LA RESPONSABILITA’ DEI LAICI ALL’INTERNO DELLA COMUNITA’ ECCLESIALE
di Giuseppe Savagnone
Il titolo di questa relazione si presenta subito fortemente problematico. In primo luogo perché il tema sembra aver perso ogni interesse. Dei laici si è parlato fin troppo, dal Concilio in poi, e si ha l’impressione che tutto quello che si doveva dire sia stato detto. Perché spendere altre parole?
Alcuni intendono, con ciò, che il problema, ormai, è dietro le nostre spalle. I tempi dell’emarginazione dei laici sono finiti per sempre. Si rischia, perciò, di sfondare delle porte aperte. Ho sentito persone criticare, in base a tale considerazione, perfino la convocazione di questo convegno. Fare dei laici l’oggetto di una trattazione specifica sembra a qualcuno un modo di continuare a ghettizzarli, quando invece nella realtà essi sono, a tutti i livelli, parte viva della comunità cristiana.
Altri motivano la loro insofferenza muovendo da un punto di vista opposto. Essi pensano che quelli del Concilio siano rimasti solo dei buoni propositi, a cui fa riscontro, nella realtà, una forte involuzione della Chiesa in senso clericale. Parlare ancora della “responsabilità dei laici” sembra dunque una retorica che finisce solo per mascherare i fatti.
Ma la principale difficoltà, nell’affrontare il tema del laicato oggi, deriva dal fatto che, dopo tanti studi, relazioni, convegni, ci si sta rendendo conto con un certo sgomento che la identità del laico rimane inafferrabile. Vale, nei suoi confronti, quello che la teologia insegna a proposito di Dio: è più facile dire quel che non è, piuttosto che ciò che è.
Di questa specie di “teologia negativa” abbiamo un esempio già nel testo della Lumen Gentium che definisce questa figura: “Col nome di laici si intendono qui tutti i fedeli ad esclusione dei membri dell’ordine sacro e dello stato religioso sancito dalla Chiesa” (LG 31). Si potrebbe parafrasare dicendo: “Sono laici tutti coloro che non sono né sacerdoti né religiosi”. Dunque, ciò che caratterizza il laico è, paradossalmente, il suo “non essere” - prete o monaco o frate o suora.
E in effetti, se si cerca un contenuto positivo dell’“essere” del laico, ci si trova in serie difficoltà. Egli, infatti, è tale in forza del suo battesimo. Ma questo lo ha in comune con i sacerdoti e i religiosi. Anch’essi, da questo punto di vista, possono ben dirsi “laici”, membri del popolo di Dio (laós).
Certo, i testi del Concilio e i successivi documenti del magistero tentano un’ulteriore caratterizzazione del laico, ma lo fanno su un piano prevalentemente funzionale, che non intacca il dato originario per cui ciò che differenzia questa figura da quella del sacerdote e del religioso non è qualcosa che essa abbia in più, ma quello che ha in meno.
Non sono questi gli unici motivi di perplessità nell’affrontare il tema che mi è stato affidato e che parla di una responsabilità del laico “all’interno della comunità ecclesiale”. Qualunque teologo, senza bisogno di essere particolarmente pedante, potrà far rilevare che la terminologia del “dentro” e del “fuori” appare più adeguata alla impostazione ecclesiologica che, in un passato ormai abbastanza remoto, contrapponeva la Chiesa, intesa come societas perfecta in sé conclusa, al “mondo”, concepito come regno delle realtà profane o addirittura del maligno. Ora, questa impostazione è stata decisamente superata dal Vaticano II che, nella Lumen Gentium, ha considerato la Chiesa “come un sacramento o segno o strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (n.1).
Dov’è più, qui, la linea di confine? E come immaginare un cristiano che stia “all’interno della comunità ecclesiale”, senza essere, per ciò stesso, nel cuore stesso del mondo?
Proviamo a rispondere a queste osservazioni, procedendo a ritroso e cominciando perciò dall’ultima. Quanto in essa si dice è assolutamente vero. Ma il sacramento addita una realtà escatologica. Un giorno l’umanità coinciderà col regno di Dio e allora il “segno”, lo “strumento”, non avrà più ragione d’esistere come entità a se stante e dotata di una propria visibilità. Ma la compenetrazione tra Chiesa e mondo non è un dato sociologico, bensì un mistero che matura progressivamente nel tempo – come il seme nella terra – e che avrà il suo compimento, e insieme la sua piena manifestazione, alla fine della storia. Pensare di trovarla già attuata nel presente ci esporrebbe a uno di quei fatali corto-circuiti che hanno punteggiato la storia della civiltà cristiana e che sono nati dall’anticipare indebitamente nel tempo il compimento escatologico, annullando la distanza tra il “già” e il “non-ancora”.
Bisogna unirsi alla pazienza di Dio e accettare fino in fondo la logica del sacramento, che è di essere insieme segno che rivela e velo che nasconde la vera realtà delle cose. Così la Chiesa, nella storia, rimane una istituzione, con le sue strutture, con le sue gerarchie, con i suoi membri, con i suoi confini ben visibili, con il suo “interno” e il suo “esterno”. E il mondo intorno ad essa, se pure non è il dominio del maligno, non è neppure, però, il regno di Dio, ma riunisce in sé, in modo inestricabile, i due sensi che la Rivelazione più frequentemente gli attribuisce, quello di creatura, “molto buona”, di cui Dio si è rallegrato all’alba della creazione, e di nemico inesorabile dei discepoli di Gesù, per cui egli non ha pregato.
Proprio a partire da questa situazione si può forse capire meglio quello che i documenti del magistero dicono a proposito del ruolo del laico. Egli è colui che realizza la presenza della Chiesa nel mondo e quella del mondo nella Chiesa. La sua centralità - se ne ha una - non deriva da una particolare dignità, ma dal trovarsi al confine tra due ambiti, vivendone sulla propria pelle le tensioni e le distonie, dal suo essere la sentinella che annunzia ad ognuno dei due i messaggi e i segnali che vengono dall’altro.
Nella sua professione, nella politica, talora anche in famiglia, egli si trova frequentemente a contatto con un modo di pensare, di sentire e di comportarsi, che gli fanno sperimentare come un problema la sua contemporanea appartenenza alla comunità credente. Reciprocamente, nella sua partecipazione alla fede e alla vita della Chiesa, egli percepisce tutta la difficoltà di riportare le categorie del Vangelo nella complessità della realtà economica, sociale, politica, culturale in cui, come membro della società civile, deve ogni giorno operare.
E, nella misura in cui il laico cristiano non si trova in mezzo tra le due comunità, ma appartiene intimamente ad entrambe e le avverte come parte costitutiva del suo essere, non può non sentire come una lacerazione i conflitti oggettivi, le reciproche incomprensioni, le indifferenze, i rifiuti che a volte le dividono. In quanto è partecipe della sensibilità, dei ritmi, degli stili di vita, delle esigenze degli uomini e delle donne del suo tempo, egli vive quotidianamente tutto il disagio di una Chiesa che non sempre riesce a capirli e a rispondere alle loro attese. Reciprocamente, in quanto è parte egli stesso di questa Chiesa, che ama con passione e di cui condivide la visione e i criteri di fondo, avverte tutto il dramma di un mondo secolarizzato, che mette Dio ai margini e che si lascia tante volte dominare da meccanismi disumani.
Eppure, proprio in questa situazione problematica è tutta la sua grandezza. Se da una parte, infatti, vale per il laico, più che per il sacerdote o il religioso, la categoria postmoderna dello “spaesamento”, per cui non ha un suo “luogo” ben definito (è il “non essere” di cui si parlava prima), dall’altra egli può trovare in questa specie di permanente esilio e sradicamento la condizione per capire l’“altro” che, in qualunque delle due ottiche - secolare o ecclesiale – egli si situi, porta sempre dentro di sé. E, se è vero che l’alterità è al tempo stesso la premessa e la sfida di un’autentica comunicazione, si deve concludere che a quest’ultima il laico è costitutivamente chiamato.
In questo senso, egli, con la sua “estroversione” anticipa più direttamente, nella sua carne, la comunione finale della Chiesa col mondo, vivendola come può essere vissuta al presente, cioè come fatica di un dialogo difficile e al tempo stesso necessario. Perciò la figura del laico è passeggera, come quella del mondo alla cui frontiera egli sosta per vocazione. In paradiso ci saranno soltanto battezzati.
Per questo è vero – come dicono i testi conciliari - che appartiene all’identità e alla missine dei laici “rendere presente e operosa la Chiesa in quei luoghi e in quelle circostanze, in cui essa non può diventare sale della terra se non per loro mezzo” (LG n.33). Con la precisazione – di cui invece nei documenti del magistero non si parla molto - , che può fare questo perché condivide ogni giorno la dispersione, il logorio, le contraddizioni, degli uomini e delle donne “comuni” e porta dentro se stesso le voci, le inquietudini, i dubbi che li travagliano, trovandosi continuamente a dover “fare i conti” con tutto ciò, per essere onesto con se stesso, con gli altri e con Dio.
È vero anche, d’altra parte, che compete ai laici sensibilizzare la comunità cristiana alle esigenze e al linguaggio degli uomini e delle donne di un dato tempo e di un dato ambiente, aiutandola a percepire fino in fondo il senso delle loro istanze e mettendola in condizione di parlare loro in modo comprensibile. Anche in quelle che appaiono come forme di rifiuto del Vangelo, anche nell’errore e nel male che talora impregnano la mentalità e i costumi di una società, vi sono dei germi di verità e di bene che vanno recuperati e che sono come un appello inespresso, una invocazione di salvezza. I laici possono dare voce a questo appello all’interno della Chiesa e portare nella sua riflessione e nella sua esperienza vissuta ciò che di nuovo e di valido quella società ha maturato.
