ESORTAZIONE
APOSTOLICA
POST-SINODALE
RECONCILIATIO ET
PAENITENTIA
DI
GIOVANNI PAOLO II
ALL'EPISCOPATO
AL CLERO E AI FEDELI
CIRCA LA RICONCILIAZIONE E LA PENITENZA
NELLA MISSIONE DELLA CHIESA OGGI
PROEMIO
ORIGINE
E SIGNIFICATO DEL DOCUMENTO
1. Parlare di riconciliazione e penitenza è,
per gli uomini e le donne del nostro tempo, un invito a ritrovare, tradotte nel
loro linguaggio, le parole stesse con cui il nostro salvatore e maestro Gesù
Cristo volle inaugurare la sua predicazione: «Convertitevi e credete al
Vangelo» (Mc 1,15), accogliete, cioè, la lieta novella dell'amore,
dell'adozione a figli di Dio e, quindi, della fratellanza.
Perché la Chiesa ripropone questo tema e
questo invito? L'ansia di conoscere meglio e di comprendere l'uomo d'oggi e il
mondo contemporaneo, di decifrarne l'enigma e di svelarne il mistero, di
discernere i fermenti di bene o di male che vi si agitano, da non poco tempo
ormai porta molti a rivolgere a questo uomo e a questo mondo uno sguardo
interrogativo. E' lo sguardo dello storico e del sociologo, del filosofo e del
teologo, dello psicologo e dell'umanista, del poeta e del mistico: è,
soprattutto, lo sguardo preoccupato, eppur carico di speranza, del pastore.
Un tale sguardo si rivela in maniera
esemplare in ciascuna pagina dell'importante costituzione pastorale del
Concilio Vaticano II «Gaudium et Spes» sulla Chiesa nel mondo contemporaneo,
particolarmente nella sua ampia e penetrante introduzione. Esso si rivela,
altresì, in taluni documenti emanati dalla sapienza e dalla carità pastorale
dei miei venerati predecessori, i cui luminosi pontificati furono segnati
dall'evento storico e profetico di quel Concilio ecumenico.
Come gli altri sguardi, anche quello del
pastore scorge, purtroppo, fra diverse caratteristiche del mondo e dell'umanità
del nostro tempo, l'esistenza di numerose, profonde e dolorose divisioni.
Un mondo frantumato
2. Queste divisioni si manifestano nei
rapporti fra le persone e fra i gruppi, ma anche a livello delle più vaste
collettività: nazioni contro nazioni, e blocchi di paesi contrapposti, in
un'affannosa ricerca di egemonia. Alla radice delle rotture non è difficile
individuare conflitti che, anziché risolversi mediante il dialogo, si acuiscono
nel confronto e nel contrasto.
Indagando sugli elementi generatori di
divisione, attenti osservatori ne riscontrano i più svariati: dalla crescente
sperequazione tra gruppi, classi sociali e paesi agli antagonismi ideologici
tutt'altro che spenti; dalla contrapposizione degli interessi economici alle
polarizzazioni politiche; dalle divergenze tribali alle discriminazioni per
motivi socio-religiosi. Del resto, alcune realtà che sono sotto gli occhi di
tutti costituiscono come il volto pietoso della divisione, di cui sono frutto,
e ne fanno rilevare la gravità con inconfutabile concretezza. Si possono
ricordare, fra tanti altri dolorosi fenomeni sociali del nostro tempo: 1) il
calpestamento dei diritti fondamentali della persona umana, primo fra essi il
diritto alla vita e a una degna qualità di vita; 2) il che è tanto più scandaloso,
in quanto coesiste con una retorica non mai prima conosciuta circa gli stessi
diritti; 3) le insidie e pressioni contro la libertà dei singoli e delle
collettività, non esclusa, anzi più offesa e minacciata, la libertà di avere,
di professare e di praticare la propria fede; 4) le varie forme di
discriminazione: razziale, culturale, religiosa ecc.; 5) la violenza e il
terrorismo; 6) l'uso della tortura e le forme ingiuste e illegittime di
repressione; 7) l'accumulo delle armi convenzionali o atomiche, la corsa agli
armamenti, con spese belliche che potrebbero servire a sollevare l'immeritata
miseria di popoli socialmente ed economicamente depressi; 8) l'iniqua
distribuzione delle risorse del mondo e dei beni della civiltà, che tocca il
suo vertice in un tipo di organizzazione sociale, per cui la distanza fra le
condizioni umane dei ricchi e dei poveri si accresce sempre di più. La potenza
travolgente di questa divisione fa del mondo, in cui viviamo, un mondo
frantumato fin nelle sue fondamenta.
D'altra parte, poiché la Chiesa, senza
identificarsi col mondo né essere del mondo, è inserita nel mondo ed è in
dialogo col mondo, non è da meravigliarsi se si avvertono nella sua stessa
compagine ripercussioni e segni della divisione che ferisce l'umana società.
Oltre alle scissioni tra le comunioni cristiane che la affliggono da secoli, la
Chiesa sperimenta oggi qua e là nel suo seno divisioni fra le sue stesse
componenti, causate dalla diversità di vedute e di scelte nel campo dottrinale
e pastorale. Anche queste divisioni possono a volte sembrare inguaribili.
Per quanto tali lacerazioni già ad un primo
sguardo appaiano impressionanti, soltanto osservando in profondità si riesce a
individuare la loro radice: questa si trova in una ferita nell'intimo dell'uomo.
Alla luce della fede noi la chiamiamo il peccato: cominciando dal peccato
originale, che ciascuno porta dalla nascita come un'eredità ricevuta dai
progenitori, fino al peccato che ciascuno commette, abusando della propria
libertà.
Nostalgia di riconciliazione
3. Eppure, lo stesso sguardo indagatore, se
è sufficientemente acuto, coglie nel vivo della divisione un inconfondibile
desiderio da parte degli uomini di buona volontà e dei veri cristiani di
ricomporre le fratture, di rimarginare le lacerazioni, di instaurare, a tutti i
livelli, un'essenziale unità. Tale desiderio comporta in molti una vera
nostalgia di riconciliazione, pur se questa parola non è usata.
Per taluni si tratta quasi di un'utopia, che
potrebbe diventare la leva ideale per un vero mutamento della società; per
altri, invece, è oggetto di un'ardua conquista e, quindi, un traguardo da
raggiungere con un serio impegno di riflessione e di azione. In ogni caso,
l'aspirazione a una riconciliazione sincera e consistente è, senza ombra di
dubbio, un motivo fondamentale della nostra società, quasi riflesso di
un'incoercibile volontà di pace; lo è - anche se ciò è paradossale - tanto
vigorosamente, quanto pericolosi sono gli stessi fattori di divisione.
Tuttavia, la riconciliazione non può essere
meno profonda di quanto non sia la divisione. La nostalgia della
riconciliazione e la riconciliazione stessa saranno piene ed efficaci nella
misura in cui giungeranno - per guarirla - a quella lacerazione primigenia, che
è radice di tutte le altre ed è il peccato.
Lo sguardo del Sinodo
4. Pertanto, ogni istituzione o
organizzazione, volta a servire l'uomo e interessata a salvarlo nelle sue
dimensioni fondamentali, deve rivolgere uno sguardo penetrante alla
riconciliazione, per approfondirne il significato e la piena portata e trarne
le necessarie conseguenze operative.
A questo sguardo non poteva rinunciare la
Chiesa di Gesù Cristo. Con dedizione di madre e intelligenza di maestra, essa
si applica, premurosa e attenta, a raccogliere dalla società, con i segni della
divisione, anche quelli non meno eloquenti e significativi della ricerca di una
riconciliazione. Essa, infatti, sa che specialmente a lei è stata data la
possibilità e assegnata la missione di far conoscere il senso vero,
profondamente religioso, e le dimensioni integrali della riconciliazione,
contribuendo, già solo per questo, a chiarire i termini essenziali della
questione dell'unità e della pace.
I miei predecessori non hanno cessato di predicare
la riconciliazione, di invitare ad essa l'intera umanità, nonché ogni ceto e
ogni porzione della comunità umana che vedevano lacerata e divisa. E io stesso,
per un impulso interiore che obbediva a un tempo - ne son certo -
all'ispirazione dall'alto e agli appelli dell'umanità, in due modi diversi,
ambedue solenni e impegnativi, ho voluto mettere a fuoco il tema della
riconciliazione: in primo luogo, convocando la VI Assemblea generale del Sinodo
dei vescovi; in secondo luogo, facendo della riconciliazione il centro
dell'anno giubilare, indetto per celebrare il 1950· anniversario della
redenzione. Dovendo assegnare un tema al Sinodo, mi sono trovato pienamente
consenziente con quello suggerito da numerosi miei fratelli nell'episcopato,
cioè quello, tanto fecondo, della riconciliazione in stretto collegamento con
quello della penitenza.
Il termine e il concetto stesso di penitenza
sono assai complessi. Se la colleghiamo alla metanoia, a cui si riferiscono i
sinottici, allora la penitenza significa l'intimo cambiamento del cuore sotto
l'influsso della parola di Dio e nella prospettiva del Regno. Ma penitenza vuol
dire anche cambiare la vita in coerenza col cambiamento del cuore, e in questo
senso il fare penitenza si completa col fare degni frutti di penitenza: è tutta
l'esistenza che diventa penitenziale, tesa cioè a un continuo cammino verso il
meglio. Fare penitenza, però, è qualcosa di autentico ed efficace soltanto se
si traduce in atti e gesti di penitenza. In questo senso, penitenza significa,
nel vocabolario cristiano teologico e spirituale, l'ascesi, vale a dire lo
sforzo concreto e quotidiano dell'uomo, sorretto dalla grazia di Dio, per
perdere la propria vita per Cristo, quale unico modo di guadagnarla; per
spogliarsi del vecchio uomo e rivestirsi del nuovo; per superare in se stesso
ciò che è carnale, affinché prevalga ciò che è spirituale; per innalzarsi
continuamente dalle cose di quaggiù a quelle di lassù, dove è Cristo. La
penitenza, pertanto, è la conversione che passa dal cuore alle opere e, quindi,
all'intera vita del cristiano.
In ciascuno di questi significati la
penitenza è strettamente congiunta alla riconciliazione, poiché il
riconciliarsi con Dio, con se stessi e con gli altri suppone che si sconfigga
la rottura radicale, che è il peccato; il che si realizza soltanto attraverso
la trasformazione interiore o conversione, che fruttifica nella vita mediante
gli atti di penitenza.
Il documento-base del Sinodo (chiamato anche
«Lineamenta»), preparato all'unico scopo di presentare il tema accentuandone
alcuni aspetti fondamentali, ha consentito alle comunità ecclesiali, ovunque
esistenti nel mondo, di riflettere per quasi due anni su questi aspetti di una
questione - quella della conversione e della riconciliazione - che interessa
tutti, e di trarne, altresì, un rinnovato slancio per la vita e l'apostolato
cristiano. La riflessione si è ulteriormente approfondita, in preparazione più
immediata ai lavori sinodali, grazie all'«Instrumentum laboris», inviato
tempestivamente ai vescovi e ai loro collaboratori. Infine, per un mese intero,
i padri sinodali, assistiti da quanti furono chiamati all'assise propriamente
detta, hanno trattato con grande senso di responsabilità il tema stesso e le
questioni, numerose e svariate, ad esso connesse. Dal dibattito, dallo studio
comune, dall'assidua e accurata ricerca è scaturito un ampio e prezioso tesoro,
che le «Propositiones» finali riassumono nella sua sostanza.
Lo sguardo del Sinodo non ignora gli atti di
riconciliazione (alcuni dei quali passano quasi inosservati nella loro
quotidianità), che pur in varia misura servono a risolvere le tante tensioni, a
superare i tanti conflitti e a vincere le piccole e grandi divisioni, rifacendo
l'unità. Ma la preoccupazione principale del Sinodo era quella di trovare, nel
profondo di questi atti sparsi, la radice nascosta, una riconciliazione, per
così dire, «fontale», operante nel cuore e nella coscienza dell'uomo.
Il carisma e, nel contempo, l'originalità
della Chiesa, per quanto riguarda la riconciliazione, a qualunque livello sia
da effettuare, risiedono nel fatto che essa risale sempre a quella
riconciliazione fontale. In forza, infatti, della sua missione essenziale, la
Chiesa sente il dovere di giungere fino alle radici della lacerazione
primigenia del peccato, per operarvi il risanamento e ristabilirvi, per così
dire, una riconciliazione anch'essa primigenia, che sia principio efficace di
ogni vera riconciliazione. Questo la Chiesa ha avuto in vista e ha proposto
mediante il Sinodo.
Di questa riconciliazione parla la Sacra
Scrittura, invitandoci a fare per essa tutti gli sforzi (2Cor 5,20); ma dice,
altresì, che essa è, anzitutto, un dono misericordioso di Dio all'uomo (Rm
5,11). La storia della salvezza - quella dell'intera umanità, come quella di
ciascun uomo, in qualsiasi tempo - è la storia mirabile di una riconciliazione:
quella per cui Dio, che è Padre, nel sangue e nella croce del suo Figlio fatto
uomo ha riconciliato con sé il mondo, facendo nascere così una nuova famiglia
di riconciliati.
La riconciliazione si fa necessaria, perché
c'è stata la rottura del peccato, dalla quale sono derivate tutte le altre
forme di rottura nell'intimo dell'uomo e intorno a lui. La riconciliazione,
dunque, per essere piena, esige necessariamente la liberazione dal peccato, rifiutato
nelle sue più profonde radici. Perciò, uno stretto legame interno unisce
conversione e riconciliazione: è impossibile disgiungere le due realtà, o
parlare dell'una tacendo dell'altra.
Al tempo stesso, il Sinodo ha parlato della
riconciliazione di tutta la famiglia umana e della conversione del cuore di
ogni persona, del suo ritorno a Dio, volendo riconoscere e proclamare che
l'unione degli uomini non può darsi senza un cambiamento interno di ciascuno.
La conversione personale è la via necessaria alla concordia fra le persone
(«Gaudium et Spes»,10). Quando la Chiesa proclama la lieta novella della
riconciliazione, o propone di realizzarla attraverso i sacramenti, esercita un
vero ruolo profetico, denunciando i mali dell'uomo nella loro sorgente contaminata,
indicando la radice delle divisioni e infondendo la speranza di poter superare
le tensioni e i conflitti per giungere alla fratellanza, alla concordia e alla
pace a tutti i livelli e in tutti i ceti dell'umana società. Essa cambia una
condizione storica di odio e di violenza in una civiltà di amore. Essa offre a
tutti il principio evangelico e sacramentale di quella riconciliazione
«fontale», dalla quale scaturisce ogni altro gesto o atto di riconciliazione,
anche a livello sociale.
Di tale riconciliazione, frutto della
conversione, tratta la presente esortazione. Infatti, come era accaduto al
termine delle tre precedenti assemblee del Sinodo, gli stessi padri hanno
voluto anche questa volta consegnare al vescovo di Roma, pastore universale
della Chiesa e capo del collegio episcopale, nella sua qualità di presidente
del Sinodo, le conclusioni del loro lavoro. Ho accettato, come un grave e grato
dovere del mio ministero, il compito di attingere all'ingente dovizia del
Sinodo per offrire al popolo di Dio, quale frutto del Sinodo stesso, un
messaggio dottrinale e pastorale sul tema della penitenza e riconciliazione.
Tratterò, pertanto, nella prima parte, della Chiesa nel compimento della sua
missione riconciliatrice, nell'opera di conversione dei cuori per il rinnovato
abbraccio fra l'uomo e Dio, fra l'uomo e il suo fratello, fra l'uomo e tutto il
creato. Nella seconda parte sarà indicata la causa radicale di ogni lacerazione
o divisione fra gli uomini e, prima di tutto, nei confronti di Dio: il peccato.
Infine, segnalerò quei mezzi che consentono alla Chiesa di promuovere e di
suscitare la piena riconciliazione degli uomini con Dio e, di conseguenza,
degli uomini fra di loro.
Il documento, che ora consegno ai figli
della Chiesa, ma anche a tutti coloro che, credenti o no, ad essa guardano con
interesse e animo sincero, vuol essere una doverosa risposta a quanto il Sinodo
mi ha chiesto. Ma è anche - tengo a dichiararlo per soddisfare un debito di
verità e di giustizia - opera del medesimo Sinodo. Il contenuto di queste
pagine, infatti, proviene da esso: dalla sua lontana o prossima preparazione,
dall'«Instrumentum laboris», dagli interventi nell'aula sinodale e nei «circuli
minores» e, soprattutto, dalle sessantatré «Propositiones». Si trova qui il
frutto del lavoro congiunto dei padri, tra i quali non mancavano i
rappresentanti delle Chiese orientali, il cui patrimonio teologico, spirituale
e liturgico è così ricco e venerando anche in ordine alla materia che qui ci
interessa. Inoltre, il consiglio della segreteria del Sinodo ha valutato in due
importanti sedute i risultati e gli orientamenti dell'assise sinodale appena
conclusa, ha messo in evidenza la dinamica delle suddette «Propositiones» e ha
tracciato, poi, le linee ritenute più idonee per la stesura del presente
documento. Sono grato a tutti coloro che hanno compiuto questo lavoro, mentre,
fedele alla mia missione, voglio qui trasmettere ciò che, nel tesoro dottrinale
e pastorale del Sinodo, mi appare provvidenziale per la vita di tanti uomini in
quest'ora magnifica e difficile della storia.
Giova farlo - e risulta quanto mai
significativo - mentre è ancor vivo il ricordo dell'anno santo, interamente
vissuto nel segno della penitenza, conversione e riconciliazione. Che questa
mia esortazione, affidata ai fratelli nell'episcopato e ai loro collaboratori
presbiteri e diaconi, ai religiosi e religiose, a tutti i fedeli, agli uomini e
alle donne di retta coscienza, possa essere non soltanto uno strumento di
purificazione, di arricchimento e approfondimento della propria fede personale,
ma anche un lievito capace di far crescere nel cuore del mondo la pace e la
fratellanza, la speranza e la gioia, valori che scaturiscono dal Vangelo
accolto, meditato e vissuto giorno per giorno sull'esempio di Maria, madre del Signore
nostro Gesù Cristo, per mezzo del quale piacque a Dio riconciliare a sé tutte
le cose.
