Ufficio Catechistico Nazionale

Incontro alla Bibbia
Breve introduzione alla Sacra Scrittura per il cammino catechistico degli adulti - Roma - 1996

 

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Introduzione

Che cos'è la Bibbia? E' il libro più diffuso e più tradotto nel mondo. E' anche uno dei libri più antichi che si conosca. E' senza dubbio il libro che ha lasciato le tracce più significative nel cammino dell'umanità. Arte, letteratura, musica, vita e costumi dei popoli si sono ispirati alla Bibbia, da essa sono stati plasmati e hanno tratto nutrimento.

E naturalmente, prima di tutto, la Bibbia è libro sacro, il libro della fede per un numero indescrivibile di persone, da tanti secoli. Al suo messaggio hanno ispirato la loro vita e su di essa hanno edificato le loro comunità.
C'è da chiedersi allora quale sia il segreto della Bibbia, da che cosa essa tragga la capacità di segnare così profondamente la storia del mondo e delle persone.

Una prima, immediata risposta è che la Bibbia è il documento centrale della religione ebraica e di quella cristiana; ma anche il mondo islamico ne ha stima. È un'opera letteraria, anzi una vera e propria letteratura, che raccoglie la storia bimillenaria di Israele, di Gesù e dei primi cristiani. Questa storia porta con sé un messaggio straordinario: la rivelazione che Dio ha fatto di sé all'umanità e il disegno di salvezza che egli va costruendo nella storia.
Di questi tre aspetti della Bibbia tratta per larga parte questo libretto, che vuole aiutare ad entrare in essa.

Ascoltando il messaggio della Bibbia, si scopre poi che essa è qualcosa di più di un testo letterario e storico: è parola di Dio.
La Bibbia è la parola che Dio ha fatto risuonare nel tempo, nelle parole dei profeti, di Gesù e degli apostoli, e che mediante gli scrittori sacri ha consegnato prima al popolo d'Israele, poi, in modo definitivo, alla Chiesa e, tramite suo, a tutte le persone della terra.
Qui sta il segreto della Bibbia, la ragione della sua esistenza. La fede della Chiesa lo ha affermato da sempre: Dio ha donato agli uomini la sua stessa parola, perchè possa risuonare in ogni tempo, anche oggi, come fosse la prima volta. E' un mistero grande, in cui l'opera dello Spirito si unisce a quella dell'uomo. E' parte del mistero dell'incarnazione, di quel cammino di Dio incontro all'uomo che ha il suo vertice nella Parola fatta carne.
Anche di questo aspetto trattano le pagine che seguono, soprattutto allo scopo di far comprendere in che modo possano collegarsi la dimensione umana e quella divina
della Scrittura.

Se nella Bibbia incontriamo la parola di Dio, anzi è essa stessa parola di Dio per noi, non possiamo allora fare a meno della Bibbia: è il nostro cibo. Alla mensa della vita i cristiani si nutrono della parola e del corpo di Cristo.
L'orizzonte si apre oltre il puro sapere che cosa sia la Bibbia, oltre la conoscenza della sua origine, della sua articolazione e dei suoi contenuti. Si tratta di entrare dentro la Bibbia, abitarvi, meditarla, pregarla; si tratta di lasciarsi ispirare da essa, con essa discernere i segni dei tempi, capire la volontà di Dio, metterla in pratica. È questa l'esperienza della Parola, che costituisce il fine proprio di ogni lettura credente della Bibbia.

Di tutto ciò vogliamo parlare in queste pagine, che non pretendono di esaurire i problemi, ma vogliono offrire una breve introduzione ad essi, gli elementi essenziali per un primo accostamento al testo sacro. In esse non si troveranno teorie nuove, ma la presentazione in termini sintetici di opinioni condivise sulle problematiche letterarie e storiche, e l'esposizione della dottrina e dell'esperienza della Chiesa per gli aspetti di fede e la vita del libro nella comunità.
Questo libretto si affianca ad un volume più grande, quello del Catechismo degli adulti della Conferenza Episcopale Italiana, che ha come titolo La verità vi farà liberi. La Bibbia è la prima irrinunciabile fonte della catechesi; nessun catechismo
potrà e dovrà mai sostituirla. L'esperienza mostra anche che non è possibile fare un buon cammino catechistico, se non si è capaci di un'appropriata utilizzazione della Bibbia. E tra le finalità fondamentali di ogni buona catechesi c'è quella di abilitare ad accostarsi personalmente alla Bibbia nell'orizzonte della fede della Chiesa. Queste pagine vengono offerte per aiutare a gustare la ricchezza biblica del nuovo Catechismo degli adulti e per rendere capaci di leggere la Bibbia seguendo le sue indicazioni, così da dare piena attuazione a quella presenza diffusa della Sacra Scrittura tra noi, auspicata anche di recente (18 novembre 1995) da un documento dei nostri vescovi su La Bibbia nella vita della Chiesa, nel cui titolo risuona l'invito paolino: "La parola del Signore si diffonda e sia glorificata (2 Ts 3,1)".


L'auspicio che accompagna questa pubblicazione è che grazie ad essa ciascuno possa meglio gustare l'incontro con la parola di Dio scritta, che è "saldezza della fede, cibo dell'anima, sorgente pura e perenne della vita spirituale" (Dei Verbum, 21).

L'Ufficio Catechistico Nazionale


Il messaggio della Bibbia


Nella Bibbia Dio si rivela come Padre ai suoi figli e conversa con gli esseri umani come con amici, per introdurli alla comunione di sé (cf. Dei Verbum, 2). Dio si manifesta non solo per mezzo delle parole, ma anche attraverso fatti ed eventi che la parola interpreta. Egli infatti rivela se stesso e il suo disegno di salvezza nella storia d'Israele, che giunge al suo vertice con la venuta di Gesù Cristo, "figlio di Davide e figlio di Abramo" (Mt 1,1). Lungo questa storia Dio si manifesta in molti modi e in tempi diversi per mezzo di persone ispirate, ma alla fine parla ai credenti per mezzo del Figlio suo (cf. Eb 1,1-2).

Gesù Cristo è la parola vivente per mezzo della quale tutto è stato fatto. È la parola che illumina ogni essere umano, perché abita nel mondo come nella sua casa. Nell'umanità di Gesù la Parola, che da sempre era rivolta al Padre nel colloquio eterno, diventa carne e prende stabile dimora nel mondo. In Gesù, il Figlio unico di Dio, gli uomini riconoscono il volto di Dio e si aprono al dono traboccante del suo amore fedele (cf. Gv 1,1-14).

Perciò la Bibbia, che contiene e attesta la parola di Dio, si rivolge direttamente ai figli di Israele e ai discepoli di Gesù, ma è destinata ad ogni essere umano chiamato ad entrare nella piena e gioiosa comunione con Dio.


1. La salvezza di Dio nell'orizzonte dell'esodo e dell'alleanza

Il nucleo fecondo e unificante della storia della rivelazione di Dio, consegnata nei testi ispirati della Bibbia, é costituito dall'esperienza dell'esodo e dall'impegno dell'alleanza con Dio. Infatti prima di diventare una raccolta di libri, scritti in tempi diversi e da vari autori, la Bibbia é stata il racconto vivo dell'esperienza di Dio che libera gli oppressi dalla schiavitù dell'Egitto e li introduce nella terra promessa ai padri. Nella celebrazione memoriale della Pasqua, nel contesto del pasto familiare, il padre racconta ai figli la storia della liberazione. Così ogni generazione si sente partecipe dell'evento che sta all'origine della comunità dei credenti. Un'eco del processo di trasmissione, da cui scaturisce il racconto biblico, si conserva nei testi relativi al rito della Pasqua. Quando i figli chiederanno ai loro padri: "Che significa questo atto di culto?", essi sono invitati a rispondere così: "È il sacrificio della Pasqua per il Signore, il quale é passato oltre le case degli Israeliti in Egitto, quando colpì l'Egitto e salvò le nostre case" (Es 12, 26-27).