In questo sforzo di riportare incessantemente a contatto le due prospettive, il laico deve sempre evitare il rischio di appiattirsi unilateralmente sull’una (clericalismo) o sull’altra (secolarismo). Ma neppure può situarsi in una specie di ambigua neutralità tra le due, come se esse fossero sullo stesso piano. In realtà proprio la fedeltà al mondo esige dal laico cristiano una scelta radicale per Cristo - che questo mondo è venuto non a giudicare ma a salvare - e un’adesione senza riserve alla Chiesa, che è il suo corpo e il suo prolungamento nella storia. Sarà sempre in nome di questa adesione incondizionata che il laico potrà e dovrà, come suo membro vivo, sollecitarla, avvertirla, criticarla.
E’ nella prospettiva del ritorno di Cristo che si rivelano la complementarietà - sia pure non simmetrica - e la fecondità di questa duplice appartenenza del laico. Da un lato, infatti, la sua frequentazione delle realtà terrene lo rende più sensibile al carattere sacramentale della Chiesa e al suo riferirsi non a se stessa, bensì al Regno, in cui l’umanità intera e lo stesso universo troveranno il loro compimento; dall’altro la sua esperienza di fede, nella comunità ecclesiale, lo mette in condizione di discernere quali realtà mondane abbiano lo spessore necessario per maturare verso questo compimento, che le supera ma non le nega.
Tutto ciò che è stato detto vale anche per il presbitero e il religioso, perché anch’essi sono battezzati. Ma il ministero ordinato costituisce “una funzione interna alla missione complessiva del popolo di Dio”. “La diaconìa del battezzato , e di tutto il popolo di Dio, è perciò mediata da quella ministeriale che, a sua volta, è finalizzata e ordinata a servire alla prima per mediare nel tempo l’azione salvifica di Cristo”. L’orizzonte immediato del sacerdozio ordinato non è il mondo in quanto tale, ma l’edificazione del corpo di Cristo. Qualcosa di simile può dirsi anche dello stato di vita religioso. Superiori alla vocazione laicale per tanti versi, “le due forme di vita speciali appaiono (...) chiaramente come strumentali allo stato principale nella Chiesa, lo stato laicale”, che invece, da parte sua, non si pone in funzione loro, ma della realizzazione del Regno nel mondo.
In questa prospettiva, il fatto che il laico non vanti altro titolo e altra caratterizzazione che il suo battesimo – il “meno” di cui prima si parlava – , mentre lo pone alla frontiera (non ai margini) dell’istituzione ecclesiastica, lo rende però in un certo senso centro della Chiesa, a cui l’istituzione stessa è finalizzata. E lo rende tale proprio in quanto nel laicato è anticipato il compimento escatologico, in cui il dualismo Chiesa-mondo sarà anche visibilmente superato.
Da queste considerazioni, dovrebbe essere chiaro che il discorso che faremo non riguarderà il laico nel suo stare “all’interno della comunità ecclesiale” se non in quanto questo “star dentro” è anche uno “star fuori” ed è incomprensibile senza di esso. Non perché egli non sia a pieno titolo membro della Chiesa, ma perché - come dovrebbe ormai esser chiaro da quanto detto - la sua stessa appartenenza lo spinge a comunicare con l’esterno, e ad instaurare un fecondo, incessante confronto fra “dentro” e “fuori”, nella prospettiva di un annullamento di quel confine che legittima, su questa terra, una tale terminologia.
A questo punto possiamo risolvere anche l’ultimo problema, quello dell’usura dei discorsi sulla condizione laicale. Proprio perché l’identità del laico si trova su una sottilissima linea di confine, non sorprende che sia così difficile darne una definizione e come alla fine la scelta più corretta sia di rinunziare a darne una valida per tutti.
Propriamente, “il laico” non esiste. Esistono concrete vocazioni laicali, diverse l’una dall’altra. E queste vocazioni cambiano di epoca in epoca, di ambiente in ambiente, ben più radicalmente di come possano modificarsi la vocazione al sacerdozio o quella del religioso. Fra lo stile di vita a cui è chiamata una madre di famiglia e quello di un uomo politico, fra quello di un laico consacrato e quello di una ballerina, ci sono inevitabilmente delle differenze assai maggiori che tra quello di un frate francescano e di un monaco benedettino. E, all’interno di ciascuno di questi stati di vita concreti, le circostanze particolari giocano un ruolo assai superiore a quello che possono giocare tra i religiosi di uno stesso ordine. L’assenza, nella vita laicale, di una “regola”, non è un fatto marginale, ma emblematico di una condizione in cui l’individuale prevale di gran lunga su quanto possa essere affidato a criteri universali.
Insomma, non esiste un’identità astratta del laico, perché il laico appartiene interamente a Dio, ma appartiene altrettanto interamente – più di ogni altra componente della Chiesa - alla storia, dove Dio stesso lo ha posto.
Ma, alla luce di tutto questo, si capisce perché il discorso sui laici debba sempre di nuovo essere ripreso: perché è sempre nuova e diversa la loro realtà storica
Ciò significa, naturalmente, che anche quello che oggi diciamo non è definitivo. Può costituire un punto di partenza, da cui ognuno deve partire per calare queste riflessioni nell’esperienza concreta della sua storia.
Se il solo carattere distintivo del laico è quello battesimale, non c’è altro modo di accostarci alla sua identità e alla sua missione che quello di scavare nella dignità che il suo battesimo gli conferisce. Il Concilio dice che i laici, proprio in forza della consacrazione battesimale, sono “partecipi dell'ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo” (LG n. 31). Ed è, appunto, “come partecipi della missione di Cristo sacerdote, profeta e re”, che essi “hanno la loro parte attiva nella vita e nell’azione della Chiesa” (AA n. 9). Su questi tria munera, dunque, il nostro discorso si articolerà.
I canonisti discutono sulla possibilità di identificarli con una espressione della sacra potestas della Chiesa. Noi non entreremo in questa controversia. Ciò che qui ci interessa è che sicuramente “si può parlare di un potere sacro, proprio di ogni cristiano, di costituire in forza della sua fede e del battesimo la Chiesa stessa”. Lo dice la Lumen Gentium quando afferma che “i laici, radunati nel Popolo di Dio e costituiti nell’unico Corpo di Cristo sotto un solo capo, chiunque essi siano, sono chiamati come membra vive a contribuire con tutte le loro forze, ricevute dalla bontà del Creatore e dalla grazia del Redentore, all’incremento della Chiesa e alla sua continua ascesa nella santità” (n. 33). Lo ribadisce il can. 208 del Codice di Diritto Canonico del 1983: “Fra tutti i fedeli, in forza della loro rigenerazione in Cristo, sussiste una vera uguaglianza nella dignità e nell’agire, e per tale uguaglianza tutti cooperano all’edificazione del Corpo di Cristo, secondo la condizione e i compiti di ciascuno”.
E poiché la Chiesa non è tanto una mera istituzione, quanto piuttosto una missione (qualcuno ha detto “una spedizione”), che esiste in sé solo in quanto si proietta verso il mondo, da questo grande principio di uguaglianza tra i fedeli ne deriva uno relativo al loro impegno missionario. Lo afferma solennemente il Concilio: “Ricordino i Vescovi, i parroci e gli altri sacerdoti dell’uno e dell’altro clero, che il diritto e il dovere di esercitare l’apostolato è comune a tutti i fedeli sia chierici sia laici e che i laici hanno compiti propri nell’edificazione della Chiesa” (AA n. 25). Su questa linea si collocano due articoli del nuovo Codice: “I laici, dal momento che, come tutti i fedeli sono deputati da Dio all’apostolato mediante il battesimo e la confermazione, sono tenuti all’obbligo generale e hanno il diritto di impegnarsi, sia come singoli sia riuniti in associazioni, perché l’annuncio della salvezza venga conosciuto e accolto da ogni uomo in ogni luogo” (can. 225). E ancora: “Tutti i fedeli, in quanto partecipano alla missione della Chiesa, hanno il diritto di promuovere e di sostenere l’attività apostolica anche con proprie iniziative, secondo lo stato e la condizione di ciascuno” (can. 216).
“Ne deriva” - commenta uno studioso - “un’importante conseguenza: un fedele cristiano non ha bisogno di altra delega, di altro invio, di altro mandato, di altro invito, per essere abilitato ad essere il testimone attivo della Buona Novella. La confermazione, unitamente al battesimo e all’Eucaristia, è il fondamento del partecipazione o cooperazione nella edificazione della Chiesa e nella missione”.
La verità è che la sorgente prima della potestas, nella Chiesa, è la carità. Questo non dice solo qualcosa circa il fondamento della potestà dei laici - in quanto è ammissibile che essi ne abbiano una, ma aiuta a comprendere come il suo esercizio non contrasti con quanto si è detto prima circa la condizione di costitutiva “povertà” che caratterizza la condizione laicale, sia all’interno della comunità ecclesiale che nel mondo. In questo senso, anche la dottrina dei tria munera esige un ripensamento di fondo, alla luce di quanto abbiamo detto parlando del “non essere” del laico.