PRIMA PARTE
CONVERSIONE E RICONCILIAZIONE COMPITO E IMPEGNO DELLA CHIESA
I.
UNA
PARABOLA DELLA RICONCILIAZIONE
5. All'inizio di questa esortazione
apostolica si presenta al mio spirito la straordinaria pagina di san Luca, che
ho già cercato di illustrare in un precedente mio documento. Mi riferisco alla
parabola del figlio prodigo.
Dal fratello che era perduto...
«Un uomo aveva due figli. Il più giovane
disse al padre: "Padre, dammi la parte del patrimonio che mi
spetta"», racconta Gesù nel mettere a fuoco la drammatica vicenda di quel
giovane: l'avventurosa partenza dalla casa paterna, lo sperpero di tutti i suoi
beni in una vita dissoluta e vuota, i giorni tenebrosi della lontananza e della
fame, ma, più ancora, della dignità perduta, dell'umiliazione e della vergogna,
e infine, la nostalgia della propria casa, il coraggio di ritornarvi,
l'accoglienza del padre. Questi non aveva certo dimenticato il figlio, anzi gli
aveva conservato intatti l'affetto e la stima. Così l'aveva sempre atteso e ora
lo abbraccia, mentre dà il via alla grande festa del ritorno di «colui che era
morto ed è risuscitato, era perduto ed è stato ritrovato».
L'uomo - ogni uomo - è questo figlio
prodigo: ammaliato dalla tentazione di separarsi dal Padre per vivere
indipendentemente la propria esistenza; caduto nella tentazione; deluso dal
nulla che, come miraggio, lo aveva affascinato; solo, disonorato, sfruttato
allorché cerca di costruirsi un mondo tutto per sé; travagliato, anche nel
fondo della propria miseria, dal desiderio di tornare alla comunione col Padre.
Come il padre della parabola, Dio spia il ritorno del figlio, lo abbraccia al
suo arrivo e imbandisce la tavola per il banchetto del nuovo incontro, col
quale si festeggia la riconciliazione.
Ciò che più spicca nella parabola è
l'accoglienza festosa e amorosa del padre al figlio che ritorna: segno della
misericordia di Dio, sempre pronto al perdono. Diciamolo subito: la
riconciliazione è principalmente un dono del Padre celeste.
...al fratello rimasto a casa
6. Ma la parabola mette in scena anche il
fratello maggiore, che rifiuta il suo posto nel banchetto. Egli rinfaccia al
fratello più giovane i suoi sbandamenti e al padre l'accoglienza che gli ha
riservato, mentre a lui, temperante e laborioso, fedele al padre e alla casa,
non è stato mai concesso - dice - di far festa con gli amici. Segno che egli
non capisce la bontà del padre. Fintantoché questo fratello, troppo sicuro di
se stesso e dei propri meriti, geloso e sprezzante, colmo di amarezza e di
rabbia, non si converte e non si riconcilia col padre e col fratello, il
banchetto non è ancora pienamente la festa dell'incontro e del ritrovamento.
L'uomo - ogni uomo - è anche questo fratello
maggiore. L'egoismo lo rende geloso, gli indurisce il cuore, lo acceca e lo
chiude agli altri e a Dio. La benignità e misericordia del padre lo irritano e
indispettiscono; la felicità del fratello ritrovato ha per lui un sapore amaro.
Anche sotto questo aspetto egli ha bisogno di convertirsi per riconciliarsi.
La parabola del figlio prodigo è, anzitutto,
l'ineffabile storia del grande amore di un Padre - Dio - che offre al figlio,
tornato a lui, il dono della piena riconciliazione. Ma essa, nell'evocare, con
la figura del fratello maggiore, l'egoismo che divide fra di loro i fratelli,
diventa anche la storia della famiglia umana: segna la nostra situazione e
indica la via da percorrere. Il figlio prodigo, nella sua ansia di conversione,
di ritorno fra le braccia del padre e di perdono, raffigura coloro che
avvertono nel fondo della propria coscienza la nostalgia di una riconciliazione
a tutti i livelli e senza riserva, e intuiscono con intima certezza che questa
è possibile soltanto se deriva da una prima e fondamentale riconciliazione:
quella che porta l'uomo dalla lontananza all'amicizia filiale con Dio, del
quale riconosce l'infinita misericordia. Letta però nella prospettiva
dell'altro figlio, la parabola dipinge la situazione della famiglia umana divisa
dagli egoismi, mette in luce la difficoltà di assecondare il desiderio e la
nostalgia di una medesima famiglia riconciliata e unita; richiama, pertanto, la
necessità di una profonda trasformazione dei cuori nella riscoperta della
misericordia del Padre e nella vittoria sull'incomprensione e l'ostilità tra
fratelli.
Alla luce di questa inesauribile parabola
della misericordia che cancella il peccato, la Chiesa, accogliendo l'appello in
essa contenuto, comprende la sua missione di operare, sulle orme del Signore,
per la conversione dei cuori e per la riconciliazione degli uomini con Dio e
fra di loro, due realtà, queste, intimamente connesse.
II.
ALLE
FONTI DELLA RICONCILIAZIONE
Nella luce di Cristo riconciliatore
7. Come si deduce dalla parabola del figlio
prodigo, la riconciliazione è un dono di Dio e una sua iniziativa. Ma la nostra
fede ci insegna che questa iniziativa si concretizza nel mistero di Cristo
redentore, riconciliatore, liberatore dell'uomo dal peccato sotto tutte le sue
forme. Lo stesso san Paolo non esita a riassumere in tale compito e funzione
l'incomparabile missione di Gesù di Nazaret, Verbo e Figlio di Dio fatto uomo.
Anche noi possiamo partire da questo mistero
centrale dell'economia della salvezza, punto-chiave della cristologia
dell'Apostolo. «Se mentre eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per
mezzo della morte del Figlio suo, - egli scrive ai Romani - molto più, ora che
siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. Non solo, ma ci
gloriamo pure in Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, dal quale ora
abbiamo ottenuto la riconciliazione» (Rm 5,10s). Poiché dunque «Dio ci ha
riconciliati con sé per mezzo di Cristo», Paolo si sente ispirato ad esortare i
cristiani di Corinto: «Lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,18.20).
Di tale missione riconciliatrice mediante la
morte sulla croce, parlava in altri termini l'evangelista Giovanni
nell'osservare che Cristo doveva morire «per riunire insieme i figli di Dio,
che erano dispersi» (Gv 11,52).
Ma ancora san Paolo ci consente di allargare
la nostra visione dell'opera di Cristo a dimensioni cosmiche, quando scrive che
in lui il Padre ha riconciliato con sé tutte le creature, quelle del cielo e
quelle della terra. Giustamente si può dire di Cristo redentore che «nel tempo
dell'ira è stato fatto riconciliazione», e che, se egli è «la nostra pace» (Ef
2,14), è anche la nostra riconciliazione.
Ben a ragione la sua passione e morte,
sacramentalmente rinnovate nell'eucaristia, vengono chiamate dalla liturgia
«sacrificio di riconciliazione» («Prex Eucharistica III»): riconciliazione con
Dio e con i fratelli, se Gesù stesso insegna che la riconciliazione fraterna
deve operarsi prima del sacrificio. E' legittimo, dunque, partendo da questi e
da altri significativi passi neo-testamentari, far convergere le riflessioni
sull'intero mistero di Cristo intorno alla sua missione di riconciliatore. E'
pertanto da proclamare ancora una volta la fede della Chiesa nell'atto
redentivo di Cristo, nel mistero pasquale della sua morte e risurrezione, come
causa della riconciliazione dell'uomo, nel suo duplice aspetto di liberazione
dal peccato e di comunione di grazia con Dio.
E proprio dinanzi al quadro doloroso delle
divisioni e delle difficoltà della riconciliazione fra gli uomini, invito a
guardare al «mysterium crucis» come al più alto dramma, nel quale Cristo
percepisce e soffre fino in fondo il dramma stesso della divisione dell'uomo da
Dio, sì da gridare con le parole del salmista: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato?» (Mt 27,46; Mc 15,34; Sal 22,2), e attua, nello stesso tempo, la
nostra riconciliazione. Lo sguardo fisso al mistero del Golgota deve farci
ricordare sempre quella dimensione «verticale» della divisione e della
riconciliazione riguardante il rapporto uomo-Dio, che in una visione di fede
prevale sempre sulla dimensione «orizzontale», cioè sulla realtà della
divisione e sulla necessità della riconciliazione tra gli uomini. Noi sappiamo,
infatti, che una tale riconciliazione tra loro non è e non può essere che il
frutto dell'atto redentivo di Cristo, morto e risorto per sconfiggere il regno
del peccato, ristabilire l'alleanza con Dio e abbattere così il muro di
separazione, che il peccato aveva innalzato tra gli uomini.
La Chiesa riconciliatrice
8. Ma - come diceva san Leone Magno parlando
della passione di Cristo - «tutto quello che il Figlio di Dio ha fatto e ha
insegnato per la riconciliazione del mondo, non lo conosciamo soltanto dalla
storia delle sue azioni passate, ma lo sentiamo anche nell'efficacia di ciò che
egli compie al presente». Sentiamo la riconciliazione, operata nella sua
umanità, nell'efficacia dei sacri misteri celebrati dalla sua Chiesa, per la
quale egli ha dato se stesso e che ha costituito segno e insieme strumento di
salvezza.
Ciò afferma san Paolo, quando scrive che Dio
ha dato agli apostoli di Cristo una partecipazione alla sua opera
riconciliatrice. «Dio - egli dice - ci ha affidato il ministero della
riconciliazione... e la parola della riconciliazione» (2Cor 5,18s).
Nelle mani e sulla bocca degli apostoli,
suoi messaggeri, il Padre ha posto misericordiosamente un ministero di
riconciliazione, che essi adempiono in maniera singolare, in virtù del potere
di agire «in persona Christi». Ma anche a tutta la comunità dei credenti,
all'intera compagine della Chiesa è affidata la parola di riconciliazione, il
compito cioè di fare quanto è possibile per testimoniare la riconciliazione e
per attuarla nel mondo.
Si può dire che anche il Concilio Vaticano
II, nel definire la Chiesa come «sacramento, o segno e strumento dell'intima
unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano» e nel segnalare come sua
funzione quella di ottenere la «piena unità in Cristo» per gli «uomini oggi più
strettamente congiunti da vari vincoli» («Lumen Gentium», 1), riconosceva che
essa deve tendere soprattutto a riportare gli uomini alla piena
riconciliazione. In intima connessione con la missione di Cristo, si può dunque
riassumere la missione, pur ricca e complessa, della Chiesa nel compito per lei
centrale della riconciliazione dell'uomo: con Dio, con se stesso, con i
fratelli, con tutto il creato; e questo in modo permanente, perché - come ho
detto altra volta - «la Chiesa è per sua natura sempre riconciliante».
Riconciliatrice è la Chiesa in quanto
proclama il messaggio della riconciliazione, come ha sempre fatto nella sua
storia dal Concilio apostolico di Gerusalemme fino all'ultimo Sinodo e al
recente giubileo della redenzione. L'originalità di questa proclamazione sta
nel fatto che per la Chiesa la riconciliazione è strettamente collegata alla
conversione del cuore: questa è la via necessaria verso l'intesa fra gli esseri
umani.
Riconciliatrice è la Chiesa anche in quanto
mostra all'uomo le vie e gli offre i mezzi per la suddetta quadruplice
riconciliazione. Le vie sono, appunto, quelle della conversione del cuore e
della vittoria sul peccato, sia questo l'egoismo, l'ingiustizia, la prepotenza
o lo sfruttamento altrui, l'attaccamento ai beni materiali o la ricerca
sfrenata del piacere. I mezzi sono quelli del fedele e amoroso ascolto della
parola di Dio, della preghiera personale e comunitaria e, soprattutto, dei
sacramenti, veri segni e strumenti di riconciliazione, tra i quali eccelle,
proprio sotto questo aspetto, quello che con ragione usiamo chiamare il
sacramento della riconciliazione, o della penitenza, sul quale ritornerò in
seguito.
La Chiesa riconciliata
9. Il mio venerato predecessore Paolo VI ha
avuto il merito di mettere in chiaro che, per essere evangelizzatrice, la Chiesa
deve cominciare col mostrarsi essa stessa evangelizzata, aperta cioè al pieno e
integrale annuncio della buona novella di Gesù Cristo per ascoltarla e metterla
in pratica. Anch'io, raccogliendo in un documento organico le riflessioni della
IV assemblea generale del Sinodo, ho parlato di una Chiesa che si catechizza
nella misura in cui è operatrice di catechesi.
Non esito ora a riprendere qui il confronto,
per quanto si applica al tema che sto trattando, per affermare che la Chiesa,
per essere riconciliatrice, deve cominciare con l'essere una Chiesa
riconciliata. Sotto questa semplice e lineare espressione soggiace la
convinzione che la Chiesa, per annunciare e proporre sempre più efficacemente
al mondo la riconciliazione, deve diventare sempre più una comunità (fosse
anche il «piccolo gregge» dei primi tempi) di discepoli di Cristo, uniti
nell'impegno di convertirsi continuamente al Signore e di vivere come uomini
nuovi nello spirito e nella pratica della riconciliazione.
Dinanzi ai nostri contemporanei, così
sensibili alla prova delle concrete testimonianze di vita, la Chiesa è chiamata
a dare l'esempio della riconciliazione anzitutto al suo interno; e per questo
tutti dobbiamo operare per pacificare gli animi, moderare le tensioni, superare
le divisioni, sanare le ferite eventualmente inferte tra fratelli, quando si
acuisce il contrasto delle opzioni nel campo dell'opinabile, e cercare invece
di essere uniti in ciò che è essenziale per la fede e la vita cristiana,
secondo l'antica massima: «In dubiis libertas, in necessariis unitas, in
omnibus caritas».
Secondo questo stesso criterio, la Chiesa
deve attuare anche la sua dimensione ecumenica. Infatti, per essere interamente
riconciliata, essa sa di dover proseguire nella ricerca dell'unità fra coloro
che si onorano di chiamarsi cristiani, ma sono separati tra loro, anche come
Chiese o Comunioni, e dalla Chiesa di Roma. Questa cerca un'unità che, per
esser frutto ed espressione di vera riconciliazione, non intende fondarsi né
sulla dissimulazione dei punti che dividono, né su compromessi tanto facili
quanto superficiali e fragili. L'unità deve essere il risultato di una vera
conversione di tutti, del perdono reciproco, del dialogo teologico e delle
relazioni fraterne, della preghiera, della piena docilità all'azione dello
Spirito Santo, che è anche Spirito di riconciliazione.
Infine la Chiesa, per dirsi pienamente
riconciliata, sente di doversi impegnare sempre di più nel portare il Vangelo a
tutte le genti, promovendo il «dialogo della salvezza», a quei vasti ambienti
dell'umanità nel mondo contemporaneo che non condividono la sua fede e che
addirittura, a causa di un crescente secolarismo, prendono le distanze nei suoi
riguardi e le oppongono una fredda indifferenza, quando non la osteggiano e
perseguitano. A tutti la Chiesa sente di dover ripetere con san Paolo:
«Lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20).
In ogni caso, la Chiesa promuove una
riconciliazione nella verità, sapendo bene che non sono possibili né la
riconciliazione né l'unità fuori o contro la verità.
III.
L'INIZIATIVA
DI DIO E IL MINISTERO DELLA CHIESA
10. Comunità riconciliata e riconciliatrice,
la Chiesa non può dimenticare che alle sorgenti del suo dono e della sua
missione di riconciliazione si trova l'iniziativa, piena di amore compassionevole
e di misericordia, di quel Dio che è amore e che per amore ha creato gli
uomini: li ha creati, affinché vivano in amicizia con lui e in comunione fra di
loro.
La riconciliazione viene da Dio
Dio è fedele al suo disegno eterno anche
quando l'uomo, spinto dal maligno e trascinato dal suo orgoglio, abusa della
libertà, datagli per amare e cercare generosamente il bene, rifiutando
l'obbedienza al suo Signore e Padre; anche quando l'uomo, invece di rispondere
con amore all'amore di Dio, gli si oppone come a un suo rivale, illudendosi e
presumendo delle sue forze, con la conseguente rottura dei rapporti con colui
che lo ha creato. Nonostante questa prevaricazione dell'uomo, Dio rimane fedele
nell'amore. Certo, il racconto del giardino dell'Eden ci fa meditare sulle
funeste conseguenze del rifiuto del Padre, che si traduce nel disordine interno
all'uomo e nella rottura dell'armonia tra l'uomo e la donna, tra fratello e
fratello. Anche la parabola evangelica dei due figli che si allontanano, in
diverso modo, dal padre, scavando un abisso fra di loro, è significativa. Il
rifiuto dell'amore paterno di Dio e dei suoi doni di amore è sempre alla radice
delle divisioni dell'umanità.
Ma noi sappiamo che Dio, «ricco di
misericordia» (Ef 2,4), come il padre della parabola, non chiude il cuore a
nessuno dei suoi figli. Egli li attende, li cerca, li raggiunge là dove il
rifiuto della comunione li imprigiona nell'isolamento e nella divisione, li
chiama a raccogliersi intorno alla sua mensa, nella gioia della festa del perdono
e della riconciliazione.
Questa iniziativa di Dio si concretizza e
manifesta nell'atto redentivo di Cristo, che si irradia nel mondo mediante il
ministero della Chiesa.
