bisogna citare almeno i nomi di san Gregorio
Nazianzeno e sant'Agostino, sia per i Dottori medievali, tra i quali emerge la
grande triade di sant'Anselmo, san Bonaventura e san Tommaso d'Aquino. Il
fecondo rapporto tra filosofia e parola di Dio si manifesta anche nella ricerca
coraggiosa condotta da pensatori più recenti, tra i quali mi piace menzionare,
per l'ambito occidentale, personalità come John Henry Newman, Antonio Rosmini,
Jacques Maritain, Étienne Gilson, Edith Stein e, per quello orientale, studiosi
della statura di Vladimir S. Solov'ev, Pavel A. Florenskij, Petr J. Caadaev,
Vladimir N. Lossky. Ovviamente, nel fare riferimento a questi autori, accanto
ai quali altri nomi potrebbero essere citati, non intendo avallare ogni aspetto
del loro pensiero, ma solo proporre esempi significativi di un cammino di
ricerca filosofica che ha tratto considerevoli vantaggi dal confronto con i
dati della fede. Una cosa è certa: l'attenzione all'itinerario spirituale di
questi maestri non potrà che giovare al progresso nella ricerca della verità e
nell'utilizzo a servizio dell'uomo dei risultati conseguiti. C'è da sperare che
questa grande tradizione filosofico-teologica trovi oggi e nel futuro i suoi
continuatori e i suoi cultori per il bene della Chiesa e dell'umanità.
Differenti
stati della filosofia
75. Come risulta
dalla storia dei rapporti tra fede e filosofia, sopra brevemente accennata, si
possono distinguere diversi stati della filosofia rispetto alla fede cristiana.
Un primo è quello della filosofia totalmente indipendente dalla Rivelazione
evangelica: è lo stato della filosofia quale si è storicamente
concretizzata nelle epoche che hanno preceduto la nascita del Redentore e, dopo
di essa, nelle regioni non ancora raggiunte dal Vangelo. In questa situazione,
la filosofia manifesta la legittima aspirazione ad essere un'impresa autonoma,
che procede cioè secondo le leggi sue proprie, avvalendosi delle sole forze
della ragione. Pur nella consapevolezza dei gravi limiti dovuti alla congenita
debolezza dell'umana ragione, questa aspirazione va sostenuta e rafforzata.
L'impegno filosofico, infatti, quale ricerca della verità nell'ambito naturale,
rimane almeno implicitamente aperto al soprannaturale.
Di più: anche
quando è lo stesso discorso teologico ad avvalersi di concetti e argomenti
filosofici, l'esigenza di corretta autonomia del pensiero va rispettata.
L'argomentazione sviluppata secondo rigorosi criteri razionali, infatti, è
garanzia del raggiungimento di risultati universalmente validi. Si verifica
anche qui il principio secondo cui la grazia non distrugge, ma perfeziona la
natura: l'assenso di fede, che impegna l'intelletto e la volontà, non distrugge
ma perfeziona il libero arbitrio di ogni credente che accoglie in sé il dato
rivelato.
Da questa
corretta istanza si allontana in modo netto la teoria della cosiddetta
filosofia « separata », perseguita da parecchi filosofi moderni. Più che
l'affermazione della giusta autonomia del filosofare, essa costituisce la
rivendicazione di una autosufficienza del pensiero che si rivela chiaramente
illegittima: rifiutare gli apporti di verità derivanti dalla rivelazione divina
significa infatti precludersi l'accesso a una più profonda conoscenza della
verità, a danno della stessa filosofia.
76. Un secondo
stato della filosofia è quello che molti designano con l'espressione filosofia
cristiana. La denominazione è di per sé legittima, ma non deve essere
equivocata: non si intende con essa alludere ad una filosofia ufficiale della
Chiesa, giacché la fede non è come tale una filosofia. Con questo appellativo
si vuole piuttosto indicare un filosofare cristiano, una speculazione
filosofica concepita in unione vitale con la fede. Non ci si riferisce quindi
semplicemente ad una filosofia elaborata da filosofi cristiani, i quali nella loro
ricerca non hanno voluto contraddire la fede. Parlando di filosofia cristiana
si intendono abbracciare tutti quegli importanti sviluppi del pensiero
filosofico che non si sarebbero realizzati senza l'apporto, diretto o
indiretto, della fede cristiana.
Due sono,
pertanto, gli aspetti della filosofia cristiana: uno soggettivo, che consiste
nella purificazione della ragione da parte della fede. Come virtù teologale,
essa libera la ragione dalla presunzione, tipica tentazione a cui i filosofi
sono facilmente soggetti. Già san Paolo e i Padri della Chiesa e, più vicino a
noi, filosofi come Pascal e Kierkegaard l'hanno stigmatizzata. Con l'umiltà, il
filosofo acquista anche il coraggio di affrontare alcune questioni che
difficilmente potrebbe risolvere senza prendere in considerazione i dati
ricevuti dalla Rivelazione. Si pensi, ad esempio, ai problemi del male e della
sofferenza, all'identità personale di Dio e alla domanda sul senso della vita
o, più direttamente, alla domanda metafisica radicale: « Perché vi è qualcosa?
».
Vi è poi
l'aspetto oggettivo, riguardante i contenuti: la Rivelazione propone
chiaramente alcune verità che, pur non essendo naturalmente inaccessibili alla
ragione, forse non sarebbero mai state da essa scoperte, se fosse stata
abbandonata a sé stessa. In questo orizzonte si situano questioni come il
concetto di un Dio personale, libero e creatore, che tanto rilievo ha avuto per
lo sviluppo del pensiero filosofico e, in particolare, per la filosofia
dell'essere. A quest'ambito appartiene pure la realtà del peccato, così
com'essa appare alla luce della fede, la quale aiuta a impostare
filosoficamente in modo adeguato il problema del male. Anche la concezione
della persona come essere spirituale è una peculiare originalità della fede:
l'annuncio cristiano della dignità, dell'uguaglianza e della libertà degli
uomini ha certamente influito sulla riflessione filosofica che i moderni hanno
condotto. Più vicino a noi, si può menzionare la scoperta dell'importanza che
ha anche per la filosofia l'evento storico, centro della Rivelazione cristiana.
Non a caso, esso è diventato perno di una filosofia della storia, che si
presenta come un nuovo capitolo della ricerca umana della verità.
Tra gli elementi
oggettivi della filosofia cristiana rientra anche la necessità di esplorare la
razionalità di alcune verità espresse dalla Sacra Scrittura, come la
possibilità di una vocazione soprannaturale dell'uomo ed anche lo stesso
peccato originale. Sono compiti che provocano la ragione a riconoscere che vi è
del vero e del razionale ben oltre gli stretti confini entro i quali essa
sarebbe portata a rinchiudersi. Queste tematiche allargano di fatto l'ambito
del razionale.
Speculando su
questi contenuti, i filosofi non sono diventati teologi, in quanto non hanno
cercato di comprendere e di illustrare le verità della fede a partire dalla
Rivelazione. Hanno continuato a lavorare sul loro proprio terreno e con la
propria metodologia puramente razionale, ma allargando la loro indagine a nuovi
ambiti del vero. Si può dire che, senza questo influsso stimolante della parola
di Dio, buona parte della filosofia moderna e contemporanea non esisterebbe. Il
dato conserva tutta la sua rilevanza, pur di fronte alla deludente costatazione
dell'abbandono dell'ortodossia cristiana da parte di non pochi pensatori di
questi ultimi secoli.
77. Un altro
stato significativo della filosofia si ha quando è la stessa teologia a
chiamare in causa la filosofia. In realtà, la teologia ha sempre avuto e
continua ad avere bisogno dell'apporto filosofico. Essendo opera della ragione
critica alla luce della fede, il lavoro teologico presuppone ed esige in tutto
il suo indagare una ragione concettualmente e argomentativamente educata e
formata. La teologia, inoltre, ha bisogno della filosofia come interlocutrice
per verificare l'intelligibilità e la verità universale dei suoi asserti. Non a
caso furono filosofie non cristiane ad essere assunte dai Padri della Chiesa e
dai teologi medievali a tale funzione esplicativa. Questo fatto storico indica
il valore dell'autonomia che la filosofia conserva anche in questo suo
terzo stato, ma insieme mostra le trasformazioni necessarie e profonde che essa
deve subire.
E proprio nel
senso di un apporto indispensabile e nobile che la filosofia fu chiamata fin
dall'età patristica ancilla theologiae. Il titolo non fu applicato per
indicare una servile sottomissione o un ruolo puramente funzionale della
filosofia nei confronti della teologia. Fu utilizzato piuttosto nel senso in
cui Aristotele parlava delle scienze esperienziali quali « ancelle » della «
filosofia prima ». L'espressione, oggi difficilmente utilizzabile in forza dei
principi di autonomia a cui si è fatto cenno, è servita nel corso della storia
per indicare la necessità del rapporto tra le due scienze e l'impossibilità di
una loro separazione.
Se il teologo si
rifiutasse di avvalersi della filosofia, rischierebbe di far filosofia a sua
insaputa e di rinchiudersi in strutture di pensiero poco adatte
all'intelligenza della fede. Il filosofo, da parte sua, se escludesse ogni
contatto con la teologia, si sentirebbe in dovere di impadronirsi per conto
proprio dei contenuti della fede cristiana, come è avvenuto con alcuni filosofi
moderni. In un caso come nell'altro, si profilerebbe il pericolo della
distruzione dei principi basilari di autonomia che ogni scienza giustamente
vuole garantiti.
Lo stato della
filosofia qui considerato, per le implicanze che comporta nell'intelligenza
della Rivelazione, si colloca insieme alla teologia più direttamente sotto
l'autorità del Magistero e del suo discernimento, come ho precedentemente
esposto. Dalle verità di fede, infatti, derivano determinate esigenze che la
filosofia deve rispettare nel momento in cui entra in rapporto con la teologia.
78. Alla luce di
queste riflessioni, ben si comprende perché il Magistero abbia ripetutamente
lodato i meriti del pensiero di san Tommaso e lo abbia posto come guida e
modello degli studi teologici. Ciò che interessava non era prendere posizione
su questioni propriamente filosofiche, né imporre l'adesione a tesi
particolari. L'intento del Magistero era, e continua ad essere, quello di
mostrare come san Tommaso sia un autentico modello per quanti ricercano la
verità. Nella sua riflessione, infatti, l'esigenza della ragione e la forza
della fede hanno trovato la sintesi più alta che il pensiero abbia mai
raggiunto, in quanto egli ha saputo difendere la radicale novità portata dalla
Rivelazione senza mai umiliare il cammino proprio della ragione.