Di per sé, infatti, il munus indica una funzione, un compito, a cui sono connessi una dignità e un potere. In questo senso, nel Codice di Diritto Canonico “l’uso più frequente di munus è nel senso di ufficio, anche in senso stretto, indicando i compiti e le responsabilità particolari ad esso inerenti”. Ciò sembrerebbe essere piuttosto sulla linea del ministero ordinato, e volerlo a tutti i costi estendere ai laici potrebbe comportare il serio rischio di una loro clericalizzazione. Proprio perché “la corresponsabilità si vive e non ha bisogno di “mandati”, “libertà e creatività nella comunione devono caratterizzare questo ambito della vita della ecclesiale. Occorre diffidare della formalizzazione di funzioni e di compiti che possono e debbono essere svolti negli ambiti più diversi della comunità cristiana come testimonianza gratuita e gioiosa”.
Il termine munus, però, può anche indicare un servizio, una diaconìa che qualcuno è chiamato a rendere (cfr. LG n.24). In questo senso originario esso non implica alcuna istituzionalizzazione forzata e si comprende bene come esso possa essere stato attribuito dal Concilio a Gesù Cristo, in quanto egli “non è venuto per essere servito, ma per servire <diakonesai> e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mc 10, 45). E il Signore è, nel NT, il modello della diakonia. Non bisogna dimenticare, a questo proposito, che il diakonos, a differenza del doulos, che è uno schiavo, svolge il suo servizio in un atteggiamento di responsabilità e di dignità che rendono possibile chiamarlo anche “ministro”. E se è vero che c’è un aspetto della esperienza di Gesù che ha fatto di lui il “servo sofferente” <doulos>, non è a questo tipo di servizio che egli ha eletto i suoi: “Non vi chiamo più servi <doulous>, perché il servo <doulos> non sa ciò che fa il padrone. Vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre e l’ho fatto conoscere” (Gv 15, 15). Dove l’amicizia è ben compatibile con la diakonia, che implica una dignità e una condivisione.
È a questa diakonia che Gesù chiama sia i ministri ordinati che i laici. Essa però assume, negli uni e negli altri, un carattere diverso. Nel primo caso, infatti, essa ha il carattere di “ufficio”, di “potere”, di “dignità”. Nel secondo ha a che fare, piuttosto che con una carica o un rito, con la vita vissuta di ogni giorno, sia all’interno della comunità ecclesiale, sia nel mondo.
In questa logica, si può ben parlare di una ministerialità laicale, diversa da quella dei ministri ordinati, ma anch’essa preziosa per la vita della Chiesa. Già è significativo “il fatto che nella sua dottrina dei ministeri ecclesiali Paolo enumera molti ministeri in più di quelli che spettano agli stati di vita qualificati. Questi “ministeri” sono in quanto dono di grazia (charismata) certo più che un puro e semplice impegno provvisorio. Essi sono stati distribuiti dallo spirito Santo (1Cor 12, 11) e donano al cristiano una funzione vera e propria nell’economia complessiva del Corpo Mistico”.
Dicevamo prima che “il laico non esiste”. Siamo in grado, ora, di precisare meglio quest’affermazione. Ciò che non esiste è il laicato come massa amorfa, giustapposta e soggetta al ministero ordinato della gerarchia. “La dottrina di questi ministeri carismaticamente fondati mostra chiaramente (. . . ) che lo stato laicale nella Chiesa non consiste affatto di una massa inarticolata, senza forma, che riceve passivamente le grazie di Dio trasmesse dalla Gerarchia, ma che la Grazia contiene piuttosto sempre anche una missione, un compito ecclesialmente determinato, impone una responsabilità per tutto l’insieme del corpo di Cristo”.
Il concetto di diaconìa spiega anche perché tutto ciò che si può e si deve dire sulla valorizzazione del ruolo dei laici non implica in alcun modo una concorrenza e un’alternativa rispetto a quello dei presbiteri e dei religiosi. Siamo al di fuori della logica del potere, che è pur sempre una logica da servi e non da diaconi. Per questi ultimi, la suprema realizzazione di sé sta nell’essere al servizio degli altri. La diaconìa dei cristiani, qualunque sia il loro stato, è dunque sempre volta a favorire e valorizzare quella dei fratelli, non ad accaparrarsi un privilegio.
Alla luce di quanto detto, è possibile rivisitare il triplice munus battesimale comune a tutti i cristiani, per individuare quali peculiarità esso presenti nel laico. E cominciamo dalla regalità. Diciamo subito che sarebbe fuorviante interpretare questa funzione battesimale in termini di potere. Già nei confronti della società, il laico cristiano non è colui che opera, a nome della Chiesa, per la “riconquista” della società. La sua missione non può essere vista come una sistematica occupazione degli spazi pubblici, sia pure con la pia intenzione di piantarvi la croce. Meno che mai, poi, egli potrebbe esprimere la sua regalità, nell’ambito della comunità ecclesiale, in concorrenza con i rappresentanti della gerarchia ecclesiastica, contestando la loro autorità.
Ciò che egli può e deve portare nella società, per sovvertirne gli equilibri mondani, è innanzi tutto lo spirito delle beatitudini, in diretta contrapposizione alle logiche della sopraffazione e del dominio. In questo senso egli riproduce e prolunga nella storia la missione di Cristo, che non ebbe altra regalità che quella consistente nella testimonianza alla verità e la cui manifestazione doveva verificarsi non nel trionfo terreno, ma sulla croce.
E’ del resto la Lumen Gentium, a stabilire implicitamente questo rapporto tra la gloria del regno e la passione, quando, proprio nel capitolo IV, dedicato ai laici, dice: “Cristo, fattosi obbediente fino alla morte e perciò esaltato dal Padre (cf. Fil 2,8-9), entrò nella gloria del suo regno; a lui sono sottomesse tutte le cose, fino a che egli sottometta al Padre se stesso e tutte le creature, affinché Dio sia tutto in tutti (cf. 1 Cor 15,27-28). Questa potestà egli l'ha comunicata ai discepoli, perché anch'essi siano custoditi nella libertà regale e con la abnegazione di sé e la vita santa vincano in se stessi il regno del peccato (cf. Rm 6,12), anzi, servendo a Cristo anche negli altri, con umiltà e pazienza conducano i loro fratelli al Re servire il quale è regnare” (LG n. 36).
La regalità del laico nel mondo non è dunque legata a disegni di primato e di egemonia, ma si modella su questo stile di kenosis, di spogliazione. Ciò non significa che egli debba cercare di mimetizzarsi. Ma, nella sua quotidiana lotta per l’avvento del Regno, utilizzerà preferibilmente quelli che Maritain chiamava “i mezzi poveri”, che non sono privi di efficacia, anzi, come l’esperienza storica dimostra, possono a volte averne una maggiore che non quelli “ricchi”.
Anche all’interno della Chiesa, questa regalità si manifesterà secondo uno stile che esclude ogni forma di competizione e di arroganza, per privilegiare, piuttosto, la capacità di ascolto, lo spirito di obbedienza, l’umile servizio. Il modello è, ancora una volta, Gesù: “Sorse anche una discussione, chi di loro poteva esser considerato il più grande. Egli disse: “I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi però non sia così; ma chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve”” (Lc 22, 24-27). Normativo per tutti i battezzati - quindi anche per chi nella Chiesa esercita l’autorità e il governo - questo testo assume un valore particolare per i laici, chiamati a esercitare il loro servizio dentro la comunità senza rivestire alcuna carica gerarchica.
Come Cristo, però, il laico è chiamato ad esercitare, sia dentro che fuori la Chiesa, una vera regalità. Va in questo senso la svolta del Concilio Vaticano II, nei cui documenti viene delineata la fisionomia di un laicato finalmente adulto che, nell’ambito delle sue competenze terrene, deve ormai considerarsi ed essere considerato responsabile delle proprie scelte. In questa sfera, dice l’Apostolicam actuositatem con una bellissima espressione, “i laici sono ministri della sapienza cristiana” (AA n. 14).
Resta la necessità del confronto con i pastori della comunità, che hanno pur sempre il compito di richiamare i grandi princìpi dell’impegno cristiano nel mondo e di sostenere spiritualmente i cristiani esposti alla prova delle circostanze. Ma questo non deve mai far perdere di vista “la giusta autonomia della creatura” (GS n. 41) e dei problemi che la concernono, nei cui confronti la gerarchia non ha alcuna superiore conoscenza da far valere.
Su questo punto la Gaudium et spes contiene un passaggio che troppe volte, anche ai nostri giorni, viene dimenticato: “Dai sacerdoti i laici si aspettino luce e forza spirituale. Non pensino però che i loro pastori siano sempre esperti a tal punto che ad ogni nuovo problema che sorge, anche a quelli gravi, essi possano avere pronta una soluzione concreta o che proprio a questo li chiami la loro missione: assumano invece essi, piuttosto, la propria responsabilità, alla luce della sapienza cristiana e facendo attenzione rispettosa alla dottrina del Magistero. Per lo più sarà la stessa visione cristiana della realtà che li orienterà, in certe circostanze, a una determinata soluzione. Tuttavia altri fedeli altrettanto sinceramente potranno esprimere un giudizio diverso sulla medesima questione, ciò che succede abbastanza spesso e legittimamente. Ché se le soluzioni proposte da un lato o dall'altro (...) vengono facilmente da molti collegate con il messaggio evangelico, in tali casi ricordino essi che a nessuno è lecito rivendicare esclusivamente in favore della propria opinione l'autorità della Chiesa. Invece cerchino sempre di illuminarsi vicendevolmente attraverso il dialogo sincero, mantenendo sempre la mutua carità e avendo cura in primo luogo del bene comune” (GS n. 43).