Infatti, secondo la nostra fede, il Verbo di
Dio si è fatto carne ed è venuto ad abitare la terra degli uomini, è entrato
nella storia del mondo, assumendola e ricapitolandola in sé. Egli ci ha
rivelato che Dio è amore e ci ha dato il «comandamento nuovo» (Gv 13,34)
dell'amore, comunicandoci al tempo stesso la certezza che la via dell'amore si
dischiude a tutti gli uomini, cosicché non è vano lo sforzo per instaurare la
fratellanza universale. Vincendo, con la sua morte sulla croce, il male e la
potenza del peccato, con la sua obbedienza piena di amore egli ha portato la
salvezza a tutti ed è diventato per tutti «riconciliazione». In lui Dio ha
riconciliato l'uomo con sé.
La Chiesa, continuando l'annuncio di
riconciliazione fatto risuonare da Cristo nei villaggi della Galilea e di tutta
la Palestina, non cessa di invitare l'umanità intera a convertirsi e a credere
alla buona novella. Essa parla in nome di Cristo, facendo suo l'appello
dell'apostolo Paolo, che abbiamo già ricordato: «Noi fungiamo... da
ambasciatori per Cristo, come se Dio esortasse per mezzo nostro. Vi
supplichiamo in nome di Cristo: Lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20).
Chi accetta questo appello entra
nell'economia della riconciliazione e fa l'esperienza della verità contenuta in
quell'altro annuncio di san Paolo, secondo il quale Cristo «è nostra pace, egli
che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era
frammezzo, cioè l'inimicizia (...), facendo la pace per riconciliare tutti e
due con Dio» (Ef 2,14-16). Se questo testo riguarda direttamente il superamento
della divisione religiosa tra Israele, come popolo eletto dell'Antico
Testamento, e gli altri popoli, chiamati tutti a far parte della nuova
alleanza, esso contiene però l'affermazione della nuova universalità
spirituale, voluta da Dio e operata da lui mediante il sacrificio del suo
Figlio, il Verbo fatto uomo, senza limiti ed esclusioni di sorta, per tutti
coloro che si convertono e credono a Cristo. Tutti, dunque, siamo chiamati a
godere i frutti di questa riconciliazione voluta da Dio: ogni uomo, ogni
popolo.
La Chiesa, grande sacramento di
riconciliazione
11. La Chiesa ha la missione di annunciare
questa riconciliazione e di esserne il sacramento nel mondo. Sacramento, cioè
segno e strumento di riconciliazione, è la Chiesa a diversi titoli, di diverso
valore, ma tutti convergenti nell'ottenere ciò che la divina iniziativa di
misericordia vuol concedere agli uomini.
Lo è, anzitutto, per la sua stessa esistenza
di comunità riconciliata, che testimonia e rappresenta nel mondo l'opera di
Cristo. Lo è, poi, per il suo servizio di custode e di interprete della Sacra
Scrittura, che è lieta novella di riconciliazione, in quanto fa conoscere di
generazione in generazione il disegno d'amore di Dio e indica a ciascuno le vie
dell'universale riconciliazione in Cristo. Lo è, infine, per i sette
sacramenti, che in un modo proprio a ciascuno «fanno la Chiesa». Infatti,
poiché commemorano e rinnovano il mistero della pasqua di Cristo, tutti i
sacramenti sono sorgente di vita per la Chiesa e, nelle sue mani, sono
strumento di conversione a Dio e di riconciliazione degli uomini.
Altre vie di riconciliazione
12. La missione riconciliatrice è propria di
tutta la Chiesa, anche e soprattutto di quella già ammessa alla piena
partecipazione della gloria divina con Maria vergine, con gli angeli e i santi,
i quali contemplano e adorano il Dio tre volte santo. Chiesa del cielo, Chiesa
della terra, Chiesa del purgatorio sono misteriosamente unite in questa
cooperazione con Cristo nel riconciliare il mondo con Dio.
La prima via di questa azione salvifica è
quella della preghiera. Senza dubbio la Vergine, madre di Cristo e della
Chiesa, e i santi, giunti ormai alla fine del cammino terreno e in possesso
della gloria di Dio, con la loro intercessione sostengono i loro fratelli pellegrini
nel mondo, nell'impegno di conversione, di fede, di ripresa dopo ogni caduta,
di azione per far crescere la comunione e la pace nella Chiesa e nel mondo. Nel
mistero della comunione dei santi la riconciliazione universale si attua nella
sua forma più profonda e più fruttuosa per la comune salvezza.
C'è poi un'altra via: quella della
predicazione. Discepola dell'unico maestro Gesù Cristo, la Chiesa a sua volta,
come madre e maestra, non si stanca di proporre agli uomini la riconciliazione
e non esita a denunciare la malizia del peccato, a proclamare la necessità
della conversione, a invitare e a chiedere agli uomini di «lasciarsi
riconciliare». In realtà, è questa la sua missione profetica nel mondo d'oggi,
come in quello di ieri: è la stessa missione del suo maestro e capo, Gesù. Come
lui, la Chiesa adempirà sempre tale missione con sentimenti di amore
misericordioso e porterà a tutti le parole del perdono e l'invito alla
speranza, che vengono dalla croce.
C'è, ancora, la via spesso così difficile e aspra
dell'azione pastorale per riportare ogni uomo - chiunque sia e dovunque si
trovi - sul cammino, a volte lungo, del ritorno al Padre nella comunione con
tutti i fratelli.
C'è, infine, la via della testimonianza,
quasi sempre silenziosa, che nasce da una duplice consapevolezza della Chiesa:
quella di essere in sé «indefettibilmente santa» («Lumen Gentium», 39), ma
anche bisognosa di andare «di giorno in giorno purificandosi, fino a che Cristo
se la faccia comparire dinanzi gloriosa, senza macchia né ruga», giacché, per i
nostri peccati, talvolta «il suo volto rifulge meno» agli occhi di chi la
guarda. Questa testimonianza non può non assumere due aspetti fondamentali:
essere segno di quella carità universale che Gesù Cristo ha lasciato in eredità
ai suoi seguaci, come prova dell'appartenenza al suo Regno; tradursi in fatti
sempre nuovi di conversione e di riconciliazione all'interno e all'esterno
della Chiesa col superamento delle tensioni, col perdono reciproco, con la
crescita nello spirito di fraternità e di pace, da propagare nel mondo intero.
Lungo questa via la Chiesa potrà operare validamente per far nascere quella che
il mio predecessore Paolo VI chiamava la «civiltà dell'amore».
SECONDA PARTE
L'AMORE PIU' GRANDE DEL PECCATO
Il dramma dell'uomo
13. Come scrive l'apostolo san Giovanni, «se
diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in
noi. Se riconosciamo i nostri peccati, egli che è fedele e giusto ci perdonerà
i peccati» (1Gv 1,8s). Queste parole ispirate, scritte agli albori della
Chiesa, avviano meglio di qualsiasi altra espressione umana quel discorso sul
peccato, che è strettamente connesso con quello sulla riconciliazione. Esse
colgono il problema del peccato nel suo orizzonte antropologico, in quanto
parte integrante della verità sull'uomo, ma lo inseriscono subito
nell'orizzonte divino, nel quale il peccato è confrontato con la verità
dell'amore divino, giusto, generoso e fedele, che si manifesta soprattutto col
perdono e la redenzione. Perciò, lo stesso san Giovanni scrive poco oltre che
«qualunque cosa (il nostro cuore) ci rimproveri, Dio è più grande del nostro
cuore» (1Gv 3,20).
Riconoscere il proprio peccato, anzi -
andando ancora più a fondo nella considerazione della propria personalità -
riconoscersi peccatore, capace di peccato e portato al peccato, è il principio
indispensabile del ritorno a Dio. E' l'esperienza esemplare di Davide, che dopo
«aver fatto male agli occhi del Signore», rimproverato dal profeta Natan,
esclama: «Riconosco la mia colpa, il mio peccato mi sta sempre dinanzi. Contro
di te, contro te solo ho peccato; quello che è male ai tuoi occhi io l'ho
fatto» (Sal 51,5s). Del resto, Gesù mette sulla bocca e nel cuore del figlio
prodigo quelle significative parole: «Padre, ho peccato contro il cielo e
contro di te» (Lc 15,18.21).
In realtà, riconciliarsi con Dio suppone e
include il distaccarsi con lucidità e determinazione dal peccato, in cui si è
caduti. Suppone e include, dunque, il fare penitenza nel senso più completo del
termine: pentirsi, manifestare il pentimento, assumere l'atteggiamento concreto
del pentito, che è quello di chi si mette sulla via del ritorno al Padre.
Questa è una legge generale, che ciascuno deve seguire nella situazione
particolare in cui si trova. Il discorso sul peccato e sulla conversione,
infatti, non può essere svolto solo in termini astratti.
Nella condizione concreta dell'uomo
peccatore, in cui non può esservi conversione senza riconoscimento del proprio
peccato, il ministero di riconciliazione della Chiesa interviene in ogni caso
con una finalità schiettamente penitenziale, cioè per riportare l'uomo al
«cognoscimento di sé», secondo l'espressione di santa Caterina da Siena, al
distacco dal male, al ristabilimento dell'amicizia con Dio, al riordinamento
interiore, alla nuova conversione ecclesiale. Anzi, oltre l'ambito della Chiesa
e dei credenti, il messaggio e il ministero della penitenza sono rivolti a
tutti gli uomini, perché tutti hanno bisogno di conversione e di
riconciliazione.
Per adempiere adeguatamente tale ministero
penitenziale, è necessario anche valutare, con gli «occhi illuminati» della
fede, le conseguenze del peccato, che sono motivo di divisione e di rottura non
solo all'interno di ogni uomo, ma anche nelle varie cerchie in cui egli vive:
familiare, ambientale, professionale, sociale, come tante volte si può
sperimentalmente constatare, a conferma della pagina biblica riguardante la
città di Babele e la sua torre. Intenti a costruire ciò che doveva essere a un
tempo simbolo e focolare di unità, quegli uomini si ritrovarono più dispersi di
prima, confusi nel linguaggio, divisi tra loro, incapaci di consenso e di
convergenza.
Perché fallì l'ambizioso progetto? Perché
«si affaticarono invano i costruttori»? Perché gli uomini avevano posto quale
segno e garanzia dell'auspicata unità soltanto un'opera delle loro mani,
dimentichi dell'azione del Signore. Essi avevano puntato sulla sola dimensione
orizzontale del lavoro e della vita sociale, noncuranti di quella verticale,
per la quale si sarebbero trovati radicati in Dio, loro Creatore e Signore, e
protesi verso di lui come fine ultimo del loro cammino.
Ora si può dire che il dramma dell'uomo
d'oggi, come dell'uomo di tutti i tempi, consista proprio nel suo carattere
babelico.
I.
IL
MISTERO DEL PECCATO
14. Se leggiamo la pagina biblica della
città e della torre di Babele alla luce della novità evangelica, e la
confrontiamo con l'altra pagina della caduta dei progenitori, possiamo
ricavarne preziosi elementi per una presa di coscienza del mistero del peccato.
Questa espressione, nella quale echeggia ciò che san Paolo scrive circa il
mistero dell'iniquità, tende a farci percepire quel che di oscuro e di
inafferrabile si cela nel peccato. Questo, senza dubbio, è opera della libertà
dell'uomo; ma dentro il suo stesso spessore umano agiscono fattori, per i quali
esso si situa al di là dell'umano, nella zona di confine dove la coscienza, la
volontà e la sensibilità dell'uomo sono in contatto con le forze oscure che,
secondo san Paolo, agiscono nel mondo fin quasi a signoreggiarlo.
La disobbedienza a Dio
Dalla narrazione biblica relativa alla
costruzione della torre di Babele emerge un primo elemento, che ci aiuta a
capire il peccato: gli uomini hanno preteso di edificare una città, riunirsi in
una compagine sociale, esser forti e potenti senza Dio, se non proprio contro
Dio. In questo senso, il racconto del primo peccato nell'Eden e il racconto di
Babele, malgrado notevoli differenze di contenuto e di forma tra loro, hanno un
punto di convergenza: in ambedue ci si trova di fronte a un'esclusione di Dio
per l'opposizione frontale a un suo comandamento, per un gesto di rivalità nei
suoi confronti, per l'ingannevole pretesa di essere «come lui» (Gen 3,5). Nel
racconto di Babele l'esclusione di Dio non appare tanto in chiave di contrasto
con lui, ma come dimenticanza e indifferenza di fronte a lui, quasi che Dio non
meriti alcun interesse nell'ambito del disegno operativo e associativo
dell'uomo. Ma in ambedue i casi viene troncato con violenza il rapporto con
Dio. Nel caso dell'Eden appare in tutta la sua gravità e drammaticità ciò che
costituisce l'essenza più intima e più oscura del peccato: la disobbedienza a
Dio, alla sua legge, alla norma morale che egli ha dato all'uomo,
scrivendogliela nel cuore e confermandola e perfezionandola con la rivelazione.
Esclusione di Dio, rottura con Dio,
disobbedienza a Dio: lungo tutta la storia umana questo è stato ed è, sotto
forme diverse, il peccato, che può giungere fino alla negazione di Dio e della
sua esistenza: è il fenomeno chiamato ateismo. Disobbedienza dell'uomo, che -
con un atto della sua libertà - non riconosce la signoria di Dio sulla sua
vita, almeno in quel determinato momento in cui viola la sua legge.
La divisione tra i fratelli
15. Nelle narrazioni bibliche sopra
ricordate la rottura con Dio sfocia drammaticamente nella divisione tra i
fratelli. Nella descrizione del «primo peccato», la rottura con Jahvè spezza al
tempo stesso il filo dell'amicizia che univa la famiglia umana, cosicché le
pagine successive della Genesi ci mostrano l'uomo e la donna, che puntano quasi
il dito accusatore l'uno contro l'altra; poi il fratello che, ostile al
fratello, finisce col togliergli la vita. Secondo la narrazione dei fatti di
Babele, la conseguenza del peccato è la frantumazione della famiglia umana, già
cominciata col primo peccato e ora giunta all'estremo nella sua forma sociale.
Chi vuole indagare il mistero del peccato
non può non considerare questa concatenazione di causa e di effetto. Come
rottura con Dio, il peccato è l'atto di disobbedienza di una creatura che,
almeno implicitamente, rifiuta colui dal quale è uscita e che la mantiene in
vita; è, dunque, un atto suicida. Poiché col peccato l'uomo rifiuta di
sottomettersi a Dio, anche il suo equilibrio interiore si rompe e proprio al
suo interno scoppiano contraddizioni e conflitti. Così lacerato, l'uomo produce
quasi inevitabilmente una lacerazione nel tessuto dei suoi rapporti con gli
altri uomini e col mondo creato. E' una legge e un fatto oggettivo, che hanno
riscontro in tanti momenti della psicologia umana e della vita spirituale, come
pure nella realtà della vita sociale, dov'è facile osservare le ripercussioni e
i segni del disordine interiore.
Il mistero del peccato si compone di questa
doppia ferita, che il peccatore apre nel suo proprio fianco e nel rapporto col
prossimo. Perciò, si può parlare di peccato personale e sociale: ogni peccato è
personale sotto un aspetto; sotto un altro aspetto, ogni peccato è sociale, in
quanto e perché ha anche conseguenze sociali.
Peccato personale e peccato sociale
16. Il peccato, in senso vero e proprio, è
sempre un atto della persona, perché è un atto di libertà di un singolo uomo, e
non propriamente di un gruppo o di una comunità. Quest'uomo può essere
condizionato, premuto, spinto da non pochi né lievi fattori esterni, come anche
può essere soggetto a tendenze, tare, abitudini legate alla sua condizione
personale. In non pochi casi tali fattori esterni e interni possono attenuare,
in maggiore o minore misura, la sua libertà e, quindi, la sua responsabilità e
colpevolezza. Ma è una verità di fede, confermata anche dalla nostra esperienza
e ragione, che la persona umana è libera. Non si può ignorare questa verità,
per scaricare su realtà esterne - le strutture, i sistemi, gli altri - il
peccato dei singoli. Oltretutto, sarebbe questo un cancellare la dignità e la
libertà della persona, che si rivelano - sia pure negativamente e
disastrosamente - anche in tale responsabilità per il peccato commesso. Perciò,
in ogni uomo non c'è nulla di tanto personale e intrasferibile quanto il merito
della virtù o la responsabilità della colpa.
Atto della persona, il peccato ha le sue
prime e più importanti conseguenze nel peccatore stesso: cioè, nella relazione
di questi con Dio, che è il fondamento stesso della vita umana; nel suo
spirito, indebolendone la volontà e oscurandone l'intelligenza.
A questo punto dobbiamo chiederci a quale
realtà si riferivano coloro che, nella preparazione del Sinodo e nel corso dei
lavori sinodali, menzionarono con non poca frequenza il peccato sociale.
L'espressione e il concetto, che ad essa è sotteso, hanno invero diversi
significati.
Parlare di peccato sociale vuol dire,
anzitutto, riconoscere che, in virtù di una solidarietà umana tanto misteriosa
e impercettibile quanto reale e concreta, il peccato di ciascuno si ripercuote
in qualche modo sugli altri. E', questa, l'altra faccia di quella solidarietà
che, a livello religioso, si sviluppa nel profondo e magnifico mistero della
comunione dei santi, grazie alla quale si è potuto dire che «ogni anima che si
eleva, eleva il mondo». A questa legge dell'ascesa corrisponde, purtroppo, la
legge della discesa, sicché si può parlare di una comunione del peccato, per
cui un'anima che si abbassa per il peccato abbassa con sé la Chiesa e, in
qualche modo, il mondo intero. In altri termini, non c'è alcun peccato, anche
il più intimo e segreto, il più strettamente individuale, che riguardi
esclusivamente colui che lo commette. Ogni peccato si ripercuote, con maggiore
o minore veemenza, con maggiore o minore danno, su tutta la compagine
ecclesiale e sull'intera famiglia umana. Secondo questa prima accezione, a
ciascun peccato si può attribuire indiscutibilmente il carattere di peccato
sociale.