La celebrazione della Pasqua ritma anche il cammino del popolo di Dio, dalla Pasqua nel deserto nel secondo anniversario dell'esodo, fino alla Pasqua sognata dai profeti come evento anticipatore della liberazione definitiva (cf. Is 25,6-8; Ez 45,18-24). Quando i figli di Israele sotto la guida di Giosuè si accampano a Galgala, al di là del Giordano, celebrano la prima Pasqua nella terra promessa (cf. Gs 5,10-12). La riforma religiosa intrapresa dai re di Gerusalemme Ezechia e Giosia ha il suo sigillo in una rinnovata celebrazione della Pasqua memoriale dell'esodo (cf. 2 Cr 30,1-27; 2 Re 23, 21-23). Anche i rimpatriati dall'esilio confermano la loro speranza nella rinascita della comunità e nella ricostruzione del tempio del Signore con una solenne celebrazione della Pasqua (cf. Esd 6,19-22).

Nel contesto della liturgia del tempio le famiglie che compongono il popolo di Dio vivono l'esperienza fondante dell'esodo. Nella festa annuale del ringraziamento il padre di famiglia si reca al santuario portando le primizie dei frutti della terra e consegnandoli al sacerdote fa la sua professione di fede: "Mio padre era un Arameo errante; scese in Egitto, vi stette come un forestiero con poca gente e vi diventò una nazione grande, forte e numerosa. Gli Egiziani ci maltrattarono, ci umiliarono e ci imposero una dura schiavitù. Allora gridammo al Signore, al Dio dei nostri padri, e il Signore ascoltò la nostra voce, vide la nostra umiliazione, la nostra miseria e la nostra oppressione; il Signore ci fece uscire dall'Egitto con mano potente e con braccio teso, spargendo terrore e operando segni e prodigi, e ci condusse in questo luogo e ci diede questo paese dove scorre latte e miele" (Dt 26,5-9). In questo schema narrativo del "credo" del Deuteronomio si intravede il canovaccio che sta alla base della Bibbia.

Nella stessa cornice liturgica si rivive l'esperienza di alleanza. Il processo di liberazione storica infatti si conclude con l'impegno preso davanti al Signore di vivere nella fedeltà sulla base delle "dieci parole". Se ne conserva un'eco nel Salmo che rievoca la situazione vitale di rinnovamento dell'alleanza. Per mezzo del sacerdote Dio convoca il suo popolo - "i miei fedeli, che hanno sancito con me l'alleanza" - e gli ricorda l'impegno fondamentale: "Io sono Dio, il tuo Dio" (Sal 50,5.7). Da questo principio della fedeltà a Dio come unico Signore dipendono le altre clausole che riguardano i rapporti con il prossimo. A chi si impegna a vivere nel rapporto di alleanza viene rinnovata la promessa di benedizione: "A chi cammina per la retta via, mostrerò la salvezza di Dio" (Sal 50,23). È dunque nell'orizzonte di esodo e di alleanza che il popolo di Israele vive e continuamente sperimenta la salvezza di Dio.


1.1. Dall'esodo al dono della terra

La prima tappa dell'esperienza di salvezza é l'uscita dei figli di Israele dalla condizione di oppressione nella terra d'Egitto. Questo evento fa parte della memoria religiosa del popolo di Dio, come è documentato nelle antiche professioni di fede e nelle celebrazioni liturgiche, di cui si ha un'eco nei Salmi.

Anche i testi profetici, i primi ad essere consegnati alla memoria scritta di Israele, riflettono questa coscienza di fede radicata nell'esodo. Il profeta Amos dell'ottavo secolo denuncia le forme di ingiustizia e di oppressione dei poveri nella terra, che è dono di Dio per tutti i liberati. Egli si appella al principio basilare della fede biblica: "Ascoltate questa parola che il Signore ha detto riguardo a voi, Israeliti, e riguardo a tutta la stirpe che ho fatto uscire dall'Egitto" (Am 3,1; cf. 2,10). Negli stessi anni il profeta Osea si rivolge agli abitanti del regno del nord, Israele, e con un linguaggio ispirato alle relazioni parentali, rievoca l'evento nel quale si radica il legame di Dio con il suo popolo: "Quando Israele era giovinetto, io l'ho amato e dall'Egitto ho chiamato mio figlio" (Os 11,1).


L'esodo di Mosè

Su queste antiche tradizioni, che fanno parte del patrimonio religioso comune del regno di Israele e di Giuda, si innesta la narrazione biblica dell'esodo dall'Egitto. Esso diventa il modello delle successive esperienze di liberazione da parte di Dio per la salvezza dei credenti. Il momento cruciale di questa esperienza fondativa è l'incontro di Mosè con Dio alla montagna santa del Sinai, chiamato anche Oreb. Mosè, ricercato a morte dal faraone perché ha ucciso un Egiziano, si rifugia nel deserto di Madian e viene accolto dal sacerdote Reuel (o Ietro). Tra le figlie del sacerdote di Madian trova moglie, Zippora, e ha un figlio. Egli lo chiama Gherson, un nome che evoca la sua condizione: "Sono un emigrato in terra straniera!" (Es 2,22). In questa situazione Dio si manifesta a Mosè per incaricarlo di condurre fuori dall'Egitto i suoi fratelli oppressi.

Il primo "esodo" è quello che vive Mosè. Egli nell'incontro con Dio all'Oreb è invitato a passare dall'immagine spettacolare e cosmica di Dio, a quella della fede. Dio infatti si rivolge a Mosè che si accosta per vedere "questo grande spettacolo" (Es 3,3) - il fuoco che brucia in mezzo al roveto senza consumarlo - con queste parole: "Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe" (Es 3,6). Poi il Signore gli manifesta il suo progetto di liberazione con le parole che ricordano la professione di fede tradizionale: "Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell'Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele" (Es 3,7-8). Mosè riceve l'incarico di andare in nome di Dio dal faraone per far uscire gli Israeliti dall'Egitto.

Dio si presenta come il go‘el, il "riscattatore". Egli è come il fratello e amico che è tenuto, in forza del vincolo di sangue, a liberare il consanguineo o amico caduto in schiavitù. Il legame di alleanza con i padri fonda l'azione liberatrice di Dio. Mosè è chiamato a entrare in questa prospettiva. Egli però vorrebbe avere una garanzia di riuscita e un segno della sua investitura, per presentarsi a nome di Dio agli Israeliti in Egitto. Vuole conoscere il "nome" di Dio. Questo lo metterà al riparo da ogni rischio, perché lo renderà partecipe della potenza di Dio. La risposta di Dio è un impegno: "Io sarò con te" (Es 3,12). Il segno è la promessa dell'incontro dei liberati alla montagna santa: "Quando tu avrai fatto uscire il popolo dall'Egitto, servirete Dio su questo monte" (Es 3,12). Il nome di Dio é racchiuso nel suo impegno-promessa. Agli Israeliti infatti Mosè deve dire: "Io-Sono mi ha mandato a voi" (Es 3,14).


Il cammino di fede del popolo dell'esodo

Incomincia così l'avventura della fede di Mosè. Egli deve educare il popolo oppresso alla stessa relazione di fede con il Dio dei padri. Per fare questo, essi devono vincere la paura di fronte alla potenza minacciosa del faraone, che rivendica di essere l'unico "Signore" in Egitto e impedisce ai figli di Israele di servire il proprio Dio. I dieci segni che Mosè compie in nome di Dio nella terra d'Egitto servono da una parte a demolire questa falsa immagine del dio faraonico e dall'altra a far riconoscere agli oppressi che solo Dio è il Signore.

Questa è la proposta che fa Mosè nella notte del passaggio del "mare delle Canne". Al popolo che grida per la paura perché non vede una via d'uscita - davanti ha il mare e il deserto, alle spalle l'esercito del faraone - Mosè propone la scelta di Dio: "Non abbiate paura! Siate forti e vedrete la salvezza che il Signore oggi opera per voi" (Es 14,13). E, dopo il passaggio del mare nella notte sotto l'azione potente e misteriosa di Dio, il narratore biblico registra il percorso della fede dei liberati in questi termini: "Israele vide la mano potente con la quale il Signore aveva agito contro l'Egitto e il popolo temette il Signore e credette in lui e nel suo servo Mosè" (Es 14,31).