79. Esplicitando
ulteriormente i contenuti del Magistero precedente, intendo in questa ultima
parte indicare alcune esigenze che la teologia — anzi, prima ancora la parola
di Dio — pone oggi al pensiero filosofico e alle filosofie odierne. Come già ho
rilevato, il filosofo deve procedere secondo le proprie regole e fondarsi sui
propri principi; la verità, tuttavia, non può essere che una sola. La
Rivelazione, con i suoi contenuti, non potrà mai umiliare la ragione nelle sue
scoperte e nella sua legittima autonomia; per parte sua, però, la ragione non
dovrà mai perdere la sua capacità d'interrogarsi e di interrogare, nella
consapevolezza di non potersi ergere a valore assoluto ed esclusivo. La verità
rivelata, offrendo pienezza di luce sull'essere a partire dallo splendore che
proviene dallo stesso Essere sussistente, illuminerà il cammino della
riflessione filosofica. La Rivelazione cristiana, insomma, diventa il vero
punto di aggancio e di confronto tra il pensare filosofico e quello teologico
nel loro reciproco rapportarsi. E auspicabile, quindi, che teologi e filosofi
si lascino guidare dall'unica autorità della verità così che venga elaborata
una filosofia in consonanza con la parola di Dio. Questa filosofia sarà il
terreno d'incontro tra le culture e la fede cristiana, il luogo d'intesa tra
credenti e non credenti. Sarà di aiuto perché i credenti si convincano più da
vicino che la profondità e genuinità della fede è favorita quando è unita al
pensiero e ad esso non rinuncia. Ancora una volta, è la lezione dei Padri che
ci guida in questa convinzione: « Lo stesso credere null'altro è che pensare
assentendo [...]. Chiunque crede pensa, e credendo pensa e pensando crede
[...]. La fede se non è pensata è nulla ».(95) Ed ancora: « Se si toglie
l'assenso, si toglie la fede, perché senza assenso non si crede affatto ».(96)
CAPITOLO VII
ESIGENZE E COMPITI ATTUALI
Le esigenze
irrinunciabili della parola di Dio
80. La Sacra
Scrittura contiene, in maniera sia esplicita che implicita, una serie di
elementi che consentono di raggiungere una visione dell'uomo e del mondo di
notevole spessore filosofico. I cristiani hanno preso progressivamente
coscienza della ricchezza racchiusa in quelle pagine sacre. Da esse risulta che
la realtà di cui facciamo esperienza non è l'assoluto: non è increata, né si è
autogenerata. Dio soltanto è l'Assoluto. Dalle pagine della Bibbia emerge
inoltre una visione dell'uomo come imago Dei, che contiene precise
indicazioni circa il suo essere, la sua libertà e l'immortalità del suo
spirito. Non essendo il mondo creato autosufficiente, ogni illusione di
autonomia, che ignori la essenziale dipendenza da Dio di ogni creatura — uomo
compreso — porta a drammi che distruggono la ricerca razionale dell'armonia e
del senso dell'esistenza umana.
Anche il problema
del male morale — la forma di male più tragica — è affrontato nella Bibbia, la
quale ci dice che esso non è riconducibile ad una qualche deficienza dovuta
alla materia, ma è una ferita che proviene dall'esprimersi disordinato della
libertà umana. La parola di Dio, infine, prospetta il problema del senso
dell'esistenza e rivela la sua risposta indirizzando l'uomo a Gesù Cristo, il
Verbo di Dio incarnato, che realizza in pienezza l'esistenza umana. Altri
aspetti si potrebbero esplicitare dalla lettura del testo sacro; ciò che
emerge, comunque, è il rifiuto di ogni forma di relativismo, di materialismo,
di panteismo.
La convinzione
fondamentale di questa « filosofia » racchiusa nella Bibbia è che la vita umana
e il mondo hanno un senso e sono diretti verso il loro compimento, che si attua
in Gesù Cristo. Il mistero dell'Incarnazione resterà sempre il centro a cui
riferirsi per poter comprendere l'enigma dell'esistenza umana, del mondo creato
e di Dio stesso. In questo mistero le sfide per la filosofia si fanno estreme,
perché la ragione è chiamata a far sua una logica che abbatte le barriere in
cui essa stessa rischia di rinchiudersi. Solo qui, però, il senso
dell'esistenza raggiunge il suo culmine. Si rende intelligibile, infatti,
l'intima essenza di Dio e dell'uomo: nel mistero del Verbo incarnato, natura
divina e natura umana, con la rispettiva autonomia, vengono salvaguardate e
insieme si manifesta il vincolo unico che le pone in reciproco rapporto senza
confusione.(97)
81. E da
osservare che uno dei dati più rilevanti della nostra condizione attuale
consiste nella « crisi del senso ». I punti di vista, spesso di carattere
scientifico, sulla vita e sul mondo si sono talmente moltiplicati che, di
fatto, assistiamo all'affermarsi del fenomeno della frammentarietà del sapere.
Proprio questo rende difficile e spesso vana la ricerca di un senso. Anzi —
cosa anche più drammatica — in questo groviglio di dati e di fatti tra cui si
vive e che sembrano costituire la trama stessa dell'esistenza, non pochi si
chiedono se abbia ancora senso porsi una domanda sul senso. La pluralità delle
teorie che si contendono la risposta, o i diversi modi di vedere e di
interpretare il mondo e la vita dell'uomo, non fanno che acuire questo dubbio
radicale, che facilmente sfocia in uno stato di scetticismo e di indifferenza o
nelle diverse espressioni del nichilismo.
La conseguenza di
ciò è che spesso lo spirito umano è occupato da una forma di pensiero ambiguo,
che lo porta a rinchiudersi ancora di più in se stesso, entro i limiti della
propria immanenza, senza alcun riferimento al trascendente. Una filosofia priva
della domanda sul senso dell'esistenza incorrerebbe nel grave pericolo di
degradare la ragione a funzioni soltanto strumentali, senza alcuna autentica
passione per la ricerca della verità.
Per essere in
consonanza con la parola di Dio è necessario, anzitutto, che la filosofia
ritrovi la sua dimensione sapienziale di ricerca del senso ultimo e
globale della vita. Questa prima esigenza, a ben guardare, costituisce per la
filosofia uno stimolo utilissimo ad adeguarsi alla sua stessa natura. Ciò
facendo, infatti, essa non sarà soltanto l'istanza critica decisiva, che indica
alle varie parti del sapere scientifico la loro fondatezza e il loro limite, ma
si porrà anche come istanza ultima di unificazione del sapere e dell'agire
umano, inducendoli a convergere verso uno scopo ed un senso definitivi. Questa
dimensione sapienziale è oggi tanto più indispensabile in quanto l'immensa
crescita del potere tecnico dell'umanità richiede una rinnovata e acuta
coscienza dei valori ultimi. Se questi mezzi tecnici dovessero mancare
dell'ordinamento ad un fine non meramente utilitaristico, potrebbero presto
rivelarsi disumani, ed anzi trasformarsi in potenziali distruttori del genere
umano.(98)
La parola di Dio
rivela il fine ultimo dell'uomo e dà un senso globale al suo agire nel mondo. E
per questo che essa invita la filosofia ad impegnarsi nella ricerca del
fondamento naturale di questo senso, che è la religiosità costitutiva di ogni
persona. Una filosofia che volesse negare la possibilità di un senso ultimo e
globale sarebbe non soltanto inadeguata, ma erronea.
82. Questo ruolo
sapienziale non potrebbe, peraltro, essere svolto da una filosofia che non
fosse essa stessa un sapere autentico e vero, cioè rivolto non soltanto ad
aspetti particolari e relativi — siano essi funzionali, formali o utili — del
reale, ma alla sua verità totale e definitiva, ossia all'essere stesso
dell'oggetto di conoscenza. Ecco, dunque, una seconda esigenza: appurare la
capacità dell'uomo di giungere alla conoscenza della verità; una
conoscenza, peraltro, che attinga la verità oggettiva, mediante quella adaequatio
rei et intellectus a cui si riferiscono i Dottori della Scolastica.(99) Questa
esigenza, propria della fede, è stata esplicitamente riaffermata dal Concilio
Vaticano II: « L'intelligenza, infatti, non si restringe all'ambito dei
fenomeni soltanto, ma può conquistare la realtà intelligibile con vera
certezza, anche se, per conseguenza del peccato, si trova in parte oscurata e
debilitata ». (100)
Una filosofia
radicalmente fenomenista o relativista risulterebbe inadeguata a recare questo
aiuto nell'approfondimento della ricchezza contenuta nella parola di Dio. La
Sacra Scrittura, infatti, presuppone sempre che l'uomo, anche se colpevole di
doppiezza e di menzogna, sia capace di conoscere e di afferrare la verità
limpida e semplice. Nei Libri Sacri, e in particolare nel Nuovo Testamento, si
trovano testi e affermazioni di portata propriamente ontologica. Gli autori
ispirati, infatti, hanno inteso formulare affermazioni vere, tali cioè da
esprimere la realtà oggettiva. Non si può dire che la tradizione cattolica
abbia commesso un errore quando ha compreso alcuni testi di san Giovanni e di
san Paolo come affermazioni sull'essere stesso di Cristo. La teologia, quando
si applica a comprendere e spiegare queste affermazioni, ha bisogno pertanto
dell'apporto di una filosofia che non rinneghi la possibilità di una conoscenza
oggettivamente vera, per quanto sempre perfezionabile. Quanto detto vale anche
per i giudizi della coscienza morale, che la Sacra Scrittura suppone poter
essere oggettivamente veri. (101)
83. Le due
suddette esigenze ne comportano una terza: è necessaria una filosofia di
portata autenticamente metafisica, capace cioè di trascendere i dati
empirici per giungere, nella sua ricerca della verità, a qualcosa di assoluto,
di ultimo, di fondante. E un'esigenza, questa, implicita sia nella conoscenza a
carattere sapienziale che in quella a carattere analitico; in particolare, è
un'esigenza propria della conoscenza del bene morale, il cui fondamento ultimo
è il Bene sommo, Dio stesso. Non intendo qui parlare della metafisica come di
una scuola specifica o di una particolare corrente storica. Desidero solo
affermare che la realtà e la verità trascendono il fattuale e l'empirico, e
voglio rivendicare la capacità che l'uomo possiede di conoscere questa
dimensione trascendente e metafisica in modo vero e certo, benché imperfetto ed
analogico. In questo senso, la metafisica non va vista in alternativa
all'antropologia, giacché è proprio la metafisica che consente di dare
fondamento al concetto di dignità della persona in forza della sua condizione
spirituale. La persona, in particolare, costituisce un ambito privilegiato per
l'incontro con l'essere e, dunque, con la riflessione metafisica.
Ovunque l'uomo
scopre la presenza di un richiamo all'assoluto e al trascendente, lì gli si
apre uno spiraglio verso la dimensione metafisica del reale: nella verità,
nella bellezza, nei valori morali, nella persona altrui, nell'essere stesso, in
Dio. Una grande sfida che ci aspetta al termine di questo millennio è quella di
saper compiere il passaggio, tanto necessario quanto urgente, dal fenomeno al
fondamento. Non è possibile fermarsi alla sola esperienza; anche quando
questa esprime e rende manifesta l'interiorità dell'uomo e la sua spiritualità,
è necessario che la riflessione speculativa raggiunga la sostanza spirituale e
il fondamento che la sorregge. Un pensiero filosofico che rifiutasse ogni
apertura metafisica, pertanto, sarebbe radicalmente inadeguato a svolgere una
funzione mediatrice nella comprensione della Rivelazione.
