La prima tappa dell'esperienza
di salvezza é l'uscita dei figli di Israele dalla condizione di
oppressione nella terra d'Egitto. Questo evento fa parte della memoria
religiosa del popolo di Dio, come è documentato nelle antiche professioni
di fede e nelle celebrazioni liturgiche, di cui si ha un'eco nei
Salmi.
Anche i testi profetici, i primi
ad essere consegnati alla memoria scritta di Israele, riflettono questa
coscienza di fede radicata nell'esodo. Il profeta Amos dell'ottavo secolo
denuncia le forme di ingiustizia e di oppressione dei poveri nella terra,
che è dono di Dio per tutti i liberati. Egli si appella al principio
basilare della fede biblica: "Ascoltate questa parola che il Signore ha
detto riguardo a voi, Israeliti, e riguardo a tutta la stirpe che ho fatto
uscire dall'Egitto" (Am 3,1; cf. 2,10). Negli stessi anni il
profeta Osea si rivolge agli abitanti del regno del nord, Israele, e con
un linguaggio ispirato alle relazioni parentali, rievoca l'evento nel
quale si radica il legame di Dio con il suo popolo: "Quando Israele era
giovinetto, io l'ho amato e dall'Egitto ho chiamato mio figlio" (Os
11,1).
L'esodo di Mosè
Su queste antiche tradizioni,
che fanno parte del patrimonio religioso comune del regno di Israele e di
Giuda, si innesta la narrazione biblica dell'esodo dall'Egitto. Esso
diventa il modello delle successive esperienze di liberazione da parte di
Dio per la salvezza dei credenti. Il momento cruciale di questa esperienza
fondativa è l'incontro di Mosè con Dio alla montagna santa del Sinai,
chiamato anche Oreb. Mosè, ricercato a morte dal faraone perché ha ucciso
un Egiziano, si rifugia nel deserto di Madian e viene accolto dal
sacerdote Reuel (o Ietro). Tra le figlie del sacerdote di Madian trova
moglie, Zippora, e ha un figlio. Egli lo chiama Gherson, un nome che evoca
la sua condizione: "Sono un emigrato in terra straniera!" (Es
2,22). In questa situazione Dio si manifesta a Mosè per incaricarlo di
condurre fuori dall'Egitto i suoi fratelli oppressi.
Il primo "esodo" è quello che
vive Mosè. Egli nell'incontro con Dio all'Oreb è invitato a passare
dall'immagine spettacolare e cosmica di Dio, a quella della fede. Dio
infatti si rivolge a Mosè che si accosta per vedere "questo grande
spettacolo" (Es 3,3) - il fuoco che brucia in mezzo al roveto senza
consumarlo - con queste parole: "Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di
Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe" (Es 3,6). Poi il
Signore gli manifesta il suo progetto di liberazione con le parole che
ricordano la professione di fede tradizionale: "Ho osservato la miseria
del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi
sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo
dalla mano dell'Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese
bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele" (Es
3,7-8). Mosè riceve l'incarico di andare in nome di Dio dal faraone per
far uscire gli Israeliti dall'Egitto.
Dio si presenta come il
go‘el, il "riscattatore". Egli è come il fratello e amico che è
tenuto, in forza del vincolo di sangue, a liberare il consanguineo o amico
caduto in schiavitù. Il legame di alleanza con i padri fonda l'azione
liberatrice di Dio. Mosè è chiamato a entrare in questa prospettiva. Egli
però vorrebbe avere una garanzia di riuscita e un segno della sua
investitura, per presentarsi a nome di Dio agli Israeliti in Egitto. Vuole
conoscere il "nome" di Dio. Questo lo metterà al riparo da ogni rischio,
perché lo renderà partecipe della potenza di Dio. La risposta di Dio è un
impegno: "Io sarò con te" (Es 3,12). Il segno è la promessa
dell'incontro dei liberati alla montagna santa: "Quando tu avrai fatto
uscire il popolo dall'Egitto, servirete Dio su questo monte" (Es
3,12). Il nome di Dio é racchiuso nel suo impegno-promessa. Agli Israeliti
infatti Mosè deve dire: "Io-Sono mi ha mandato a voi" (Es
3,14).
Il cammino di fede del popolo
dell'esodo
Incomincia così l'avventura
della fede di Mosè. Egli deve educare il popolo oppresso alla stessa
relazione di fede con il Dio dei padri. Per fare questo, essi devono
vincere la paura di fronte alla potenza minacciosa del faraone, che
rivendica di essere l'unico "Signore" in Egitto e impedisce ai figli di
Israele di servire il proprio Dio. I dieci segni che Mosè compie in nome
di Dio nella terra d'Egitto servono da una parte a demolire questa falsa
immagine del dio faraonico e dall'altra a far riconoscere agli oppressi
che solo Dio è il Signore.