Le clausole dell'alleanza

Il cammino della fede prosegue fino all'appuntamento fissato da Dio nel deserto ai piedi del monte Sinai. Il processo di liberazione sfocia nell'alleanza. È ancora il Signore che prende l'iniziativa. Quando Israele guidato da Mosè arriva ai piedi del monte, Dio lo chiama e lo incarica di presentare al popolo la proposta di alleanza: "Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all'Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatti venire fino a me. Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli... Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa" (Es 19,4-6). La condizione fondamentale per vivere nella libertà donata da Dio mediante l'esodo è "ascoltare" la sua voce, "custodire" la sua alleanza. Il termine biblico "alleanza", in ebraico berith, esprime sia l'impegno sovrano di Dio sia l'impegno di quelli che entrano nell'alleanza. Essi formano il suo popolo, una comunità di liberi e di consacrati.

La "voce" di Dio o la sua alleanza si concretizza nella proposta della "dieci parole", il decalogo, che Dio comunica al popolo nel contesto di una imponente teofania cosmica sul monte Sinai: "Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù..." (Es 20,2). Da questa autorevolezza di Dio, come colui che sta all'origine della liberazione, scaturiscono le dieci parole come condizioni per vivere nella libertà. La fedeltà a Dio come unico Signore e la giusta relazione con il prossimo sono i due princìpi nei quali si condensano le clausole dell'alleanza. Essi possono essere trascritti nel linguaggio dell'amore. Il comandamento fondamentale, che diventa professione di fede nella tradizione deuteronomista, dice: "Ascolta, Israele: il Signore è i1 nostro Dio, i1 Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze" (Dt 6,4-5). Nella tradizione sacerdotale il rapporto di consacrazione a Dio, il "Santo", si coniuga con l'impegno ad attuare giusti rapporti con gli altri. L'invito a superare il rancore e la vendetta nel confronti del fratello, membro dell'alleanza, in forma positiva è formulato così: "Amerai il tuo prossimo come te stesso" (Lv 19,18).

 


La terra dono di Dio

La meta finale del cammino dell'esodo e il compimento delle benedizioni connesse con l'alleanza è l'ingresso nella terra promessa da Dio ai padri. Questo percorso ideale sta sullo sfondo della rilettura epica dell'esperienza esodica fatta nel canto del mare: "Guidasti con il tuo favore questo popolo che hai riscattato, lo conducesti con forza alla tua santa dimora... Lo fai entrare e lo pianti sul monte della tua eredità, luogo che per tua sede, Signore, hai preparato" (Es 15,13.17). Per introdurre il popolo nella terra di Canaan, Dio ne scaccia gli abitanti e fa crollare ogni possibile resistenza. In questa prospettiva religiosa si comprendono i racconti dell'ingresso e della conquista della terra. Anche se Giosuè, che prende il posto di Mosè, guida i figli di Israele alla conquista della terra, in realtà è Dio stesso che conduce come un combattente vittorioso il suo popolo. Gli fa attraversare come in un nuovo esodo il fiume Giordano, fa crollare le mura delle città fortificate - esemplare è la conquista di Gerico -, sconfigge i re coalizzati.

Perciò il possesso della terra, conquistata e distribuita in nome di Dio, è condizionato alla fedeltà all'alleanza con il Signore. Quando gli Israeliti si dimenticano delle opere del Signore e si mettono a servire altri dèi, essi ricadono nella condizione precedente all'esodo. Sono soggetti alle incursioni del predoni del deserto, come i Madianiti, oppure sono oppressi dai Filistei. In questa situazione il popolo grida al Signore e invoca la liberazione. Dio suscita un liberatore carismatico, un "giudice", che fa rivivere ancora l'esperienza dell'esodo. Questa altalena di oppressione e liberazione prosegue anche nella storia della monarchia, quando il re prende il posto delle figure carismatiche. Il re, scelto da Dio, è consacrato per liberare il popolo dai suoi nemici (cf. 1 Sam 10,1).

Anche il re, come rappresentante di tutto il popolo, sta all'interno della logica dell'alleanza e si impegna ad attuarne le clausole. È dunque la violazione dell'alleanza la vera causa della rovina dei due regni, che si sono costituiti alla morte di Salomone. Prima il regno di Israele al nord e poi quello di Giuda al sud cadono sotto la pressione irresistibile della potenza assira e di quella babilonese. Ma per lo storico della Bibbia la caduta del regno del nord nel 721 ha la sua causa nella rottura del rapporto di alleanza: "Ciò avvenne perché gli Israeliti avevano peccato contro il Signore loro Dio, che li aveva fatti uscire dal paese d'Egitto, liberandoli dal potere del faraone re d'Egitto; essi avevano temuto altri dèi" (2 Re 17,7). A questo criterio teologico dell'alleanza si ispirano tutte le riletture della storia biblica nel contesto delle liturgie penitenziali del tempo dell'esilio e del ritorno (cf. Ne 9,5-37; Bar 1,15-2,10; Dn 9,4-19). La ragione profonda della rovina del popolo d'Israele è la sua infedeltà al rapporto di alleanza, condizione per vivere in libertà sulla terra, dono di Dio.


1.2. Dalle origini del mondo all'invio del Messia

Un arco ideale collega l'esperienza dell'esodo e il racconto delle origini del mondo e dell'umanità, che occupa le prime pagine della Genesi. Infatti la categoria biblica di "creazione", che rilegge gli antichi miti delle origini, è maturata al tempo dell'esilio, quando si rivive l'esodo come ritorno dalla terra della deportazione e nascita di una nuova comunità. Il profeta anonimo che incoraggia i deportati in Babilonia li invita a riscoprire le ragioni della speranza nella fedeltà di Dio, il Signore, il primo e l'ultimo, colui che può mantenere le promesse perché ha creato il mondo e guida la storia: "Levate in alto i vostri occhi e guardate: chi ha creato quegli astri? Egli fa uscire in numero preciso il loro esercito e li chiama tutti per nome... Dio eterno è il Signore, creatore di tutta la terra" (Is 40,26.28).

Il Signore stesso presenta il suo "servo", da lui scelto ed abilitato con il dono dello Spirito per attuare il suo disegno di salvezza. Esso inizia con la liberazione dei deportati, ma si estende a tutti i popoli, che saranno testimoni della fedeltà di Dio. Il Signore è in grado di attuare quello che promette, perché egli "crea i cieli e li dispiega, distende la terra con ciò che vi nasce, dà il respiro alla gente che la abita e l'alito a quanti camminano su di essa" (Is 42,5).

L'esperienza di Dio creatore del mondo e Signore della storia nasce e matura nei campi di prigionia dell'esilio. Qui si intuisce che Dio è in grado di far ripartire la storia, perché egli è il "creatore". Il Signore che ha "creato" e "plasmato" il suo popolo Israele in forza del suo amore fedele, è lo stesso che sta all'origine del mondo e della storia umana. In questo clima nasce la prima pagina della Genesi. La potenza della parola di Dio fa uscire il mondo dal caos e dà ordine e stabilità al cielo, alla terra e al mare (cf. Gen 1,1-2,4a).

La parola efficace di Dio trasmette la benedizione della vita agli animali. Dio crea l'essere umano a sua "immagine e somiglianza" e lo incarica di rappresentarlo nel mondo dei viventi. In questo mondo creato dalla parola di Dio non c'è posto per altre immagini di Dio. Lo stesso creatore resta estasiato nel vedere che tutto quello che ha fatto è buono, anzi molto buono, bello e splendido. Ma lo scopo finale di questa contemplazione narrativa dell'opera di Dio creatore è quello di proporre l'imitazione del suo riposo nel giorno da lui benedetto e consacrato: il sabato. È questo un indizio dell'origine esilica di questa pagina, posta come chiave musicale in apertura dell'intera sinfonia biblica. La preoccupazione di affermare l'unica signoria di Dio sullo sfondo dei culti idolatrici di Babilonia, va di pari passo con l'esigenza di indicare la ragione profonda dell'osservanza del sabato, segno distintivo della comunità dell'alleanza.


La storia del male umano e la speranza

In questa ottica entra anche il secondo racconto della creazione, che a prima vista può apparire come un doppione (cf. Gen 2,4b-3,24). In realtà esso fa da sfondo alla storia del giardino di Eden, in cui si svolge il dramma della libertà dell'umanità. Nella scena entrano i protagonisti: l'uomo plasmato dalle mani di Dio con la polvere del suolo, ma reso vivente con il suo soffio; la donna plasmata da Dio con la costola dell'uomo e a questi presentata come sua compagna; il serpente, una delle bestie più astute create da Dio. Completano il quadro due alberi, che stanno in mezzo al giardino e rappresentano i desideri più intensi dell'essere umano: l'albero della vita e quello del sapere totale. Dio incarica l'essere umano di coltivare e custodire il giardino, con la possibilità di mangiare da tutti gli alberi, escluso quello della "conoscenza del bene e del male" (Gen 2,17). La scalata al potere, rappresentato dalla conoscenza totale, ha un esito fatale, la morte.