Alcuni peccati, però, costituiscono, per il
loro oggetto stesso, un'aggressione diretta al prossimo e - più esattamente, in
base al linguaggio evangelico - al fratello. Essi sono un'offesa a Dio, perché
offendono il prossimo. A tali peccati si suole dare la qualifica di sociali, e
questa è la seconda accezione del termine. In questo senso è sociale il peccato
contro l'amore del prossimo, tanto più grave nella legge di Cristo, perché è in
gioco il secondo comandamento, che è «simile al primo». E' egualmente sociale
ogni peccato commesso contro la giustizia nei rapporti sia da persona a
persona, sia dalla persona alla comunità, sia ancora dalla comunità alla
persona. E' sociale ogni peccato contro i diritti della persona umana, a
cominciare dal diritto alla vita, non esclusa quella del nascituro, o contro
l'integrità fisica di qualcuno; ogni peccato contro la libertà altrui,
specialmente contro la suprema libertà di credere in Dio e di adorarlo; ogni
peccato contro la dignità e l'onore del prossimo. Sociale è ogni peccato contro
il bene comune e contro le sue esigenze, in tutta l'ampia sfera dei diritti e
dei doveri dei cittadini. Sociale può essere il peccato di commissione o di
omissione da parte di dirigenti politici, economici, sindacali, che, pur
potendolo, non s'impegnano con saggezza nel miglioramento o nella
trasformazione della società secondo le esigenze e le possibilità del momento
storico; come pure da parte di lavoratori, che vengono meno ai loro doveri di
presenza e di collaborazione, perché le aziende possano continuare a procurare
il benessere a loro stessi, alle loro famiglie, all'intera società.
La terza accezione di peccato sociale
riguarda i rapporti tra le varie comunità umane. Questi rapporti non sempre
sono in sintonia col disegno di Dio, che vuole nel mondo giustizia, libertà e
pace tra gli individui, i gruppi, i popoli. Così la lotta di classe, chiunque
ne sia il responsabile e, a volte, il codificatore, è un male sociale. Così la
contrapposizione ostinata dei blocchi di nazioni e di una nazione contro
l'altra, dei gruppi contro altri gruppi in seno alla stessa nazione, è pure un
male sociale. In ambedue i casi, ci si può chiedere se si possa attribuire a
qualcuno la responsabilità morale di tali mali e, quindi, il peccato. Ora si
deve ammettere che realtà e situazioni, come quelle indicate, nel loro
generalizzarsi e persino ingigantirsi come fatti sociali, diventano quasi
sempre anonime, come complesse e non sempre identificabili sono le loro cause.
Perciò, se si parla di peccato sociale, qui l'espressione ha un significato
evidentemente analogico. In ogni caso, il parlare di peccati sociali, sia pure
in senso analogico, non deve indurre nessuno a sottovalutare la responsabilità
dei singoli, ma vuol essere un richiamo alle coscienze di tutti, perché
ciascuno si assuma le proprie responsabilità, per cambiare seriamente e
coraggiosamente quelle nefaste realtà e quelle intollerabili situazioni.
Ciò premesso nel modo più chiaro e
inequivocabile, bisogna subito aggiungere che non è legittima e accettabile
un'accezione del peccato sociale, pur molto ricorrente ai nostri giorni in
alcuni ambienti, la quale nell'opporre, non senza ambiguità, peccato sociale a
peccato personale, più o meno inconsapevolmente conduca a stemperare e quasi a
cancellare il personale, per ammettere solo colpe e responsabilità sociali.
Secondo tale accezione, che rivela facilmente la sua derivazione da ideologie e
sistemi non cristiani - forse accantonati oggi da coloro stessi che ne erano
già i sostenitori ufficiali - praticamente ogni peccato sarebbe sociale, nel senso
di essere imputabile non tanto alla coscienza morale di una persona, quanto ad
una vaga entità e collettività anonima, che potrebbe essere la situazione, il
sistema, la società, le strutture, l'istituzione.
Orbene la Chiesa, quando parla di situazioni
di peccato o denuncia come peccati sociali certe situazioni o certi
comportamenti collettivi di gruppi sociali più o meno vasti, o addirittura di
intere nazioni e blocchi di nazioni, sa e proclama che tali casi di peccato
sociale sono il frutto, l'accumulazione e la concentrazione di molti peccati
personali. Si tratta dei personalissimi peccati di chi genera o favorisce
l'iniquità o la sfrutta; di chi, potendo fare qualcosa per evitare, o
eliminare, o almeno limitare certi mali sociali, omette di farlo per pigrizia,
per paura e omertà, per mascherata complicità o per indifferenza; di chi cerca
rifugio nella presunta impossibilità di cambiare il mondo; e anche di chi
pretende estraniarsi dalla fatica e dal sacrificio, accampando speciose ragioni
di ordine superiore. Le vere responsabilità, dunque, sono delle persone.
Una situazione - e così un'istituzione, una
struttura, una società - non è, di per sé, soggetto di atti morali; perciò, non
può essere, in se stessa, buona o cattiva. Al fondo di ogni situazione di
peccato si trovano sempre persone peccatrici. Ciò è tanto vero che, se tale
situazione può essere cambiata nei suoi aspetti strutturali e istituzionali per
la forza della legge o - come più spesso avviene, purtroppo - per la legge
della forza, in realtà il cambiamento si rivela incompleto, di poca durata e,
in definitiva, vano e inefficace - per non dire controproducente -, se non si
convertono le persone direttamente o indirettamente responsabili di tale
situazione.
Mortale, veniale
17. Ma ecco, nel mistero del peccato, una
nuova dimensione, sulla quale l'intelligenza dell'uomo non ha mai cessato di
meditare: quella della sua gravità. E' una questione inevitabile, alla quale la
coscienza cristiana non ha mai rinunciato a dare una risposta: perché e in quale
misura il peccato è grave nell'offesa che fa a Dio e nella sua ripercussione
sull'uomo? La Chiesa ha una sua dottrina in proposito e la riafferma nei suoi
elementi essenziali, pur sapendo che non sempre è facile, nella concretezza
delle situazioni, operare nette delimitazioni di confini.
Già nell'Antico Testamento, per non pochi
peccati - quelli commessi con deliberazione, le varie forme di impudicizia, di
idolatria, di culto dei falsi dèi - si dichiarava che il reo doveva essere
«eliminato dal suo popolo», ciò che poteva anche significare condannato a
morte. Ad essi si contrapponevano altri peccati, soprattutto quelli commessi
per ignoranza, che venivano perdonati mediante un sacrificio.
Anche in riferimento a quei testi la Chiesa,
da secoli, costantemente parla di peccato mortale e di peccato veniale. Ma
questa distinzione e questi termini ricevono luce soprattutto dal Nuovo
Testamento, nel quale si trovano molti testi che enumerano e riprovano con
forti espressioni i peccati particolarmente meritevoli di condanna, oltre alla
conferma del Decalogo fatta da Gesù stesso. Voglio qui riferirmi specialmente a
due pagine significative e impressionanti.
In un testo della sua prima lettera, san
Giovanni parla di un peccato che conduce alla morte («pròs thánaton») in
contrapposizione a un peccato che non conduce alla morte («mè pròs thánaton»).
Ovviamente, qui il concetto di morte è spirituale: si tratta della perdita
della vera vita o «vita eterna», che per Giovanni è la conoscenza del Padre e
del Figlio, la comunione e l'intimità con loro. Il peccato che conduce alla
morte sembra essere in quel brano la negazione del Figlio, o il culto di false
divinità. Comunque, con tale distinzione di concetti Giovanni sembra voler
accentuare l'incalcolabile gravità di ciò che è l'essenza del peccato, il
rifiuto di Dio, che si attua soprattutto nell'apostasia e nell'idolatria, cioè
nel ripudiare la fede nella verità rivelata e nell'equiparare a Dio certe
realtà create, erigendole a idoli o falsi dèi. Ma l'apostolo in quella pagina
intende anche mettere in luce la certezza che viene al cristiano dal fatto di
essere «nato da Dio» per la venuta del Figlio: c'è in lui una forza che lo
preserva dalla caduta nel peccato; Dio lo custodisce, «il maligno non lo
tocca». Che se pecca per debolezza o per ignoranza, c'è in lui la speranza
della remissione, anche per il sostegno che gli proviene dalla preghiera
congiunta dei fratelli.
In un'altra pagina del Nuovo Testamento, nel
Vangelo di Matteo (Mt 12,31s), Gesù stesso parla di una «bestemmia contro lo
Spirito Santo», la quale è «irremissibile», poiché essa è nelle sue
manifestazioni un ostinato rifiuto di conversione all'amore del Padre delle
misericordie.
Si tratta, beninteso, di espressioni estreme
e radicali: rifiuto di Dio, rifiuto della sua grazia e, quindi, opposizione al
principio stesso della salvezza, per cui l'uomo sembra volontariamente
precludersi la via della remissione. E' da sperare che ben pochi vogliano
ostinarsi fino alla fine in questo atteggiamento di ribellione o addirittura di
sfida contro Dio, il quale, d'altra parte, nel suo amore misericordioso è più
grande del nostro cuore - come ci insegna ancora san Giovanni - e può vincere
tutte le nostre resistenze psicologiche e spirituali, sicché - come scrive san
Tommaso d'Aquino - «non c'è da disperare della salvezza di nessuno in questa
vita, considerata l'onnipotenza e la misericordia di Dio».
Ma dinanzi al problema dell'incontro di una
volontà ribelle col Dio infinitamente giusto non si può non nutrire sentimenti
di salutare «timore e tremore», come suggerisce san Paolo; mentre l'ammonimento
di Gesù circa il peccato che non è «remissibile» conferma l'esistenza di colpe,
che possono attirare sul peccatore, come pena, la «morte eterna».
Alla luce di questi e altri testi della Sacra
Scrittura, i dottori e i teologi, i maestri spirituali e i pastori hanno
distinto i peccati in mortali e veniali. Sant'Agostino, fra gli altri, parla di
«letalia» o «mortifera crimina», opponendoli a «venialia», «levia» o
«quotidiana». Il significato che egli attribuisce a questi qualificativi
influirà nel magistero successivo della Chiesa. Dopo di lui, sarà san Tommaso
d'Aquino a formulare nei termini più chiari possibili la dottrina divenuta
costante nella Chiesa.
Nel definire e distinguere i peccati mortali
e veniali, non poteva essere estraneo a san Tommaso e alla teologia del
peccato, che si rifà a lui, il riferimento biblico e, quindi, il concetto di
morte spirituale. Secondo il Dottore Angelico, per vivere spiritualmente l'uomo
deve rimanere in comunione col supremo principio della vita, che è Dio, in
quanto è il fine ultimo di tutto il suo essere e il suo agire. Ora il peccato è
un disordine perpetrato dall'uomo contro questo principio vitale. E quando,
«per mezzo del peccato, l'anima commette un disordine che va fino alla
separazione dal fine ultimo - Dio -, al quale essa è legata per la carità,
allora si ha il peccato mortale; invece, ogni volta che il disordine rimane al
di qua della separazione da Dio, allora il peccato è veniale». Per questa ragione,
il peccato veniale non priva della grazia santificante, dell'amicizia con Dio,
della carità, né quindi della beatitudine eterna, mentre siffatta privazione è
appunto conseguenza del peccato mortale.
Considerando, inoltre, il peccato sotto
l'aspetto della pena che include, san Tommaso con altri dottori chiama mortale
il peccato che, se non rimesso, fa contrarre una pena eterna; veniale il
peccato che merita una semplice pena temporale (cioè parziale ed espiabile in
terra o nel purgatorio).
Se poi si guarda alla materia del peccato,
allora le idee di morte, di rottura radicale con Dio, sommo bene, di deviazione
dalla strada che porta a Dio o di interruzione del cammino verso di lui (tutti
modi di definire il peccato mortale) si congiungono con l'idea di gravità del
contenuto oggettivo: perciò, il peccato grave si identifica praticamente, nella
dottrina e nell'azione pastorale della Chiesa, col peccato mortale.
Cogliamo qui il nucleo dell'insegnamento
tradizionale della Chiesa, ribadito spesso e con vigore nel corso del recente
Sinodo. Questo, infatti, non soltanto ha riaffermato quanto è stato proclamato
dal Concilio Tridentino sull'esistenza e la natura dei peccati mortali e
veniali, ma ha voluto ricordare che è peccato mortale quello che ha per oggetto
una materia grave e che, inoltre, viene commesso con piena consapevolezza e
deliberato consenso. E' doveroso aggiungere - come è stato anche fatto nel
Sinodo - che alcuni peccati, quanto alla loro materia, sono intrinsecamente
gravi e mortali. Esistono, cioè, atti che, per se stessi e in se stessi,
indipendentemente dalle circostanze, sono sempre gravemente illeciti, in
ragione del loro oggetto. Questi atti, se compiuti con sufficiente
consapevolezza e libertà, sono sempre colpa grave.
Questa dottrina fondata sul Decalogo e sulla
predicazione dell'Antico Testamento, ripresa nel kerigma degli apostoli e
appartenente al più antico insegnamento della Chiesa, che la ripete fino ad
oggi, ha un preciso riscontro nell'esperienza umana di tutti i tempi. L'uomo sa
bene, per esperienza, che nel cammino di fede e di giustizia che lo porta verso
la conoscenza e l'amore di Dio in questa vita e verso la perfetta unione con
lui nell'eternità, può sostare o distrarsi, senza però abbandonare la via di
Dio: in questo caso si ha il peccato veniale, il quale, tuttavia, non dovrà
essere attenuato quasi che sia automaticamente qualcosa di trascurabile o un
«peccato di poco conto».
Sennonché l'uomo sa pure, per dolorosa
esperienza, che con atto consapevole e libero della sua volontà può fare
un'inversione di marcia, camminare nel senso opposto al volere di Dio e così
allontanarsi da lui («aversio a Deo»), rifiutando la comunione di amore con
lui, staccandosi dal principio di vita che è lui, e scegliendo, dunque, la
morte.
Con tutta la tradizione della Chiesa noi
chiamiamo peccato mortale questo atto, per il quale un uomo, con libertà e
consapevolezza, rifiuta Dio, la sua legge, l'alleanza di amore che Dio gli
propone, preferendo volgersi a se stesso, a qualche realtà creata e finita, a
qualcosa di contrario al volere divino («conversio ad creaturam»). Il che può
avvenire in modo diretto e formale, come nei peccati di idolatria, di
apostasia, di ateismo; o in modo equivalente, come in tutte le disubbidienze ai
comandamenti di Dio in materia grave. L'uomo sente che questa disubbidienza a
Dio tronca il collegamento col suo principio vitale: è un peccato mortale, cioè
un atto che offende gravemente Dio e finisce col rivolgersi contro l'uomo
stesso con un'oscura e potente forza di distruzione.
Durante l'assemblea sinodale è stata
proposta da alcuni padri una distinzione tripartita fra i peccati, che
sarebbero da classificare come veniali, gravi e mortali. La tripartizione
potrebbe mettere in luce il fatto che fra i peccati gravi esiste una
gradazione. Ma resta sempre vero che la distinzione essenziale e decisiva è fra
peccato che distrugge la carità e peccato che non uccide la vita
soprannaturale: fra la vita e la morte non si dà via di mezzo.
Parimenti, si dovrà evitare di ridurre il
peccato mortale a un atto di «opzione fondamentale» - come oggi si suol dire -
contro Dio, intendendo con essa un esplicito e formale disprezzo di Dio o del
prossimo. Si ha, infatti, peccato mortale anche quando l'uomo, sapendo e
volendo, per qualsiasi ragione sceglie qualcosa di gravemente disordinato. In
effetti, in una tale scelta è già contenuto un disprezzo del precetto divino,
un rifiuto dell'amore di Dio verso l'umanità e tutta la creazione: l'uomo
allontana se stesso da Dio e perde la carità. L'orientamento fondamentale,
quindi, può essere radicalmente modificato da atti particolari. Senza dubbio si
possono dare situazioni molto complesse e oscure sotto l'aspetto psicologico,
che influiscono sulla imputabilità soggettiva del peccatore. Ma dalla considerazione
della sfera psicologica non si può passare alla costituzione di una categoria
teologica, qual è appunto l'«opzione fondamentale», intendendola in modo tale
che, sul piano oggettivo, cambi o metta in dubbio la concezione tradizionale di
peccato mortale.
Se è da apprezzare ogni tentativo sincero e
prudente di chiarire il mistero psicologico e teologico del peccato, la Chiesa
però ha il dovere di ricordare a tutti gli studiosi di questa materia la
necessità, da una parte, di essere fedeli alla parola di Dio che ci istruisce
anche sul peccato, e il rischio, dall'altra, che si corre di contribuire ad
attenuare ancora di più, nel mondo contemporaneo, il senso del peccato.
Perdita del senso del peccato
18. Dal Vangelo letto nella comunione
ecclesiale la coscienza cristiana ha acquisito, lungo il corso delle
generazioni, una fine sensibilità e un'acuta percezione dei fermenti di morte,
che sono contenuti nel peccato. Sensibilità e capacità di percezione anche per
individuare tali fermenti nelle mille forme assunte dal peccato, nei mille
volti sotto i quali esso si presenta. E' ciò che si suol chiamare il senso del
peccato.
Questo senso ha la sua radice nella
coscienza morale dell'uomo e ne è come il termometro. E' legato al senso di
Dio, giacché deriva dal rapporto consapevole che l'uomo ha con Dio come suo
creatore, Signore e Padre. Perciò, come non si può cancellare completamente il
senso di Dio né spegnere la coscienza, così non si cancella mai completamente
il senso del peccato.
Eppure, non di rado nella storia, per
periodi di tempo più o meno lunghi e sotto l'influsso di molteplici fattori,
succede che viene gravemente oscurata la coscienza morale in molti uomini.