Questa è la proposta che fa Mosè
nella notte del passaggio del "mare delle Canne". Al popolo che grida per
la paura perché non vede una via d'uscita - davanti ha il mare e il
deserto, alle spalle l'esercito del faraone - Mosè propone la scelta di
Dio: "Non abbiate paura! Siate forti e vedrete la salvezza che il Signore
oggi opera per voi" (Es 14,13). E, dopo il passaggio del mare nella
notte sotto l'azione potente e misteriosa di Dio, il narratore biblico
registra il percorso della fede dei liberati in questi termini: "Israele
vide la mano potente con la quale il Signore aveva agito contro l'Egitto e
il popolo temette il Signore e credette in lui e nel suo servo Mosè"
(Es 14,31).
Le clausole dell'alleanza
Il cammino della fede prosegue
fino all'appuntamento fissato da Dio nel deserto ai piedi del monte Sinai.
Il processo di liberazione sfocia nell'alleanza. È ancora il Signore che
prende l'iniziativa. Quando Israele guidato da Mosè arriva ai piedi del
monte, Dio lo chiama e lo incarica di presentare al popolo la proposta di
alleanza: "Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all'Egitto e come ho
sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatti venire fino a me. Ora, se
vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete
per me la proprietà tra tutti i popoli... Voi sarete per me un regno di
sacerdoti e una nazione santa" (Es 19,4-6). La condizione
fondamentale per vivere nella libertà donata da Dio mediante l'esodo è
"ascoltare" la sua voce, "custodire" la sua alleanza. Il termine biblico
"alleanza", in ebraico berith, esprime sia l'impegno sovrano di Dio
sia l'impegno di quelli che entrano nell'alleanza. Essi formano il suo
popolo, una comunità di liberi e di consacrati.
La "voce" di Dio o la sua
alleanza si concretizza nella proposta della "dieci parole", il decalogo,
che Dio comunica al popolo nel contesto di una imponente teofania cosmica
sul monte Sinai: "Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal
paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù..." (Es 20,2). Da
questa autorevolezza di Dio, come colui che sta all'origine della
liberazione, scaturiscono le dieci parole come condizioni per vivere nella
libertà. La fedeltà a Dio come unico Signore e la giusta relazione con il
prossimo sono i due princìpi nei quali si condensano le clausole
dell'alleanza. Essi possono essere trascritti nel linguaggio dell'amore.
Il comandamento fondamentale, che diventa professione di fede nella
tradizione deuteronomista, dice: "Ascolta, Israele: il Signore è i1 nostro
Dio, i1 Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il
cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze" (Dt 6,4-5). Nella
tradizione sacerdotale il rapporto di consacrazione a Dio, il "Santo", si
coniuga con l'impegno ad attuare giusti rapporti con gli altri. L'invito a
superare il rancore e la vendetta nel confronti del fratello, membro
dell'alleanza, in forma positiva è formulato così: "Amerai il tuo prossimo
come te stesso" (Lv 19,18).
La terra
dono di Dio
La meta finale del cammino
dell'esodo e il compimento delle benedizioni connesse con l'alleanza è
l'ingresso nella terra promessa da Dio ai padri. Questo percorso ideale
sta sullo sfondo della rilettura epica dell'esperienza esodica fatta nel
canto del mare: "Guidasti con il tuo favore questo popolo che hai
riscattato, lo conducesti con forza alla tua santa dimora... Lo fai
entrare e lo pianti sul monte della tua eredità, luogo che per tua sede,
Signore, hai preparato" (Es 15,13.17). Per introdurre il popolo
nella terra di Canaan, Dio ne scaccia gli abitanti e fa crollare ogni
possibile resistenza. In questa prospettiva religiosa si comprendono i
racconti dell'ingresso e della conquista della terra. Anche se Giosuè, che
prende il posto di Mosè, guida i figli di Israele alla conquista della
terra, in realtà è Dio stesso che conduce come un combattente vittorioso
il suo popolo. Gli fa attraversare come in un nuovo esodo il fiume
Giordano, fa crollare le mura delle città fortificate - esemplare è la
conquista di Gerico -, sconfigge i re coalizzati.