La parola di Dio
fa continui riferimenti a ciò che oltrepassa l'esperienza e persino il pensiero
dell'uomo; ma questo « mistero » non potrebbe essere rivelato, né la teologia
potrebbe renderlo in qualche modo intelligibile, (102) se la conoscenza umana
fosse rigorosamente limitata al mondo dell'esperienza sensibile. La metafisica,
pertanto, si pone come mediazione privilegiata nella ricerca teologica. Una
teologia priva dell'orizzonte metafisico non riuscirebbe ad approdare oltre
l'analisi dell'esperienza religiosa e non permetterebbe all'intellectus
fidei di esprimere con coerenza il valore universale e trascendente della
verità rivelata.
Se tanto insisto
sulla componente metafisica, è perché sono convinto che questa è la strada
obbligata per superare la situazione di crisi che pervade oggi grandi settori
della filosofia e per correggere così alcuni comportamenti erronei diffusi
nella nostra società.
84. L'importanza
dell'istanza metafisica diventa ancora più evidente se si considera lo sviluppo
che oggi hanno le scienze ermeneutiche e le diverse analisi del linguaggio. I
risultati a cui questi studi giungono possono essere molto utili per
l'intelligenza della fede, in quanto rendono manifesti la struttura del nostro
pensare e parlare e il senso racchiuso nel linguaggio. Vi sono cultori di tali
scienze, però, che nelle loro indagini tendono ad arrestarsi al come si
comprende e come si dice la realtà, prescindendo dal verificare le possibilità
della ragione di scoprirne l'essenza. Come non vedere in tale atteggiamento una
conferma della crisi di fiducia, che il nostro tempo sta attraversando, circa
le capacità della ragione? Quando poi, in forza di assunti aprioristici, queste
tesi tendono ad offuscare i contenuti della fede o a negarne la validità
universale, allora non solo umiliano la ragione, ma si pongono da se stesse
fuori gioco. La fede, infatti, presuppone con chiarezza che il linguaggio umano
sia capace di esprimere in modo universale — anche se in termini analogici, ma
non per questo meno significativi — la realtà divina e trascendente. (103) Se
non fosse così, la parola di Dio, che è sempre parola divina in linguaggio
umano, non sarebbe capace di esprimere nulla su Dio. L'interpretazione di
questa Parola non può rimandarci soltanto da interpretazione a interpretazione,
senza mai portarci ad attingere un'affermazione semplicemente vera; altrimenti
non vi sarebbe rivelazione di Dio, ma soltanto l'espressione di concezioni
umane su di Lui e su ciò che presumibilmente Egli pensa di noi.
85. So bene che
queste esigenze, poste alla filosofia dalla parola di Dio, possono sembrare
ardue a molti che vivono l'odierna situazione della ricerca filosofica. Proprio
per questo, facendo mio ciò che i Sommi Pontefici da qualche generazione non
cessano di insegnare e che lo stesso Concilio Vaticano II ha ribadito, voglio
esprimere con forza la convinzione che l'uomo è capace di giungere a una
visione unitaria e organica del sapere. Questo è uno dei compiti di cui il
pensiero cristiano dovrà farsi carico nel corso del prossimo millennio dell'era
cristiana. La settorialità del sapere, in quanto comporta un approccio parziale
alla verità con la conseguente frammentazione del senso, impedisce l'unità
interiore dell'uomo contemporaneo. Come potrebbe la Chiesa non preoccuparsene?
Questo compito sapienziale deriva ai suoi Pastori direttamente dal Vangelo ed
essi non possono sottrarsi al dovere di perseguirlo.
Ritengo che
quanti oggi intendono rispondere come filosofi alle esigenze che la parola di
Dio pone al pensiero umano dovrebbero elaborare il loro discorso sulla base di
questi postulati e in coerente continuità con quella grande tradizione che,
iniziando con gli antichi, passa per i Padri della Chiesa e i maestri della
scolastica, per giungere fino a comprendere le acquisizioni fondamentali del
pensiero moderno e contemporaneo. Se saprà attingere a questa tradizione ed
ispirarsi ad essa, il filosofo non mancherà di mostrarsi fedele all'esigenza di
autonomia del pensare filosofico.
In questo senso,
è quanto mai significativo che, nel contesto attuale, alcuni filosofi si
facciano promotori della riscoperta del ruolo determinante della tradizione per
una corretta forma di conoscenza. Il richiamo alla tradizione, infatti, non è
un mero ricordo del passato; esso costituisce piuttosto il riconoscimento di un
patrimonio culturale che appartiene a tutta l'umanità. Si potrebbe, anzi, dire
che siamo noi ad appartenere alla tradizione e non possiamo disporre di essa
come vogliamo. Proprio questo affondare le radici nella tradizione è ciò che
permette a noi, oggi, di poter esprimere un pensiero originale, nuovo e progettuale
per il futuro. Questo stesso richiamo vale anche maggiormente per la teologia.
Non solo perché essa possiede la Tradizione viva della Chiesa come fonte
originaria, (104) ma anche perché, in forza di questo, deve essere capace di
recuperare sia la profonda tradizione teologica che ha segnato le epoche
precedenti, sia la tradizione perenne di quella filosofia che ha saputo
superare per la sua reale saggezza i confini dello spazio e del tempo.
86. L'insistenza
sulla necessità di uno stretto rapporto di continuità della riflessione
filosofica contemporanea con quella elaborata nella tradizione cristiana
intende prevenire il pericolo che si nasconde in alcune linee di pensiero, oggi
particolarmente diffuse. Anche se brevemente, ritengo opportuno soffermarmi su
di esse per rilevarne gli errori ed i conseguenti rischi per l'attività
filosofica.
La prima è quella
che va sotto il nome di eclettismo, termine col quale si designa
l'atteggiamento di chi, nella ricerca, nell'insegnamento e nell'argomentazione,
anche teologica, è solito assumere singole idee derivate da differenti
filosofie, senza badare né alla loro coerenza e connessione sistematica né al
loro inserimento storico. In questo modo, egli si pone in condizione di non
poter discernere la parte di verità di un pensiero da quello che vi può essere
di erroneo o di inadeguato. Una forma estrema di eclettismo è ravvisabile anche
nell'abuso retorico dei termini filosofici a cui a volte qualche teologo
s'abbandona. Una simile strumentalizzazione non serve alla ricerca della verità
e non educa la ragione — sia teologica che filosofica — ad argomentare in
maniera seria e scientifica. Lo studio rigoroso e approfondito delle dottrine
filosofiche, del linguaggio loro peculiare e del contesto in cui sono sorte aiuta
a superare i rischi dell'eclettismo e permette una loro adeguata integrazione
nell'argomentazione teologica.
87. L'eclettismo
è un errore di metodo, ma potrebbe anche nascondere in sé le tesi proprie dello
storicismo. Per comprendere in maniera corretta una dottrina del
passato, è necessario che questa sia inserita nel suo contesto storico e
culturale. La tesi fondamentale dello storicismo, invece, consiste nello
stabilire la verità di una filosofia sulla base della sua adeguatezza ad un
determinato periodo e ad un determinato compito storico. In questo modo, almeno
implicitamente, si nega la validità perenne del vero. Ciò che era vero in
un'epoca, sostiene lo storicista, può non esserlo più in un'altra. La storia
del pensiero, insomma, diventa per lui poco più di un reperto archeologico a
cui attingere per evidenziare posizioni del passato ormai in gran parte
superate e prive di significato per il presente. Si deve considerare, al
contrario, che anche se la formulazione è in certo modo legata al tempo e alla
cultura, la verità o l'errore in esse espressi si possono in ogni caso,
nonostante la distanza spazio-temporale, riconoscere e come tali valutare.
Nella riflessione
teologica, lo storicismo tende a presentarsi per lo più sotto una forma di «
modernismo ». Con la giusta preoccupazione di rendere il discorso teologico
attuale e assimilabile per il contemporaneo, ci si avvale soltanto degli
asserti e del gergo filosofico più recenti, trascurando le istanze critiche
che, alla luce della tradizione, si dovrebbero eventualmente sollevare. Questa
forma di modernismo, per il fatto di scambiare l'attualità per la verità, si
rivela incapace di soddisfare le esigenze di verità a cui la teologia è
chiamata a dare risposta.
88. Un altro
pericolo da considerare è lo scientismo. Questa concezione filosofica si
rifiuta di ammettere come valide forme di conoscenza diverse da quelle che sono
proprie delle scienze positive, relegando nei confini della mera immaginazione
sia la conoscenza religiosa e teologica, sia il sapere etico ed estetico. Nel
passato, la stessa idea si esprimeva nel positivismo e nel neopositivismo, che
ritenevano prive di senso le affermazioni di carattere metafisico. La critica
epistemologica ha screditato questa posizione, ed ecco che essa rinasce sotto
le nuove vesti dello scientismo. In questa prospettiva, i valori sono relegati
a semplici prodotti dell'emotività e la nozione di essere è accantonata per
fare spazio alla pura e semplice fattualità. La scienza, quindi, si prepara a
dominare tutti gli aspetti dell'esistenza umana attraverso il progresso
tecnologico. Gli innegabili successi della ricerca scientifica e della
tecnologia contemporanea hanno contribuito a diffondere la mentalità
scientista, che sembra non avere più confini, visto come è penetrata nelle
diverse culture e quali cambiamenti radicali vi ha apportato.
Si deve
costatare, purtroppo, che quanto attiene alla domanda circa il senso della vita
viene dallo scientismo considerato come appartenente al dominio
dell'irrazionale o dell'immaginario. Non meno deludente è l'approccio di questa
corrente di pensiero agli altri grandi problemi della filosofia, che, quando
non vengono ignorati, sono affrontati con analisi poggianti su analogie
superficiali, prive di fondamento razionale. Ciò porta all'impoverimento della
riflessione umana, alla quale vengono sottratti quei problemi di fondo che l'animal
rationale, fin dagli inizi della sua esistenza sulla terra, costantemente
si è posto. Accantonata, in questa prospettiva, la critica proveniente dalla valutazione
etica, la mentalità scientista è riuscita a fare accettare da molti l'idea
secondo cui ciò che è tecnicamente fattibile diventa per ciò stesso anche
moralmente ammissibile.
89. Foriero di
non minori pericoli è il pragmatismo, atteggiamento mentale che è
proprio di chi, nel fare le sue scelte, esclude il ricorso a riflessioni
teoretiche o a valutazioni fondate su principi etici. Notevoli sono le
conseguenze pratiche derivanti da questa linea di pensiero. In particolare, vi
si è venuta affermando una concezione della democrazia che non contempla il
riferimento a fondamenti di ordine assiologico e perciò immutabili: la
ammissibilità o meno di un determinato comportamento si decide sulla base del
voto della maggioranza parlamentare. (105) E chiara la conseguenza di una
simile impostazione: le grandi decisioni morali dell'uomo vengono di fatto
subordinate alle deliberazioni via via assunte dagli organi istituzionali. Di
più: è la stessa antropologia ad essere fortemente condizionata, mediante la
proposta di una visione unidimensionale dell'essere umano, dalla quale esulano
i grandi dilemmi etici, le analisi esistenziali sul senso della sofferenza e
del sacrificio, della vita e della morte.