È questo lo schema che si ritrova negli antichi racconti simbolici della Mesopotamia. Il tentativo degli eroi di impossessarsi della sapienza e della vita si scontra con il destino della morte. Il racconto biblico rilegge questa riflessione sull'esperienza dell'essere umano nel paradigma dell'alleanza. È l'infrazione della clausola data da Dio per tutelare la vita che apre la via alla catastrofe della morte. È questo il terzo atto del dramma del giardino. La proposta che il serpente astuto fa alla coppia primordiale - accedere al potere assoluto di Dio - si infrange contro la realtà del limite umano del dolore e della morte. Ma il credente non si rassegna alla fatalità di un mondo senza vie d'uscita. Al vertice del dramma umano il narratore biblico fa risuonare la promessa di Dio: il discendente della donna schiaccerà la testa al serpente.

Come un filo rosso questa promessa, che nutre la speranza, esce con la coppia umana dal giardino dell'Eden e l'accompagna fino al suo compimento. Il peccato del giardino è il prototipo e la fonte di ogni storia successiva di peccato. Lo stesso schema si riproduce nel dramma dei due fratelli, Caino e Abele, rappresentanti delle culture umane in conflitto tra loro (cf. Gen 4,1-24). Anche la storia del diluvio, modellata su analoghi antichi racconti mesopotamici, fa leva sulla violenza dell'umanità che riempie tutta la terra e la fa precipitare nel caos. La parola e la benedizione di Dio fanno ripartire la storia dell'essere umano e di tutti i viventi. Questa storia ha la garanzia della stabilità nell'impegno di Dio: "Ricorderò la mia alleanza che è tra me e voi e tra ogni essere che vive in ogni carne" (Gen 9,15). Alla base di questa "alleanza eterna" (Gen 9,16) è la clausola posta da Dio a tutela della vita a partire da quella dell'essere umano creato a immagine di Dio (cf. Gen 9,4-6).

La terza edizione del peccato primordiale - la torre di Babele - assume una connotazione collettiva e politica. È il peccato dei popoli, che non seguono il progetto divino affidato ai discendenti di Noè, dal quale provengono le nazioni, distribuite sulla faccia della terra "ciascuna secondo la propria lingua" (Gen 10,5). Il progetto degli uomini che si riuniscono nella pianura è la costruzione di una torre, la cui cima deve raggiungere il cielo, per farsi un nome e per impedire la loro dispersione sulla faccia della terra (cf. Gen 11,4). Esso riproduce in termini collettivi il peccato primordiale come scalata al potere assoluto. L'intervento di Dio porta allo scoperto l'inconsistenza di questo tentativo e la conseguente dispersione come segno dell'incapacità di comunicare nella diversità delle lingue e delle culture.


La chiamata e la fede di Abramo

Dal mondo dei popoli dispersi dopo il peccato dell'idolatria politica emerge la figura di Abramo, chiamato da Dio con una promessa che suona alternativa al progetto babelico: "Renderò grande il tuo nome" (Gen 12,2). Anche Abramo deve fare il suo esodo ed entrare nell'impegno di alleanza. Il suo cammino di fede è scandito da questa logica, che presiede alla narrazione biblica. Abramo è invitato dal Signore a lasciare alle spalle il passato, il possesso e le relazioni che gli danno sicurezza: il suo paese, la sua patria e la casa di suo padre. La parola del Signore gli promette un paese, una discendenza e una benedizione che si estende a "tutte le famiglie della terra" (Gen 12,3). È questa la risposta di Dio al peccato dei popoli della terra. E Abramo gioca tutto sulla promessa di Dio, perché del suo futuro egli non possiede la minima garanzia.

L'itinerario spirituale di Abramo finisce su di un monte, nel territorio di Mòria, dove Dio gli chiede di sacrificargli il figlio, il suo unico figlio, quello che egli ama, Isacco (cf. Gen 22,2). Isacco è il figlio della promessa di Dio, la garanzia del futuro di Abramo, perché senza la discendenza la promessa del possesso della terra e di una benedizione estesa ai popoli resta una parola vuota. La crisi di Abramo è quella del popolo di Israele, che con l'esilio si trova davanti ad un vicolo cieco. Sembra che Dio stesso distrugga il pegno delle sue promesse e il segno della sua fedeltà: il tempio, la dinastia davidica, il dono della terra. La conclusione del dramma di Abramo è la risposta di Dio agli interrogativi umani di fronte allo scandalo del male e della morte. Abramo nella fede radicale in Dio riceve per la seconda volta il dono del figlio. Esso prefigura il superamento della morte, che solo la relazione vitale con Dio rende possibile. Giustamente Paolo di Tarso e l'autore della lettera agli Ebrei vedono in Abramo il prototipo del credenti in Dio, che è capace di dare la vita ai morti (cf. Rm 4,17-21; Eb 11,17-19).


1.3. Le voci della speranza

La storia delle origini del mondo e dell'umanità, sulla quale si salda quella di Abramo, padre dei credenti, può essere raccontata come memoria feconda del popolo di Dio, perché in esso sopravvive la speranza. Essa si alimenta alla corrente della tradizione profetica che accompagna l'intero arco della storia biblica.

I cosiddetti "profeti scrittori" compaiono verso la fine del secolo VIII e l'inizio del VII, ma il profetismo come esperienza spirituale è presente fin dai primi passi del popolo di Dio. La stessa figura di Abramo viene assimilata negli schemi narrativi della Bibbia a quella del profeta classico. Mosè è presentato nella tradizione deuteronomista come il prototipo del profeta. Per la guida futura del popolo di Dio si attende un profeta simile a Mosè (cf. Dt 18,15-18). Prima dell'istituzione della monarchia le figure carismatiche, che Dio suscita per liberare e guidare il suo popolo, hanno alcuni tratti che le fanno accostare ai profeti estatici.

Tra questi si collocano i due profeti popolari, Elia ed Eliseo, che svolgono la loro attività nel regno del nord in un tempo di forti sconvolgimenti religiosi e sociali. Elia si scontra con l'ambiente di corte, influenzato dalla presenza della regina fenicia Gezabele, e rischia la propria vita per difendere e restaurare la fede tradizionale, contro le pratiche idolatriche di matrice cananea. La fede nel Signore dell'esodo è inseparabile dall'attuazione della giustizia, perché Dio è il difensore dei poveri. Elia perciò, in nome di Dio, sfida il re e la regina, che hanno fatto condannare ingiustamente Nabot, per prendersi la sua vigna e allargare il giardino regale. Nella storia del profeta Elia, che si prolunga in quella del suo discepolo Eliseo, si avvertono i prodromi del profetismo classico. La fede in Dio unico Signore è l'antidoto contro ogni forma di ingiustizia.

Ma la profezia biblica assume un volto nuovo a partire dal profeta Amos, attivo nel regno di Israele prima della sua catastrofe, la caduta di Samaria nel 721 a.C. Il tratto distintivo del profeta biblico rispetto ad altre forme di esperienza carismatica, presenti anche in altre culture e ambienti religiosi, è la chiamata o investitura divina. Da questa esperienza iniziale il profeta come inviato di Dio attinge forza e ispirazione per la sua coraggiosa denuncia, l'invito caldo alla conversione e l'annuncio della speranza. Anche se cambiano i modelli narrativi dell'esperienza di chiamata - da quella interiore di Geremia a quella spettacolare di Ezechiele -, resta fermo e costante il suo nucleo di fondo. L'incontro del profeta con Dio diventa il nuovo punto prospettico e il criterio di valutazione della realtà. Da questo momento il profeta scopre una nuova dimensione della sua vita. Assume un ruolo pubblico: quello dell'ambasciatore di Dio che interpella tutti, autorità e popolo, sacerdoti e re.


Amos

È emblematico al riguardo il caso di Amos, che avverte come una forza irresistibile la chiamata di Dio. Egli paragona la sua esperienza a quella che si prova di fronte al ruggito improvviso del leone nella boscaglia del Giordano. Così il profeta è costretto a parlare in nome di Dio, perché "il Signore non fa cosa alcuna senza aver rivelato il suo consiglio ai suoi servitori, i profeti" (Am 3,7).