Perciò il possesso della terra,
conquistata e distribuita in nome di Dio, è condizionato alla fedeltà
all'alleanza con il Signore. Quando gli Israeliti si dimenticano delle
opere del Signore e si mettono a servire altri dèi, essi ricadono nella
condizione precedente all'esodo. Sono soggetti alle incursioni del predoni
del deserto, come i Madianiti, oppure sono oppressi dai Filistei. In
questa situazione il popolo grida al Signore e invoca la liberazione. Dio
suscita un liberatore carismatico, un "giudice", che fa rivivere ancora
l'esperienza dell'esodo. Questa altalena di oppressione e liberazione
prosegue anche nella storia della monarchia, quando il re prende il posto
delle figure carismatiche. Il re, scelto da Dio, è consacrato per liberare
il popolo dai suoi nemici (cf. 1 Sam 10,1).
Anche il re, come rappresentante
di tutto il popolo, sta all'interno della logica dell'alleanza e si
impegna ad attuarne le clausole. È dunque la violazione dell'alleanza la
vera causa della rovina dei due regni, che si sono costituiti alla morte
di Salomone. Prima il regno di Israele al nord e poi quello di Giuda al
sud cadono sotto la pressione irresistibile della potenza assira e di
quella babilonese. Ma per lo storico della Bibbia la caduta del regno del
nord nel 721 ha la sua causa nella rottura del rapporto di alleanza: "Ciò
avvenne perché gli Israeliti avevano peccato contro il Signore loro Dio,
che li aveva fatti uscire dal paese d'Egitto, liberandoli dal potere del
faraone re d'Egitto; essi avevano temuto altri dèi" (2 Re 17,7). A
questo criterio teologico dell'alleanza si ispirano tutte le riletture
della storia biblica nel contesto delle liturgie penitenziali del tempo
dell'esilio e del ritorno (cf. Ne 9,5-37; Bar 1,15-2,10;
Dn 9,4-19). La ragione profonda della rovina del popolo d'Israele è
la sua infedeltà al rapporto di alleanza, condizione per vivere in libertà
sulla terra, dono di Dio.
1.2. Dalle origini del
mondo all'invio del Messia
Un arco ideale collega
l'esperienza dell'esodo e il racconto delle origini del mondo e
dell'umanità, che occupa le prime pagine della Genesi. Infatti la
categoria biblica di "creazione", che rilegge gli antichi miti delle
origini, è maturata al tempo dell'esilio, quando si rivive l'esodo come
ritorno dalla terra della deportazione e nascita di una nuova comunità. Il
profeta anonimo che incoraggia i deportati in Babilonia li invita a
riscoprire le ragioni della speranza nella fedeltà di Dio, il Signore, il
primo e l'ultimo, colui che può mantenere le promesse perché ha creato il
mondo e guida la storia: "Levate in alto i vostri occhi e guardate: chi ha
creato quegli astri? Egli fa uscire in numero preciso il loro esercito e
li chiama tutti per nome... Dio eterno è il Signore, creatore di tutta la
terra" (Is 40,26.28).
Il Signore stesso presenta il
suo "servo", da lui scelto ed abilitato con il dono dello Spirito per
attuare il suo disegno di salvezza. Esso inizia con la liberazione dei
deportati, ma si estende a tutti i popoli, che saranno testimoni della
fedeltà di Dio. Il Signore è in grado di attuare quello che promette,
perché egli "crea i cieli e li dispiega, distende la terra con ciò che vi
nasce, dà il respiro alla gente che la abita e l'alito a quanti camminano
su di essa" (Is 42,5).
L'esperienza di Dio creatore del
mondo e Signore della storia nasce e matura nei campi di prigionia
dell'esilio. Qui si intuisce che Dio è in grado di far ripartire la
storia, perché egli è il "creatore". Il Signore che ha "creato" e
"plasmato" il suo popolo Israele in forza del suo amore fedele, è lo
stesso che sta all'origine del mondo e della storia umana. In questo clima
nasce la prima pagina della Genesi. La potenza della parola di Dio
fa uscire il mondo dal caos e dà ordine e stabilità al cielo, alla terra e
al mare (cf. Gen 1,1-2,4a).