90. Le tesi fin
qui esaminate conducono, a loro volta, a una più generale concezione, che
sembra oggi costituire l'orizzonte comune a molte filosofie che hanno preso
congedo dal senso dell'essere. Intendo riferirmi alla lettura nichilista, che è
insieme il rifiuto di ogni fondamento e la negazione di ogni verità oggettiva.
Il nichilismo, prima ancora di essere in contrasto con le esigenze e i
contenuti propri della parola di Dio, è negazione dell'umanità dell'uomo e
della sua stessa identità. Non si può dimenticare, infatti, che l'oblio
dell'essere comporta inevitabilmente la perdita di contatto con la verità
oggettiva e, conseguentemente, col fondamento su cui poggia la dignità
dell'uomo. Si fa così spazio alla possibilità di cancellare dal volto dell'uomo
i tratti che ne rivelano la somiglianza con Dio, per condurlo progressivamente
o a una distruttiva volontà di potenza o alla disperazione della solitudine.
Una volta che si è tolta la verità all'uomo, è pura illusione pretendere di
renderlo libero. Verità e libertà, infatti, o si coniugano insieme o insieme
miseramente periscono. (106)
91. Nel
commentare le linee di pensiero appena ricordate non è stata mia intenzione
presentare un quadro completo della situazione attuale della filosofia: essa,
del resto, sarebbe difficilmente riconducibile ad una visione unitaria. Mi
preme sottolineare che l'eredità del sapere e della sapienza si è, di fatto,
arricchita in diversi campi. Basti citare la logica, la filosofia del
linguaggio, l'epistemologia, la filosofia della natura, l'antropologia,
l'analisi approfondita delle vie affettive della conoscenza, l'approccio
esistenziale all'analisi della libertà. D'altro canto, l'affermazione del
principio d'immanenza, che sta al centro della pretesa razionalista, ha
suscitato, a partire dal secolo scorso, reazioni che hanno portato ad una
radicale rimessa in questione di postulati ritenuti indiscutibili. Sono nate
così correnti irrazionaliste, mentre la critica metteva in evidenza l'inanità
dell'esigenza di autofondazione assoluta della ragione.
La nostra epoca è
stata qualificata da certi pensatori come l'epoca della « post-modernità ».
Questo termine, utilizzato non di rado in contesti tra loro molto distanti,
designa l'emergere di un insieme di fattori nuovi, che quanto ad estensione ed
efficacia si sono rivelati capaci di determinare cambiamenti significativi e
durevoli. Così il termine è stato dapprima impiegato a proposito di fenomeni
d'ordine estetico, sociale, tecnologico. Successivamente è stato trasferito in
ambito filosofico, restando però segnato da una certa ambiguità, sia perché il
giudizio su ciò che è qualificato come « post-moderno » è a volte positivo ed a
volte negativo, sia perché non vi è consenso sul delicato problema della
delimitazione delle varie epoche storiche. Una cosa tuttavia è fuori dubbio: le
correnti di pensiero che si richiamano alla post-modernità meritano un'adeguata
attenzione. Secondo alcune di esse, infatti, il tempo delle certezze sarebbe
irrimediabilmente passato, l'uomo dovrebbe ormai imparare a vivere in un
orizzonte di totale assenza di senso, all'insegna del provvisorio e del
fuggevole. Parecchi autori, nella loro critica demolitrice di ogni certezza,
ignorando le necessarie distinzioni, contestano anche le certezze della fede.
Questo nichilismo
trova in qualche modo una conferma nella terribile esperienza del male che ha
segnato la nostra epoca. Dinanzi alla drammaticità di questa esperienza,
l'ottimismo razionalista che vedeva nella storia l'avanzata vittoriosa della
ragione, fonte di felicità e di libertà, non ha resistito, al punto che una
delle maggiori minacce, in questa fine di secolo, è la tentazione della
disperazione.
Resta tuttavia
vero che una certa mentalità positivista continua ad accreditare l'illusione
che, grazie alle conquiste scientifiche e tecniche, l'uomo, quale demiurgo,
possa giungere da solo ad assicurarsi il pieno dominio del suo destino.
Compiti
attuali per la teologia
92. In quanto
intelligenza della Rivelazione, la teologia nelle diverse epoche storiche si è
sempre trovata a dover recepire le istanze delle varie culture per poi mediare
in esse, con una concettualizzazione coerente, il contenuto della fede. Anche
oggi un duplice compito le spetta. Da una parte, infatti, essa deve sviluppare
l'impegno che il Concilio Vaticano II, a suo tempo, le ha affidato: rinnovare
le proprie metodologie in vista di un servizio più efficace
all'evangelizzazione. Come non pensare, in questa prospettiva, alle parole
pronunciate dal Sommo Pontefice Giovanni XXIII in apertura del Concilio? Egli
disse allora: « E necessario che, aderendo alla viva attesa di quanti amano
sinceramente la religione cristiana, cattolica, apostolica, questa dottrina sia
più largamente e più profondamente conosciuta, e che gli spiriti ne siano più
pienamente istruiti e formati; è necessario che questa dottrina certa ed
immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e
presentata in modo che corrisponda alle esigenze del nostro tempo ». (107)
Dall'altra parte,
la teologia deve puntare gli occhi sulla verità ultima che le viene consegnata
con la Rivelazione, senza accontentarsi di fermarsi a stadi intermedi. E bene
per il teologo ricordare che il suo lavoro corrisponde « al dinamismo insito
nella fede stessa » e che oggetto proprio della sua ricerca è « la Verità, il
Dio vivo e il suo disegno di salvezza rivelato in Gesù Cristo ». (108) Questo
compito, che tocca in prima istanza la teologia, provoca nello stesso tempo la
filosofia. La mole dei problemi che oggi si impongono, infatti, richiede un
lavoro comune, anche se condotto con metodologie differenti, perché la verità
sia di nuovo conosciuta ed espressa. La Verità, che è Cristo, si impone come
autorità universale che regge, stimola e fa crescere (cfr Ef 4, 15) sia
la teologia che la filosofia.
Credere nella
possibilità di conoscere una verità universalmente valida non è minimamente
fonte di intolleranza; al contrario, è condizione necessaria per un sincero e
autentico dialogo tra le persone. Solamente a questa condizione è possibile
superare le divisioni e percorrere insieme il cammino verso la verità tutta
intera, seguendo quei sentieri che solo lo Spirito del Signore risorto conosce.
(109) Come l'esigenza di unità si configuri concretamente oggi, in vista dei
compiti attuali della teologia, è quanto desidero ora indicare.
93. Lo scopo fondamentale
a cui mira la teologia consiste nel presentare l'intelligenza della
Rivelazione ed il contenuto della fede. Il vero centro della sua
riflessione sarà, pertanto, la contemplazione del mistero stesso del Dio Uno e
Trino. A questi si accede riflettendo sul mistero dell'incarnazione del Figlio
di Dio: sul suo farsi uomo e sul conseguente suo andare incontro alla passione
e alla morte, mistero che sfocerà nella sua gloriosa risurrezione e ascensione
alla destra del Padre, da dove invierà lo Spirito di verità a costituire e ad
animare la sua Chiesa. Impegno primario della teologia, in questo orizzonte,
diventa l'intelligenza della kenosi di Dio, vero grande mistero per la
mente umana, alla quale appare insostenibile che la sofferenza e la morte
possano esprimere l'amore che si dona senza nulla chiedere in cambio. In questa
prospettiva si impone come esigenza di fondo ed urgente una attenta analisi dei
testi: in primo luogo, dei testi scritturistici, poi di quelli in cui si
esprime la viva Tradizione della Chiesa. A questo riguardo si propongono oggi
alcuni problemi, solo parzialmente nuovi, la cui coerente soluzione non potrà
essere trovata prescindendo dall'apporto della filosofia.
94. Un primo
aspetto problematico riguarda il rapporto tra il significato e la verità. Come
ogni altro testo, così anche le fonti che il teologo interpreta trasmettono
innanzitutto un significato, che va rilevato ed esposto. Ora, questo
significato si presenta come la verità su Dio, che da Dio stesso viene
comunicata mediante il testo sacro. Nel linguaggio umano, quindi, prende corpo
il linguaggio di Dio, che comunica la propria verità con la mirabile «
condiscendenza » che rispecchia la logica dell'Incarnazione. (110)
Nell'interpretare le fonti della Rivelazione, pertanto, è necessario che il
teologo si domandi quale sia la verità profonda e genuina che i testi vogliono
comunicare, pur nei limiti del linguaggio.
Quanto ai testi
biblici, e in particolare ai Vangeli, la loro verità non si riduce certo alla
narrazione di semplici avvenimenti storici o alla rilevazione di fatti
neutrali, come vorrebbe il positivismo storicista. (111) Questi testi, al
contrario, espongono eventi la cui verità sta oltre il semplice accadere
storico: sta nel loro significato nella e per la storia della
salvezza. Questa verità trova piena esplicitazione nella lettura perenne che la
Chiesa compie di tali testi nel corso dei secoli, mantenendone immutato il
significato originario. E urgente, pertanto, che anche filosoficamente ci si
interroghi sul rapporto che intercorre tra il fatto e il suo significato;
rapporto che costituisce il senso specifico della storia.
95. La parola di
Dio non si indirizza ad un solo popolo o a una sola epoca. Ugualmente, gli
enunciati dogmatici, pur risentendo a volte della cultura del periodo in cui
vengono definiti, formulano una verità stabile e definitiva. Sorge quindi la
domanda di come si possa conciliare l'assolutezza e l'universalità della verità
con l'inevitabile condizionamento storico e culturale delle formule che la esprimono.
Come ho detto precedentemente, le tesi dello storicismo non sono difendibili.
L'applicazione di un'ermeneutica aperta all'istanza metafisica, invece, è in
grado di mostrare come, dalle circostanze storiche e contingenti in cui i testi
sono maturati, si compia il passaggio alla verità da essi espressa, che va
oltre questi condizionamenti.
Con il suo
linguaggio storico e circoscritto l'uomo può esprimere verità che trascendono
l'evento linguistico. La verità, infatti, non può mai essere limitata al tempo
e alla cultura; si conosce nella storia, ma supera la storia stessa.