Sotto l'impulso profetico Amos inizia la sua attività al nord, nel regno di Israele. Si presenta al santuario di Betel e annuncia la morte violenta del re Geroboamo e la rovina del suo regno: "Israele sarà deportato in esilio lontano dalla sua terra" (Am 7,17). Il santuario di Betel è finanziato dalla corte di Geroboamo. Perciò il sacerdote Amasia, soprintendente al santuario, si sente autorizzato a denunziare Amos presso il re. Nello stesso tempo egli affronta Amos e gli ordina di lasciare il santuario del re: se vuole guadagnarsi da vivere, può andare a fare il profeta al suo paese, nel regno di Giuda. Amos allora presenta le sue credenziali come profeta del Signore. Egli non fa parte di nessuna compagnia di profeti estatici e vagabondi, e neppure ha bisogno di fare il profeta per vivere, perché ha il suo lavoro. Ma è costretto a parlare nel nome del Signore perchéegli lo ha incaricato (cf. Am 7,10-15).

La figura profetica di Amos, oltre che per la sua testimonianza personale, è importante perché inaugura una tradizione che, nelle alterne vicende storiche, si sviluppa fino alle soglie dell'era cristiana. La raccolta dei suoi oracoli, portata nel regno di Giuda dai suoi discepoli, offre anche un modello del linguaggio e dello stile profetico. L'intervento del profeta segue uno schema fisso: la denuncia del peccato come infedeltà al Dio dell'esodo e agli impegni di alleanza, cui fa seguito l'appello alla conversione con il conseguente annuncio del giudizio di rovina o salvezza (cf. Am 2,6-16). Il profeta, alla luce della fede nel Dio dell'esodo, porta allo scoperto nella situazione presente il peccato di idolatria e l'ingiustizia. Per annunciare il nuovo futuro, egli fa leva sulla fedeltà di Dio, che fa ripartire la storia della salvezza.


Osea, Geremia ed Ezechiele

Ogni profeta porta il suo contributo alla speranza che matura dentro la storia del rapporto di Dio con il suo popolo. Osea, che opera come Amos nel regno del nord prima della sua rovina, mediante le immagini sponsali e parentali ripropone in forma interiore e personalizzata il rapporto di alleanza con Dio. In tale contesto Osea conia il linguaggio della "conoscenza", per esprimere la relazione vitale e dinamica con Dio.

Le immagini sponsali di Osea e anche il suo linguaggio della "conoscenza" di Dio vengono ripresi un secolo dopo da Geremia, nel sud del paese. Il profeta di Anatot ricorre a questo lessico per formulare il suo messaggio di speranza al tempo della catastrofe che nel 587 a.C. travolge il regno di Giuda, la città e il tempio di Gerusalemme. In questo clima di crisi delle istituzioni e di ogni certezza umana, egli riprende e riformula l'annuncio di una "nuova" alleanza, fondata sulla legge posta nell'intimo e scritta nel cuore (cf. Ger 31,33). Il nuovo rapporto con Dio è reso possibile dal cambiamento interiore e dal perdono del peccato.

Questo motivo della speranza è riproposto nella prigionia babilonese dal profeta Ezechiele. Egli ha seguito le carovane di deportati del 597 a.C. e, prima della caduta di Gerusalemme, si impegna a demolire le false speranze di quanti si illudono sulla incolumità della città in cui Dio ha il suo tempio. Ma, dopo la tragedia che si abbatte sulla città santa e sui suoi abitanti, il profeta incomincia a costruire un nuovo futuro, fondato sulla fedeltà di Dio. Nel suo nome "santo", Dio si impegna a riportare le tribù disperse nella terra di Israele, dopo un bagno purificatore, che eliminerà radicalmente ogni forma di idolatria e ogni residuo di infedeltà. Questo bagno consiste in una nuova effusione dello Spirito di Dio sul popolo di Israele. Dio gli toglierà il cuore indurito e gli darà un cuore nuovo per vivere con fedeltà nell'alleanza (cf. Ez 36,24-27).


Isaia, la sua tradizione e Daniele

Nello stesso contesto di crisi provocato dall'esilio opera un altro profeta anonimo. I suoi interventi sono ora raccolti nel libro posto sotto il nome di Isaia. Proprio la tradizione che a lui si richiama è un'ulteriore attestazione della grandezza di questo profeta.

Isaia vive nel secolo VIII nella città di Gerusalemme. A partire dalla sua chiamata nel tempio, egli tiene viva la fiamma della speranza nella fedeltà di Dio, il "santo di Israele". Isaia denuncia senza mezze misure l'infedeltà a Dio e ogni forma di ingiustizia, ma nello stesso tempo indica la speranza che assume un duplice volto. Dio, che rimane fedele alle sue promesse, fa ripartire la storia di salvezza da un piccolo "resto". Isaia fa leva sull'antica promessa del profeta Natan circa la perpetuità della casa di Davide, per annunciare la nascita di un discendente davidico che instaurerà un regno di giustizia e di pace. Questo figlio regale porta un nome rappresentativo della fedeltà di Dio: Emmanuel, "Dio-con-noi" (cf. Is 7,10-14; 8,23-9,6; 11,1-9).

All'epoca dell'esilio e nel periodo del ritorno e della ricostruzione, nella tradizione di Isaia, la speranza prende un altro volto, quello del "Servo", fedele a Dio e solidale con la comunità. Egli si fa carico delle sue sofferenze per introdurla in un nuovo rapporto con Dio (cf. Is 52,13-53,12). Ne parla il profeta anonimo che definiamo "Secondo Isaia", il cui "libro della consolazione" annuncia il nuovo esodo come profonda restaurazione del popolo e di Gerusalemme, aprendosi alle prospettive dell'universalità della salvezza.

L'ultima voce della speranza è ancora quella di un profeta, che con lo pseudonimo di Daniele sostiene la fiducia nel tempo dei martiri del II sec. a.C. Mentre la famiglia dei Maccabei organizza la resistenza armata contro il re Antioco IV Epifane, Daniele anima la resistenza spirituale dei fedeli. Essi possono contare sull'intervento finale decisivo di Dio, che instaurerà il suo regno dopo il giudizio sulle potenze violente e distruttive della storia umana. Il protagonista del giudizio di Dio è uno che, come "Figlio di uomo", rappresentante dei "santi", viene dal mondo di Dio (cf. Dn 7,13-14). L'immagine del "Figlio dell'uomo" è l'ultima espressione di quella speranza che con un termine generale si chiama "messianica" - dal termine ebraico mashìah, "unto" e cioè "consacrato" -, perché si innesta sulla figura di un re ideale, scelto e incaricato da Dio per attuare il suo regno di giustizia e di pace.


1.4. Alla ricerca del senso della vita

Se la coscienza profetica è l'anima dell'esperienza biblica, che scopre e vive il rapporto con Dio dentro la storia, la riflessione dei sapienti rappresenta il cuore, che cerca il senso della vita umana nella fortuna e nella disgrazia, nella salute e nella malattia, nella festa della giovinezza e di fronte allo sfacelo della morte. La sapienza biblica è l'arte del vivere bene, in modo giusto e felice, in tutti gli ambiti dell'esistenza. Essa ha la sua radice nel "timore di Dio", cioè nel senso profondo e vivo della sua trascendenza, ma si alimenta dalla riflessione sull'esperienza umana.

La sapienza, che nasce e cresce con la vita, si trasmette di padre in figlio e si condensa nei proverbi e nelle sentenze del maestri. Il messaggio dei sapienti della Bibbia può essere incanalato in una duplice direzione. La prima è la ricerca del significato dell'esistenza umana sfidata dall'esperienza del limite; la seconda è la riflessione sull'opera di Dio nel mondo e nella storia umana.


L'esistenza nel limite

L'acuta coscienza della precarietà di tutte le cose e di ogni esperienza umana fa dire all'anonimo maestro di sapienza che si nasconde dietro il nome di Qoèlet: "Vanità delle vanità... tutto è vanità" (Qo 1,2; 12,8). Questa espressione, che apre e chiude la raccolta delle riflessioni di questo sapiente biblico del III sec. a.C., riassume la sua posizione disincantata e lucida.