La parola efficace di Dio
trasmette la benedizione della vita agli animali. Dio crea l'essere umano
a sua "immagine e somiglianza" e lo incarica di rappresentarlo nel mondo
dei viventi. In questo mondo creato dalla parola di Dio non c'è posto per
altre immagini di Dio. Lo stesso creatore resta estasiato nel vedere che
tutto quello che ha fatto è buono, anzi molto buono, bello e splendido. Ma
lo scopo finale di questa contemplazione narrativa dell'opera di Dio
creatore è quello di proporre l'imitazione del suo riposo nel giorno da
lui benedetto e consacrato: il sabato. È questo un indizio dell'origine
esilica di questa pagina, posta come chiave musicale in apertura
dell'intera sinfonia biblica. La preoccupazione di affermare l'unica
signoria di Dio sullo sfondo dei culti idolatrici di Babilonia, va di pari
passo con l'esigenza di indicare la ragione profonda dell'osservanza del
sabato, segno distintivo della comunità dell'alleanza.
La storia del male
umano e la speranza
In questa ottica entra anche il
secondo racconto della creazione, che a prima vista può apparire come un
doppione (cf. Gen 2,4b-3,24). In realtà esso fa da sfondo alla
storia del giardino di Eden, in cui si svolge il dramma della libertà
dell'umanità. Nella scena entrano i protagonisti: l'uomo plasmato dalle
mani di Dio con la polvere del suolo, ma reso vivente con il suo soffio;
la donna plasmata da Dio con la costola dell'uomo e a questi presentata
come sua compagna; il serpente, una delle bestie più astute create da Dio.
Completano il quadro due alberi, che stanno in mezzo al giardino e
rappresentano i desideri più intensi dell'essere umano: l'albero della
vita e quello del sapere totale. Dio incarica l'essere umano di coltivare
e custodire il giardino, con la possibilità di mangiare da tutti gli
alberi, escluso quello della "conoscenza del bene e del male" (Gen
2,17). La scalata al potere, rappresentato dalla conoscenza totale, ha un
esito fatale, la morte.
È questo lo schema che si
ritrova negli antichi racconti simbolici della Mesopotamia. Il tentativo
degli eroi di impossessarsi della sapienza e della vita si scontra con il
destino della morte. Il racconto biblico rilegge questa riflessione
sull'esperienza dell'essere umano nel paradigma dell'alleanza. È
l'infrazione della clausola data da Dio per tutelare la vita che apre la
via alla catastrofe della morte. È questo il terzo atto del dramma del
giardino. La proposta che il serpente astuto fa alla coppia primordiale -
accedere al potere assoluto di Dio - si infrange contro la realtà del
limite umano del dolore e della morte. Ma il credente non si rassegna alla
fatalità di un mondo senza vie d'uscita. Al vertice del dramma umano il
narratore biblico fa risuonare la promessa di Dio: il discendente della
donna schiaccerà la testa al serpente.
Come un filo rosso questa
promessa, che nutre la speranza, esce con la coppia umana dal giardino
dell'Eden e l'accompagna fino al suo compimento. Il peccato del giardino è
il prototipo e la fonte di ogni storia successiva di peccato. Lo stesso
schema si riproduce nel dramma dei due fratelli, Caino e Abele,
rappresentanti delle culture umane in conflitto tra loro (cf. Gen
4,1-24). Anche la storia del diluvio, modellata su analoghi antichi
racconti mesopotamici, fa leva sulla violenza dell'umanità che riempie
tutta la terra e la fa precipitare nel caos. La parola e la benedizione di
Dio fanno ripartire la storia dell'essere umano e di tutti i viventi.
Questa storia ha la garanzia della stabilità nell'impegno di Dio:
"Ricorderò la mia alleanza che è tra me e voi e tra ogni essere che vive
in ogni carne" (Gen 9,15). Alla base di questa "alleanza eterna"
(Gen 9,16) è la clausola posta da Dio a tutela della vita a partire
da quella dell'essere umano creato a immagine di Dio (cf. Gen
9,4-6).
La terza edizione del peccato
primordiale - la torre di Babele - assume una connotazione collettiva e
politica. È il peccato dei popoli, che non seguono il progetto divino
affidato ai discendenti di Noè, dal quale provengono le nazioni,
distribuite sulla faccia della terra "ciascuna secondo la propria lingua"
(Gen 10,5). Il progetto degli uomini che si riuniscono nella
pianura è la costruzione di una torre, la cui cima deve raggiungere il
cielo, per farsi un nome e per impedire la loro dispersione sulla faccia
della terra (cf. Gen 11,4). Esso riproduce in termini collettivi il
peccato primordiale come scalata al potere assoluto. L'intervento di Dio
porta allo scoperto l'inconsistenza di questo tentativo e la conseguente
dispersione come segno dell'incapacità di comunicare nella diversità delle
lingue e delle culture.