«Abbiamo noi un'idea giusta della coscienza»? - domandavo due anni fa in un
colloquio con i fedeli -. «Non vive l'uomo contemporaneo sotto la minaccia di
un'eclissi della coscienza? di una deformazione della coscienza? di un
intorpidimento o di un'"anestesia" delle coscienze?». Troppi segni
indicano che nel nostro tempo esiste una tale eclissi, che è tanto più
inquietante, in quanto questa coscienza, definita dal Concilio «il nucleo più
segreto e il sacrario dell'uomo» («Gaudium et Spes», 16), è «strettamente
legata alla libertà dell'uomo (...). Per questo la coscienza in misura
principale sta alla base della dignità interiore dell'uomo e, nello stesso
tempo, del suo rapporto con Dio». E' inevitabile, pertanto, che in questa
situazione venga obnubilato anche il senso di Dio, il quale è strettamente
connesso con la coscienza morale, con la ricerca della verità, con la volontà
di fare un uso responsabile della libertà. Insieme con la coscienza viene
oscurato anche il senso di Dio, e allora, smarrito questo decisivo punto di
riferimento interiore, si perde il senso del peccato. Ecco perché il mio predecessore
Pio XII, con una parola diventata quasi proverbiale, poté dichiarare un giorno
che «il peccato del secolo è la perdita del senso del peccato».
Perché questo fenomeno nel nostro tempo? Uno
sguardo a talune componenti della cultura contemporanea può aiutarci a capire
il progressivo attenuarsi del senso del peccato, proprio a causa della crisi
della coscienza e del senso di Dio, sopra rilevata.
Il «secolarismo», il quale, per la sua
stessa natura e definizione, è un movimento di idee e di costumi che propugna
un umanesimo che astrae totalmente da Dio, tutto concentrato nel culto del fare
e del produrre e travolto nell'ebbrezza del consumo e del piacere, senza
preoccupazione per il pericolo di «perdere la propria anima», non può non
minare il senso del peccato. Quest'ultimo si ridurrà tutt'al più a ciò che
offende l'uomo. Ma proprio qui si impone l'amara esperienza, a cui già
accennavo nella mia prima enciclica, che cioè l'uomo può costruire un mondo
senza Dio, ma questo mondo finirà per ritorcersi contro l'uomo. In realtà, Dio
è la radice e il fine supremo dell'uomo, e questi porta in sé un germe divino.
Perciò, è la realtà di Dio che svela e illumina il mistero dell'uomo. E' vano,
quindi, sperare che prenda consistenza un senso del peccato nei confronti
dell'uomo e dei valori umani, se manca il senso dell'offesa commessa contro
Dio, cioè il senso vero del peccato.
Svanisce questo senso del peccato nella
società contemporanea anche per gli equivoci in cui si cade nell'apprendere
certi risultati delle scienze umane. Così in base a talune affermazioni della
psicologia, la preoccupazione di non colpevolizzare o di non porre freni alla
libertà, porta a non riconoscere mai una mancanza. Per un'indebita
estrapolazione dei criteri della scienza sociologica si finisce - come ho già
accennato - con lo scaricare sulla società tutte le colpe, di cui l'individuo
vien dichiarato innocente. Anche una certa antropologia culturale, a sua volta
a forza di ingrandire i pur innegabili condizionamenti e influssi ambientali e
storici che agiscono sull'uomo, ne limita tanto la responsabilità da non
riconoscergli la capacità di compiere veri atti umani e, quindi, la possibilità
di peccare.
Scade facilmente il senso del peccato anche
in dipendenza di un'etica derivante da un certo relativismo storicistico. Essa
può essere l'etica che relativizza la norma morale, negando il suo valore
assoluto e incondizionato, e negando, di conseguenza, che possano esistere atti
intrisecamente illeciti, indipendentemente dalle circostanze in cui sono posti
dal soggetto. Si tratta di un vero «rovesciamento e di una caduta di valori
morali», e «il problema non è tanto di ignoranza dell'etica cristiana», ma
«piuttosto è quello del senso, dei fondamenti e dei criteri dell'atteggiamento
morale». L'effetto di questo rovesciamento etico è sempre anche quello di
attutire a tal punto la nozione di peccato, che si finisce quasi con
l'affermare che il peccato c'è, ma non si sa chi lo commette.
Svanisce, infine, il senso del peccato
quando - come può avvenire nell'insegnamento ai giovani, nelle comunicazioni di
massa, nella stessa educazione familiare - esso viene erroneamente identificato
col sentimento morboso della colpa o con la semplice trasgressione di norme e
precetti legali.
La perdita del senso del peccato, dunque, è
una forma o un frutto della negazione di Dio: non solo di quella ateistica, ma
anche di quella secolaristica. Se il peccato è l'interruzione del rapporto
filiale con Dio per portare la propria esistenza fuori dell'obbedienza a lui,
allora peccare non è soltanto negare Dio; peccare è anche vivere come se egli
non esistesse, è cancellarlo dal proprio quotidiano. Un modello di società
mutilato o squilibrato nell'uno o nell'altro senso, quale è spesso sostenuto
dai mezzi di comunicazione, favorisce non poco la progressiva perdita del senso
del peccato. In tale situazione l'offuscamento o affievolimento del senso del
peccato risulta sia dal rifiuto di ogni riferimento al trascendente in nome
dell'aspirazione all'autonomia personale; sia dall'assoggettarsi a modelli
etici imposti dal consenso e costume generale, anche se condannati dalla
coscienza individuale; sia dalle drammatiche condizioni socio-economiche che
opprimono tanta parte dell'umanità, generando la tendenza a vedere errori e
colpe soltanto nell'ambito del sociale; sia, infine e soprattutto,
dall'oscuramento dell'idea della paternità di Dio e del suo dominio sulla vita
dell'uomo.
Persino nel campo del pensiero e della vita
ecclesiale alcune tendenze favoriscono inevitabilmente il declino del senso del
peccato. Alcuni, ad esempio, tendono a sostituire esagerati atteggiamenti del
passato con altre esagerazioni: essi passano dal vedere il peccato dappertutto
al non scorgerlo da nessuna parte; dall'accentuare troppo il timore delle pene
eterne al predicare un amore di Dio, che escluderebbe ogni pena meritata dal
peccato; dalla severità nello sforzo per correggere le coscienze erronee a un
presunto rispetto della coscienza, tale da sopprimere il dovere di dire la
verità. E perché non aggiungere che la confusione, creata nella coscienza di
numerosi fedeli dalle divergenze di opinioni e di insegnamenti nella teologia,
nella predicazione, nella catechesi, nella direzione spirituale, circa
questioni gravi e delicate della morale cristiana, finisce per far diminuire,
fin quasi a cancellarlo, il vero senso del peccato? Né vanno taciuti alcuni
difetti nella prassi della penitenza sacramentale: tale è la tendenza a
offuscare il significato ecclesiale del peccato e della conversione,
riducendoli a fatti meramente individuali, o viceversa, ad annullare la valenza
personale del bene e del male per considerarne esclusivamente la dimensione
comunitaria; tale è anche il pericolo, non mai totalmente scongiurato, del
ritualismo abitudinario che toglie al sacramento il suo pieno significato e la
sua efficacia formativa.
Ristabilire il giusto senso del peccato è la
prima forma per affrontare la grave crisi spirituale incombente sull'uomo del
nostro tempo. Ma il senso del peccato si ristabilisce soltanto con un chiaro richiamo
agli inderogabili principi di ragione e di fede, che la dottrina morale della
Chiesa ha sempre sostenuto.
E' lecito sperare che soprattutto nel mondo
cristiano ed ecclesiale riaffiori un salutare senso del peccato. A ciò
serviranno una buona catechesi, illuminata dalla teologia biblica
dell'alleanza, un attento ascolto e una fiduciosa accoglienza del magistero
della Chiesa, che non cessa di offrire luce alle coscienze, e una prassi sempre
più accurata del sacramento della penitenza.
II.
«MYSTERIUM PIETATIS»
19. Per conoscere il peccato era necessario
fissare lo sguardo sulla sua natura, quale ci è fatta conoscere dalla
rivelazione dell'economia della salvezza; esso è «mysterium iniquitatis». Ma in
questa economia il peccato non è protagonista né, tantomeno, vincitore. Esso
contrasta come antagonista con un altro principio operante, che - usando una
bella e suggestiva espressione di san Paolo - possiamo chiamare il «mysterium»,
o «sacramentum pietatis». Il peccato dell'uomo sarebbe vincente e alla fine
distruttivo, il disegno salvifico di Dio rimarrebbe incompiuto o, addirittura,
sconfitto, se questo «mysterium pietatis» non si fosse inserito nel dinamismo
della storia per vincere il peccato dell'uomo.
Troviamo questa espressione in una delle
lettere pastorali di san Paolo, la prima a Timoteo. Essa balza improvvisa quasi
per un'ispirazione irrompente. L'apostolo, infatti, in antecedenza ha
consacrato lunghi paragrafi del suo messaggio al discepolo prediletto per
spiegare il significato dell'ordinamento della comunità (quello liturgico e,
legato ad esso, quello gerarchico), ha quindi parlato del ruolo dei capi della
comunità, per riferirsi infine al comportamento dello stesso Timoteo nella
«chiesa del Dio vivente, colonna e sostegno della verità». Quindi, alla fine
del brano, egli evoca quasi «ex abrupto», ma con un intento profondo, ciò che
dà significato a tutto quello che ha scritto: «E' senza dubbio grande il
mistero della pietà...» (1Tm 3,15s).
Senza tradire minimamente il senso letterale
del testo, noi possiamo allargare questa magnifica intuizione teologica
dell'apostolo a una più completa visione del ruolo che la verità da lui
annunciata ha nell'economia della salvezza. «E' grande davvero - ripetiamo con
lui - il mistero della pietà», perché vince il peccato.
Ma che cos'è nella concezione paolina questa
«pietà»?
E' il Cristo stesso
20. E' profondamente significativo che, per
presentare questo «mysterium pietatis», Paolo trascriva semplicemente, senza
stabilire un legame grammaticale col testo precedente, tre righe di un inno
cristologico, che - secondo la sentenza di autorevoli studiosi - era usato
nelle comunità ellenico-cristiane. Con le parole di quell'inno, dense di
contenuto teologico e ricche di nobile bellezza, quei credenti del primo secolo
professavano la loro fede circa il mistero del Cristo, per il quale egli si è
manifestato nella realtà della carne umana e dallo Spirito Santo è stato
costituito quale giusto, che si offre per gli ingiusti; egli è apparso agli
angeli, fatto più grande di essi, ed è stato predicato alle genti, portatore di
salvezza; egli è stato creduto nel mondo, quale inviato del Padre, e dallo
stesso Padre assunto in cielo, quale Signore.
Il mistero o sacramento della pietà,
pertanto, è il mistero stesso del Cristo. Esso è, in una sintesi pregnante, il
mistero dell'incarnazione e della redenzione, della piena pasqua di Gesù,
Figlio di Dio e Figlio di Maria: mistero della sua passione e morte, della sua
risurrezione e glorificazione. Ciò che san Paolo, riprendendo le frasi dell'inno,
ha voluto ribadire è che questo mistero è il segreto principio vitale che fa
della Chiesa la casa di Dio, la colonna e il sostegno della verità. Nel solco
dell'insegnamento paolino, noi possiamo affermare che questo medesimo mistero
dell'infinita pietà di Dio verso di noi è capace di penetrare fino alle
nascoste radici della nostra iniquità, per suscitare nell'anima un movimento di
conversione, per redimerla e scioglierne le vele verso la riconciliazione.
Riferendosi senza dubbio a questo mistero,
anche san Giovanni, pur col suo caratteristico linguaggio, che è diverso da
quello di san Paolo, poteva scrivere che «chiunque è nato da Dio, non pecca»:
il Figlio di Dio lo salva e «il maligno non lo tocca» (1Gv 5,18s). In questa
affermazione giovannea c'è un'indicazione di speranza, fondata sulle promesse
divine: il cristiano ha ricevuto la garanzia e le forze necessarie per non
peccare. Non si tratta, dunque, di un'impeccabilità acquisita per virtù propria
o, addirittura, insita nell'uomo, come pensavano gli gnostici. E' un risultato
dell'azione di Dio. Per non peccare il cristiano dispone della conoscenza di
Dio, ricorda san Giovanni in questo stesso passo. Ma poco prima egli aveva
scritto: «Chiunque è nato da Dio, non commette peccato, perché un seme divino
dimora in lui» (1Gv 3,9). Se per questo «seme di Dio» intendiamo - come
propongono alcuni commentatori - Gesù, il Figlio di Dio, allora possiamo dire
che per non peccare - o per liberarsi dal peccato - il cristiano dispone della
presenza in sé dello stesso Cristo e del mistero di Cristo, che è mistero di
pietà.
Lo sforzo del cristiano
21. Ma c'è nel «mysterium pietatis» un altro
versante: la pietà di Dio verso il cristiano deve aver corrispondenza nella pietà
del cristiano verso Dio. In questa seconda accezione, la pietà («eusébeia»)
significa appunto il comportamento del cristiano, che alla pietà paterna di Dio
risponde con la sua pietà filiale.
Anche in questo senso possiamo affermare con
san Paolo che «è grande il mistero della pietà». Anche in questo senso la
pietà, quale forza di conversione e di riconciliazione, affronta l'iniquità e
il peccato. Anche in questo caso gli aspetti essenziali del mistero del Cristo
sono oggetto della pietà nel senso che il cristiano accoglie il mistero, lo
contempla, ne trae la forza spirituale necessaria per condurre la vita secondo
il Vangelo. Anche qui si deve dire che «chi è nato da Dio, non commette
peccato»; ma l'espressione ha un senso imperativo: sostenuto dal mistero del
Cristo, come da un'interiore sorgente di energia spirituale, il cristiano è
diffidato dal peccare e, anzi, riceve il comandamento di non peccare, ma di
comportarsi degnamente «nella casa di Dio, che è la chiesa del Dio vivente»
(1Tm 3,15), essendo un figlio di Dio.
Verso una vita riconciliata
22. Così la parola della Scrittura, nel
rivelarci il mistero della pietà, apre l'intelligenza umana alla conversione e
alla riconciliazione, intese non come alte astrazioni, ma come valori cristiani
concreti da conquistare nella nostra quotidianità. Insidiati dalla perdita del
senso del peccato, talora tentati da qualche illusione ben poco cristiana di
impeccabilità, anche gli uomini d'oggi hanno bisogno di riascoltare, come
diretto a ciascuno personalmente, l'ammonimento di san Giovanni: «Se diciamo di
essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi» (1Gv
1,8), e anzi «tutto il mondo giace sotto il potere del maligno» (1Gv 5,19).
Ciascuno, dunque, è invitato dalla voce della verità divina a leggere
realisticamente nella sua coscienza e a confessare che è stato generato
nell'iniquità, come diciamo nel salmo Miserere.
Tuttavia, minacciati dalla paura e dalla
disperazione, gli uomini d'oggi possono sentirsi sollevati dalla divina
promessa, che li apre alla speranza della piena riconciliazione.
Il mistero della pietà, da parte di Dio, è
quella misericordia di cui il Signore e Padre nostro - lo ripeto ancora - è
infinitamente ricco. Come ho detto nell'enciclica dedicata al tema della divina
misericordia, essa è un amore più potente del peccato, più forte della morte.
Quando ci accorgiamo che l'amore che Dio ha per noi non si arresta di fronte al
nostro peccato, non indietreggia dinanzi alle nostre offese, ma si fa ancora
più premuroso e generoso; quando ci rendiamo conto che questo amore è giunto
fino a causare la passione e la morte del Verbo fatto carne, il quale ha
accettato di redimerci pagando col suo sangue, allora prorompiamo nel
riconoscimento: «Sì, il Signore è ricco di misericordia», e diciamo perfino:
«Il Signore è misericordia». Il mistero della pietà è la via aperta dalla
divina misericordia alla vita riconciliata.
TERZA PARTE
LA PASTORALE DELLA PENITENZA E DELLA RICONCILIAZIONE
Promozione della penitenza e della
riconciliazione
23. Suscitare nel cuore dell'uomo la
conversione e la penitenza e offrirgli il dono della riconciliazione è la
connaturale missione della Chiesa, come continuatrice dell'opera redentrice del
suo fondatore divino. E', questa, una missione che non si esaurisce in alcune
affermazioni teoriche e nella proposta di un ideale etico non accompagnata da
energie operative, ma tende ad esprimersi in precise funzioni ministeriali in
ordine a una pratica concreta della penitenza e della riconciliazione.
A questo ministero, fondato e illuminato dai
principi di fede sopra illustrati, orientato verso obiettivi precisi e
sostenuto da mezzi adeguati, possiamo dare il nome di pastorale della penitenza
e della riconciliazione. Suo punto di partenza è la convinzione della Chiesa
che l'uomo, al quale si rivolge ogni forma di pastorale, ma principalmente la
pastorale della penitenza e della riconciliazione, è l'uomo segnato dal
peccato, la cui immagine pregnante si può trovare nel re Davide. Rimproverato
dal profeta Natan, egli accetta di confrontarsi con le proprie nefandezze e
confessa: «Ho peccato contro il Signore» (2Sam 12,13), e proclama: «Riconosco
il mio delitto, il mio peccato mi sta sempre dinanzi» (Sal 51,5); ma prega
anche: «Purificami, Signore, e sarò mondo; lavami, e sarò più bianco della
neve» (Ps 9), ricevendo la risposta della divina misericordia: «Il Signore ha
perdonato il tuo peccato: non morirai» (2Sam 12,13).
La Chiesa si trova, dunque, di fronte
all'uomo - ad un intero mondo umano - vulnerato dal peccato e da esso toccato
in ciò che possiede di più intimo nella profondità del suo essere, ma al tempo
stesso mosso verso un incoercibile desiderio di liberazione dal peccato e,
specialmente se cristiano, consapevole che il mistero della pietà, Cristo
Signore, già opera in lui e nel mondo con la forza della redenzione.