96. Questa
considerazione permette di intravedere la soluzione di un altro problema:
quello della perenne validità del linguaggio concettuale usato nelle
definizioni conciliari. Già il mio venerato Predecessore Pio XII nella sua
Lettera enciclica Humani generis affrontava la questione. (112)
Riflettere su
questo argomento non è facile, perché si deve tenere seriamente conto del senso
che le parole acquistano nelle diverse culture e in epoche differenti. La
storia del pensiero, comunque, mostra che attraverso l'evoluzione e la varietà
delle culture certi concetti di base mantengono il loro valore conoscitivo
universale e perciò la verità delle proposizioni che li esprimono. (113) Se così
non fosse, la filosofia e le scienze non potrebbero comunicare tra loro né
potrebbero essere recepite da culture diverse da quelle in cui sono state
pensate ed elaborate. Il problema ermeneutico, dunque, esiste, ma è
risolvibile. Il valore realistico di molti concetti, d'altronde, non esclude
che spesso il loro significato sia imperfetto. La speculazione filosofica molto
potrebbe aiutare in questo campo. E auspicabile, pertanto, un suo particolare
impegno nell'approfondimento del rapporto tra linguaggio concettuale e verità,
e nella proposta di vie adeguate per una sua corretta comprensione.
97. Se compito
importante della teologia è l'interpretazione delle fonti, impegno ulteriore e
anche più delicato ed esigente è la comprensione della verità rivelata,
o l'elaborazione dell'intellectus fidei. Come già ho accennato, l'intellectus
fidei richiede l'apporto di una filosofia dell'essere, che consenta
innanzitutto alla teologia dogmatica di svolgere in modo adeguato le sue
funzioni. Il pragmatismo dogmatico degli inizi di questo secolo, secondo cui le
verità di fede non sarebbero altro che regole di comportamento, è già stato
rifiutato e rigettato; (114) ciò nonostante, rimane sempre la tentazione di
comprendere queste verità in maniera puramente funzionale. In questo caso, si
cadrebbe in uno schema inadeguato, riduttivo, e sprovvisto dell'incisività
speculativa necessaria. Una cristologia, ad esempio, che procedesse
unilateralmente « dal basso », come oggi si suole dire, o una ecclesiologia,
elaborata unicamente sul modello delle società civili, difficilmente potrebbero
evitare il pericolo di tale riduzionismo.
Se l'intellectus
fidei vuole integrare tutta la ricchezza della tradizione teologica, deve
ricorrere alla filosofia dell'essere. Questa dovrà essere in grado di
riproporre il problema dell'essere secondo le esigenze e gli apporti di tutta
la tradizione filosofica, anche quella più recente, evitando di cadere in
sterili ripetizioni di schemi antiquati. La filosofia dell'essere, nel quadro
della tradizione metafisica cristiana, è una filosofia dinamica che vede la
realtà nelle sue strutture ontologiche, causali e comunicative. Essa trova la
sua forza e perennità nel fatto di fondarsi sull'atto stesso dell'essere, che
permette l'apertura piena e globale verso tutta la realtà, oltrepassando ogni
limite fino a raggiungere Colui che a tutto dona compimento. (115) Nella
teologia, che riceve i suoi principi dalla Rivelazione quale nuova fonte di
conoscenza, questa prospettiva trova conferma secondo l'intimo rapporto tra
fede e razionalità metafisica.
98.
Considerazioni analoghe si possono fare anche in riferimento alla teologia
morale. Il recupero della filosofia è urgente anche nell'ordine della
comprensione della fede che riguarda l'agire dei credenti. Di fronte alle sfide
contemporanee nel campo sociale, economico, politico e scientifico la coscienza
etica dell'uomo è disorientata. Nella Lettera enciclica Veritatis splendor ho
rilevato che molti problemi presenti nel mondo contemporaneo derivano da una «
crisi intorno alla verità. Persa l'idea di una verità universale sul bene,
conoscibile dalla ragione umana, è inevitabilmente cambiata anche la concezione
della coscienza: questa non è più considerata nella sua realtà originaria,
ossia un atto dell'intelligenza della persona, cui spetta di applicare la
conoscenza universale del bene in una determinata situazione e di esprimere
così un giudizio sulla condotta giusta da scegliere qui e ora; ci si è
orientati a concedere alla coscienza dell'individuo il privilegio di fissare,
in modo autonomo, i criteri del bene e del male e agire di conseguenza. Tale
visione fa tutt'uno con un'etica individualistica, per la quale ciascuno si
trova confrontato con la sua verità, differente dalla verità degli altri ».
(116)
Nell'intera Enciclica
ho sottolineato chiaramente il fondamentale ruolo spettante alla verità nel
campo della morale. Questa verità, riguardo alla maggior parte dei problemi
etici più urgenti, richiede, da parte della teologia morale, un'attenta
riflessione che sappia mettere in evidenza le sue radici nella parola di Dio.
Per poter adempiere a questa sua missione, la teologia morale deve far ricorso
a un'etica filosofica rivolta alla verità del bene; a un'etica, dunque, né
soggettivista né utilitarista. L'etica richiesta implica e presuppone
un'antropologia filosofica e una metafisica del bene. Avvalendosi di questa
visione unitaria, che è necessariamente collegata alla santità cristiana e
all'esercizio delle virtù umane e soprannaturali, la teologia morale sarà
capace di affrontare i vari problemi di sua competenza — quali la pace, la
giustizia sociale, la famiglia, la difesa della vita e dell'ambiente naturale —
in maniera più adeguata ed efficace.
99. Il lavoro
teologico nella Chiesa è in primo luogo al servizio dell'annuncio della fede e
della catechesi. (117) L'annuncio o il kerigma chiama alla conversione,
proponendo la verità di Cristo che culmina nel suo Mistero pasquale: solo in
Cristo, infatti, è possibile conoscere la pienezza della verità che salva (cfr At
4, 12; 1 Tm 2, 4-6).
In questo
contesto, si capisce bene perché, oltre alla teologia, assuma notevole rilievo
anche il riferimento alla catechesi: questa possiede, infatti, delle
implicazioni filosofiche che vanno approfondite alla luce della fede.
L'insegnamento impartito nella catechesi ha un effetto formativo per la
persona. La catechesi, che è anche comunicazione linguistica, deve presentare
la dottrina della Chiesa nella sua integrità, (118) mostrandone l'aggancio con
la vita dei credenti. (119) Si realizza così una singolare unione tra
insegnamento e vita che è impossibile raggiungere altrimenti. Ciò che si
comunica nella catechesi, infatti, non è un corpo di verità concettuali, ma il
mistero del Dio vivente. (120)
La riflessione
filosofica molto può contribuire nel chiarificare il rapporto tra verità e
vita, tra evento e verità dottrinale e, soprattutto, la relazione tra verità
trascendente e linguaggio umanamente intelligibile. (121) La reciprocità che si
crea tra le discipline teologiche e i risultati raggiunti dalle differenti
correnti filosofiche può esprimere, dunque, una reale fecondità in vista della
comunicazione della fede e di una sua più profonda comprensione.
CONCLUSIONE
100. A più di
cento anni dalla pubblicazione dell'Enciclica Æterni Patris di Leone
XIII, a cui mi sono più volte richiamato in queste pagine, mi è sembrato
doveroso riprendere di nuovo e in maniera più sistematica il discorso sul tema
del rapporto tra la fede e la filosofia. L'importanza che il pensiero
filosofico riveste nello sviluppo delle culture e nell'orientamento dei
comportamenti personali e sociali è evidente. Esso esercita una forte
influenza, non sempre percepita in maniera esplicita, anche sulla teologia e le
sue diverse discipline. Per questi motivi, ho ritenuto giusto e necessario
sottolineare il valore che la filosofia possiede nei confronti
dell'intelligenza della fede e i limiti a cui essa va incontro quando dimentica
o rifiuta le verità della Rivelazione. La Chiesa, infatti, permane nella più
profonda convinzione che fede e ragione « si recano un aiuto scambievole »,
(122) esercitando l'una per l'altra una funzione sia di vaglio critico e
purificatore, sia di stimolo a progredire nella ricerca e nell'approfondimento.
101. Se il nostro
sguardo si volge alla storia del pensiero, soprattutto nell'Occidente, è facile
vedere la ricchezza che è scaturita per il progresso dell'umanità dall'incontro
tra filosofia e teologia e dallo scambio delle loro rispettive conquiste. La
teologia, che ha ricevuto in dono un'apertura e una originalità che le
permettono di esistere come scienza della fede, ha certamente provocato la
ragione a rimanere aperta davanti alla novità radicale che la rivelazione di
Dio porta con sé. E questo è stato un indubbio vantaggio per la filosofia, che
ha visto così schiudersi nuovi orizzonti su ulteriori significati che la
ragione è chiamata ad approfondire.
E proprio alla
luce di questa costatazione che, come ho ribadito il dovere della teologia di
recuperare il suo genuino rapporto con la filosofia, così mi sento in dovere di
sottolineare l'opportunità che anche la filosofia, per il bene e il progresso
del pensiero, recuperi la sua relazione con la teologia. Troverà in essa non la
riflessione del singolo individuo che, anche se profonda e ricca, porta pur sempre
con sé i limiti prospettici propri del pensiero di uno solo, ma la ricchezza di
una riflessione comune. La teologia, infatti, nell'indagine sulla verità è
sostenuta, per sua stessa natura, dalla nota dell'ecclesialità (123) e
dalla tradizione del Popolo di Dio con la sua multiformità di saperi e culture
nell'unità della fede.
102. Insistendo
in tal modo sull'importanza e sulle vere dimensioni del pensiero filosofico, la
Chiesa promuove insieme sia la difesa della dignità dell'uomo sia l'annuncio
del messaggio evangelico. Per tali compiti non vi è oggi, infatti, preparazione
più urgente di questa: portare gli uomini alla scoperta della loro capacità di
conoscere il vero (124) e del loro anelito verso un senso ultimo e definitivo
dell'esistenza. Nella prospettiva di queste esigenze profonde, iscritte da Dio
nella natura umana, appare anche più chiaro il significato umano e umanizzante
della parola di Dio. Grazie alla mediazione di una filosofia divenuta anche
vera saggezza, l'uomo contemporaneo giungerà così a riconoscere che egli sarà
tanto più uomo quanto più, affidandosi al Vangelo, aprirà se stesso a Cristo.
103. La
filosofia, inoltre, è come lo specchio in cui si riflette la cultura dei
popoli. Una filosofia, che, sotto la provocazione delle esigenze teologiche, si
sviluppa in consonanza con la fede, fa parte di quella « evangelizzazione della
cultura » che Paolo VI ha proposto come uno degli scopi fondamentali
dell'evangelizzazione. (125) Mentre non mi stanco di richiamare l'urgenza di
una nuova evangelizzazione, mi appello ai filosofi perché sappiano
approfondire le dimensioni del vero, del buono e del bello, a cui la parola di
Dio dà accesso. Ciò diventa tanto più urgente, se si considerano le sfide che
il nuovo millennio sembra portare con sé: esse investono in modo particolare le
regioni e le culture di antica tradizione cristiana. Anche questa attenzione
deve considerarsi come un apporto fondamentale e originale sulla strada della
nuova evangelizzazione.