Il Concilio si riferisce qui innanzi tutto alla sfera delle scelte politiche e professionali, di cui rivendica vigorosamente la distinzione rispetto a quella in cui la gerarchia ecclesiastica ha il compito di radunare e guidare i fedeli. Tema di grande attualità, in un momento in cui il venir meno della mediazione del partito unico cattolico rischia di coinvolgere troppo direttamente l’istituzione ecclesiastica come tale nella contingenza delle vicende politiche, rimettendo in auge la logica della supplenza.
È in gioco qui l’identità del laico cristiano, e non solo nella società civile, ma all’interno della Chiesa. Perché un laicato che fosse soltanto oggetto di convocazione e di direzione dall’alto nelle questioni che immediatamente riguardano la sua laicità, si ritroverebbe privo dello spessore culturale e del senso di responsabilità che lo devono caratterizzare, e non avrebbe più alcun dono da portare nel concerto della vita comunitaria. Da quanto abbiamo detto all’inizio dovrebbe esser chiaro che non si può indebolire l’incisività della presenza del laico nel mondo, senza che ne risenta la sua funzione ecclesiale, e viceversa. È dalla sua capacità di corrispondere all’appello esigente del Signore nelle vicissitudini della storia che dipende la qualità della sua cooperazione (cfr. can. 129) all’interno di una comunità cristiana che si confronta quotidianamente con questioni di ordine culturale, politico, economico, sociale e che ha bisogno del suo apporto per interpretarle e affrontarle correttamente.
Non a caso il Concilio afferma che i laici “secondo la scienza, competenza e prestigio di cui godono, hanno la facoltà, anzi talora anche il dovere, di far conoscere il loro parere su cose concernenti il bene della Chiesa” (LG n.37) ed esorta i pastori affinché “riconoscano e promuovano la dignità e responsabilità dei laici nella Chiesa; si servano volentieri del loro prudente consiglio, con fiducia affidino loro degli uffici in servizio della Chiesa e lascino loro libertà e campo di agire, anzi li incoraggino perché intraprendano delle opere anche di propria iniziativa (...) In questo modo infatti è fortificato nei laici il senso della propria responsabilità, ne è favorito lo slancio e le loro forze più facilmente vengono associate all’opera dei Pastori” (LG n. 38).
Bisogna recuperare il senso sacro delle stesse attività profane e il valore ecclesiale - non ecclesiastico - della diaconìa laicale nella vita quotidiana. L’idea di una missione specificamente cristiana, che si concretizza nelle funzioni di padre, di madre, di professionista, di operaio, di cittadino, attraverso cui il Regno di Dio possa realizzarsi progressivamente nella storia degli uomini, sembra ancora estranea alla maggioranza dei credenti. Con la conseguenza che cristiani impegnati nella loro parrocchia come catechisti, ministri straordinari dell’eucaristia, lettori, accoliti, possono diventare, talora, sul posto di lavoro, mediocri funzionari, docenti senza entusiasmo o professionisti avidi di successo e di danaro; in famiglia, genitori sbadati e nervosi; in politica, strenui difensori dei privilegi della propria classe sociale, piuttosto che del bene comune.
Oppure - e non è meno grave - può accadere loro di operare nei diversi ambiti e nelle diverse situazioni corrispondenti al loro stato di vita laicale con mentalità e stili di comportamento che nulla hanno a che vedere con la loro fede e che sono in aperta contraddizione con la loro partecipazione alla comunità cristiana.
Anche coloro - e per fortuna ce ne sono - che prendono coscienza delle implicazioni della loro fede nella vita di ogni giorno, possono stentare molto a percepire la propria attività fuori delle mura del tempio come un servizio che riguarda la comunità cristiana e la sua vocazione missionaria. E non solo perché la comunità stessa sembra disinteressarsi, solitamente, di quanto i suoi membri fanno quando operano “fuori”; ma anche perché loro stessi non sono stati educati a vedere il loro impegno nel mondo come un’esperienza significativa a livello comunitario. Cosicché, alla fine, è ben raro che esso rifluisca sulla vita della parrocchia o dell’associazione o del movimento e diventi un fattore di arricchimento e di crescita spirituale per tutti.
Del resto, la comunità stessa è strutturata di solito in modo da privilegiare quasi esclusivamente le attività relative al proprio mantenimento: catechismo, messe, amministrazione dei sacramenti. La proiezione all’esterno, sul territorio, non è né organicamente prevista né, di fatto, frequente. Analogamente, non si è disponibili ad accogliere gli stimoli, i messaggi, i problemi che provengono dall’ambiente circostante, per riflettere su di essi e trasformarli in opportunità di maturazione comunitaria.
Se è vero, perciò, che l’identità del laico consiste nel rimettere continuamente in relazione la Chiesa con il mondo e viceversa, è chiaro che uno spazio propriamente laicale in queste comunità spesso non esiste. Il primario ospedaliero, l’avvocato, l’uomo politico, in esse non saprebbero davvero cosa fare. E se anche vengono cooptati, come “fiori all’occhiello”, nel consiglio pastorale, il loro ruolo si riduce, al massimo, a tenere di tanto in tanto qualche conferenza. Per il resto, per quanto competenti, stimati, prestigiosi possano essere nei loro rispettivi ambienti di lavoro, essi in parrocchia restano spesso degli esecutori, eterni minorenni bisognosi della spinta e dell’approvazione del sacerdote per ogni minimo passo. E, nella maggior parte dei casi, sono ben lieti di esserlo e di evitare così qualsiasi responsabilità.
Quest’ultimo punto è uno dei più delicati della questione e merita di essere sottolineato. Lo stato di minorità e di relativa passività dei laici non dipende sempre dall’autoritarismo dei presbiteri. In molti casi esso nasce da un sottile clericalismo, che permea la mentalità degli stessi laici e li spinge a rifuggire dai rischi e dalla originalità della loro vocazione specifica.
Ne è una conferma il fatto che quelli tra di loro che riescono ad avere un ruolo importante nella comunità, lo ottengono sforzandosi di “clericalizzarsi” e finendo per diventare una specie di vice-parroco, mettendo tra parentesi il proprio impegno specifico nella professione o nella famiglia. Non c’è da stupirsi che quest’ultima non riesca, nella maggior parte dei casi, ad essere soggetto, ma solo oggetto di iniziative pastorali e non lasci trasparire come dovrebbe la libertà, la creatività, l’autorità - in una parola, la regalità - dei coniugi cristiani.
Tutto ciò acquista un particolare rilievo se riferito al ruolo delle donne nella comunità. Le nostre parrocchie sono in larga misura animate e sostenute dalla presenza femminile. Ma quasi sempre si tratta di una presenza subordinata, che vede le donne, di qualunque età e condizione - non escluse le religiose - , svolgere mansioni di mera manovalanza, oppure, peggio ancora, essere costrette, per contare, a creare conventicole gelose della propria influenza, che diventano un pericoloso diaframma tra il parroco e la comunità dei fedeli.
Si capisce, in questo contesto, la difficoltà degli organismi di partecipazione a svolgere effettivamente la funzione per cui sono nati. Con una immagine di laico così sfuocata, è difficile che in essi attecchisca un reale dibattito, capace di incidere sulle scelte della comunità. Così, gli organi in questione raramente sono luoghi di effettiva comunicazione e di dialogo.
Nelle nostre comunità si comunica troppo poco. E non è l’esistenza di un’autorità che comporta questo. Al contrario, sarebbe indispensabile, a chi ha, in ultima istanza, la responsabilità di decidere, potersi avvalere di un leale confronto, in cui tutte le riserve, le critiche i dubbi, le proposte, vengano rispettosamente, ma francamente, espressi e motivati dai membri della comunità. Di fatto, le cose, in moltissimi casi, non vanno così. E sarebbe un’ulteriore forma di clericalismo addossare tutta la colpa di questo ai pastori, come se i laici non potessero far altro che attenderne l’iniziativa.
Se le cose stanno in questo modo, come stupirsi che molti laici frequentino la parrocchia solo per le celebrazioni domenicali, restando ai margini della vita comunitaria? Analogamente, non è strano, in queste condizioni, che alcuni fra i laici più generosi cerchino spazio per il proprio impegno all’interno di gruppi e movimenti. Questi permettono ai laici - e alle laiche - di avere una creatività e di esercitare delle responsabilità assai maggiori di quelle che sarebbero concepibili nell’ambito di una parrocchia, e costituiscono perciò, quando sanno inserirsi nella Chiesa senza chiusure e protagonismi adolescenziali, una palestra insostituibile di maturazione cristiana, specialmente in rapporto alla capacità di governo e di gestione della vita comunitaria.
Certo, il rischio - che l’esperienza dimostra non essere solo ipotetico - è che essi finiscano col ripiegarsi su se stessi o addirittura, in certi casi col contrapporsi alla comunità parrocchiale e perfino a quella diocesana.