La funzione riconciliatrice della Chiesa
deve così svolgersi secondo quell'intimo nesso, che raccorda strettamente il
perdono e la remissione del peccato di ciascun uomo alla fondamentale e piena
riconciliazione dell'umanità, avvenuta con la redenzione. Questo nesso ci fa
capire che, essendo il peccato il principio attivo della divisione - divisione
fra l'uomo e il Creatore, divisione nel cuore e nell'essere dell'uomo,
divisione fra gli uomini singoli e fra i gruppi umani, divisione fra l'uomo e
la natura creata da Dio -, soltanto la conversione dal peccato è capace di
operare una profonda e duratura riconciliazione dovunque sia penetrata la
divisione.
Non c'è bisogno di ripetere quanto ho già
detto circa l'importanza di questo «ministero della riconciliazione», e della
relativa pastorale che lo attua, nella coscienza e nella vita della Chiesa.
Questa fallirebbe in un aspetto essenziale del suo essere e mancherebbe a una
sua irrinunciabile funzione, se non pronunciasse con chiarezza e fermezza, a
tempo e fuori tempo, la «parola della riconciliazione» e non offrisse al mondo
il dono della riconciliazione. Ma conviene ripetere che tale importanza del
servizio ecclesiale di riconciliazione si estende, oltre i confini della
Chiesa, al mondo intero.
Parlare di pastorale della penitenza e della
riconciliazione, dunque, vuol dire riferirsi all'insieme dei compiti che
incombono alla Chiesa, a tutti i livelli, per la promozione di esse. Più
concretamente, parlare di questa pastorale vuol dire evocare tutte le attività,
mediante le quali la Chiesa, per il tramite di tutte e di ciascuna delle sue
componenti - pastori e fedeli, a tutti i livelli e in tutti gli ambiti - e con
tutti i mezzi a sua disposizione - parola e azione, insegnamento e preghiera -,
conduce gli uomini, singoli o in gruppo, alla vera penitenza e li introduce
così nel cammino della piena riconciliazione.
I padri del Sinodo, come rappresentanti dei
loro confratelli vescovi, guide del popolo loro affidato, si sono occupati di
questa pastorale nei suoi elementi più pratici e concreti. E io sono lieto di
far loro eco, associandomi alle loro inquietudini e speranze, accogliendo i
frutti delle loro ricerche ed esperienze, incoraggiandoli nei loro progetti e
realizzazioni. Possano essi ritrovare in questa parte dell'esortazione
apostolica l'apporto che hanno dato essi stessi al Sinodo, apporto la cui
utilità intendo allargare, mediante queste pagine, alla Chiesa intera.
Ritengo, pertanto, di mettere in luce
l'essenziale della pastorale della penitenza e della riconciliazione
rilevandone, con l'assemblea del Sinodo, i due punti seguenti: 1) i mezzi usati
e le vie seguite dalla Chiesa per promuovere la penitenza e la riconciliazione;
2) il sacramento per eccellenza della penitenza e della riconciliazione.
I.
MEZZI
E VIE PER LA PROMOZIONE DELLA PENITENZA E DELLA RICONCILIAZIONE
24. Per promuovere la penitenza e la
riconciliazione la Chiesa ha a disposizione principalmente due mezzi, che le
sono stati affidati dal suo stesso fondatore: la catechesi e i sacramenti. Il
loro impiego, sempre ritenuto dalla Chiesa come pienamente consono alle
esigenze della sua missione salvifica e rispondente, nello stesso tempo, alle
esigenze e ai bisogni spirituali degli uomini di tutti i tempi, può essere
fatto in forme e modi antichi e nuovi, tra i quali sarà bene ricordare
particolarmente quello che, seguendo il mio predecessore Paolo VI, possiamo
chiamare il metodo del dialogo.
Il dialogo
25. Il dialogo per la Chiesa è, in certo
senso, un mezzo e soprattutto un modo di svolgere la sua azione nel mondo
contemporaneo. Il Concilio Vaticano II, infatti, dopo aver proclamato che «la
Chiesa, in virtù della missione che ha di illuminare tutto il mondo col
messaggio evangelico e di radunare in un solo Spirito tutti gli uomini (...),
diventa segno di quella fraternità che permette e rafforza un sincero dialogo»,
aggiunge che essa deve essere capace di «stabilire un dialogo sempre più
fecondo fra tutti coloro che formano l'unico popolo di Dio» («Gaudium et Spes»,
92), come anche di «stabilire un dialogo con l'umana società» («Christus
Dominus», 13).
Il mio predecessore Paolo VI ha dedicato al
dialogo una parte notevole della sua prima enciclica «Ecclesiam suam», in cui
lo descrive e caratterizza significativamente quale dialogo della salvezza. La
Chiesa, infatti, usa il metodo del dialogo per meglio condurre gli uomini -
quelli che per il battesimo e la professione di fede si riconoscono membra
della comunità cristiana e quelli che le sono estranei - alla conversione e
alla penitenza, sulla via di un profondo rinnovamento della propria coscienza e
della propria vita, alla luce del mistero della redenzione e della salvezza,
operata da Cristo e affidata al ministero della sua Chiesa. L'autentico
dialogo, quindi, è rivolto innanzitutto alla rigenerazione di ciascuno mediante
la conversione interiore e la penitenza, sempre con profondo rispetto per le
coscienze e con la pazienza e la gradualità indispensabili nelle condizioni
degli uomini del nostro tempo.
Il dialogo pastorale in vista della
riconciliazione continua a essere oggi un impegno fondamentale della Chiesa in
diversi ambiti e a vari livelli. Essa promuove, anzitutto, un dialogo
ecumenico, cioè tra Chiese e comunità ecclesiali che si richiamano alla fede in
Cristo, Figlio di Dio e unico salvatore, e un dialogo con le altre comunità di
uomini che cercano Dio e vogliono avere un rapporto di comunione con lui.
Alla base di tale dialogo con le altre
Chiese e comunità ecclesiali e con le altre religioni, e quale condizione della
sua credibilità ed efficacia, deve esserci un sincero sforzo di permanente e
rinnovato dialogo all'interno della stessa Chiesa cattolica. Questa Chiesa è
consapevole di essere, per sua natura, sacramento della comunione universale di
carità; ma è, altresì, consapevole delle tensioni esistenti al suo interno, che
rischiano di diventare fattori di divisione.
L'invito accorato e fermo, già rivolto dal
mio predecessore in vista dell'anno santo 1975, vale anche per il momento
presente. Per ottenere il superamento dei conflitti e far sì che le normali
tensioni non risultino dannose all'unità della Chiesa, occorre che tutti ci
confrontiamo con la parola di Dio e, abbandonate le proprie vedute soggettive,
cerchiamo la verità laddove essa si trova, cioè nella stessa divina Parola e
nell'interpretazione autentica, che ne dà il magistero della Chiesa. A questa
luce l'ascolto reciproco, il rispetto e l'astensione da ogni giudizio
affrettato, la pazienza, la capacità di evitare che la fede, che unisce, sia
subordinata alle opinioni, alle mode, alle scelte ideologiche, che dividono,
sono tutte doti di un dialogo che all'interno della Chiesa deve essere assiduo,
volenteroso, sincero. E' chiaro che esso non sarebbe tale e non diventerebbe un
fattore di riconciliazione, senza l'attenzione al magistero e l'accettazione di
esso.
Così impegnata fattivamente nella ricerca
della propria comunione interna, la Chiesa cattolica può rivolgere l'appello
alla riconciliazione - come ha già fatto da tempo - alle altre Chiese, con le
quali non c'è piena comunione, nonché alle altre religioni e persino a chi
cerca Dio con cuore sincero.
Alla luce del Concilio e del magistero dei
miei predecessori, la cui preziosa eredità ho ricevuto e mi sforzo di
conservare e attuare, posso affermare che la Chiesa cattolica in tutte le sue
componenti si impegna con lealtà nel dialogo ecumenico, senza facili ottimismi,
ma anche senza sfiducia e senza esitazioni o ritardi. Le leggi fondamentali che
essa cerca di seguire in tale dialogo sono, da una parte, la persuasione che
soltanto un ecumenismo spirituale - cioè fondato nella preghiera comune e nella
comune docilità all'unico Signore - permette di rispondere sinceramente e
seriamente alle altre esigenze dell'azione ecumenica; dall'altra, la
convinzione che un certo facile irenismo in materia dottrinale e, soprattutto,
dogmatica potrebbe forse portare a una forma di convivenza superficiale e non
durevole, ma non a quella comunione profonda e stabile che tutti noi
auspichiamo. A questa comunione si giungerà nell'ora voluta dalla divina
provvidenza; ma per giungervi la Chiesa cattolica, per quanto la concerne, sa
di dover essere aperta e sensibile a tutti «i valori veramente cristiani,
promananti dal comune patrimonio, che si trovano presso i fratelli da noi
separati», ma di dover parimenti porre alla base di un dialogo leale e
costruttivo la chiarezza delle impostazioni, la fedeltà e la coerenza con la
fede trasmessa e definita nel solco della tradizione perenne del suo magistero.
Nonostante la minaccia, poi, di un certo disfattismo, e malgrado le inevitabili
lentezze che l'avventatezza non potrà mai correggere, la Chiesa cattolica
continua a cercare con tutti gli altri fratelli cristiani le vie dell'unità e
con i seguaci delle altre religioni un dialogo sincero. Possa questo dialogo
inter-religioso condurre al superamento di ogni atteggiamento di ostilità, di
diffidenza, di mutua condanna e persino di mutua invettiva, condizione
preliminare almeno all'incontro nella fede in un unico Dio e nella certezza
della vita eterna per l'anima immortale. Voglia il Signore specialmente che il
dialogo ecumenico conduca a una sincera riconciliazione intorno a tutto ciò che
possiamo avere già in comune con le altre Chiese cristiane: la fede in Gesù
Cristo, Figlio di Dio fatto uomo, Salvatore e Signore, l'ascolto della Parola,
lo studio della Rivelazione, il sacramento del battesimo.
Nella misura in cui la Chiesa è capace di
generare la concordia attiva - l'unità nella varietà - al suo proprio interno, e
di offrirsi come testimone e umile operatrice di riconciliazione nei confronti
delle altre Chiese e comunità ecclesiali e delle altre religioni, essa diventa,
secondo l'espressiva definizione di sant'Agostino, «mondo riconciliato». Allora
potrà essere segno di riconciliazione nel mondo e per il mondo.
Nella consapevolezza della smisurata gravità
della situazione creata dalle forze della divisione e della guerra, che
costituisce oggi una pesante minaccia non soltanto per l'equilibrio e l'armonia
delle nazioni, ma per la sopravvivenza stessa dell'umanità, la Chiesa sente di
dover offrire e proporre la sua specifica collaborazione per il superamento dei
conflitti e la ricomposizione della concordia.
E' un complesso e delicato dialogo di
riconciliazione, in cui la Chiesa si impegna, anzitutto, con l'opera della
Santa Sede e dei suoi diversi organismi. La Santa Sede si sforza sia di
intervenire presso i governanti delle nazioni e i responsabili delle varie
istanze internazionali, sia di associarsi ad essi, dialogando con essi o
stimolandoli a dialogare fra di loro, a beneficio della riconciliazione in
mezzo ai numerosi conflitti. Essa fa questo non per secondi fini o per
interessi occulti - poiché non ne ha -, ma «per una preoccupazione umanitaria»,
mettendo la sua struttura istituzionale e la sua autorità morale, del tutto
singolari, a servizio della concordia e della pace. Essa fa questo convinta che
come «nella guerra due parti insorgono l'una contro l'altra», così «nella
questione della pace sono pure sempre e necessariamente due parti che debbono
sapersi impegnare», e in ciò «si trova il vero senso del dialogo per la pace».
Nel dialogo per la riconciliazione la Chiesa
si impegna anche per mezzo dei vescovi secondo la competenza e responsabilità
che è loro propria, sia individualmente nella direzione delle rispettive Chiese
particolari, sia riuniti nelle conferenze episcopali, con la collaborazione dei
presbiteri e di tutte le componenti delle comunità cristiane. Essi adempiono
puntualmente i loro compiti, quando promuovono quell'indispensabile dialogo e
proclamano le esigenze umane e cristiane di riconciliazione e di pace. In
comunione con i loro pastori, i laici, i quali hanno come «campo proprio della
loro attività evangelizzatrice il mondo vasto e complicato della politica,
della realtà sociale, dell'economia (...) della vita internazionale», sono
chiamati ad impegnarsi direttamente nel dialogo o in favore del dialogo per la
riconciliazione. Per loro tramite è ancora la Chiesa che svolge la sua azione
riconciliatrice. La rigenerazione dei cuori mediante la conversione e la
penitenza è, pertanto, il presupposto fondamentale e la base sicura per ogni
rinnovamento sociale e per la pace tra le nazioni.
Resta da ribadire che da parte della Chiesa
e dei suoi membri il dialogo, in qualsiasi forma si svolga - e sono e possono
essere molto diverse, sicché lo stesso concetto di dialogo ha un valore
analogico - non potrà mai partire da un atteggiamento di indifferenza verso la
verità, ma esserne, piuttosto, una presentazione fatta in modo sereno e
rispettoso dell'intelligenza e della coscienza altrui. Il dialogo della
riconciliazione non potrà mai sostituire o attenuare l'annuncio della verità
evangelica, che ha come scopo preciso la conversione dal peccato e la comunione
con Cristo e con la Chiesa, ma dovrà servire alla sua trasmissione e attuazione
attraverso i mezzi lasciati da Cristo alla Chiesa per la pastorale della
riconciliazione: la catechesi e la penitenza.
La Catechesi
26. Nella vasta area, in cui la Chiesa ha la
missione di operare con lo strumento del dialogo, la pastorale della penitenza
e della riconciliazione si rivolge ai membri del corpo della Chiesa,
innanzitutto, con un'adeguata catechesi circa le due realtà distinte e
complementari, alle quali i padri sinodali hanno dato una particolare
importanza, e che hanno messo in rilievo in alcune delle «Propositiones»
conclusive: appunto la penitenza e la riconciliazione. La catechesi, dunque, è
il primo mezzo da impiegare.
Alla radice della raccomandazione del Sinodo,
così opportuna, si trova un presupposto fondamentale: ciò che è pastorale non
si oppone al dottrinale, né può l'azione pastorale prescindere dal contenuto
dottrinale, dal quale, anzi, trae la sua sostanza e la sua reale validità. Ora,
se la Chiesa è «colonna e sostegno della verità» (1Tm 3,15) ed è posta nel
mondo come madre e maestra, come potrebbe tralasciare il compito di insegnare
la verità che costituisce un cammino di vita?
Dai pastori della Chiesa si attende, prima
di tutto, una catechesi sulla riconciliazione. Questa non può non fondarsi
sull'insegnamento biblico, specialmente quello neo-testamentario, circa la
necessità di ricostituire l'alleanza con Dio in Cristo redentore e
riconciliatore e, alla luce e come espansione di questa nuova comunione e
amicizia, circa la necessità di riconciliarsi col fratello, a costo di dover
interrompere l'offerta del sacrificio. Su questo tema della riconciliazione
fraterna Gesù insiste molto: ad esempio, quando invita a porgere l'altra
guancia a chi ci ha percosso e a lasciare anche il mantello a chi ci ha preso
la tunica, o quando inculca la legge del perdono: perdono che ciascuno riceve
nella misura in cui sa perdonare, perdono da offrire anche ai nemici, perdono
da concedere settanta volte sette, cioè, in pratica, senza alcuna limitazione.
A queste condizioni, realizzabili solo in un clima genuinamente evangelico, è
possibile una vera riconciliazione sia fra gli individui, sia fra le famiglie,
le comunità, le nazioni e i popoli. Da questi dati biblici sulla riconciliazione
deriverà naturalmente una catechesi teologica, la quale integrerà nella sua
sintesi anche gli elementi della psicologia, della sociologia e delle altre
scienze umane, che possono servire per chiarire le situazioni, impostare bene i
problemi, persuadere gli ascoltatori o i lettori a prendere risoluzioni
concrete.
Dai pastori della Chiesa si attende pure una
catechesi sulla penitenza. Anche qui la ricchezza del messaggio biblico ne deve
essere la sorgente. Questo messaggio sottolinea nella penitenza, anzitutto, il
suo valore di conversione, termine col quale si cerca di tradurre la parola del
testo greco «metanoia», che letteralmente significa lasciar capovolgere lo
spirito per farlo volgere a Dio. Sono questi, del resto, i due elementi
fondamentali emergenti dalla parabola del figlio perduto e ritrovato: il
«rientrare in sé» e la decisione di tornare al padre. Non ci può essere
riconciliazione senza questi atteggiamenti primordiali della conversione, e la
catechesi deve spiegarli con concetti e termini adatti alle varie età, alle
diverse condizioni culturali, morali e sociali.
E' un primo valore della penitenza che si
prolunga nel secondo: penitenza significa anche pentimento. I due sensi della
«metanoia» appaiono nella significativa consegna data da Gesù: «Se un tuo
fratello si pente (= ritorna a te), perdonagli. E se pecca sette volte al
giorno contro di te e sette volte torna a te dicendo: "Mi pento", tu
gli perdonerai» (Lc 17,3s). Una buona catechesi mostrerà come il pentimento,
tanto quanto la conversione, lungi dall'essere un sentimento superficiale, è un
vero capovolgimento dell'anima.
Un terzo valore è contenuto nella penitenza,
ed è il movimento per il quale i precedenti atteggiamenti di conversione e di
pentimento si manifestano all'esterno: è il fare penitenza. Questo significato
è ben percepibile nel termine «metanoia», come è usato dal Precursore secondo
il testo dei sinottici. Fare penitenza vuol dire, oltre tutto, ristabilire
l'equilibrio e l'armonia rotti dal peccato, cambiare direzione anche a costo di
sacrificio.