La chiamata e la
fede di Abramo
Dal mondo dei popoli dispersi
dopo il peccato dell'idolatria politica emerge la figura di Abramo,
chiamato da Dio con una promessa che suona alternativa al progetto
babelico: "Renderò grande il tuo nome" (Gen 12,2). Anche Abramo
deve fare il suo esodo ed entrare nell'impegno di alleanza. Il suo cammino
di fede è scandito da questa logica, che presiede alla narrazione biblica.
Abramo è invitato dal Signore a lasciare alle spalle il passato, il
possesso e le relazioni che gli danno sicurezza: il suo paese, la sua
patria e la casa di suo padre. La parola del Signore gli promette un
paese, una discendenza e una benedizione che si estende a "tutte le
famiglie della terra" (Gen 12,3). È questa la risposta di Dio al
peccato dei popoli della terra. E Abramo gioca tutto sulla promessa di
Dio, perché del suo futuro egli non possiede la minima
garanzia.
L'itinerario spirituale di
Abramo finisce su di un monte, nel territorio di Mòria, dove Dio gli
chiede di sacrificargli il figlio, il suo unico figlio, quello che egli
ama, Isacco (cf. Gen 22,2). Isacco è il figlio della promessa di
Dio, la garanzia del futuro di Abramo, perché senza la discendenza la
promessa del possesso della terra e di una benedizione estesa ai popoli
resta una parola vuota. La crisi di Abramo è quella del popolo di Israele,
che con l'esilio si trova davanti ad un vicolo cieco. Sembra che Dio
stesso distrugga il pegno delle sue promesse e il segno della sua fedeltà:
il tempio, la dinastia davidica, il dono della terra. La conclusione del
dramma di Abramo è la risposta di Dio agli interrogativi umani di fronte
allo scandalo del male e della morte. Abramo nella fede radicale in Dio
riceve per la seconda volta il dono del figlio. Esso prefigura il
superamento della morte, che solo la relazione vitale con Dio rende
possibile. Giustamente Paolo di Tarso e l'autore della lettera agli
Ebrei vedono in Abramo il prototipo del credenti in Dio, che è
capace di dare la vita ai morti (cf. Rm 4,17-21; Eb
11,17-19).
1.3. Le voci della
speranza
La storia delle origini del
mondo e dell'umanità, sulla quale si salda quella di Abramo, padre dei
credenti, può essere raccontata come memoria feconda del popolo di Dio,
perché in esso sopravvive la speranza. Essa si alimenta alla corrente
della tradizione profetica che accompagna l'intero arco della storia
biblica.
I cosiddetti "profeti scrittori"
compaiono verso la fine del secolo VIII e l'inizio del VII, ma il
profetismo come esperienza spirituale è presente fin dai primi passi del
popolo di Dio. La stessa figura di Abramo viene assimilata negli schemi
narrativi della Bibbia a quella del profeta classico. Mosè è presentato
nella tradizione deuteronomista come il prototipo del profeta. Per la
guida futura del popolo di Dio si attende un profeta simile a Mosè (cf.
Dt 18,15-18). Prima dell'istituzione della monarchia le figure
carismatiche, che Dio suscita per liberare e guidare il suo popolo, hanno
alcuni tratti che le fanno accostare ai profeti estatici.
Tra questi si collocano i due
profeti popolari, Elia ed Eliseo, che svolgono la loro attività nel regno
del nord in un tempo di forti sconvolgimenti religiosi e sociali. Elia si
scontra con l'ambiente di corte, influenzato dalla presenza della regina
fenicia Gezabele, e rischia la propria vita per difendere e restaurare la
fede tradizionale, contro le pratiche idolatriche di matrice cananea. La
fede nel Signore dell'esodo è inseparabile dall'attuazione della
giustizia, perché Dio è il difensore dei poveri. Elia perciò, in nome di
Dio, sfida il re e la regina, che hanno fatto condannare ingiustamente
Nabot, per prendersi la sua vigna e allargare il giardino regale. Nella
storia del profeta Elia, che si prolunga in quella del suo discepolo
Eliseo, si avvertono i prodromi del profetismo classico. La fede in Dio
unico Signore è l'antidoto contro ogni forma di
ingiustizia.
Ma la profezia biblica assume un
volto nuovo a partire dal profeta Amos, attivo nel regno di Israele prima
della sua catastrofe, la caduta di Samaria nel 721 a.C. Il tratto
distintivo del profeta biblico rispetto ad altre forme di esperienza
carismatica, presenti anche in altre culture e ambienti religiosi, è la
chiamata o investitura divina. Da questa esperienza iniziale il profeta
come inviato di Dio attinge forza e ispirazione per la sua coraggiosa
denuncia, l'invito caldo alla conversione e l'annuncio della speranza.