Ma non ci si illuda di poterlo superare con misure estrinseche e formali. Il problema si potrà risolvere solo restituendo ai laici - singoli o associati - uno spazio reale dentro le comunità e facendo fiorire quello che al Convegno delle Chiese d’Italia è stato definito il “discernimento comunitario”, in cui a ciascuno sia concesso, senza confusione di ruoli e badando a non scadere nell’assemblearismo, di far presente la propria opinione. Solo così può essere superato il duplice pericolo di un individualismo, che rifiuta di assumersi ogni responsabilità comunitaria, e di un’appartenenza acritica, omologante, che è altrettanto lontana da una reale spirito di comunione. Una comunione senza comunicazione, infatti, scade in retorica e diventa uno slogan per mascherare il vuoto. Solo un dialogo autentico rende giustizia alla regalità del laico all’interno della comunità, permettendogli di vedere rispettato - che non vuol dire sempre accolto - il suo punto di vista e di sentirsi artefice anche lui, con i suoi carismi, del cammino della Chiesa.
Il munus della profezia dice riferimento al problema della conoscenza e dell’annuncio della verità cristiana.
Fino al Concilio Vaticano II, l’accento veniva posto, in modo pressoché esclusivo, sul movimento che dall’alto - dunque dalla gerarchia ecclesiastica, che ne era considerata l’esclusiva detentrice e dispensatrice - fa discendere la dottrina rivelata verso il popolo credente.
Senza negare la funzione unica e insostituibile del magistero gerarchico, il Concilio Vaticano II ha sottolineato che lo Spirito soffia non soltanto sui pastori, ma su tutta la comunità cristiana e che dunque anche i laici, in quanto membri del popolo di Dio, possono e devono avere un ruolo importante nella custodia e nella penetrazione del grande deposito della verità rivelata. È quello che si chiama il sensus fidei del popolo di Dio.
Dice a questo proposito la Lumen Gentium: “L’universalità dei fedeli che tengono l’unzione dello Spirito Santo (cfr. 1Gv 2,20 e 27), non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua proprietà mediante il soprannaturale senso della fede di tutto il popolo, quando, “dai Vescovi fino agli ultimi fedeli laici” (Agostino) mostra l’universale suo consenso in cose di fede e di morale. E invero, per quel senso della fede che è sorretto e suscitato dalla Spirito di verità, il Popolo di Dio, sotto la guida del sacro magistero, al quale fedelmente conformandosi accoglie non la parola degli uomini, ma, qual è in realtà, la parola di Dio (cfr. 1Ts 2,13), aderisce indefettibilmente alla fede una volta trasmessa ai santi (cfr. Gd 3), con retto giudizio penetra in essa più a fondo e più pienamente l’applica nella vita” (n. 12).
Ciò che il sensus fidelium implica non è certamente una specie di “magistero” laicale, parallelo e concorrenziale rispetto a quello del Papa e dei vescovi. Sono illuminanti, per comprendere il rapporto tra queste due realtà, le notazioni del pioniere della teologia del laicato: “Non si potrebbe dire che il popolo fedele non insegni. Esso insegna, e molto attivamente, ma non allo stesso titolo dell’autorità apostolica, mediante un giudizio imperativo: lo fa a titolo della fede interiorizzata, con tutte le attività di vita e di pensiero che essa fomenta e nutre”.
La stessa dottrina si trova nella Dei Verbum, dove si sottolinea l’aspetto dinamico, storico, del processo di approfondimento e di maggiore comprensione del deposito rivelato, a cui i laici partecipano come membri del popolo di Dio: “Questa Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l’assistenza dello Spirito Santo; cresce infatti la comprensione tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la riflessione e lo studio dei credenti, i quali le meditano in cuor loro (cfr. Lc 2,19 e 51), sia con l’esperienza data da una più profonda intelligenza delle cose spirituali, sia per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità. La Chiesa, cioè, nel corso dei secoli, tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio” (n. 8).
Ancora una volta, nessuno, forse, meglio di Congar ci può aiutare a comprendere, sulla linea delle precedenti riflessioni, il ruolo specifico del laicato in questo progresso incessante: “E’ vivendo pienamente la loro condizione cristiana, ciascuno secondo la propria vocazione, vale a dire conformemente al volere di Dio, che i fedeli custodiscono la tradizione, ma anche la sviluppano reagiscono d’istinto a ciò che la lede e, così, ammaestrano gli uomini, la chiesa e la stessa gerarchia”
Il compito dei laici non è dunque soltanto, come si esprimeva un teologo, ancora pochi anni prima del Concilio “di ascoltare come si deve il magistero”. Essi hanno un loro modo specifico di partecipare alla comprensione e alla enunciazione della verità rivelata, che è il loro specifico contributo al sensus fidei del popolo di Dio.
Può soccorrere, nella comprensione di quanto detto, la considerazione, che viene dalla filosofia ermeneutica contemporanea, secondo cui ogni applicazione comporta inevitabilmente una interpretazione. Questa notazione, evidente nel campo della giurisprudenza, riguarda però ogni caso in cui dei princìpi debbano essere tradotti nella realtà (lo dice, del resto, la stessa idea del “tradurre”, che è sempre anche un interpretare). Perciò, nel grande fiume della tradizione, attraverso cui la Parola di Dio ci giunge sempre più esplicitata e approfondita, si pongono non solo le pronunzie magisteriali, ma quel complesso intreccio di preghiera, di esperienze, di comunicazioni, di cui tutto il popolo di Dio - e in particolar modo il laicato, che ne costituisce la parte prevalente - è soggetto nella vita di ogni giorno.
La dottrina del sensus fidelium non è soltanto una bella verità da ammirare, ma comporta delle conseguenze concrete sul modo di procedere della gerarchia nella sua funzione magisteriale. Essa implica, infatti, che le decisioni dottrinali del Papa e dei vescovi, a livello sia ordinario che straordinario, maturino in un costante dialogo con l’intera comunità credente e tengano conto delle intuizioni, anche implicite, presenti in essa.
Tutto ciò comporta una specifica responsabilità, da parte dei laici, nei riguardi della verità rivelata. Per questo il Concilio ha sancito un loro diritto-dovere di dedicarsi alla teologia, esortandoli espressamente in questo senso: “I laici si applichino con diligenza all'approfondimento della verità rivelata e impetrino insistentemente da Dio il dono della sapienza” (LG n.35).
In questo impegno, è stata loro riconosciuta, come ai sacerdoti, una libertà di ricerca e di espressione che non esclude, ma implica, l’umiltà e la fedeltà alla Chiesa. “E' anzi desiderabile che molti laici acquistino una conveniente formazione nelle scienze sacre e che non pochi tra loro si diano di proposito a questi studi e li approfondiscano con mezzi scientifici adeguati. Ma affinché possano esercitare il loro compito, sia riconosciuta ai fedeli tanto ecclesiastici che laici la libertà di ricercare, di pensare, di manifestare con umiltà e coraggio la propria opinione nel campo in cui sono competenti” (GS n.62).
È importante chiederci, a questo punto, quale genere di conoscenza teologica si addica specificamente alla laicità dei laici. Alla luce di quanto detto, dovrebbe essere chiaro che loro compito proprio non è l’approfondimento meramente teorico della dottrina cristiana, ma sta, piuttosto, “nell’enucleare, difendere e rettamente applicare i princìpi cristiani ai problemi attuali” (AA n. 6). È questo momento applicativo - la traduzione in forme culturali e in concreti stili di vita individuali e comunitari - che in ultima istanza costituisce il proprium della profezia laicale.
In questa traduzione del Vangelo nelle categorie della storia personale e associata, il laico deve sperimentare, in modo ben più accentuato che non il presbitero o il religioso, la verità, proclamata dal Concilio, che “la Chiesa (...) non ha sempre pronta la soluzione per ogni singola questione” (GS 33). Questo può costituire anche una ricchezza. In una società che non a caso viene definita “complessa”, egli viene invitato dalle situazioni stesse a formarsi una propria visione delle cose leggendo la realtà, piuttosto che ricorrendo a schemi prestabiliti e uguali in ogni momento per tutti. Le indicazioni che gli vengono dalla tradizione e dal magistero sono la sua insostituibile stella polare, perché è attraverso di esse che egli legge le Scritture e si sforza di applicarle. Ma il contesto in cui tale applicazione avviene è costituito dalla sua esperienza mondana, dal suo vivere quotidianamente immerso - senza alcun filtro, senza alcuna difesa - nel gioco frammentato e contraddittorio delle situazioni, nell’incrociarsi caotico dei messaggi, nel fragile intessersi dei rapporti, condividendo le emozioni, le fatiche, le tensioni, ma anche le incertezze e i dubbi, degli altri uomini e donne.
Perciò il suo modo peculiare di aderire alla parola di Dio e alla fede della Chiesa non è quello del Papa o di un vescovo, che sono incaricati di enunciarne in ogni momento la verità in tutta la sua assolutezza. E neppure quello di un presbitero che, per quanto attento alle esigenze di gradualità proprie di ogni pastorale, deve comunque parlare da collaboratore ufficiale del suo vescovo. Il laico non è il portavoce del magistero. E come sarebbe fuori luogo che i rappresentanti di quest’ultimo esibissero tutte le loro umane perplessità, di fronte a una decisione dottrinale da prendere, o il loro residuo margine di incertezza, di fronte a quelle che sono state prese, reciprocamente sarebbe stucchevole che il laico si atteggiasse a sostituto dei suoi pastori nelle diverse situazioni che chiedono una valutazione da parte sua. Sempre egli deve saper coniugare la sua fede con lo spirito di ricerca, la sua gioiosa certezza circa la meta ultima con il travaglio doloroso che nasce dalle contraddizioni del cammino di ogni giorno, la sua speranza, che lo proietta verso la visione finale, con la condivisione degli interrogativi dei suoi fratelli che questa speranza non ce l’hanno.