104. Il pensiero
filosofico è spesso l'unico terreno d'intesa e di dialogo con chi non condivide
la nostra fede. Il movimento filosofico contemporaneo esige l'impegno attento e
competente di filosofi credenti capaci di recepire le aspettative, le aperture
e le problematiche di questo momento storico. Argomentando alla luce della
ragione e secondo le sue regole, il filosofo cristiano, pur sempre guidato
dall'intelligenza ulteriore che gli dà la parola di Dio, può sviluppare una
riflessione che sarà comprensibile e sensata anche per chi non afferra ancora
la verità piena che la Rivelazione divina manifesta. Tale terreno d'intesa e di
dialogo è oggi tanto più importante in quanto i problemi che si pongono con più
urgenza all'umanità — si pensi al problema ecologico, al problema della pace o
della convivenza delle razze e delle culture — trovano una possibile soluzione
alla luce di una chiara e onesta collaborazione dei cristiani con i fedeli di
altre religioni e con quanti, pur non condividendo una credenza religiosa,
hanno a cuore il rinnovamento dell'umanità. Lo ha affermato il Concilio
Vaticano II: « Per quanto ci riguarda, il desiderio di stabilire un dialogo che
sia ispirato dal solo amore della verità e condotto con la opportuna prudenza,
non esclude nessuno: né coloro che hanno il culto di alti valori umani, benché
non ne riconoscano ancora la Sorgente, né coloro che si oppongono alla Chiesa e
la perseguitano in diverse maniere ». (126) Una filosofia, nella quale
risplenda anche qualcosa della verità di Cristo, unica risposta definitiva ai
problemi dell'uomo, (127) sarà un sostegno efficace per quell'etica vera e
insieme planetaria di cui oggi l'umanità ha bisogno.
105. Mi preme
concludere questa Lettera enciclica rivolgendo un ultimo pensiero anzitutto ai teologi,
affinché prestino particolare attenzione alle implicazioni filosofiche della
parola di Dio e compiano una riflessione da cui emerga lo spessore speculativo
e pratico della scienza teologica. Desidero ringraziarli per il loro servizio
ecclesiale. Il legame intimo tra la sapienza teologica e il sapere filosofico è
una delle ricchezze più originali della tradizione cristiana
nell'approfondimento della verità rivelata. Per questo, li esorto a recuperare
ed evidenziare al meglio la dimensione metafisica della verità per entrare così
in un dialogo critico ed esigente tanto con il pensiero filosofico
contemporaneo quanto con tutta la tradizione filosofica, sia questa in sintonia
o invece in contrapposizione con la parola di Dio. Tengano sempre presente
l'indicazione di un grande maestro del pensiero e della spiritualità, san
Bonaventura, il quale introducendo il lettore al suo Itinerarium mentis in
Deum lo invitava a rendersi conto che « non è sufficiente la lettura senza
la compunzione, la conoscenza senza la devozione, la ricerca senza lo slancio
della meraviglia, la prudenza senza la capacità di abbandonarsi alla gioia,
l'attività disgiunta dalla religiosità, il sapere separato dalla carità,
l'intelligenza senza l'umiltà, lo studio non sorretto dalla grazia divina, la
riflessione senza la sapienza ispirata da Dio ». (128)
Il mio pensiero è
rivolto pure a quanti hanno la responsabilità della formazione sacerdotale,
sia accademica che pastorale, perché curino con particolare attenzione la
preparazione filosofica di chi dovrà annunciare il Vangelo all'uomo di oggi e,
più ancora, di chi dovrà dedicarsi alla ricerca e all'insegnamento della
teologia. Si sforzino di condurre il loro lavoro alla luce delle prescrizioni
del Concilio Vaticano II (129) e delle disposizioni successive, dalle quali
emerge l'inderogabile e urgente compito, a cui tutti siamo chiamati, di
contribuire a una genuina e profonda comunicazione delle verità di fede. Non si
dimentichi la grave responsabilità di una previa e adeguata preparazione del
corpo docente destinato all'insegnamento della filosofia sia nei Seminari che
nelle Facoltà ecclesiastiche. (130) E necessario che questa docenza comporti la
conveniente preparazione scientifica, si presenti in maniera sistematica
proponendo il grande patrimonio della tradizione cristiana e si compia con il
dovuto discernimento dinanzi alle esigenze attuali della Chiesa e del mondo.
106. Il mio
appello, inoltre, va ai filosofi e a quanti insegnano la filosofia,
perché abbiano il coraggio di ricuperare, sulla scia di una tradizione
filosofica perennemente valida, le dimensioni di autentica saggezza e di
verità, anche metafisica, del pensiero filosofico. Si lascino interpellare
dalle esigenze che scaturiscono dalla parola di Dio ed abbiano la forza di
condurre il loro discorso razionale ed argomentativo in risposta a tale
interpellanza. Siano sempre protesi verso la verità e attenti al bene che il
vero contiene. Potranno in questo modo formulare quell'etica genuina di cui
l'umanità ha urgente bisogno, particolarmente in questi anni. La Chiesa segue
con attenzione e simpatia le loro ricerche; siano pertanto sicuri del rispetto
che essa conserva per la giusta autonomia della loro scienza. Vorrei
incoraggiare, in particolare, i credenti che operano nel campo della filosofia,
perché illuminino i diversi ambiti dell'attività umana con l'esercizio di una
ragione che si fa più sicura e acuta per il sostegno che riceve dalla fede.
Non posso non
rivolgere, infine, una parola anche agli scienziati, che con le loro
ricerche ci forniscono una crescente conoscenza dell'universo nel suo insieme e
della varietà incredibilmente ricca delle sue componenti, animate ed inanimate,
con le loro complesse strutture atomiche e molecolari. Il cammino da essi
compiuto ha raggiunto, specialmente in questo secolo, traguardi che continuano
a stupirci. Nell'esprimere la mia ammirazione ed il mio incoraggiamento a
questi valorosi pionieri della ricerca scientifica, ai quali l'umanità tanto
deve del suo presente sviluppo, sento il dovere di esortarli a proseguire nei
loro sforzi restando sempre in quell'orizzonte sapienziale, in cui alle
acquisizioni scientifiche e tecnologiche s'affiancano i valori filosofici ed
etici, che sono manifestazione caratteristica ed imprescindibile della persona
umana. Lo scienziato è ben consapevole che « la ricerca della verità, anche
quando riguarda una realtà limitata del mondo o dell'uomo, non termina mai;
rinvia sempre verso qualcosa che è al di sopra dell'immediato oggetto degli
studi, verso gli interrogativi che aprono l'accesso al Mistero ». (131)
107. A tutti chiedo
di guardare in profondità all'uomo, che Cristo ha salvato nel mistero del suo
amore, e alla sua costante ricerca di verità e di senso. Diversi sistemi
filosofici, illudendolo, lo hanno convinto che egli è assoluto padrone di sé,
che può decidere autonomamente del proprio destino e del proprio futuro
confidando solo in se stesso e sulle proprie forze. La grandezza dell'uomo non
potrà mai essere questa. Determinante per la sua realizzazione sarà soltanto la
scelta di inserirsi nella verità, costruendo la propria abitazione all'ombra
della Sapienza e abitando in essa. Solo in questo orizzonte veritativo
comprenderà il pieno esplicitarsi della sua libertà e la sua chiamata all'amore
e alla conoscenza di Dio come attuazione suprema di sé.
108. Il mio
ultimo pensiero è rivolto a Colei che la preghiera della Chiesa invoca come Sede
della Sapienza. La sua stessa vita è una vera parabola capace di irradiare
luce sulla riflessione che ho svolto. Si può intravedere, infatti, una profonda
consonanza tra la vocazione della Beata Vergine e quella della genuina
filosofia. Come la Vergine fu chiamata ad offrire tutta la sua umanità e
femminilità affinché il Verbo di Dio potesse prendere carne e farsi uno di noi,
così la filosofia è chiamata a prestare la sua opera, razionale e critica,
affinché la teologia come comprensione della fede sia feconda ed efficace. E
come Maria, nell'assenso dato all'annuncio di Gabriele, nulla perse della sua
vera umanità e libertà, così il pensiero filosofico, nell'accogliere
l'interpellanza che gli viene dalla verità del Vangelo, nulla perde della sua
autonomia, ma vede sospinta ogni sua ricerca alla più alta realizzazione.
Questa verità l'avevano ben compresa i santi monaci dell'antichità cristiana,
quando chiamavano Maria « la mensa intellettuale della fede ». (132) In lei
vedevano l'immagine coerente della vera filosofia ed erano convinti di dover philosophari
in Maria.
Possa, la Sede
della Sapienza, essere il porto sicuro per quanti fanno della loro vita la ricerca
della saggezza. Il cammino verso la sapienza, ultimo e autentico fine di ogni
vero sapere, possa essere liberato da ogni ostacolo per l'intercessione di
Colei che, generando la Verità e conservandola nel suo cuore, l'ha partecipata
all'umanità intera per sempre.
Dato a Roma,
presso San Pietro, il 14 settembre, festa della Esaltazione della Santa Croce,
dell'anno 1998, ventesimo del mio Pontificato.
GIOVANNI PAOLO II
(1) Già lo
scrivevo nella mia prima lettera enciclica Redemptor hominis: « Siamo
diventati partecipi di questa missione di Cristo-profeta e, in forza della
stessa missione, insieme con lui serviamo la verità divina nella Chiesa. La
responsabilità per tale verità significa anche amarla e cercarne la più esatta
comprensione, in modo da renderla più vicina a noi stessi e agli altri in tutta
la sua forza salvifica, nel suo splendore, nella sua profondità e insieme
semplicità ». N. 19: AAS 71 (1979), 306.
(2) Cfr Conc.
Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et
spes, 16.
(3) Cost. dogm.
sulla Chiesa Lumen gentium, 25.
(4) N. 4: AAS 85
(1993), 1136.
(5) Conc. Ecum.
Vat. II, Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, 2.
(6) Cfr Cost.
dogm. sulla fede cattolica Dei Filius, III: DS
3008.
(7) Ibid.,
IV: DS 3015; citato anche in Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla
Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 59.
(8) Cost. dogm.
sulla divina Rivelazione Dei Verbum, 2.
(9) Lett. ap. Tertio
millennio adveniente (10 novembre 1994), 10: AAS 87 (1995), 11.
(10) N. 4.
(11) N. 8.
(12) N. 22.
(13) Cfr Conc.
Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, 4.
(14) Ibid.,
5.
(15) Il Concilio
Vaticano I, a cui fa riferimento la sentenza sopra richiamata, insegna che
l'obbedienza della fede esige l'impegno dell'intelletto e della volontà: «
Poiché l'uomo dipende totalmente da Dio come suo creatore e signore e la
ragione creata è sottomessa completamente alla verità increata, noi siamo
tenuti, quando Dio si rivela, a prestargli, con la fede, la piena sottomissione
della nostra intelligenza e della nostra volontà » (Cost. dogm. sulla fede
cattolica Dei Filius, III; DS 3008).
(16) Sequenza nella
solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo.
(17) Pensées,
789 (ed. L. Brunschvicg).
(18) Conc. Ecum.
Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes,
22.
(19) Cfr Conc.
Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, 2.