Insomma, una catechesi sulla penitenza, la
più completa e adeguata possibile, è inderogabile in un tempo come il nostro,
nel quale gli atteggiamenti dominanti nella psicologia e nel comportamento
sociale sono così in contrasto col triplice valore, già illustrato: l'uomo
contemporaneo sembra far più fatica che mai a riconoscere i propri sbagli e a
decidere di tornare sui suoi passi per riprendere il cammino dopo aver
rettificato la marcia; egli sembra molto riluttante a dire «me ne pento» o «mi
dispiace»; sembra rifiutare istintivamente, e spesso irresistibilmente, tutto
ciò che è penitenza nel senso del sacrificio accolto e praticato per la
correzione del peccato. A questo riguardo, vorrei sottolineare che, anche se
mitigata da qualche tempo, la disciplina penitenziale della Chiesa non può
essere abbandonata senza grave nocumento sia per la vita interiore dei
cristiani e della comunità ecclesiale, sia per la loro capacità di irradiazione
missionaria. Non è raro che non-cristiani siano sorpresi per la scarsa
testimonianza di vera penitenza da parte dei discepoli di Cristo. E' chiaro,
peraltro, che la penitenza cristiana sarà autentica, se sarà ispirata
dall'amore, e non dal mero timore; se consisterà in un serio sforzo di crocifiggere
l'«uomo vecchio», perché possa rinascere il «nuovo», ad opera di Cristo; se
seguirà come modello Cristo che, pur essendo innocente, scelse la via della
povertà, della pazienza, dell'austerità e, si può dire, della vita penitente.
Dai pastori della Chiesa si attende ancora -
come ha ricordato il Sinodo - una catechesi sulla coscienza e la sua
formazione. Anche questo è un tema di acuta attualità, visto che, nei sussulti
a cui è soggetta la cultura del nostro tempo, viene troppo spesso aggredito,
messo a prova, sconvolto, ottenebrato questo santuario interiore, cioè l'io più
intimo dell'uomo: la sua coscienza. Per una sapiente catechesi sulla coscienza
si possono trovare indicazioni preziose sia nei dottori della Chiesa, sia nella
teologia del Concilio Vaticano II e, specialmente, nei due documenti sulla
Chiesa nel mondo contemporaneo e sulla libertà religiosa. Su questa stessa
linea il pontefice Paolo VI intervenne spesso, per ricordare la natura e il
ruolo della coscienza nella nostra vita. Io stesso, seguendo le sue orme, non
tralascio nessuna occasione per far luce su questa altissima componente della
grandezza e dignità dell'uomo, su questa «sorta di senso morale, che ci porta a
discernere ciò che è bene da ciò che è male (...) come un occhio interiore, una
capacità visiva dello spirito, in grado di guidare i nostri passi sulla via del
bene», ribadendo la necessità di formare cristianamente la propria coscienza,
affinché essa non diventi «una forza distruttrice dell'umanità vera (della
persona), anziché il luogo santo dove Dio gli rivela il suo vero bene».
Anche su altri punti di non minore rilevanza
per la riconciliazione si attende la catechesi dei pastori della Chiesa.
Né la Chiesa può omettere, senza grave
mutilazione del suo messaggio essenziale, una costante catechesi su quelli che
il linguaggio cristiano tradizionale designa come i quattro novissimi
dell'uomo: morte, giudizio (particolare e universale), inferno e paradiso. In
una cultura, che tende a racchiudere l'uomo nella sua vicenda terrena più o
meno riuscita, ai pastori della Chiesa si chiede una catechesi che dischiuda e
illumini con le certezze della fede l'aldilà della vita presente: oltre le
misteriose porte della morte si profila un'eternità di gioia nella comunione
con Dio o di pena nella lontananza da lui. Soltanto in questa visione
escatologica si può avere la misura esatta del peccato e sentirsi spinti
decisamente alla penitenza e alla riconciliazione.
Ai pastori zelanti e capaci di inventiva non
mancano mai le occasioni per impartire questa ampia e varia catechesi, tenendo
conto della diversità di cultura e di formazione religiosa di coloro ai quali
si rivolgono. Le offrono spesso le letture bibliche e i riti della santa messa
e degli altri sacramenti, come le stesse circostanze in cui essi vengono
celebrati. Allo stesso scopo possono esser prese molte iniziative, quali
predicazioni, lezioni, dibattiti, incontri e corsi di cultura religiosa, ecc.,
come avviene in molti luoghi. Desidero qui segnalare, in particolare,
l'importanza e l'efficacia che, ai fini di tale catechesi, hanno le antiche
missioni popolari. Se adattate alle peculiari esigenze del nostro tempo, esse
possono essere, oggi come ieri, un valido strumento di educazione nella fede
anche per quanto riguarda il settore della penitenza e della riconciliazione.
Per la grande rilevanza che ha la
riconciliazione, fondata sulla conversione, nel delicato campo dei rapporti
umani e della convivenza sociale a tutti i livelli, compreso quello internazionale,
non può mancare alla catechesi il prezioso apporto della dottrina sociale della
Chiesa. Il puntuale e preciso insegnamento dei miei predecessori, a partire dal
papa Leone XIII, a cui è venuto a unirsi il sostanzioso apporto della
costituzione pastorale «Gaudium et Spes» del Concilio Vaticano II con quello
dei diversi episcopati sollecitati da varie circostanze nei rispettivi paesi,
ha costituito un ampio e solido corpo di dottrina riguardante le molteplici
esigenze inerenti alla vita della comunità umana, ai rapporti tra individui,
famiglie, gruppi nei suoi diversi ambiti, e alla stessa costituzione di una
società che voglia esser coerente con la legge morale, che è fondamento della
civiltà.
Alla base di questo insegnamento sociale
della Chiesa si trova, ovviamente, la visione che essa trae dalla parola di Dio
circa i diritti e i doveri degli individui, della famiglia e della comunità;
circa il valore della libertà e le dimensioni della giustizia; circa il primato
della carità; circa la dignità della persona umana e le esigenze del bene
comune, al quale devono mirare la politica e la stessa economia. Su questi
fondamentali principi del magistero sociale, che confermano e ripropongono i
dettami universali della ragione e della coscienza dei popoli, poggia in gran
parte la speranza di una pacifica soluzione di tanti conflitti sociali e, in
definitiva, della riconciliazione universale.
I sacramenti
27. Il secondo mezzo di istituzione divina,
che dalla Chiesa è offerto alla pastorale della penitenza e della riconciliazione,
è costituito dai sacramenti. Nel misterioso dinamismo dei sacramenti, così
ricco di simbolismi e di contenuti, è possibile ravvisare un aspetto non sempre
messo in luce: ciascuno di essi, oltreché della sua grazia propria, è segno
anche di penitenza e riconciliazione e, dunque, in ciascuno di essi è possibile
rivivere queste dimensioni dello spirito.
Il battesimo è, certo, un lavacro salvifico,
che - come dice san Pietro - vale «non (come) rimozione di sporcizia del corpo,
ma (come) invocazione di salvezza, rivolta a Dio da parte di una buona
coscienza» (1Pt 3,21). E' morte, sepoltura e risurrezione con Cristo morto,
sepolto e risorto. E' dono dello Spirito Santo per il tramite di Cristo. Ma
questo costitutivo essenziale e originale del battesimo cristiano, lungi
dall'eliminare, arricchisce l'elemento penitenziale già presente nel battesimo,
che Gesù stesso ricevette da Giovanni «per adempiere ogni giustizia»: un fatto,
cioè, di conversione e di reintegrazione nel giusto ordine di rapporti con Dio,
di riconciliazione con Dio, con la cancellazione della macchia originale e il
conseguente inserimento nella grande famiglia dei riconciliati.
Parimenti la cresima, anche in quanto
confermazione del battesimo e, con esso, sacramento di iniziazione, nel
conferire la pienezza dello Spirito Santo e nel portare all'età adulta la vita
cristiana, significa e realizza per ciò stesso una maggiore conversione del
cuore e una più intima ed effettiva appartenenza alla medesima assemblea di
riconciliati, che è la Chiesa di Cristo.
La definizione, che sant'Agostino dà
dell'eucaristia come «sacramentum pietatis, signum unitatis, vinculum
caritatis», mette in chiara luce gli effetti di santificazione personale
(«pietas») e di riconciliazione comunitaria («unitas» e «caritas»), che
derivano dall'essenza stessa del mistero eucaristico, come rinnovamento
incruento del sacrificio della croce, fonte di salvezza e di riconciliazione
per tutti gli uomini. E' necessario, tuttavia, ricordare che la Chiesa, guidata
dalla fede in questo augusto sacramento, insegna che nessun cristiano,
consapevole di peccato grave, può ricevere l'eucaristia prima di aver ottenuto
il perdono di Dio. Come si legge nell'istruzione «Eucharisticum mysterium», la
quale, debitamente approvata da Paolo VI, conferma in pieno l'insegnamento del
Concilio Tridentino: «L'eucaristia sia proposta ai fedeli anche «come antidoto,
che ci libera dalle colpe quotidiane, e ci preserva dai peccati mortali», e sia
loro indicato il modo conveniente di servirsi delle parti penitenziali della
liturgia della messa. «A colui che vuole comunicarsi venga ricordato... il
precetto: L'uomo provi se stesso (1Cor 11,28). E la consuetudine della Chiesa
dimostra che quella prova è necessaria, perché nessuno consapevole di essere in
peccato mortale, per quanto si creda contrito, si accosti alla santa eucaristia
prima della confessione sacramentale. Che, se si trova in caso di necessità e
non ha modo di confessarsi, faccia prima un atto di contrizione perfetta».
Il sacramento dell'ordine è destinato a dare
alla Chiesa i pastori, i quali, oltreché maestri e guide, sono chiamati a
essere testimoni e operatori di unità, costruttori della famiglia di Dio,
difensori e preservatori della comunione di questa famiglia contro i fermenti
di divisione e di dispersione.
Il sacramento del matrimonio, esaltazione
dell'amore umano sotto l'azione della grazia, è segno, sì, dell'amore di Cristo
per la Chiesa, ma anche della vittoria che egli concede agli sposi di riportare
sulle forze che deformano e distruggono l'amore, sicché la famiglia, nata da
tale sacramento, diventa segno anche della Chiesa riconciliata e
riconciliatrice per un mondo riconciliato in tutte le sue strutture e
istituzioni.
L'unzione degli infermi, infine, nella prova
della malattia e della vecchiaia e specialmente nell'ora finale del cristiano,
è segno della definitiva conversione al Signore, nonché della totale
accettazione del dolore e della morte come penitenza per i peccati. E in questo
si attua la suprema riconciliazione col Padre.
Tuttavia, fra i sacramenti ce n'è uno che,
se spesso è stato chiamato della confessione a motivo dell'accusa dei peccati
che in esso vien fatta, più propriamente può ritenersi il sacramento della
penitenza per antonomasia, come di fatto si chiama, e quindi è il sacramento
della conversione e della riconciliazione. Di questo sacramento si è
particolarmente occupata la recente assemblea del Sinodo per l'importanza che
ha in ordine alla riconciliazione.
II.
IL
SACRAMENTO DELLA PENITENZA E DELLA RICONCILIAZIONE
28. In tutte le fasi e a tutti i livelli del
suo svolgimento, il Sinodo ha considerato con la massima attenzione quel segno
sacramentale che rappresenta e insieme realizza la penitenza e la
riconciliazione. Questo sacramento certamente non esaurisce in se stesso i
concetti di conversione e di riconciliazione. La Chiesa, infatti, sin dalle sue
origini conosce e valorizza numerose e svariate forme di penitenza: alcune
liturgiche o paraliturgiche, che vanno dall'atto penitenziale della messa alle
funzioni propiziatorie, ai pellegrinaggi; altre di carattere ascetico, come il
digiuno. Tuttavia, di tutti gli atti nessuno è più significativo, né più
divinamente efficace, né più elevato e in pari tempo accessibile nel suo stesso
rito, del sacramento della penitenza.
Sin dalla sua preparazione, poi nei numerosi
interventi succedutisi durante il suo svolgimento, nei lavori dei gruppi e
nelle «Propositiones» finali, il Sinodo ha tenuto conto dell'affermazione
pronunciata molte volte, con toni diversi e diverso contenuto: il sacramento
della penitenza è in crisi, e di tale crisi ha preso atto. Ha raccomandato
un'approfondita catechesi, ma anche una non meno approfondita analisi di
carattere teologico, storico, psicologico, sociologico e giuridico circa la
penitenza in generale e il sacramento della penitenza in particolare. Con tutto
ciò esso ha inteso chiarire i motivi della crisi e aprire le vie per una
soluzione positiva, a beneficio dell'umanità. Intanto, dal Sinodo stesso la
Chiesa ha ricevuto una chiara conferma della sua fede riguardo al sacramento,
per il quale viene data ad ogni cristiano e all'intera comunità dei credenti la
certezza del perdono per la potenza del sangue redentore di Cristo.
Giova rinnovare e riaffermare questa fede
nel momento in cui essa potrebbe affievolirsi, perdere qualcosa della sua
integrità o entrare in una zona d'ombra e di silenzio, minacciata com'è dalla
già menzionata crisi in ciò che essa ha di negativo. Insidiano, infatti, il
sacramento della confessione, da un lato, l'oscuramento della coscienza morale
e religiosa, l'attenuazione del senso del peccato, il travisamento del concetto
di pentimento, la scarsa tensione verso una vita autenticamente cristiana;
dall'altro lato, la mentalità, talora diffusa, che si possa ottenere il perdono
direttamente da Dio anche in maniera ordinaria, senza accostarsi al sacramento
della riconciliazione, e l'abitudine di una pratica sacramentale priva talora
di fervore e di vera spontaneità, originata forse da una considerazione errata
e deviante degli effetti del sacramento.
Conviene, pertanto, ricordare le principali
dimensioni di questo grande sacramento.
«A chi rimetterete»
29. Il primo dato fondamentale ci è offerto
dai libri santi dell'Antico e del Nuovo Testamento riguardo alla misericordia
del Signore e al suo perdono. Nei salmi e nella predicazione dei profeti il
nome di misericordioso è forse quello che più spesso viene attribuito al
Signore, contrariamente al persistente cliché, secondo il quale il Dio
dell'Antico Testamento viene presentato soprattutto come severo e punitivo.
Così, fra i salmi, un lungo discorso sapienziale, attingendo alla tradizione
dell'Esodo, rievoca l'azione benefica di Dio in mezzo al suo popolo. Tale
azione, pur nella sua rappresentazione antropomorfica, è forse una delle più
eloquenti proclamazioni veterotestamentarie della misericordia divina. Basti
qui riportare il versetto: «Ed egli, pietoso, perdonava la colpa, li perdonava
invece di distruggerli. Molte volte placò la sua ira e trattenne il suo furore,
ricordando che essi sono carne, un soffio che va e non ritorna» (Sal 78,38s).
Nella pienezza dei tempi il Figlio di Dio,
venendo come l'Agnello che toglie e porta su di sé il peccato del mondo, appare
come colui che ha il potere sia di giudicare sia di perdonare i peccati, e che
è venuto non per condannare, ma per perdonare e salvare.
Ora, questo potere di rimettere i peccati
Gesù lo conferisce, mediante lo Spirito Santo, a semplici uomini, soggetti essi
stessi all'insidia del peccato, cioè ai suoi apostoli: «Ricevete lo Spirito
Santo: a chi rimetterete i peccati, saranno rimessi, e a chi non li
rimetterete, resteranno non rimessi» (Gv 20,22; Mt 18,18). E', questa, una
delle più formidabili novità evangeliche! Egli conferisce tale potere agli
apostoli anche come trasmissibile - così lo ha inteso la Chiesa sin dai suoi
primi albori - ai loro successori, investiti dagli stessi apostoli della
missione e della responsabilità di continuare la loro opera di annunciatori del
Vangelo e di ministri dell'opera redentrice di Cristo.
Qui si rivela in tutta la sua grandezza la
figura del ministro del sacramento della penitenza, chiamato, per antichissima
consuetudine, il confessore.
Come all'altare dove celebra l'eucaristia e
come in ciascuno dei sacramenti, il sacerdote, ministro della penitenza, opera
«in persona Christi». Il Cristo, che da lui è reso presente e che per suo mezzo
attua il mistero della remissione dei peccati, è colui che appare come fratello
dell'uomo, pontefice misericordioso, fedele e compassionevole, pastore deciso a
cercare la pecora smarrita, medico che guarisce e conforta, maestro unico che
insegna la verità e indica le vie di Dio, giudice dei vivi e dei morti, che
giudica secondo la verità e non secondo le apparenze.
Questo è, senza dubbio, il più difficile e
delicato, il più faticoso ed esigente, ma anche uno dei più belli e consolanti
ministeri del sacerdote, e proprio per questo, attento anche al forte richiamo
del Sinodo, non mi stancherò mai di richiamare i miei fratelli, vescovi e
presbiteri, al suo fedele e diligente adempimento. Di fronte alla coscienza del
fedele, che a lui si apre con un misto di trepidazione e di fiducia, il
confessore è chiamato a un alto compito che è servizio alla penitenza e alla
riconciliazione umana: conoscere di quel fedele le debolezze e cadute,
valutarne il desiderio di ripresa e gli sforzi per ottenerla, discernere
l'azione dello Spirito santificatore nel suo cuore, comunicargli un perdono che
solo Dio può concedere, «celebrare» la sua riconciliazione col Padre
raffigurata nella parabola del figlio prodigo, reinserire quel peccatore
riscattato nella comunione ecclesiale con i fratelli, ammonire paternamente
quel penitente con un fermo, incoraggiante e amichevole «D'ora in poi non
peccare più» (Gv 8,11).
Per l'efficace adempimento di tale
ministero, il confessore deve avere necessariamente qualità umane di prudenza,
discrezione, discernimento, fermezza temperata da mansuetudine e bontà. Egli
deve avere, altresì, una seria e accurata preparazione, non frammentaria ma
integrale e armonica, nelle diverse branche della teologia, nella pedagogia e
nella psicologia, nella metodologia del dialogo e, soprattutto, nella
conoscenza viva e comunicativa della parola di Dio. Ma ancora più necessario è
che egli viva una vita spirituale intensa e genuina. Per condurre altri sulla
via della perfezione cristiana il ministro della penitenza deve percorrere egli
stesso, per primo, questa via e, più con gli atti che con abbondanti discorsi,
dar prova di reale esperienza dell'orazione vissuta, di pratica delle virtù
evangeliche teologali e morali, di fedele obbedienza alla volontà di Dio, di
amore alla Chiesa e di docilità al suo magistero.