Ciò non significa in alcun modo una meno piena adesione al contenuto della rivelazione o alle posizioni Chiesa. E neppure una tendenza a mascherare questa adesione per timore del giudizio degli altri. Non si tratta di essere cristiani “anonimi” o di scendere nelle catacombe. Al contrario, questo spirito di ricerca impegna il laico cristiano a una più profonda fedeltà. Proprio perché non cammina su un binario precostituito, egli deve avere così intimamente assimilato le prospettive del Vangelo, da portarle dentro di sé come una specie di “istinto” spirituale - quello che san Tommaso chiama “conoscenza per connaturalità” - che è anche e soprattutto un dono dello Spirito. E quella che egli deve dare al mondo è la testimonianza di come la fede - proprio la sua fede - lo possa rendere più aperto a tutte le voci, a tutte le possibilità, senza irrigidirsi e, al tempo stesso, senza smarrirsi.
D’altro canto, il laico in questo modo aiuterà la comunità cristiana a prendere coscienza delle esigenze e dei problemi degli “altri”, contribuendo così non solo al rinnovamento incessante del linguaggio con cui essa annuncia il Vangelo, ma anche alla comprensione che ha delle implicazioni della sua fede, comprensione destinata ad approfondirsi via via che gli interrogativi degli uomini, nel corso del tempo, interpellano i credenti e li costringono a un’ulteriore riflessione. Si pensi alla fecondità che può avere, non solo per la riflessione in campo morale, ma anche per quella propriamente teologica, una maggiore apertura all’esperienza vissuta nell’ambito della famiglia, che, nella sua dimensione sponsale, è stata assunta da Dio stesso come parabola del suo rapporto con l’umanità.
Evidentemente, il discorso sui laici rischia di restare astratto e velleitario se non diventa un discorso su tutta la Chiesa. La problematicità della prospettiva laicale non è, come abbiamo visto, una malattia da guarire, ma una ricchezza che l’intera comunità, con a capo i suoi pastori, è chiamata a recepire. Ferma restando la differenza di stile - fisiologica e insopprimibile - tra l’attività magisteriale della gerarchia e la profezia del laico, è importantissimo per la Chiesa che esse restino in permanente, feconda comunicazione. L’illusione di poter tirar dritto per la propria strada, senza curarsi dell’altra, porterebbe la prima a una chiusura crescente verso le istanze più vive della società e dello stesso popolo cristiano, la seconda a esiti rovinosi per la fedeltà al Vangelo. Solo una circolarità tra queste due diverse espressioni dell’unico munus profetico di Cristo ne può garantire una corretta esplicazione. Così, la comunicazione, che già ci è apparsa condizione imprescindibile per una effettiva concretizzazione della regalità del laico, affiora, di nuovo, come un elemento fondamentale per dare spazio alla sua profezia.
C’è da chiedersi se questa circolarità si sia effettivamente realizzata nelle nostre Chiese. Per un verso, bisogna registrare i notevoli cambiamenti che la dottrina conciliare ha prodotto o almeno favorito in questi anni. In molte diocesi sono nate delle scuole di teologia di base, destinate a tutti coloro che volessero acquistare una più profonda consapevolezza della loro fede, anche per poterla meglio manifestare. Altri hanno sentito il bisogno di una formazione ancora più accurata e - anche in rapporto alla possibilità di insegnare religione nelle scuole al posto dei presbiteri, che tendevano ad abbandonare tale insegnamento -, hanno scelto di frequentare Facoltà teologiche e Istituti di scienze religiose.
In queste istituzioni culturali, peraltro, insegna ormai un numero, in altri tempi impensabile, di teologici laici, e ormai anche di teologhe, il cui approccio ai testi rivelati risente, evidentemente, del loro punto di vista laicale e, nel caso delle donne, femminile, consentendo a tutta la comunità cristiana di esplorare aspetti nuovi del mistero cristiano.
Un contributo significativo a questo innalzamento del livello culturale dei laici in materia di fede hanno offerto i gruppi e i movimenti, attraverso appositi corsi di formazione per i propri membri e promuovendo iniziative ispirate al loro carisma. E ancora maggiore sarà il loro apporto, nella misura in cui riusciranno a entrare in sinergia tra di loro e con la Chiesa particolare, mettendo al servizio di tutti il dono che il signore ha loro affidato.
Per un altro verso, resta il fatto che la grande maggioranza del laicato cristiano vive nell’orizzonte della cultura di massa. Non può non impressionare il pensiero che il sensus fidelium sia affidato ad un popolo credente le cui convinzioni si formano, in prevalenza, alla scuola di conduttori televisivi e dei più diffusi quotidiani e rotocalchi. I germi della fede, trasmessi con i sacramenti dell’iniziazione cristiana, rischiano così di restare soffocati o di ricevere una interpretazione distorta, nel passaggio alle situazioni concrete della vita individuale e sociale.
Una inchiesta, condotta pochi anni fa in Sicilia tra i cattolici praticanti - intendendo con questa espressione coloro che vanno a messa la domenica - ha rivelato che quasi il trenta per cento di essi non esclude la reincarnazione!. Per non parlare delle prese di posizione su problemi culturali e morali che richiederebbero una capacità di applicazioni delle categorie evangeliche alla nostra realtà storica concreta, come quelli della bioetica, o della morale sessuale, o della politica. In tutti questi campi, si ha talora l’impressione di una solitudine dei pastori, costretti a enunciare dei princìpi che non trovano un’adeguata mediazione culturale e una consapevole risonanza nella coscienza del popolo cristiano e che, a maggior ragione, rimangono pressoché incomprensibili a chi non ne fa parte.
Col risultato - anch’esso perverso - che la gerarchia tende a lasciare il popolo cristiano ai margini della propria riflessione sui problemi del nostro tempo e non lo coinvolge nelle proprie prese di posizione dottrinali, se non nel ruolo di destinatario (per lo più perplesso e tiepido) delle sue decisioni.
Su questo sfondo si spiega la persistente riserva, nelle parrocchie, nelle diocesi, a livello nazionale, nei confronti di ogni dibattito che comporti una reale ricerca di soluzioni nuove ai problemi che, via via, la trasformazione della nostra società e della nostra cultura pone alla fede. Si teme la diversità di opinioni che un reale confronto potrebbe evidenziare. Le differenze sono avvertite, all’interno delle comunità cristiane, come una minaccia. Si tenta, perciò, di prevenirle, di eliminarle sul nascere, convogliando in una direzione univoca il discorso comunitario.
Soprattutto si aspetta che prima l’autorità ecclesiastica abbia preso posizione. L’idea che quest’ultima possa giungere come conclusione - e non come premessa - di una riflessione comunitaria a tutto campo e che sia il risultato di una spregiudicata esplorazione delle varie possibilità, viene scartata a priori nella prassi ecclesiale.
La conseguenza è quella che già denunziava Garelli, nella sua relazione al terzo Convegno delle Chiese d’Italia, e cioè che “su molte questioni decisive a livello di fede, di costumi, di scelte sociali e politiche si è sovente prodotto nelle comunità cristiane una pratica del silenzio, un grande freddo, per evitare che il confronto e la dialettica interna mettessero in discussione la comune matrice religiosa”, nelle nostre parrocchie, nei nostri gruppi, nelle nostre associazioni, si discute ben poco. Si fanno incontri, convegni, relazioni, ma sempre assicurandosi prima che tutto scorra nell’alveo di una piena convergenza che, proprio per il fatto di essere anticipatamente garantita, non è un vero punto d’arrivo e non aggiunge nulla di nuovo a quello che si era già stabilito di dire.
E se ne hanno anche valide ragioni: spesso la discussione finisce per esprimere, piuttosto che validi contributi alla ricerca comune, sfoghi puramente emotivi, sterili proteste individuali, se non addirittura futili chiacchiericci; per non dire che talora persone poco equilibrate ne fanno la palestra per le loro esternazioni narcisistiche. Ed anche quando a parlare sono soggetti responsabili, non sempre si riesce ad evitare che la discussione degeneri in contrasti di opinioni che alla fine lasciano l’assemblea in uno stato di confusione e di incertezza.
Ci troviamo qui di fronte a un circolo vizioso, che rende difficile l’emancipazione dei laici. Finché essi non giungono a una maturità spirituale e intellettuale che li renda effettivamente adulti, capaci perciò di assumersi le proprie responsabilità e di farvi fronte adeguatamente, è difficile pretendere dalla gerarchia ecclesiastica una fiducia “al buio” che potrebbe portare più danni che vantaggi. D’altro canto, però, questa maturazione rischia di non attuarsi mai, finché i laici non sono messi in condizione di camminare con le proprie gambe, anche a costo di correre qualche rischio.
Se si vuole che il laicato possa diventare soggetto di profezia, dentro la Chiesa e nei confronti del mondo, bisogna affrontare questi pericoli, cercando di superarli attraverso una corretta determinazione delle regole del dibattito ecclesiale, non spegnendolo. A questa condizione, la diversità può diventare, per la comunità, una grande ricchezza, che compensa le tensioni, le momentanee incomprensioni, gli smarrimenti temporanei a cui la espone.
La Chiesa è luogo non di omologazione, ma di fraternità, nella valorizzazione delle differenze. Come dice splendidamente il Concilio: “Questo richiede che innanzi tutto nella stessa Chiesa promuoviamo la mutua stima, rispetto e concordia, riconoscendo ogni legittima diversità, per stabilire un dialogo sempre più profondo fra tutti coloro che formano l'unico popolo di Dio, cioè tra i Pastori e gli altri fedeli cristiani. Sono più forti infatti le cose che uniscono i fedeli che quelle che li dividono; ci sia unità nelle cose necessarie, libertà nelle cose dubbie e in tutto carità” (GS n. 92).