(20) Proemio e
nn. 1. 15: PL 158, 223-224.226; 235.
(21) De vera
religione, XXXIX, 72: CCL 32, 234.
(22) « Ut te
semper desiderando quaererent et inveniendo quiescerent »: Missale Romanum.
(23) Aristotele, Metafisica,
I, 1.
(24) Confessiones,
X, 23, 33: CCL 27, 173.
(25) N. 34: AAS
85 (1993), 1161.
(26) Cfr Giovanni
Paolo II, Lett. ap. Salvifici doloris (11 febbraio 1984), 9: AAS 76
(1984), 209-210.
(27) Cfr Conc.
Ecum. Vat. II, Dich. sulle relazioni della Chiesa con le religioni non
cristiane Nostra aetate, 2.
(28) E questa
un'argomentazione che perseguo da molto tempo e che ho espresso in diverse
occasioni. « Che è l'uomo e a che può servire? Qual è il suo bene e qual è il
suo male? (Sir 18, 7) [...]. Queste domande sono nel cuore di ogni uomo,
come ben dimostra il genio poetico di ogni tempo e di ogni popolo, che, quasi
profezia dell'umanità, ripropone continuamente la domanda seria che
rende l'uomo veramente tale. Esse esprimono l'urgenza di trovare un perché
all'esistenza, ad ogni suo istante, alle sue tappe salienti e decisive così
come ai suoi momenti più comuni. In tali questioni è testimoniata la
ragionevolezza profonda dell'esistere umano, poiché l'intelligenza e la volontà
dell'uomo vi sono sollecitate a cercare liberamente la soluzione capace di
offrire un senso pieno alla vita. Questi interrogativi, pertanto, costituiscono
l'espressione più alta della natura dell'uomo: di conseguenza la risposta ad
esse misura la profondità del suo impegno con la propria esistenza. In
particolare, quando il perché delle cose viene indagato con integralità
alla ricerca della risposta ultima e più esauriente, allora la ragione umana
tocca il suo vertice e si apre alla religiosità. In effetti, la religiosità
rappresenta l'espressione più elevata della persona umana, perché è il culmine
della sua natura razionale. Essa sgorga dall'aspirazione profonda dell'uomo
alla verità ed è alla base della ricerca libera e personale che egli compie del
divino »: Udienza generale del 19 ottobre 1983, 1-2: Insegnamenti VI, 2
(1983), 814-815.
(29) « [Galileo]
ha dichiarato esplicitamente che le due verità, di fede e di scienza, non
possono mai contrariarsi « procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura
sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come
osservantissima esecutrice degli ordini di Dio » come scrive nella lettera al
Padre Benedetto Castelli il 21 dicembre 1613. Non diversamente, anzi con parole
simili, insegna il Concilio Vaticano II: « La ricerca metodica di ogni
disciplina, se procede [...] secondo le norme morali, non sarà mai in reale
contrasto con la fede, perché le realtà profane e le realtà della fede hanno
origine dal medesimo Dio » (Gaudium et spes, 36). Galileo sente nella
sua ricerca scientifica la presenza del Creatore che lo stimola, che previene e
aiuta le sue intuizioni, operando nel profondo del suo spirito ». Giovanni
Paolo II, Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze, 10 novembre 1979: Insegnamenti,
II, 2 (1979), 1111-1112.
(30) Cfr Conc.
Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, 4.
(31) Origene, Contro
Celso, 3, 55: SC 136, 130.
(32) Dialogo
con Trifone, 8,1: PG 6, 492.
(33) Stromati I,
18, 90, 1: SC 30, 115.
(34) Cfr ibid.,
I, 16, 80, 5: SC 30, 108.
(35) Cfr ibid.,
I, 5, 28, 1: SC 30, 65.
(36) Ibid.,
VI, 7, 55, 1-2: PG 9, 277.
(37) Ibid.,
I, 20, 100, 1: SC 30, 124.
(38) S. Agostino,
Confessiones VI, 5, 7: CCL 27, 77-78.
(39) Cfr ibid.,
VII, 9, 13-14: CCL 27, 101-102.
(40) De
praescriptione haereticorum, VII, 9: SC 46, 98. « Quid ergo Athenis
et Hierosolymis? Quid academiae et ecclesiae? ».
(41) Cfr Congregazione
per l'Educazione Cattolica, Istr. sullo studio dei Padri della Chiesa nella
formazione sacerdotale (10 novembre 1989), 25: AAS 82 (1990), 617-618.
(42) S. Anselmo, Proslogion,
1: PL 158, 226.
(43) Id., Monologion,
64: PL 158, 210.
(44) Cfr Summa
contra Gentiles, I, VII.
(45) Cfr Summa
Theologiae, I, 1, 8 ad 2: « cum enim gratia non tollat naturam sed
perficiat ».
(46) Cfr Giovanni
Paolo II, Discorso ai partecipanti al IX Congresso Tomistico Internazionale (29
settembre 1990): Insegnamenti, XIII, 2 (1990), 770-771.
(47) Lett. ap. Lumen
Ecclesiae (20 novembre 1974), 8: AAS 66 (1974), 680.
(48) Cfr I, 1, 6:
« Praeterea, haec doctrina per studium acquiritur. Sapientia autem per
infusionem habetur, unde inter septem dona Spiritus Sancti connumeratur ».
(49) Ibid.,
II, II, 45, 1 ad 2; cfr pure II, II, 45, 2.
(50) Ibid., I,
II, 109, 1 ad 1 che riprende la nota frase dell'Ambrosiaster, In prima Cor 12,3:
PL 17, 258.
(51) Leone XIII,
Lett. enc. Æterni Patris (4 agosto 1879): ASS 11 (1878-1879),
109.
(52) Paolo VI,
Lett. ap. Lumen Ecclesiae (20 novembre 1974), 8: AAS 66 (1974),
683.
(53) Lett. enc. Redemptor
hominis (4 marzo 1979), 15: AAS 71 (1979), 286.
(54) Cfr Pio XII,
Lett. enc. Humani generis (12 agosto 1950): AAS 42 (1950), 566.
(55) Cfr Conc.
Ecum. Vat. I, Cost. dogm. prima sulla Chiesa di Cristo Pastor Aeternus: DS
3070; Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium,
25 c.
(56) Cfr Sinodo
di Costantinopoli, DS 403.
(57) Cfr Concilio
di Toledo I, DS 205; Concilio di Braga I, DS 459-460; Sisto V,
Bolla Coeli et terrae Creator (5 gennaio 1586): Bullarium Romanum 4/4,
Romae 1747, 176-179; Urbano VIII, Inscrutabilis iudiciorum (1o aprile
1631): Bullarium Romanum 6/1, Romae 1758, 268-270.
(58) Cfr Conc.
Ecum. Viennense, Decr. Fidei catholicae, DS 902; Conc. Ecum.
Lateranense V, Bolla Apostolici regiminis, DS 1440.
(59) Cfr Theses
a Ludovico Eugenio Bautain iussu sui Episcopi subscriptae (8 settembre
1840), DS 2751-2756; Theses a Ludovico Eugenio Bautain ex mandato S. Cong.
Episcoporum et Religiosorum subscriptae (26 aprile 1844), DS 2765-2769.
(60) Cfr S.
Congr. Indicis, Decr. Theses contra traditionalismum Augustini Bonnetty (11
giugno 1855), DS 2811-2814.
(61) Cfr Pio IX,
Breve Eximiam tuam (15 giugno 1857), DS 2828-2831; Breve Gravissimas
inter (11 dicembre 1862), DS 2850-2861.
(62) Cfr S.
Congr. del S. Officio, Decr. Errores ontologistarum (18 settembre 1861),
DS 2841-2847.
(63) Cfr Conc.
Ecum. Vat. I, Cost. dogm. sulla fede cattolica Dei Filius, II: DS 3004;
e can. 2, 1: DS 3026.
(64) Ibid.,
IV: DS 3015, citato in Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel
mondo contemporaneo Gaudium et spes, 59.
(65) Conc. Ecum.
Vat. I, Cost. dogm. sulla fede cattolica Dei Filius, IV: DS 3017.
(66) Cfr Lett.
enc. Pascendi dominici gregis (8 settembre 1907): ASS 40 (1907),
596-597.
(67) Cfr Pio XI,
Lett. enc. Divini Redemptoris (19 marzo 1937): AAS 29 (1937),
65-106.
(68) Lett. enc. Humani
generis (12 agosto 1950): AAS 42 (1950), 562-563.
(69) Ibid.,
l.c., 563-564.
(70) Cfr Giovanni
Paolo II, Cost. ap. Pastor Bonus (28 giugno 1988), artt. 48-49: AAS 80
(1988), 873; Congr. per la Dottrina della Fede, Istr. sulla vocazione
ecclesiale del teologo Donum veritatis (24 maggio 1990), 18: AAS 82
(1990), 1558.
(71) Cfr Istr. su
alcuni aspetti della « teologia della liberazione » Libertatis nuntius (6
agosto 1984), VII-X: AAS 76 (1984), 890-903.
(72) Il Concilio
Vaticano I, con parole tanto chiare quanto autoritative, aveva già condannato
questo errore, affermando da una parte che « quanto a questa fede [...], la
Chiesa cattolica professa che essa è una virtù soprannaturale, per la quale
sotto l'ispirazione divina e con l'aiuto della grazia, noi crediamo vere le
cose da lui rivelate, non a causa dell'intrinseca verità delle cose percepite
dalla luce naturale della ragione, ma a causa dell'autorità di Dio stesso, che
le rivela, il quale non può ingannarsi né ingannare »: Cost. dogm. Dei
Filius III: DS 3008, e can.3. 2: DS 3032. Dall'altra parte,
il Concilio dichiarava che la ragione mai « è resa capace di penetrare [tali
misteri] come le verità che formano il suo oggetto proprio »: ibid., IV:
DS 3016. Da qui traeva la conclusione pratica: « I fedeli cristiani non
solo non hanno il diritto di difendere come legittime conclusioni della scienza
le opinioni riconosciute contrarie alla dottrina della fede, specie se
condannate dalla Chiesa, ma sono strettamente tenuti a considerarle piuttosto
come errori, che hanno solo una ingannevole parvenza di verità »: ibid.,
IV: DS 3018.
(73) Cfr nn.
9-10.
(74) Ibid.,
10.
(75) Ibid.,
21.
(76) Cfr ibid.,
10.
(77) Cfr Lett.
enc. Humani generis (12 agosto 1950): AAS 42 (1950), 565-567;
571-573.
(78) Cfr Lett.
enc. Æterni Patris (4 agosto 1879): ASS 11 (1878-1879), 97-115.
(79) Ibid.,
l.c., 109.
(80) Cfr nn. 14-15.
(81) Cfr ibid.,
20-21.
(82) Ibid.,
22; cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Redemptor hominis (4 marzo 1979),
8: AAS 71 (1979), 271-272.
(83) Decr. sulla
formazione sacerdotale Optatam totius, 15.