Egli passa in rassegna le vane iniziative e i diversi progetti per i quali si danno da fare gli uomini - costruzioni, ricchezza, creazioni artistiche - e conclude che tutto è "vanità", un inseguire il vento. Anche la ricerca del sapere delude, perché essa non fa altro che aumentare il dolore. Del resto la sorte finale del saggio e dello stolto è la stessa. Tutti e due finiscono nella morte e chi sa, si domanda Qoèlet, se il soffio vitale dell'essere umano sale in alto o scende in basso come quello delle bestie. Alla fine della sua ricerca egli invita comunque ad accogliere la vita con la sua parte, sia pure precaria, di gioie e soddisfazioni, sapendo che anche questo è dono di Dio (cf. Qo 2,24-25).

Questa soluzione realistica di Qoèlet presuppone che l'essere umano stia bene e possa "mangiare e bere e godersela nelle sue fatiche" (Qo 2,24). Ma che cosa proporre a quanti hanno avuto in sorte solo sofferenze e dolori senza fine? Di questa situazione si fa interprete il libro di Giobbe, che pone la domanda scandalosa: "Perché dare la luce a un infelice e la vita a chi ha l'amarezza nel cuore?" (Gb 3,20). Giobbe è protagonista del dramma spirituale del giusto colpito da una serie di disgrazie senza senso. La sua prima risposta è quella del credente, che accoglie il bene e il male dalle mani di Dio.

Ma su questa immagine tradizionale del Giobbe "paziente", si innesta quella del Giobbe che rimette in discussione il principio della retribuzione - Dio premia i buoni e castiga i malvagi - difeso dai tre amici venuti a consolarlo. Giobbe, partendo dalla sua esperienza, contesta questa spiegazione tradizionale del male umano e non accetta una risposta teorica, che rimanda la soluzione alla giustizia e sapienza di Dio. Egli vuole avere un incontro diretto con Dio, per esporgli la sua causa e avere da lui una risposta. Alla fine Dio si manifesta a Giobbe in tutta la sua potenza di creatore. Giobbe allora davanti a Dio riconosce il suo limite radicale di creatura e Dio riabilita Giobbe perché ha detto "cose rette" (Gb 42,7). Nell'orizzonte della libertà sovrana di Dio si colloca anche quella del credente. Nella relazione vitale con Dio egli può vivere con dignità anche la sua condizione precaria e mortale.


Sapienza e rivelazione

L'altro percorso della riflessione sapienziale biblica incrocia la rivelazione di Dio nel mondo creato e nella storia di Israele. Essa assume la forma dell'elogio della sapienza, che, come figura personificata, partecipa all'opera creatrice di Dio. In questa prospettiva si rilegge la prima pagina della Genesi e la sapienza prende il posto della parola di Dio, che chiama all'esistenza, dà ordine e splendore a tutte le cose (cf. Pr 8,22-31).

Questa manifestazione della sapienza divina nel mondo si intreccia con quella della rivelazione storica ad Israele. La dimora stabile della sapienza, alla ricerca di un posto dove abitare, è in Giacobbe, sul monte Sion.

Il maestro Gesù ben Sirach, nel II sec. a.C., conclude l'autopresentazione della sapienza con un commento che ne esplicita il significato: "Tutto questo è il libro dell'alleanza del Dio altissimo, la legge che ci ha imposto Mosè, l'eredità delle assemblee di Giacobbe" (Sir 24,22). Questa riflessione sulla sapienza sta ormai alle soglie dell'esperienza cristiana, che riprende alcune espressioni dell'inno del Siracide per trascrivere la fede in Gesù Cristo, la parola creatrice di Dio che diventa carne e pone la sua tenda in mezzo all'umanità.
 

 

 

Origine e contenuti


1. La Bibbia degli ebrei e dei cristiani


Bibbia

Come ogni libro, la Bibbia ha un titolo: Bibbia, appunto. Glielo abbiamo dato noi cristiani. In greco biblìa vuol dire "libri", anzi "libretti", perché la Bibbia è un insieme di composizioni letterarie, di solito brevi, scritte in diverse lingue: ebraico, aramaico o greco. Il più lungo di questi libri (il libro di Isaia) ha sessantasei capitoli, ma è contenuto in un centinaio di pagine di una comune Bibbia. Uniti formano un insieme di libretti. Basta un palchetto di scaffale per contenerli tutti. Nella Bibbia cattolica se ne contano 73: 46 libri per l'Antico Testamento e 27 per il Nuovo Testamento. Sono la "biblioteca" dei cristiani. La prima parte, quella che noi chiamiamo Antico Testamento, lo è anche per gli Ebrei.

Dal greco biblìa si è passati in latino a bìblia: un termine femminile singolare, con cui si vuole denominare l'intera collezione. Da bìblia è derivato l'italiano Bibbia. Con questa parola indichiamo il libro della nostra fede, perché in esso sappiamo essere contenuta la parola di Dio.


Antico e Nuovo Testamento

Aprendo la Bibbia, ci rendiamo conto che essa è suddivisa in due parti, di ampiezza differente. La prima, più estesa, è detta Antico Testamento; la seconda Nuovo Testamento. Anche queste sono denominazioni cristiane.

Il termine "testamento" non va preso nel senso più comune di volontà ultime di una persona. Dietro, infatti, c'è la parola ebraica berît, che significa promessa di un qualche dono da parte di Dio e, al tempo stesso, impegno di osservare la sua legge da parte dell'uomo. Dio e l'uomo s'impegnano reciprocamente e affermano di appartenersi l'un l'altro, diventano amici e intimi. Fanno alleanza. Ecco perché noi parliamo di antica e nuova "alleanza" come di antico e nuovo "testamento". I due termini in pratica si equivalgono. L'antica alleanza riguarda quel rapporto religioso che Dio stabilì con un popolo, Israele; la nuova invece è lo stesso rapporto esteso, in Gesù, a tutti i popoli, di cui la Chiesa è segno. Si può quindi anche dire che l'unica alleanza è stata resa nuova in Gesù.

I cristiani vedono una profonda unità tra le due alleanze, in quanto la prima è annuncio, promessa e preparazione della seconda. Per questo conservano e venerano nella Bibbia sia i testi sacri del popolo ebraico sia i propri, come l'unico libro che contiene l'unica parola di Dio e l'unica salvezza in essa annunziata e attuata.

A usare per prima la denominazione di "antica" e "nuova" alleanza è la Bibbia stessa. Lo fa a riguardo di Noè e della nuova umanità che esce dal diluvio (cf. Gen 6,18; 9,8-17), e poi di Abramo e del popolo che da lui prende vita (cf. Gen 15,18; 17,1-9). L'alleanza tra Dio e Israele venne sancita al Sinai da Mosè con il rito del sangue, dopo aver letto "il libro [delle condizioni o leggi] dell'alleanza" (cf. Es 24,3-8). Ma Israele più volte disattese queste condizioni, venendo meno all'alleanza. Ed ecco che il profeta Geremia prevede un tempo in cui Dio sancirà un'alleanza "nuova" con Israele, un'alleanza di perdono, di responsabilità e di interiorità (cf. Ger 31,31-34).

A questa alleanza nuova fa esplicito riferimento Gesù nell'ultima cena, quando offre da bere ai suoi discepoli dicendo: "questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi" (Lc 22,20). Come Mosè aveva sancito l'alleanza tra Dio e Israele al Sinai versando il sangue delle vittime, così ora Gesù nel suo sangue, che sta per essere versato sulla croce, dà compimento all'alleanza annunziata da Geremia, quella che unisce Dio e la comunità dei discepoli che vengono a formare il definitivo popolo di Dio, l'"Israele di Dio", come dirà Paolo (Gal 6,16). Concetti analoghi troviamo nella Lettera agli Ebrei (cf. Eb 8,6-13).

I cristiani si guardano bene dal pensare che l'antica alleanza sia abolita. Essa mantiene tutt'oggi per Israele il suo valore e fa parte dell'unica storia della salvezza, attraverso la quale Dio, mediante Mosè e in Gesù, ha chiamato e chiama Israele e i cristiani a legarsi a lui, a farsi segno e strumento di salvezza per tutti gli uomini.