Per molto tempo, il solo concetto di sacerdozio circolante, di fatto, all’interno della Chiesa cattolica, è stato quello relativo al ministero ordinato, da cui i laici erano, ovviamente, esclusi.
Eppure, nella tradizione è sempre esistita l’idea di sacerdozio legato alla consacrazione battesimale di ogni fedele. Ne troviamo l’eco, per esempio, in quanto scrive, nel IV secolo, san Giovanni Crisostomo: “Nel battesimo, tu sei fatto re e sacerdote e profeta (...) Sacerdote quando tu ti sei offerto tu stesso a Dio, hai immolato il tuo corpo e sei stato immolato tu stesso”.
Il Concilio Vaticano II ripropone questa antica dottrina del sacerdozio comune dei cristiani in quanto battezzati, sottolineandone al tempo stesso il punto di contatto e la diversità rispetto a quello dei ministri ordinati: “Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l’uno all’altro, poiché l’uno e l’altro, ognuno a suo proprio modo, partecipano dell’unico sacerdozio di Cristo” (LG n. 10).
La diversità di essenza e non di grado dei due sacerdozi tutela sia quello ministeriale, garantendone la peculiarità, sia quello comune, evitando di ridurlo a una forma sbiadita del primo. Il modo in cui i fedeli laici sono sacerdoti non è un ripiego, una realizzazione imperfetta del sacerdozio ordinato. Proprio per questo non entra in concorrenza con esso, ma gli è complementare. Ogni forma di clericalismo viene qui bandita a priori. Il modo del laico di offrire il suo culto a Dio deve essere riconosciuto nella sua specificità e non banalizzato, facendone semplicemente una forma ausiliaria del ministero dell’altare.
Ma in che cosa consiste questa specificità? Lo dice chiaramente lo stesso Concilio: “Il sommo ed eterno sacerdote Gesù Cristo, volendo anche attraverso i laici continuare la sua testimonianza e il suo ministero (...) ad essi (...) concede anche parte del suo ufficio sacerdotale, per esercitare un culto spirituale (...) Tutte infatti le loro opere, e preghiere e le iniziative apostoliche, la vita coniugale e familiare, il lavoro giornaliero, il sollievo spirituale e corporale, se sono compiute nello Spirito, e persino le molestie della vita se sono sopportate con pazienza, diventano spirituali sacrifici graditi a Dio per Gesù Cristo (cfr. 1 Pt 2,5), i quali nella celebrazione dell’Eucaristia sono piissimamente offerti a Padre insieme all’oblazione del Corpo del Signore. Così anche i laici, in quanto adoratori dovunque santamente operanti, consacrano a Dio il mondo intero” (LG 34).
Siamo sulla linea delle parole di san Paolo ai Romani: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale” (Rm 12,1). Il linguaggio di questo testo è quello liturgico dell’Antico Testamento: “offrire”, “sacrificio”, “santo e gradito a Dio”. L’apostolo stesso parla di “culto spirituale”. Ma la sorpresa è che questa liturgia ha come oggetto non lo spirito, ma il corpo. E’ l’offerta del proprio stesso corpo a costituire ormai il “culto spirituale”. Come dire, la propria vita così com’è, nella sua prosaica concretezza, senza fughe in ambiti separati, celestiali. A differenza che per tutte le altre grandi religioni, per il cristianesimo l’incontro con Dio non suppone la fuga dalla storia, ma una maggiore penetrazione in essa, perché Dio vi è entrato senza riserve e se ne è fatto carico.
Una fondamentale implicazione di questo discorso è il superamento del dualismo, in passato così sentito, fra ambito del “sacro” e ambito del “profano”. Cristo, con la sua incarnazione, ha coinvolto tutte le sfere della vita e dell’esperienza umana, riferendole al Padre, nella potenza dello Spirito. Egli, insomma, è venuto a rendere sacro il profano.
Il riferimento al corpo rende particolarmente significativa la vocazione matrimoniale, che definisce lo stato di vita della maggior parte dei laici. Nel matrimonio ognuno dei due coniugi è chiamato ad offrire il suo corpo all’altro, perché si compia l’opera di Dio.
Al fondo c’è l’idea, fortissima nella Sacra Scrittura, che la vera offerta del credente al suo Dio non si possa ridurre al rito e ai sacrifici di animali, ma sia invece affidata al modo di essere che ne caratterizza il comportamento effettivo, in qualsiasi luogo o situazione egli possa trovarsi, anche al di fuori del recinto protetto di un luogo sacro o di un contesto rituale. Il testo della lettera ai Romani continua, infatti: “Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (Rm 12, 2). Il luogo dove il cristiano dimora è la sua intimità con Dio, da cui scaturisce, in profondità, la sua conformazione al Pensiero e alla Volontà di Lui.
Ciò specifica la responsabilità del cristiano nella gestione delle cose del mondo e nella cura dei rapporti umani. Gesù ha ripreso, nella sua polemica con il rigido ritualismo dei farisei, le parole di Jahvè riportate dal profeta Osea: “Poiché voglio l’amore e non il sacrificio,/ la conoscenza di Dio più degli olocausti” (Os 6,6): “Andate dunque”, egli dice, “e imparate che cosa significhi: “Misericordia io voglio e non sacrifici”. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori” (Mt 9,13).
Questa è la liturgia del cristiano. In modo particolare, quella del laico, che deve celebrarla sbrigando con solerzia le pratiche del suo ufficio, trattando cortesemente il pubblico che si rivolge al suo sportello o gli studenti che lo avvicinano alla fine di una lezione universitaria, rinunziando a parcelle esose per le sue prestazioni professionali, superando generosamente i momenti difficili e gli screzi che si determinano nella vita familiare. “Misericordia io voglio e non sacrifici”.
L’economia del NT è, da questo punto di vista, assai diversa da quella dell’Antico. Già è significativo che, diversamente che a Zaccaria - a cui l’annuncio della nascita del figlio viene fatta mentre presta il suo servizio nel tempio - l’angelo porti il suo messaggio alla Madonna mentre ella si trova in uno dei tanti luoghi della sua povera vita quotidiana: forse in casa, o forse alla fonte dove andava a prendere l’acqua, o per strada, non sappiamo. Ma certamente, a Nazaret, lontano dal luogo del culto ufficiale.
Ciò non esclude, certamente, i riti dalla Nuova Alleanza, ma li considera ormai in un’ottica diversa, in cui l’essenza dell’offerta consiste nell’operare perché si ricostituisca, a livello storico e nella vita concreta, il disegno di amore che Dio aveva sul mondo quando lo ha creato.
Dunque anche per chi si trova a correre tutto il giorno per le strade del mondo - e non solo a coloro che una tradizione costante voleva chiamati allo “stato di perfezione” - si apre la prospettiva della santificazione. Ancora una volta è il Concilio Vaticano II che lo precisa: “Se quindi nella Chiesa non tutti camminiamo per la stessa via, tutti però sono chiamati alla santità e hanno ugualmente la bella sorte della fede per la giustizia di Dio (cfr. 2 Pt 1,1). Quantunque alcuni per volontà di Cristo siano costituiti dottori e dispensatori dei misteri e pastori per gli altri, tuttavia vige fra tutti una vera uguaglianza riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare il corpo di Cristo” (LG n.32).
Ha scritto una laica, Madeleine Delbrêl: “Vi sono persone che Dio prende e riserva a sé. Ve ne sono altre che lascia nella massa, che “non ritira dal mondo”. Sono persone che svolgono un lavoro normale, che hanno una famiglia normale, o che sono delle normali persone non sposate. Persone che hanno malattie normali, lutti e dolori normali. Persone che hanno un’abitazione, abiti normali. Sono le persone della vita normale. Le persone che si incontrano in qualsiasi strada. Essi amano la loro porta che si apre sulla strada come i loro fratelli invisibili amano la porta che è chiusa dietro ad essi, definitivamente. Noi, persone della strada, crediamo con tutte le forze che questa strada, che questo mondo, in cui Dio ci ha messo, è per noi il luogo della nostra santità. Noi crediamo che non ci manchi nulla di necessario, perché se questo necessario ci mancasse, Dio ce lo avrebbe già dato”.
Lo stesso concetto di vita contemplativa, strettamente legato a quello di “perfezione” cristiana, cambia in rapporto a questa prospettiva laicale. O, meglio, ne cambiano le condizioni esteriori e gli elementi accidentali, legati all’isolamento, alla clausura, al silenzio, al ritmo di tempi di preghiera rigorosamente prestabiliti. “Charles de Foucauld un giorno ebbe a dire: “Se la vita contemplativa fosse solo possibile dietro le mura di un convento o nel silenzio del deserto, dovremmo, per essere giusti, dare un piccolo convento ad ogni madre di famiglia e il lusso di un po’ di deserto ad un povero manovale che è obbligato a vivere nel chiasso di una città per guadagnarsi duramente il pane” (...) Ma allora aveva rinunciato alla contemplazione? Allora aveva affievolito il suo ardente spirito di preghiera? No; aveva fatto un passo avanti: aveva accettato di vivere la vita contemplativa lungo le strade, in un quadro di vita somigliante a quello di tutti gli uomini”.