Anche se cambiano i modelli narrativi dell'esperienza di chiamata - da
quella interiore di Geremia a quella spettacolare di Ezechiele -, resta
fermo e costante il suo nucleo di fondo. L'incontro del profeta con Dio
diventa il nuovo punto prospettico e il criterio di valutazione della
realtà. Da questo momento il profeta scopre una nuova dimensione della sua
vita. Assume un ruolo pubblico: quello dell'ambasciatore di Dio che
interpella tutti, autorità e popolo, sacerdoti e re.
Amos
È emblematico al riguardo il
caso di Amos, che avverte come una forza irresistibile la chiamata di Dio.
Egli paragona la sua esperienza a quella che si prova di fronte al ruggito
improvviso del leone nella boscaglia del Giordano. Così il profeta è
costretto a parlare in nome di Dio, perché "il Signore non fa cosa alcuna
senza aver rivelato il suo consiglio ai suoi servitori, i profeti"
(Am 3,7).
Sotto l'impulso profetico Amos
inizia la sua attività al nord, nel regno di Israele. Si presenta al
santuario di Betel e annuncia la morte violenta del re Geroboamo e la
rovina del suo regno: "Israele sarà deportato in esilio lontano dalla sua
terra" (Am 7,17). Il santuario di Betel è finanziato dalla corte di
Geroboamo. Perciò il sacerdote Amasia, soprintendente al santuario, si
sente autorizzato a denunziare Amos presso il re. Nello stesso tempo egli
affronta Amos e gli ordina di lasciare il santuario del re: se vuole
guadagnarsi da vivere, può andare a fare il profeta al suo paese, nel
regno di Giuda. Amos allora presenta le sue credenziali come profeta del
Signore. Egli non fa parte di nessuna compagnia di profeti estatici e
vagabondi, e neppure ha bisogno di fare il profeta per vivere, perché ha
il suo lavoro. Ma è costretto a parlare nel nome del Signore perchéegli lo
ha incaricato (cf. Am 7,10-15).
La figura profetica di Amos,
oltre che per la sua testimonianza personale, è importante perché inaugura
una tradizione che, nelle alterne vicende storiche, si sviluppa fino alle
soglie dell'era cristiana. La raccolta dei suoi oracoli, portata nel regno
di Giuda dai suoi discepoli, offre anche un modello del linguaggio e dello
stile profetico. L'intervento del profeta segue uno schema fisso: la
denuncia del peccato come infedeltà al Dio dell'esodo e agli impegni di
alleanza, cui fa seguito l'appello alla conversione con il conseguente
annuncio del giudizio di rovina o salvezza (cf. Am 2,6-16). Il
profeta, alla luce della fede nel Dio dell'esodo, porta allo scoperto
nella situazione presente il peccato di idolatria e l'ingiustizia. Per
annunciare il nuovo futuro, egli fa leva sulla fedeltà di Dio, che fa
ripartire la storia della salvezza.
Osea, Geremia ed
Ezechiele
Ogni profeta porta il suo
contributo alla speranza che matura dentro la storia del rapporto di Dio
con il suo popolo. Osea, che opera come Amos nel regno del nord prima
della sua rovina, mediante le immagini sponsali e parentali ripropone in
forma interiore e personalizzata il rapporto di alleanza con Dio. In tale
contesto Osea conia il linguaggio della "conoscenza", per esprimere la
relazione vitale e dinamica con Dio.
Le immagini sponsali di Osea e
anche il suo linguaggio della "conoscenza" di Dio vengono ripresi un
secolo dopo da Geremia, nel sud del paese. Il profeta di Anatot ricorre a
questo lessico per formulare il suo messaggio di speranza al tempo della
catastrofe che nel 587 a.C. travolge il regno di Giuda, la città e il
tempio di Gerusalemme. In questo clima di crisi delle istituzioni e di
ogni certezza umana, egli riprende e riformula l'annuncio di una "nuova"
alleanza, fondata sulla legge posta nell'intimo e scritta nel cuore (cf.
Ger 31,33). Il nuovo rapporto con Dio è reso possibile dal
cambiamento interiore e dal perdono del peccato.
