L'altra guancia o la spada ?
Gianfranco Ravasi
Il Sole24Ore - 30/9/2001
Diventato persino uno stereotipo, pronunciato spesso con una punta di
ironia: "porgere l'altra guancia" è, come si sa, una citazione
semplificata del Vangelo di Matteo (5,38-41 ) e, più precisamente, di quel
discorso di Gesù detto "della Montagna", a causa del suo
fondale forse più simbolico che reale.
E' interessante, comunque, risalire al testo
integrale e al suo contesto. Cristo rievoca la cosiddetta "legge del
taglione": "Avete inteso che fu detto: Occhio
per occhio e dente per dente". Su questa norma, espressa in modo
apodittico e icastico, bisognerebbe essere più cauti di quanto si è soliti
fare. Essa, infatti, non è - al di là della sua formulazione che suona brutale
ai nostri orecchi - nient'altro che una colorata definizione della giustizia
distributiva: a un delitto deve corrispondere una pena del tutto pari e
coerente.
Ora, se stiamo alle guerre e
alle stesse ritorsioni che vengono praticate da certi stati (compreso lo stato
di Israele), la legge del taglione è violata e sostituita da quella che porta
il nome di un personaggio biblico, Lamek, il quale dichiarava senza esitazione: "Ho
ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette
volte sarà vendicato Caino, ma Lamek settantasette" ( Genesi 4,
23-24 ). Gesù non vuole negare il principio della giustizia ma - come avviene
in tutta la serie di casi che egli propone in quel discorso - vuole suggerire al
suo discepolo di procedere oltre, imboccando la via dell' amore, del perdono,
della non-violenza.
Ecco, allora, il suo
insegnamento affidato a un trittico di esempi che sono simili a mini-parabole: "Io
vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti percuote la guancia destra,
tu porgigli anche l'altra; a chi ti vuol chiamare in causa per toglierti la
tunica, tu lascia anche il mantello; e se uno ti costringe a fare un miglio, tu
fanne con lui due". Alla stessa legge di Lamek egli opporrà
questa legge antitetica: "Non perdonerai fino a
sette volte sette ma fino a settanta volte sette" (Matteo
18,22). E Gesù sarà sempre coerente con questo suo principio: si pensi al suo
arresto e all' invito rivolto al suo discepolo che tenta di difenderlo con una
spada ("Rimetti la spada nel fodero...").
Ora, nello spirito di tutto
quel discorso della Montagna - si pensi solo alla splendida ed emozionante
pagina di apertura, le beatitudini - Gesù non vuole proporre né una
legislazione ecclesiale o sociale né codificare una regola concreta. Egli
delinea un atteggiamento radicale, una vera e propria opzione della coscienza;
la sua è una spina messa nel fianco del buonsenso, dell'ovvio, del luogo comune
così da mostrare una più alta potenzialità di vita, una ben diversa società,
una meta, possibile eppur desueta, aperta all'uomo.
In questa luce si può parlare
di utopia ma nel senso più alto del termine e Gesù incarna in modo forse
supremo la missione genuina delle religioni. Esse non devono ridursi a gestire
l'esistente, come deve fare uno Stato, né ridursi al piccolo cabotaggio ma far
tendere l'umanità verso un Oltre e un Altro.
In questa prospettiva si
colloca coerentemente il costante magistero di Giovanni Paolo II, anche in
occasione degli attuali eventi tragici. Questo, però, non significa che la
morale religiosa (e cristiana in particolare ) debba escludere la giustizia e la
storicità con tutto il suo peso. Gesù stesso polemizza aspramente con la
gestione del potere politico e religiosa di allora, facendo denuncie specifiche
( si legga, ad esempio, Matteo 23 ) ma anche col suo celebre detto: "Date
a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio"
riconosce un' autonomia al potere politico. Paolo nella Lettera ai Romani
affronta la questione fiscale affermando non solo la legittimità dell'autorità
costituita - che nella fattispecie era quella imperiale di Nerone - e del suo
sistema penale perché "non invano essa porta la
spada" ( 13,1-7 ) . L' Apocalisse, invece, attacca aspramente le
repressioni e le ingiustizie di quello stesso potere romano, raffigurato sotto
l' immagine di Babilonia.
Ecco, allora, la costante
necessità per i cristiani di non perdere di vista l'ideale, riducendosi a un
partito o a movimento di opinione, ma anche di non astrarsi dalla realtà
racchiudendosi nel bozzolo della tensione apocalittica o mistica. E' un
difficile equilibrio che comporta, da un lato, la continua affermazioni dei
grandi valori, della moralità alta, di ideali anche supremi, e d'altro lato, la
necessità della loro "incarnazione" e quindi del confronto col
groviglio delle vicende sociali, politiche, economiche. Riguardo a questo
secondo versante vorremmo proporre un esempio che ben s'adatta ai giorni che
stiamo vivendo.
Intendiamo riferirci alla
legittima difesa che di per sé eccede rispetto alla logica del "porgere
l'altra guancia" ma che si colloca nel piano più "basso"
della norma di giustizia. Famosa è la giustificazione etica addotta da Tommaso
d' Aquino: "L'azione di difendersi reca con sé un
duplice effetto: l'uno è la conservazione della propria vita, l'altro è la
morte dell'aggressore. Il primo è quello veramente voluto, l'altro non lo è"
(Summa Theologiae II-III,64,7). La tradizione cristiana preciserà questa regola
del "duplice effetto" in ambito pubblico elencando le condizioni da
rispettare per ammettere la legittimità di questa autodifesa: che tutti gli
altri mezzi si rivelino impraticabili e inefficaci, che l'uso di armi non crei
mali e disordini più gravi del male da eliminare (proibita sarebbe, perciò,
l'opzione nucleare), che non si colpiscano innocenti, che il danno inflitto
dall' aggressore sia durevole, grave e provato nelle sue responsabilità.
E' ciò che è affermato anche
nel Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992 (nn.2.263e 2.309) ed è ciò che
è stato ripetuto dalla lettera dei vescovi cattolici americani al presidente
Bush nei giorni scorsi: "La nostra nazione ha il
diritto morale e il grave obbligo di difendere il bene comune contro tali
attacchi terroristici...Ma ogni risposta militare dev'essere in accordo con i
sani principi morali quali la probabilità di successo, l'immunità dei civili e
la proporzionalità". Ma lo stesso testo comprende anche una eco
del principio evangelico da cui siamo partiti, formulato attraverso l'invito a
impegnarsi per rimuovere le cause strutturali ingiuste, a ripudiare
l'intolleranza etnica e religiosa, a considerare sempre arabi e musulmani come
fratelli e sorelle, "parte della nostra famiglia nazionale e umana",
e - citando una frase di Giovanni Paolo II - a "non
cedere alla tentazione dell'odio e della violenza, impegnandosi al servizio
della giustizia e della pace". La chiesa, quindi, pur coinvolta
nella giustizia che dovrebbe reggere la città di Cesare, non deve mai
dimenticare la legge ultima del Regno di Dio.