Questa contemplazione assume, nella vita del laico, il valore di una offerta che abbraccia il mondo intero. Lo dice un bellissimo testo di Bossuet: “La creatura priva di sensibilità non può vedere, essa si mostra; non può amare, ci spinge a farlo, e questo Dio, che essa non intende, non ci permette di ignorarlo. È così che in modo imperfetto, alla sua maniera, essa glorifica il Padre celeste. Ma, perché essa possa portare a compimento la sua adorazione, l’uomo dev’essere il suo mediatore. Tocca a lui prestare una intelligenza, una voce, un cuore tutto ardente d’amore, all’intera natura visibile, affinché essa ami, in lui e mediante lui, la bellezza invisibile del suo Creatore. È per questo che egli è posto al centro del mondo, industrioso compendio del mondo (...) perché, sebbene quanto al corpo egli sia chiuso nel mondo, egli ha uno spirito e un cuore che è più grande del mondo; affinché, contemplando l’intero universo e raccogliendolo in se stesso, egli lo offra, lo santifichi, lo consacri al Dio vivente: cosicché egli non è il contemplativo e il misterioso compendio della natura visibile che al fine di essere per essa, con un santo amore, il sacerdote e l’adoratore della Natura invisibile e intellettuale”.
Così il sacerdozio dei laici consiste nell’evocare il significato delle cose e delle esperienze in cui egli si imbatte ogni giorno e nell’offrirlo. Ogni realtà ha il proprio senso e il proprio valore, da cui emerge un messaggio. Dabar in ebraico significa al tempo stesso “cosa” e “parola”. “Nulla è senza un proprio linguaggio”, dice san Paolo (1Cor 14,10). Il laico è chiamato a dare voce a queste parole disseminate nel mondo. Spetta a lui, più che a ogni altro, percepirle, cioè “riconoscere la natura intima di tutta la creatura, il suo valore e la sua ordinazione alla lode di Dio” (LG n. 36).
Non si tratta soltanto del mondo fisico. Il laico è chiamato ad offrire la storia in cui si trova situato e di cui è protagonista. Egli deve ogni giorno rinnovare la sua liturgia secolare sforzandosi di ricondurre a Dio l’intreccio confuso dei problemi, delle situazioni, dei rapporti umani che gli tocca di vivere, portandone in prima persona il travaglio e le responsabilità.
Ciò è particolarmente vero per una realtà difficile e complessa come quella del nostro tempo e della terra di Sicilia. Il laico cristiano entra quotidianamente in contatto con le contraddizioni e le tensioni di una realtà sociale, economica, politica, che in tutta la società postmoderna, ma nella nostra Isola forse in modo più drammatico, sembra frantumarsi e sfaldarsi, perdendo i tradizionali punti di riferimento e lasciando intravedere scenari sconosciuti, difficili da inquadrare nelle categorie del passato e da valutare. La ricerca di senso, che costituisce già nei confronti della natura un compito impegnativo per chi voglia consacrare il mondo a Dio, diventa ancora più ardua in questa complessità delle vicende umane, personali e comunitarie. Al tempo stesso essa risulta, però, ancora più necessaria e più affascinante. Contemplare questa sacra rappresentazione del mistero di Dio nel mondo senza riduzioni, senza difendersene con fatui ottimismi e vili pessimismi, accettare la sfida di un’apparente caoticità, che mette a dura prova l’equilibrio e la serenità di chi sa di non poter e di non doverne fuggire - questo è il sacerdozio del laico, oggi.
Ritorna il tema della cultura. Senza perdere mai di vista quella sua “legittima autonomia” (GS n. 59) che il Concilio ha sottolineato con energia, bisogna riscoprire che essa non si riduce mai a sterile lusso per pochi “addetti ai lavori”, ma “sempre, nelle sue espressioni più semplici e quotidiane come nelle forme più raffinate della riflessione intellettuale e della espressione artistica, essa è celebrazione della gloria di Dio presente nel mondo e nella storia”.
A volte si ha l’impressione che l’interesse per questo tema, da parte degli operatori pastorali, sia legato a fini apologetici o di immagine, più che a una profonda consapevolezza del valore intrinseco che l’esperienza culturale possiede. “Tutte le realtà che costituiscono l’ordine temporale, cioè i beni della vita, della famiglia, la cultura, l’economia, le arti e le professioni, le istituzioni della comunità politica, le relazioni internazionali e così via, come pure il loro evolversi e progredire, non soltanto sono mezzi con cui l’uomo può raggiungere il suo fine ultimo, ma hanno un “valore” proprio, riposto in esse da Dio, sia considerate in se stesse, sia considerate come parti di tutto l’ordine temporale: “E Iddio vide tutte le cose che aveva fatto, ed erano assai buone” (Gen 1, 31). Questa loro bontà naturale riceve una speciale dignità dal rapporto che esse hanno con la persona umana a servizio della quale sono state create. Infine piacque a Dio unificare in Cristo Gesù tutte le cose naturali e soprannaturali, “affinché egli abbia il primato sopra tutte le cose” (Col 1, 18). Queste destinazione, tuttavia, non solo non priva l’ordine temporale della sua autonomia, dei suoi propri fini, delle sue proprie leggi, dei suoi propri mezzi, della sua importanza per il bene dell’uomo, ma anzi lo perfeziona nella sua consistenza e nella propria eccellenza e nello stesso tempo lo adegua alla vocazione totale dell’uomo sulla terra” (AA n. 7).
Al termine di queste riflessioni, si comprende meglio il senso del sacerdozio del laico. Anch’esso affonda le sue radici nel sacerdozio di Cristo. Rispetto a quello ministeriale, però, presenta un caratteristico capovolgimento: come il sacerdote ordinato offre nel culto il corpo e il sangue di Cristo e simbolicamente il mondo intero, il laico offre realmente il mondo intero, attraverso la propria vita, la propria mentalità, la propria cultura, e simbolicamente il corpo di Cristo. La sua fedeltà alla terra, a cui la grande legge dell’incarnazione lo impegna, lo rende sacerdote delle realtà terrestri - non in contrapposizione a Dio, come un distorto uso del termine “laico” oggi tende a far credere, ma con la missione di ricondurle a Lui, facendo risplendere in esse la Sua gloria.
Alla luce delle cose dette, ci sembra di poter dire che il grande tema su cui si giocano le possibilità di crescita del laicato cattolico, nel prossimo futuro, è un lavoro di formazione permanente e generalizzata. Il solo modo di uscire dal circolo vizioso che si è creato, per la presenza di rischi reali, che generano però un eccesso di cautela e impediscono, così, una effettiva emancipazione dei laici, è di dare a tutti i cristiani - almeno a coloro che di fatto riempiono le nostre chiese la domenica - una consapevolezza adeguata della loro fede.
E in questo senso si è pronunciato con la massima chiarezza il Concilio. Innanzi tutto sottolineando il tema della formazione: “L’apostolato può raggiungere piena efficacia soltanto mediante una multiforme e integrale formazione; la quale è richiesta non soltanto dal continuo progresso spirituale e dottrinale del laico, ma anche dalle varie circostanze di cose, di persone, di compiti a cui la loro [sic] attività deve adattarsi” (AA n. 28).
In secondo luogo precisando la peculiarità di questa formazione: “Poiché i laici hanno un modo proprio di partecipare alla missione della Chiesa, la loro formazione apostolica acquista un carattere speciale dall’indole secolare propria del laicato e dalla loro particolare spiritualità. La formazione all’apostolato suppone che i laici siano integralmente formati dal punto di vista umano, secondo il genio e le condizioni di ciascuno. Il laico, infatti, conoscendo bene il modo contemporaneo, deve essere membro della propria società e al livello della cultura di essa” (ivi, n. 29).
Va sottolineata, nel testo conciliare, la sintesi tra dimensione spirituale, conoscitiva e operativa. Per quanto riguarda la prima, si osserva che, “siccome la fonte e l’origine di tutto l’apostolato della Chiesa è Cristo, mandato dal Padre, è evidente che la fecondità dell’apostolato dei laici dipende dalla loro vitale unione con Cristo” (AA n. 4). Per quanto urgente, il rilancio della vita culturale delle nostre comunità rischia di restare astratto e intellettualistico, se non attinge alle risorse di una esperienza spirituale autentica, affondando le proprie radici nella profondità della preghiera e della carità e traboccando in una reale trasformazione della prassi quotidiana. Le grandi sintesi della cultura cristiana sono nate, nel passato, ad opera di uomini che non erano soltanto dei geniali pensatori, ma anche - e soprattutto - dei santi.
“Oltre la formazione spirituale, è richiesta una solida preparazione dottrinale e cioè teologica, etica, filosofica, secondo la diversità dell’età, della condizione e dell’ingegno (...) Ma poiché la formazione all’apostolato non può consistere nella sola istruzione teoretica, gradualmente e prudentemente, fin dall’inizio della loro formazione, imparino a tutto vedere, giudicare ed agire [sic] nella luce della fede, a formare e perfezionare se stessi con gli altri mediante l’azione ed entrare così nell’operoso servizio della Chiesa” (ivi, n. 29).
Un’importanza particolare viene attribuita alla dimensione dialogica e comunicativa: “I laici devono essere particolarmente formati ad instaurare il dialogo con gli altri, credenti o non credenti” (ivi, n. 31).
Né viene dimenticato che questo impegno formativo deve’essere permanente, e non limitarsi ai fanciulli: “La formazione dev’essere perfezionata lungo tutta la vita” (ivi, n. 30).