Questo motivo della speranza è
riproposto nella prigionia babilonese dal profeta Ezechiele. Egli ha
seguito le carovane di deportati del 597 a.C. e, prima della caduta di
Gerusalemme, si impegna a demolire le false speranze di quanti si illudono
sulla incolumità della città in cui Dio ha il suo tempio. Ma, dopo la
tragedia che si abbatte sulla città santa e sui suoi abitanti, il profeta
incomincia a costruire un nuovo futuro, fondato sulla fedeltà di Dio. Nel
suo nome "santo", Dio si impegna a riportare le tribù disperse nella terra
di Israele, dopo un bagno purificatore, che eliminerà radicalmente ogni
forma di idolatria e ogni residuo di infedeltà. Questo bagno consiste in
una nuova effusione dello Spirito di Dio sul popolo di Israele. Dio gli
toglierà il cuore indurito e gli darà un cuore nuovo per vivere con
fedeltà nell'alleanza (cf. Ez 36,24-27).
Isaia, la sua
tradizione e Daniele
Nello stesso contesto di crisi
provocato dall'esilio opera un altro profeta anonimo. I suoi interventi
sono ora raccolti nel libro posto sotto il nome di Isaia. Proprio la
tradizione che a lui si richiama è un'ulteriore attestazione della
grandezza di questo profeta.
Isaia vive nel secolo VIII nella
città di Gerusalemme. A partire dalla sua chiamata nel tempio, egli tiene
viva la fiamma della speranza nella fedeltà di Dio, il "santo di Israele".
Isaia denuncia senza mezze misure l'infedeltà a Dio e ogni forma di
ingiustizia, ma nello stesso tempo indica la speranza che assume un
duplice volto. Dio, che rimane fedele alle sue promesse, fa ripartire la
storia di salvezza da un piccolo "resto". Isaia fa leva sull'antica
promessa del profeta Natan circa la perpetuità della casa di Davide, per
annunciare la nascita di un discendente davidico che instaurerà un regno
di giustizia e di pace. Questo figlio regale porta un nome rappresentativo
della fedeltà di Dio: Emmanuel, "Dio-con-noi" (cf. Is 7,10-14;
8,23-9,6; 11,1-9).
All'epoca dell'esilio e nel
periodo del ritorno e della ricostruzione, nella tradizione di Isaia, la
speranza prende un altro volto, quello del "Servo", fedele a Dio e
solidale con la comunità. Egli si fa carico delle sue sofferenze per
introdurla in un nuovo rapporto con Dio (cf. Is 52,13-53,12). Ne
parla il profeta anonimo che definiamo "Secondo Isaia", il cui "libro
della consolazione" annuncia il nuovo esodo come profonda restaurazione
del popolo e di Gerusalemme, aprendosi alle prospettive dell'universalità
della salvezza.
L'ultima voce della speranza è
ancora quella di un profeta, che con lo pseudonimo di Daniele sostiene la
fiducia nel tempo dei martiri del II sec. a.C. Mentre la famiglia dei
Maccabei organizza la resistenza armata contro il re Antioco IV Epifane,
Daniele anima la resistenza spirituale dei fedeli. Essi possono contare
sull'intervento finale decisivo di Dio, che instaurerà il suo regno dopo
il giudizio sulle potenze violente e distruttive della storia umana. Il
protagonista del giudizio di Dio è uno che, come "Figlio di uomo",
rappresentante dei "santi", viene dal mondo di Dio (cf. Dn
7,13-14). L'immagine del "Figlio dell'uomo" è l'ultima espressione di
quella speranza che con un termine generale si chiama "messianica" - dal
termine ebraico mashìah, "unto" e cioè "consacrato" -, perché si
innesta sulla figura di un re ideale, scelto e incaricato da Dio per
attuare il suo regno di giustizia e di pace.
1.4. Alla ricerca del
senso della vita
Se la coscienza profetica è
l'anima dell'esperienza biblica, che scopre e vive il rapporto con Dio
dentro la storia, la riflessione dei sapienti rappresenta il cuore, che
cerca il senso della vita umana nella fortuna e nella disgrazia, nella
salute e nella malattia, nella festa della giovinezza e di fronte allo
sfacelo della morte. La sapienza biblica è l'arte del vivere bene, in modo
giusto e felice, in tutti gli ambiti dell'esistenza. Essa ha la sua radice
nel "timore di Dio", cioè nel senso profondo e vivo della sua
trascendenza, ma si alimenta dalla riflessione sull'esperienza
umana.