Per questo, da parte di alcuni, si preferisce chiamare la Bibbia degli Ebrei, il "primo" testamento o la "prima" alleanza (cf. Eb 8,7), a sottolineare così sia la priorità temporale rispetto alla "nuova" sia la permanente validità per gli Ebrei di ogni tempo e la sua validità relativa per i cristiani (cf. Dei Verbum, 14-16).


Abbreviazioni bibliche

Ab - Abacuc

Is- Isaia

Abd - Abdia

Ag - Aggeo

Lam - Lamentazioni

Am - Amos

Lc- Luca

Ap - Apocalisse

Lv - Levitico

At - Atti degli Apostoli

1 2 Mc - Libri dei Maccabei

Bar - Baruc

Mc - Marco

Mi - Michea

Col - Lettera ai Colossesi

Ml - Malachia

1 2 Cor - Lettere ai Corinzi

Mt - Matteo

1 2 Cr - Libri delle Cronache

Ct - Cantico dei Cantici

Na - Naum

Ne - Neemia

Dn - Daniele

Nm - Numeri

Dt - Deuteronomio

Os - Osea

Eb - Lettera agli Ebrei

Ef - Lettera agli Efesini

Pr - Proverbi

Es - Esodo

1 2 Pt - Lettere di Pietro

Esd - Esdra

Est - Ester

Qo - Qoèlet

Ez - Ezechiele

1 2 Re - Libri dei Re

Fil - Lettera ai Filippesi

Fm - Lettera a Filemone

Rm - Lettera ai Romani

Rt - Rut

Gal - Lettera ai Galati

Gb - Giobbe

Sal - Salmi

Gc - Lettera di Giacomo

1 2 Sam - Libri di Samuele

Gd - Lettera di Giuda

Sap - Sapienza

Gdc - Giudici

Sir - Siracide

Gdt - Giuditta

Sof - Sofonia

Gen - Genesi

Ger - Geremia

Tb - Tobia

Gl - Gioele

1 2 Tm - Lettere a Timoteo

Gn - Giona

1 2 Ts - Lettere ai Tessalonicesi

Gs - Giosuè

Tt - Lettera a Tito

Gv - Giovanni

1 2 3 Gv - Lettere di Giovanni

Zc - Zaccaria


Tanâk

Per un ebreo non esiste la parola "Bibbia" né, com'è ovvio, l'Antico Testamento, ma semplicemente la Tanâk. Questa parola è una sigla, composta dalla prima lettera di tre parole: Toràh, Neviìm, Ketuvìm, con l'aggiunta di una doppia "a".

La Toràh è ciò che noi chiamiamo Pentateuco e comprende i libri di Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio. La parola racchiude una grande ricchezza di significato per un ebreo. Toràh può essere tradotto da più termini: "legge", ma anche "ammaestramento", "indicazione", "istruzione", ecc. Nella Toràh l'ebreo trova tutto ciò che è chiamato a essere: la sua identità religiosa (popolo di JHWH), storica (popolo con una terra propria), sociale (comunità di fratelli). La Toràh è pertanto la carta d'identità e la carta costituzionale dell'ebreo religioso. Rimanervi fedeli è per lui ragione di vita o di morte. La Toràh tradotta nella vita è la sua "giustizia" o santità di vita: è titolo di riconoscimento, è il premio nel regno che JHWH nel suo giorno darà a Israele. Per un ebreo la Toràh è la rivelazione definitiva di Dio. Non c'è per lui parola più alta e quindi autoritativa della Toràh. Da ciò si comprende quanto sia difficile per un ebreo accettare un'ulteriore e definitiva parola di Dio come quella che, per noi cristiani, viene all'umanità attraverso Gesù.

A fianco della Toràh, ma con un valore minore, gli Ebrei pongono i Neviìm. Noi traduciamo questa parola con "profeti", gli uomini dello Spirito e i portatori di una parola. La parola per un ebreo può essere una promessa che è portata a compimento, quindi un evento. In questo senso sono profeti coloro che hanno attuato le promesse di Dio: Giosuè, i giudici, Samuele e gli altri profeti dell'epoca della monarchia, le cui imprese troviamo rispettivamente in Giosuè, Giudici, 1 e 2 Samuele, 1 e 2 Re. La Tanàk li chiama "profeti anteriori".

"Profeti posteriori" sono invece quei libri che siamo soliti designare semplicemente come "libri profetici", i testi cioè che raccolgono la predicazione di quegli uomini che rivolgevano la parola di Dio al popolo, in vista della conversione dai peccati commessi contro la Toràh o della salvezza prossima ad attuarsi nella storia.

I restanti libri della Tanàk vengono chiamati dagli Ebrei Ketuvìm, cioè "scritti" e comprendono testi di diversa natura: poetici, sapienziali, storici, apocalittici, ecc.

Dalle tre collezioni sono esclusi sette libri: Tobia, Giuditta, 1 e 2 Maccabei, Sapienza, Siracide, Baruc. La tradizione ebraica, risalente al primo secolo d.C., non ritiene di poterli annoverare nella Tanàk. L'elenco riconosciuto dalla Chiesa cattolica si rifà invece ad una tradizione che li includeva, attestata nella versione greca dell'Antico Testamento detta dei Settanta (LXX), che fu approntata in ambiente ebraico ellenistico, ad Alessandria d'Egitto, a partire dal terzo secolo a.C. Da questo testo greco provengono anche alcune parti di Ester e Daniele, anch'esse non presenti nella Tanàk.


La Bibbia ebraica

Toràh (Legge)
Genesi (All'inizio); Esodo (Questi sono i nomi), Levitico (E JHWH chiamò Mosè), Numeri (Nel deserto), Deuteronomio (Queste sono le parole).

 

Profeti
Profeti anteriori: Giosuè, Giudici, Samuele (1 e 2 uniti), Re (1 e 2 uniti).

 

Profeti posteriori: Isaia, Geremia, Ezechiele, I dodici profeti (Osea, Gioele, Amos, Abdia, Giona, Michea, Naum, Abacuc, Sofonia, Aggeo, Zaccaria, Malachia).

 

Scritti
Salmi (o Inni), Giobbe, Proverbi, Rut, Cantico dei cantici, Qoèlet, Lamentazioni, Ester, Daniele, Esdra-Neemia (uniti), Cronache (1 e 2 uniti).

Appendice


"La parola di Dio si diffonda e sia glorificata"
(2 Ts 3,1)

La Bibbia nella vita della Chiesa
Nota della Commissione Episcopale della C.E.I.
per la dottrina della fede e la catechesi

Presentazione

"La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il corpo stesso del Signore, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della parola di Dio sia del corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli" (Dei Verbum, 21). È la solenne affermazione del Concilio Vaticano II: proclamazione di una esperienza sempre viva, professione di fede, riaffermazione di un compito e di un impegno.
"Dio parla al suo popolo e Cristo annunzia ancora il Vangelo", ricorda lo stesso Concilio (Sacrosanctum Concilium, 33). Ma a trent'anni dalla promulgazione della Costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione Dei Verbum (18 novembre 1965), risuona con forza l'interpellanza di Paolo VI: "Che ne è oggi di questa energia nascosta della Buona Novella, capace di colpire profondamernte la coscienza dell'uomo" (Evangelii nuntiandi, 4).
Giovanni Paolo II dischiude l'orizzonte della "nuova evangelizzazione" e sospinge verso il terzo millennio, auspicando che i cristiani "tornino con rinnovato interesse alla Bibbia" (Tertio millennio adveniente, 40), giacché è sempre la parola di Dio "il criterio della evangelizzazione, della vita personale ed ecclesiale, dell'ecumenismo" (Angelus, 5.11.1995). Del resto i due discepoli, nell'esperienza del loro emblematico cammino da Gerusalemme ad Emmaus, proprio nella spiegazione delle Scritture ritrovarono il calore del cuore, riscoprirono le ragioni della speranza, furono avvolti dalla gioia dell'incontro (cf. Lc 24,13-35).
Proprio questa è l'intenzionalità prima di questa Nota, per la quale va espressa viva gratitudine alla Presidenza della Conferenza Episcopale Italiana e al Consiglio Episcopale Permanente, che l'hanno voluta, accompagnata e approvata; e a quanti - del settore Apostolato Biblico in seno all'Ufficio Catechistico Nazionale e dell'Associazione Biblica Italiana - ne hanno preso a cuore il lungo e laborioso cammino. Essa non ha altro scopo che quello "pastorale", come è detto nella introduzione.
La memoria della pubblicazione della Dei Verbum, documento cardine dell'evento conciliare, valga a sospingere, ad abilitare e a confermare le nostre comunità ecclesiali in quell'atteggiamento essenziale che è il "religioso ascolto della parola di Dio [...], affinché per l'annunzio della salvezza il mondo intero ascoltando creda, credendo speri, sperando ami" (Dei Verbum, 1).
È questo l'augurio di cui si sostanzia la Nota, che con fiducia e con gioia consegniamo, ripetendo con san Paolo: "Noi ringraziamo Dio continuamente, perché, avendo ricevuto da noi la parola divina della predicazione, l'avete accolta non quale parola di uomini, ma, come è veramente, quale parola di Dio che opera in voi che credete" (1 Ts 2,13).
Sulla forza di questa Parola si fonda la nostra speranza per un cammino verso il terzo millennio, ispirato a quello di Israele, che dopo l'esilio riscopre "il Libro": un cammino di coraggio, di condivisione, di gioia (cf. Ne 8,12).
+ Lorenzo Chiarinelli
Vescovo di Aversa
Presidente della Commissione Episcopale
per la dottrina della fede e la catechesi
Roma, 18 novembre 1995
XXX anniversario della promulgazione
della Costituzione dogmatica Dei Verbum
 