(84) Cfr Giovanni
Paolo II, Cost. ap. Sapientia christiana (15 aprile 1979), art. 79-80: AAS
71 (1979), 495-496; Esort. ap. postsinodale Pastores dabo vobis (25
marzo 1992), 52: AAS 84 (1992), 750-751. Cfr pure alcuni commenti sulla
filosofia di S. Tommaso: Discorso al Pontificio Ateneo Internazionale Angelicum
(17 novembre 1979): Insegnamenti II, 2 (1979), 1177-1189; Discorso ai
partecipanti dell'VIII Congresso Tomistico Internazionale (13 settembre 1980): Insegnamenti
III, 2 (1980), 604-615; Discorso ai partecipanti al Congresso Internazionale
della Società « San Tommaso » sulla dottrina dell'anima in S. Tommaso (4
gennaio 1986): Insegnamenti IX, 1 (1986), 18-24. Inoltre, S. Congr. per
l'Educazione Cattolica, Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis (6
gennaio 1970), 70-75: AAS 62 (1970), 366-368; Decr. Sacra Theologia (20
gennaio 1972): AAS 64 (1972), 583-586.
(85) Cfr Cost.
past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 57; 62.
(86) Cfr ibid.,
44.
(87) Cfr Conc.
Ecum. Lateranense V, Bolla Apostolici regimini sollicitudo, Sessione
VIII: Conc. Oecum. Decreta, 1991, 605-606.
(88) Cfr Conc.
Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, 10.
(89) S. Tommaso
d'Aquino, Summa Theologiae, II-II, 5, 3 ad 2.
(90) « La ricerca
delle condizioni nelle quali l'uomo pone da sé le prime domande fondamentali
sul senso della vita, sul fine che ad essa vuole dare e su ciò che l'attende
dopo la morte, costituisce per la teologia fondamentale il necessario
preambolo, affinché, anche oggi, la fede abbia a mostrare in pienezza il cammino
ad una ragione in ricerca sincera della verità ». Giovanni Paolo II, Lettera
ai partecipanti al Congresso internazionale di Teologia Fondamentale a 125 anni
dalla « Dei Filius » (30 settembre 1995), 4: L'Osservatore Romano, 3
ottobre 1995, p. 8.
(91) Ibid.
(92) Cfr Conc.
Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et
spes, 15; Decr. sull'attività missionaria della Chiesa Ad gentes, 22.
(93) S. Tommaso
d'Aquino, De Caelo, 1, 22.
(94) Cfr Conc.
Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et
spes, 53-59.
(95) S. Agostino,
De praedestinatione sanctorum, 2,5: PL 44, 963.
(96) Id., De
fide, spe et caritate, 7: CCL 64, 61.
(97) Cfr Conc.
Ecum. Calcedonense, Symbolum, Definitio: DS 302.
(98) Cfr Giovanni
Paolo II, Lett. enc. Redemptor hominis (4 marzo 1979), 15: AAS 71
(1979), 286-289.
(99) Cfr, ad
esempio, S. Tommaso d'Aquino, Summa Theologiae, I, 16,1; S. Bonaventura,
Coll. in Hex., 3, 8, 1.
(100) Cost. past.
sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 15.
(101) Cfr
Giovanni Paolo II, Lett. enc. Veritatis splendor (6 agosto 1993), 57-61:
AAS 85 (1993), 1179-1182.
(102) Cfr Conc.
Ecum. Vat. I, Cost. dogm. sulla fede cattolica Dei Filius, IV: DS 3016.
(103) Cfr Conc.
Ecum. Lateranense IV, De errore abbatis Ioachim, II: DS 806.
(104) Cfr Conc.
Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, 24;
Decr. sulla formazione sacerdotale Optatam totius, 16.
(105) Cfr
Giovanni Paolo II, Lett. enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), 69: AAS
87 (1995), 481.
(106) Nello
stesso senso scrivevo nella mia prima Lettera enciclica a commento
dell'espressione del Vangelo di S. Giovanni: « Conoscerete la verità e la
verità vi farà liberi » (8, 32): «Queste parole racchiudono una fondamentale
esigenza ed insieme un ammonimento: l'esigenza di un rapporto onesto nei
riguardi della verità, come condizione di un'autentica libertà; e
l'ammonimento, altresì, perché sia evitata qualsiasi libertà apparente, ogni
libertà superficiale e unilaterale, ogni libertà che non penetri tutta la
verità sull'uomo e sul mondo. Anche oggi, dopo duemila anni, il Cristo appare a
noi come Colui che porta all'uomo la libertà basata sulla verità, come Colui
che libera l'uomo da ciò che limita, menoma e quasi spezza alle radici stesse,
nell'anima dell'uomo, nel suo cuore, nella sua coscienza, questa libertà »:
Lett. enc. Redemptor hominis (4 marzo 1979), 12: AAS 71 (1979),
280-281.
(107) Discorso di
apertura del Concilio (11 ottobre 1962): AAS 54 (1962), 792.
(108) Congr. per
la Dottrina della Fede, Istr. sulla vocazione ecclesiale del teologo Donum
veritatis (24 maggio 1990), 7-8: AAS 82 (1990), 1552-1553.
(109) Ho scritto
nell'Enciclica Dominum et vivificantem, commentando Gv 16, 12-13:
« Gesù presenta il Consolatore, lo Spirito di verità, come colui che
“insegnerà” e “ricorderà”, come colui che gli “renderà testimonianza”; ora
dice: “Egli vi guiderà alla verità tutta intera”. Questo “guidare alla verità
tutta intera”, in riferimento a ciò di cui gli Apostoli “per il momento non
sono capaci di portare il peso”, è in necessario collegamento con lo
spogliamento di Cristo per mezzo della passione e morte di croce, che
allora, quando pronunciava queste parole, era ormai imminente. In seguito,
tuttavia, diventa chiaro che quel “guidare alla verità tutta intera” si
ricollega, oltre che allo scandalum Crucis, anche a tutto ciò che Cristo
“fece ed insegnò” (At 1, 1). Infatti, il mysterium Christi nella
sua globalità esige la fede, poiché è questa che introduce opportunamente l'uomo
nella realtà del mistero rivelato. Il “guidare alla verità tutta intera” si
realizza, dunque, nella fede e mediante la fede: il che è opera dello Spirito
di verità ed è frutto della sua azione nell'uomo. Lo Spirito Santo deve essere
in questo la suprema guida dell'uomo, la luce dello spirito umano »: n. 6: AAS
78 (1986), 815-816.
(110) Cfr Conc.
Ecum. Vat. II, Cost. dogm. sulla divina Rivelazione Dei Verbum, 13.
(111) Cfr
Pontificia Commissione Biblica, Istr. sulla verità storica dei Vangeli (21 aprile
1964): AAS 56 (1964), 713.
(112) « E chiaro
che la Chiesa non può essere legata ad un qualunque sistema filosofico
effimero; ma quelle nozioni e quei termini, che con generale consenso furono
composti attraverso parecchi secoli dai dottori cattolici per arrivare a
qualche conoscenza e comprensione del dogma senza dubbio non poggiano su di un
fondamento così caduco. Si appoggiano invece a principi e nozioni dettate da
una vera conoscenza del creato; e nel dedurre queste conoscenze, la verità
rivelata, come una stella, ha illuminato, per mezzo della Chiesa, la mente
umana. Perciò non c'è da meravigliarsi se qualcuna di queste nozioni non solo
sia stata adoperata in Concili Ecumenici, ma vi abbia ricevuto tale sanzione
per cui non ci è lecito allontanarcene »: Lett. enc. Humani generis (12
agosto 1950): AAS 42 (1950), 566-567; cfr Commissione Teologica
Internazionale, Doc. Interpretationis problema (ottobre 1989): Ench.
Vat. 11, nn. 2717-2811.
(113) « Quanto al
significato stesso delle formule dogmatiche, esso nella Chiesa rimane sempre
vero e coerente, anche quando è maggiormente chiarito e meglio compreso.
Devono, quindi, i fedeli rifuggire dall'opinione la quale ritiene che le
formule dogmatiche (o qualche categoria di esse) non possono manifestare la verità
determinatamente, ma solo delle sue approssimazioni cangianti che sono, in
certa maniera, deformazioni e alterazioni della medesima »: S. Congr. per la
Dottrina della Fede, Dich. sulla difesa della dottrina cattolica circa la
Chiesa, Mysterium Ecclesiae (24 giugno 1973), 5: AAS 65 (1973),
403.
(114) Cfr Congr.
S. Officii, Decr. Lamentabili (3 luglio 1907), 26: ASS 40 (1907),
473.
(115) Cfr
Giovanni Paolo II, Discorso al Pontificio Ateneo « Angelicum » (17 novembre
1979), 6: Insegnamenti, II, 2 (1979), 1183-1185.
(116) N. 32: AAS
85 (1993), 1159-1160.
(117) Cfr
Giovanni Paolo II, Esort. ap. Catechesi tradendae (16 ottobre 1979), 30:
AAS 71 (1979), 1302-1303; Congr. per la Dottrina della Fede, Istr. sulla
vocazione ecclesiale del teologo Donum veritatis (24 maggio 1990), 7: AAS
82 (1990), 1552-1553.
(118) Cfr
Giovanni Paolo II, Esort. ap. Catechesi tradendae (16 ottobre 1979), 30:
AAS 71 (1979), 1302-1303.
(119) Cfr ibid.,
22, l. c., 1295-1296.
(120) Cfr ibid.,
7, l. c., 1282.
(121) Cfr ibid.,
59, l. c., 1325.
(122) Conc. Ecum.
Vat. I, Cost. dogm. sulla fede cattolica Dei Filius, IV: DS 3019.
(123) « Nessuno
può fare della teologia quasi che fosse una semplice raccolta dei propri
concetti personali; ma ognuno deve essere consapevole di rimanere in stretta
unione con quella missione di insegnare la verità, di cui è responsabile la
Chiesa »: Giovanni Paolo II, Lett. enc. Redemptor hominis (4 marzo
1979), 19: AAS 71 (1979), 308.
(124) Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Dich. sulla libertà religiosa Dignitatis
humanae, 1-3.
(125) Cfr Esort.
ap. Evangelii nuntiandi (8 dicembre 1975), 20: AAS 68 (1976),
18-19.
(126) Cost. past
sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 92.
(127) Cfr ibid.,
10.
(128) Prologus,
4: Opera omnia, Firenze 1891, t. V, 296.
(129) Cfr Conc. Ecum.
Vat. II, Decr. sulla formazione sacerdotale Optatam totius, 15.
(130) Cfr
Giovanni Paolo II, Cost. ap. Sapientia christiana (15 aprile 1979),
artt. 67-68: AAS 71 (1979), 491-492.
(131) Giovanni
Paolo II, Discorso all'Università di Cracovia per il 600o anniversario
dell'Alma Mater Jagellonica (8 giugno 1997), 4: L'Osservatore Romano,
9-10 giugno 1997, p. 12.
(132) « 'e noerà
tes písteos tràpeza »: Omelia in lode di Santa Maria Madre di Dio, dello
pseudo Epifanio: PG 43, 493.