La sapienza, che nasce e cresce
con la vita, si trasmette di padre in figlio e si condensa nei proverbi e
nelle sentenze del maestri. Il messaggio dei sapienti della Bibbia può
essere incanalato in una duplice direzione. La prima è la ricerca del
significato dell'esistenza umana sfidata dall'esperienza del limite; la
seconda è la riflessione sull'opera di Dio nel mondo e nella storia
umana.
L'esistenza nel
limite
L'acuta coscienza della
precarietà di tutte le cose e di ogni esperienza umana fa dire all'anonimo
maestro di sapienza che si nasconde dietro il nome di Qoèlet:
"Vanità delle vanità... tutto è vanità" (Qo 1,2; 12,8). Questa
espressione, che apre e chiude la raccolta delle riflessioni di questo
sapiente biblico del III sec. a.C., riassume la sua posizione disincantata
e lucida.
Egli passa in rassegna le vane
iniziative e i diversi progetti per i quali si danno da fare gli uomini -
costruzioni, ricchezza, creazioni artistiche - e conclude che tutto è
"vanità", un inseguire il vento. Anche la ricerca del sapere delude,
perché essa non fa altro che aumentare il dolore. Del resto la sorte
finale del saggio e dello stolto è la stessa. Tutti e due finiscono nella
morte e chi sa, si domanda Qoèlet, se il soffio vitale dell'essere
umano sale in alto o scende in basso come quello delle bestie. Alla fine
della sua ricerca egli invita comunque ad accogliere la vita con la sua
parte, sia pure precaria, di gioie e soddisfazioni, sapendo che anche
questo è dono di Dio (cf. Qo 2,24-25).
Questa soluzione realistica di
Qoèlet presuppone che l'essere umano stia bene e possa "mangiare e
bere e godersela nelle sue fatiche" (Qo 2,24). Ma che cosa proporre
a quanti hanno avuto in sorte solo sofferenze e dolori senza fine? Di
questa situazione si fa interprete il libro di Giobbe, che pone la
domanda scandalosa: "Perché dare la luce a un infelice e la vita a chi ha
l'amarezza nel cuore?" (Gb 3,20). Giobbe è protagonista del dramma
spirituale del giusto colpito da una serie di disgrazie senza senso. La
sua prima risposta è quella del credente, che accoglie il bene e il male
dalle mani di Dio.
Ma su questa immagine
tradizionale del Giobbe "paziente", si innesta quella del Giobbe che
rimette in discussione il principio della retribuzione - Dio premia i
buoni e castiga i malvagi - difeso dai tre amici venuti a consolarlo.
Giobbe, partendo dalla sua esperienza, contesta questa spiegazione
tradizionale del male umano e non accetta una risposta teorica, che
rimanda la soluzione alla giustizia e sapienza di Dio. Egli vuole avere un
incontro diretto con Dio, per esporgli la sua causa e avere da lui una
risposta. Alla fine Dio si manifesta a Giobbe in tutta la sua potenza di
creatore. Giobbe allora davanti a Dio riconosce il suo limite radicale di
creatura e Dio riabilita Giobbe perché ha detto "cose rette" (Gb
42,7). Nell'orizzonte della libertà sovrana di Dio si colloca anche quella
del credente. Nella relazione vitale con Dio egli può vivere con dignità
anche la sua condizione precaria e mortale.
Sapienza e
rivelazione
L'altro percorso della
riflessione sapienziale biblica incrocia la rivelazione di Dio nel mondo
creato e nella storia di Israele. Essa assume la forma dell'elogio della
sapienza, che, come figura personificata, partecipa all'opera creatrice di
Dio. In questa prospettiva si rilegge la prima pagina della Genesi
e la sapienza prende il posto della parola di Dio, che chiama
all'esistenza, dà ordine e splendore a tutte le cose (cf. Pr
8,22-31).
Questa manifestazione della
sapienza divina nel mondo si intreccia con quella della rivelazione
storica ad Israele. La dimora stabile della sapienza, alla ricerca di un
posto dove abitare, è in Giacobbe, sul monte Sion.
Il maestro Gesù ben Sirach, nel
II sec. a.C., conclude l'autopresentazione della sapienza con un commento
che ne esplicita il significato: "Tutto questo è il libro dell'alleanza
del Dio altissimo, la legge che ci ha imposto Mosè, l'eredità delle
assemblee di Giacobbe" (Sir 24,22). Questa riflessione sulla
sapienza sta ormai alle soglie dell'esperienza cristiana, che riprende
alcune espressioni dell'inno del Siracide per trascrivere la fede in Gesù
Cristo, la parola creatrice di Dio che diventa carne e pone la sua tenda
in mezzo all'umanità.