 
 
 
1. -Due discepoli, disorientati e forse delusi, si allontanavano da Gerusalemme. Gesù, il crocifisso risorto, si fece loro compagno di viaggio "e cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui" (Lc 24,27).
Il racconto di Emmaus propone ai cristiani la via per incontrare e conoscere la parola di Dio. Gesù, il Signore vivente, è il maestro che introduce nel mistero della Parola, l'interlocutore diretto di chi apre il Libro santo.
Oggi come ieri, egli ci incontra sulla strada della vita; noi, non di rado, siamo scettici e scoraggiati, ma con la forza del suo Spirito e il gesto di amore della frazione del pane egli interpella, converte, infonde gioia, suscita ardore.
Gesù sparì dagli occhi dei due discepoli, eppure essi erano felici: egli era ormai dentro il loro cuore. E, grazie alla Parola che li animava, diventarono messaggeri della sua risurrezione presso i fratelli.
2. -A quanti si accostano alle Scritture, alla ricerca di una parola di vita, Gesù dice: "Sono proprio esse che mi rendono testimonianza" (Gv 5,39).
La Chiesa confessa che il Signore Gesù è il centro e il fine della Scrittura. Egli è la Parola suprema che Dio ci rivolge, dopo aver parlato a più riprese per mezzo dei profeti. In lui i libri dell'Antico Testamento, integralmente assunti nella predicazione evangelica, acquistano e manifestano il loro pieno significato. "Tutta la Scrittura è un libro solo e quest'unico libro è Cristo".
Per questo la Chiesa, seguendo la tradizione apostolica, incontra la Bibbia "per Cristo, con Cristo e in Cristo" e alla sua luce la comprende come disegno unitario di Dio per la nostra salvezza; ritiene che il Nuovo Testamento è nascosto nell'Antico e l'Antico Testamento è svelato nel Nuovo; ricerca con cura amorosa il senso storico originario della parola di Dio; venera le divine Scritture come fa per il corpo stesso di Cristo; le comunica al popolo di Dio come parola di verità e di vita; riconosce nella condotta esemplare dei credenti un commento spirituale sempre vivo e attuale della parola ascoltata.
3. -L'ascolto e l'annuncio della parola di Dio, testimoniata dalla Bibbia e proclamata dalla Chiesa lungo venti secoli, hanno prodotto una straordinaria storia di fede, di preghiera, di opere di carità e anche di cultura: una storia di santità.
Il magistero della Chiesa ha dedicato alla Bibbia una rinnovata attenzione negli ultimi cento anni. Ne sono testimonianza due importanti anniversari biblici a noi vicini: il centenario dell'enciclica Provvidentissimus Deus di Leone XIII (1893) e il cinquantenario dell'enciclica Divino afflante Spiritu di Pio XII (1943). Da questi due documenti maturarono tra noi la scienza e la spiritualità della Bibbia, la sua valorizzazione ascetica e la sua utilizzazione pastorale. La misura di quella crescita stupisce, rallegra e spinge a fare ancora di più.
In tempi ancora più prossimi, tale maturazione ha raggiunto un'espressione autorevole e normativa nel Concilio Vaticano II, segnatamente con la Costituzione dogmatica Dei Verbum, di cui quest'anno ricorre il trentesimo anniversario di promulgazione (1965). Essa è come la "magna charta", teologica e pastorale, di ogni incontro con la Bibbia: cercati da Dio, possiamo a nostra volta andare incontro a lui lungo la medesima via con cui egli viene a noi, la sacra Scrittura.
Questa Nota vuole fare doverosa memoria del trentesimo anniversario della Dei Verbum, riprendendone la prospettiva pastorale in vista di una sua più diffusa e profonda attuazione nelle nostre comunità. Lo facciamo anche sollecitati dal recente documento della Pontificia Commissione Biblica, L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa (1993), che mette l'accento, come annota Giovanni Paolo II, "sul fatto che la Parola biblica attiva si rivolge universalmente, nel tempo e nello spazio, a tutta l'umanità. Se le "parole di Dio [...] si sono fatte simili al linguaggio degli uomini" (Dei Verbum, 13), è per essere comprese da tutti. Esse non devono restare lontane, "troppo" alte "per te, né troppo" lontane "da te. [...] Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore perché tu la metta in pratic a" (Dt30,11.14)".
4. -Lo scopo di questa Nota è pastorale. Con le parole del Concilio vogliamo esortare "con forza e insistenza tutti i fedeli [...] a imparare "la sublime scienza di Gesù Cristo" (Fil 3,8) con la frequente lettura delle divine Scritture", poiché, come dice san Girolamo in un celebre detto, riportato dalla stessa Dei Verbum, "l'ignoranza delle Scritture, infatti, è ignoranza di Cristo".
In modo particolare la Nota si rivolge a quanti nella Chiesa sono posti al servizio della Parola, perché prendano sempre più viva coscienza e rafforzino capacità e coraggio per realizzare un compito tanto valido quanto impegnativo: introdurre tutto il popolo di Dio alla ricchezza inesauribile di verità e di vita della sacra Scrittura.
Facendo riferimento alla fede e alla dottrina della Chiesa sulla Bibbia, la presente Nota si compone di tre parti: illustra brevemente come sia valorizzato nelle nostre Chiese in Italia il tesoro della sacra Scrittura (I parte); indica princìpi e criteri di incontro dei cristiani con essa (II parte); propone vie e metodi di retto uso e piena valorizzazione della Bibbia nella vita della Chiesa, in particolare nella catechesi, nella liturgia e mediante l'esercizio dell'apostolato biblico diretto (III parte).
L'ampiezza dell'argomento porta ad una trattazione concisa. Molte sarebbero le implicanze della Bibbia nella vita della Chiesa, sul versante pastorale e anche in ambito storico-culturale. Le raccomandiamo allo studio e alla riflessione dei credenti.
5. -Questa Nota poggia su una profonda e irrinunciabile convinzione di fede: "Le sacre Scritture contengono la parola di Dio e, perché ispirate, sono veramente parola di Dio". Questa parola si è fatta a noi vicina, come manifestazione dell'"ammirabile condiscendenza dell'eterna Sapienza", e "le parole di Dio [...], espresse con lingue umane, si sono fatte simili al linguaggio degli uomini".
Ancora oggi, mentre siamo invitati ad impegnarci intensamente nella "nuova evangelizzazione", è Dio stesso, tramite il libro sacro, che evangelizza il suo popolo, gli parla al cuore come un Padre ai suoi figli. Per carisma dello Spirito Santo, la sacra Scrittura è infatti come un sacramento della parola di Dio e trova nella madre Chiesa garanzia di sicura comprensione e vitale assimilazione.
Annuncio di grande promessa e insieme di grave responsabilità, l'antico oracolo profetico interpella noi vescovi per primi, poi i presbìteri, i diaconi, i religiosi e i laici cristiani: "Ecco, verranno giorni - dice il Signore Dio - in cui manderò la fame nel paese, non fame di pane, né sete di acqua, ma d'ascoltare la parola del Signore" (Am 8,11).