Tutto questo corredo di doti umane, di virtù
cristiane e di capacità pastorali non si improvvisa né si acquista senza sforzo.
Per il ministero della penitenza sacramentale ogni sacerdote deve essere
preparato già dagli anni del seminario, insieme con lo studio della teologia
dogmatica, morale, spirituale e pastorale (che son sempre una sola teologia),
con le scienze dell'uomo, la metodologia del dialogo e, specialmente, del
colloquio pastorale. Egli dovrà poi essere avviato e sostenuto nelle prime
esperienze. Dovrà sempre curare il proprio perfezionamento e aggiornamento con
lo studio permanente. Quale tesoro di grazia, di vita vera e di spirituale
irradiazione non verrebbe alla Chiesa, se ciascun sacerdote si mostrasse
premuroso di non mancare mai, per negligenza o pretesti vari, all'appuntamento
con i fedeli al confessionale, e fosse ancor più premuroso di non andarvi mai impreparato,
o privo delle indispensabili qualità umane e delle condizioni spirituali e
pastorali!
A questo proposito non posso non evocare con
devota ammirazione le figure di straordinari apostoli del confessionale, quali
san Giovanni Nepomuceno, san Giovanni Maria Vianney, san Giuseppe Cafasso e san
Leopoldo da Castelnuovo, per parlare di quelli più noti che la Chiesa ha
iscritto nell'albo dei suoi santi. Ma io desidero rendere omaggio anche
all'innumerevole schiera di confessori santi e quasi sempre anonimi, ai quali è
dovuta la salvezza di tante anime, da loro aiutate nella conversione, nella
lotta contro il peccato e le tentazioni, nel progresso spirituale e, in
definitiva, nella santificazione. Non esito a dire che anche i grandi santi
canonizzati sono generalmente usciti da quei confessionali e, con i santi, il
patrimonio spirituale della Chiesa e la stessa fioritura di una civiltà,
permeata di spirito cristiano! Onore, dunque, a questo silenzioso esercito di
nostri confratelli, che hanno ben servito e servono ogni giorno la causa della
riconciliazione mediante il ministero della penitenza sacramentale.
Il Sacramento del perdono
30. Dalla rivelazione del valore di questo
ministero e del potere di rimettere i peccati, da Cristo conferito agli
apostoli e ai loro successori, si è sviluppata nella Chiesa la coscienza del
segno del perdono, conferito mediante il sacramento della penitenza. La
certezza, cioè, che lo stesso Signore Gesù ha istituito e affidato alla Chiesa
- quale dono della sua benignità e della sua «filantropia», da offrire a tutti
- uno speciale sacramento per la remissione dei peccati commessi dopo il
battesimo.
La pratica di questo sacramento, per quanto
riguarda la sua celebrazione e la sua forma, ha conosciuto un lungo processo di
sviluppo, come attestano i più antichi sacramentari, gli atti di concili e di
sinodi episcopali, la predicazione dei padri e l'insegnamento dei dottori della
Chiesa. Ma circa la sostanza del sacramento è rimasta sempre solida e immutata
nella coscienza della Chiesa la certezza che, per volontà di Cristo, il perdono
è offerto a ciascuno per mezzo dell'assoluzione sacramentale, data dai ministri
della penitenza: è certezza riaffermata con particolare vigore sia dal Concilio
di Trento, che dal Concilio Vaticano II: «Quelli che si accostano al sacramento
della penitenza ricevono dalla misericordia di Dio il perdono delle offese
fatte a lui e, nello stesso tempo, la riconciliazione con la Chiesa, alla quale
hanno inflitto una ferita col peccato: la Chiesa che coopera alla loro
conversione con la carità, con l'esempio e la preghiera» («Lumen Gentium», 11).
E come dato essenziale di fede sul valore e lo scopo della penitenza si deve
riaffermare che il nostro salvatore Gesù Cristo istituì nella sua Chiesa il
sacramento della penitenza, perché i fedeli caduti in peccato dopo il battesimo
ricevessero la grazia e si riconciliassero con Dio.
La fede della Chiesa in questo sacramento
comporta alcune altre verità fondamentali, che sono ineludibili. Il rito
sacramentale della penitenza, nella sua evoluzione e variazione di forme
pratiche, ha sempre conservato e messo in luce queste verità. Il Concilio
Vaticano II, nel prescrivere la riforma di questo rito, intendeva far sì che
esso esprimesse ancor più chiaramente tali verità, e ciò è avvenuto nel nuovo
«Rito della penitenza». Questo, infatti, ha assunto nella sua integrità la
dottrina della tradizione raccolta dal Concilio Tridentino, trasferendola dal
suo particolare contesto storico (quello di un deciso sforzo di chiarimento
dottrinale di fronte alle gravi deviazioni dal genuino insegnamento della
Chiesa) per tradurla fedelmente in termini più aderenti al contesto del nostro
tempo.
Alcune convinzioni fondamentali
31. Le menzionate verità, ribadite con forza
e chiarezza dal Sinodo e presenti nelle «Propositiones», possono riassumersi
nelle seguenti convinzioni di fede, intorno alle quali si raccolgono tutte le
altre affermazioni della dottrina cattolica sul sacramento della penitenza.
I. La prima convinzione è che, per un cristiano,
il sacramento della penitenza è la via ordinaria per ottenere il perdono e la
remissione dei suoi peccati gravi commessi dopo il battesimo. Certo, il
Salvatore e la sua azione salvifica non sono così legati ad un segno
sacramentale, da non potere in qualsiasi tempo e settore della storia della
salvezza operare al di fuori e al di sopra dei sacramenti. Ma alla scuola della
fede noi apprendiamo che il medesimo Salvatore ha voluto e disposto che gli
umili e preziosi sacramenti della fede siano ordinariamente i mezzi efficaci,
per i quali passa e opera la sua potenza redentrice. Sarebbe dunque insensato,
oltreché presuntuoso, voler prescindere arbitrariamente dagli strumenti di
grazia e di salvezza che il Signore ha disposto e, nel caso specifico, pretendere
di ricevere il perdono facendo a meno del sacramento, istituito da Cristo
proprio per il perdono. Il rinnovamento dei riti, attuato dopo il Concilio, non
autorizza alcuna illusione e alterazione in questa direzione. Esso doveva e
deve servire, secondo l'intenzione della Chiesa, a suscitare in ciascuno di noi
un nuovo slancio verso il rinnovamento del nostro atteggiamento interiore, cioè
verso una comprensione più profonda della natura del sacramento della
penitenza; verso un'accoglienza di esso più nutrita di fede, non ansiosa ma
fiduciosa; verso una maggiore frequenza del sacramento, che si riconosce tutto
pervaso dall'amore misericordioso del Signore.
II. La seconda convinzione riguarda la
funzione del sacramento della penitenza per colui che vi ricorre. Esso è,
secondo la più antica tradizionale concezione, una specie di azione
giudiziaria; ma questa si svolge presso un tribunale di misericordia, più che
di stretta e rigorosa giustizia, il quale non è paragonabile che per analogia
ai tribunali umani, cioè in quanto il peccatore vi svela i suoi peccati e la
sua condizione di creatura soggetta al peccato; si impegna a rinunciare e a
combattere il peccato; accetta la pena (penitenza sacramentale) che il
confessore gli impone e ne riceve l'assoluzione. Ma, riflettendo sulla funzione
di questo sacramento, la coscienza della Chiesa vi scorge, oltre il carattere
di giudizio nel senso accennato, un carattere terapeutico o medicinale. E
questo si ricollega al fatto che è frequente nel Vangelo la presentazione di
Cristo come medico, mentre la sua opera redentrice viene spesso chiamata, sin
dall'antichità cristiana, «medicina salutis». «Io voglio curare, non accusare»,
diceva sant'Agostino riferendosi all'esercizio della pastorale penitenziale, ed
è grazie alla medicina della confessione che l'esperienza del peccato non
degenera in disperazione. Il «Rito della penitenza» allude a questo aspetto
medicinale del sacramento, al quale l'uomo contemporaneo è forse più sensibile,
vedendo nel peccato, sì, ciò che comporta di errore, ma ancor più ciò che
dimostra in ordine alla debolezza e infermità umana. Tribunale di misericordia
o luogo di guarigione spirituale, sotto entrambi gli aspetti, il sacramento
esige una conoscenza dell'intimo del peccatore, per poterlo giudicare
edassolvere, per curarlo e guarirlo. E proprio per questo esso implica, da
parte del penitente, l'accusa sincera e completa dei peccati, che ha pertanto
una ragion d'essere non solo ispirata da fini ascetici (quale esercizio di
umiltà e di mortificazione), ma inerente alla natura stessa del sacramento.
III. La terza convinzione, che tengo ad
accentuare, riguarda le realtà o parti, che compongono il segno sacramentale
del perdono e della riconciliazione. Alcune di queste realtà sono atti del
penitente, di diversa importanza, ciascuno però indispensabile o alla validità,
o all'integrità, o alla fruttuosità del segno. Una condizione indispensabile è,
innanzitutto, la rettitudine e la limpidezza della coscienza del penitente. Un
uomo non si avvia ad una vera e genuina penitenza, finché non scorge che il
peccato contrasta con la norma etica, iscritta nell'intimo del proprio essere;
finché non riconosce di aver fatto l'esperienza personale e responsabile di un
tale contrasto; finché non dice non soltanto «il peccato c'è», ma «io ho
peccato»; finché non ammette che il peccato ha introdotto nella sua coscienza
una divisione, che pervade poi tutto il suo essere e lo separa da Dio e dai
fratelli. Il segno sacramentale di questa limpidezza della coscienza è l'atto tradizionalmente
chiamato esame di coscienza, atto che deve esser sempre non già un'ansiosa
introspezione psicologica, ma il confronto sincero e sereno con la legge morale
interiore, con le norme evangeliche proposte dalla Chiesa, con lo stesso Cristo
Gesù, che è per noi maestro e modello di vita, e col Padre celeste, che ci
chiama al bene e alla perfezione.
Ma l'atto essenziale della penitenza, da
parte del penitente, è la contrizione, ossia un chiaro e deciso ripudio del
peccato commesso insieme col proposito di non tornare a commetterlo, per
l'amore che si porta a Dio e che rinasce col pentimento. Così intesa, la
contrizione è, dunque, il principio e l'anima della conversione, di quella
«metanoia» evangelica che riporta l'uomo a Dio come il figlio prodigo che
ritorna al padre, e che ha nel sacramento della penitenza il suo segno
visibile, perfezionativo della stessa attrizione. Perciò, «da questa
contrizione del cuore dipende la verità della penitenza» («Ordo Paenitentiae»,
6c).
Rimandando a tutto quanto la Chiesa,
ispirata dalla parola di Dio, insegna circa la contrizione, mi preme qui
sottolineare un solo aspetto di tale dottrina, che va meglio conosciuto e
tenuto presente. Non di rado si considerano la conversione e la contrizione
sotto il profilo delle innegabili esigenze, che esse comportano, e della
mortificazione che esse impongono in vista di un radicale cambiamento di vita.
Ma è bene ricordare e rilevare che contrizione e conversione sono ancor più un
avvicinamento alla santità di Dio, un ritrovare la propria verità interiore,
turbata e sconvolta dal peccato, un liberarsi nel più profondo di se stessi e,
per questo, un riacquistare la gioia perduta, la gioia di essere salvati, che
la maggioranza degli uomini del nostro tempo non sa più gustare.
Si comprende, perciò, come fin dai primi
tempi cristiani, in collegamento con gli apostoli e con Cristo, la Chiesa abbia
incluso nel segno sacramentale della penitenza l'accusa dei peccati. Questa
appare così rilevante, che da secoli il nome usuale del sacramento è stato ed è
tuttora quello di confessione. Accusare i propri peccati è, anzitutto,
richiesto dalla necessità che il peccatore sia conosciuto da colui che nel
sacramento esercita il ruolo di giudice, il quale deve valutare sia la gravità
dei peccati, sia il pentimento del penitente, e insieme il ruolo di medico, il
quale deve conoscere lo stato dell'infermo per curarlo e guarirlo. Ma la
confessione individuale ha anche il valore di segno: segno dell'incontro del
peccatore con la mediazione ecclesiale nella persona del ministro; segno del
suo scoprirsi al cospetto di Dio e della Chiesa come peccatore, del suo
chiarirsi a se stesso sotto lo sguardo di Dio. L'accusa dei peccati, dunque,
non è riducibile ad un qualsiasi tentativo di autoliberazione psicologica, anche
se corrisponde a quel legittimo e naturale bisogno di aprirsi a qualcuno, che è
insito nel cuore umano: è un gesto liturgico, solenne nella sua drammaticità,
umile e sobrio nella grandezza del suo significato. E' il gesto del figlio
prodigo, che ritorna al Padre ed è accolto da lui col bacio della pace; gesto
di lealtà e di coraggio; gesto di affidamento di se stessi, al di là del
peccato, alla misericordia che perdona. Si capisce allora perché l'accusa dei
peccati deve essere ordinariamente individuale e non collettiva, come il
peccato è un fatto profondamente personale. Nello stesso tempo, però, questa
accusa strappa in certo modo il peccato dal segreto del cuore e, quindi,
dall'ambito della pura individualità, mettendo in risalto anche il suo carattere
sociale, perché mediante il ministro della penitenza è la comunità ecclesiale,
lesa dal peccato, che accoglie di nuovo il peccatore pentito e perdonato.
L'altro momento essenziale del sacramento
della penitenza compete questa volta al confessore giudice e medico, immagine
di Dio Padre che accoglie e perdona colui che ritorna: è l'assoluzione. Le
parole che la esprimono e i gesti che la accompagnano nell'antico e nel nuovo
«Rito della penitenza» rivestono una significativa semplicità nella loro
grandezza. La formula sacramentale: «Io ti assolvo...», l'imposizione della
mano e il segno della croce, tracciato sul penitente, manifestano che in quel
momento il peccatore contrito e convertito entra in contatto con la potenza e
la misericordia di Dio. E' il momento nel quale, in risposta al penitente, la
Trinità si fa presente per cancellare il suo peccato e restituirgli
l'innocenza, e la forza salvifica della passione, morte e risurrezione di Gesù
è comunicata al medesimo penitente, quale «misericordia più forte della colpa e
dell'offesa», come ebbi a definirla nell'enciclica «Dives in Misericordia». Dio
è sempre il principale offeso dal peccato - «tibi soli peccavi!» -, e solo Dio
può perdonare. Perciò, l'assoluzione che il sacerdote, ministro del perdono, benché
egli stesso peccatore, concede al penitente, è il segno efficace
dell'intervento del Padre in ogni assoluzione e della «risurrezione» dalla
«morte spirituale», che si rinnova ogni volta che si attua il sacramento della
penitenza. Soltanto la fede può assicurare che in quel momento ogni peccato è
rimesso e cancellato per il misterioso intervento del Salvatore.
La soddisfazione è l'atto finale, che corona
il segno sacramentale della penitenza. In alcuni paesi ciò che il penitente
perdonato e assolto accetta di compiere dopo aver ricevuto l'assoluzione, si
chiama appunto penitenza. Qual è il significato di questa soddisfazione che si
presta, o di questa penitenza che si compie? Non è certo il prezzo che si paga
per il peccato assolto e per il perdono acquistato: nessun prezzo umano può
equivalere a ciò che si è ottenuto, frutto del preziosissimo sangue di Cristo.
Le opere della soddisfazione - che, pur conservando un carattere di semplicità
e umiltà, dovrebbero essere rese più espressive di tutto ciò che significano -
vogliono dire alcune cose preziose: esse sono il segno dell'impegno personale
che il cristiano ha assunto con Dio, nel sacramento, di cominciare un'esistenza
nuova (e perciò non dovrebbero ridursi soltanto ad alcune formule da recitare,
ma consistere in opere di culto, di carità, di misericordia, di riparazione);
includono l'idea che il peccatore perdonato è capace di unire la sua propria
mortificazione fisica e spirituale, ricercata o almeno accettata, alla passione
di Gesù che gli ha ottenuto il perdono; ricordano che anche dopo l'assoluzione
rimane nel cristiano una zona d'ombra, dovuta alle ferite del peccato,
all'imperfezione dell'amore nel pentimento, all'indebolimento delle facoltà
spirituali, in cui opera ancora un focolaio infettivo di peccato, che bisogna
sempre combattere con la mortificazione e la penitenza. Tale è il significato
dell'umile, ma sincera soddisfazione.
IV. Resta da fare un breve accenno ad altre
importanti convinzioni circa il sacramento della penitenza. Anzitutto, bisogna
ribadire che nulla è più personale e intimo di questo sacramento, nel quale il
peccatore si trova al cospetto di Dio, solo con la sua colpa, il suo pentimento
e la sua fiducia. Nessuno può pentirsi al suo posto o può chiedere perdono in
suo nome. C'è una certa solitudine del peccatore nella sua colpa, che si può
vedere drammaticamente rappresentata in Caino col peccato «accovacciato alla
sua porta», come dice tanto efficacemente il libro della Genesi, e col
particolare segno, inciso sulla sua fronte; o in Davide, rimproverato dal
profeta Natan; o nel figlio prodigo, quando prende coscienza della condizione,
a cui si è ridotto per la lontananza dal padre, e decide di tornare a lui:
tutto ha luogo soltanto fra l'uomo e Dio. Ma, nello stesso tempo, è innegabile
la dimensione sociale di questo sacramento, nel quale è l'intera Chiesa -
quella militante, quella purgante e quella gloriosa del cielo - che interviene
in soccorso del penitente e lo accoglie di nuovo nel suo grembo, tanto più che
tutta la Chiesa era stata offesa e ferita dal suo peccato. Il sacerdote,
ministro della penitenza, appare in forza del suo ufficio sacro come testimone
e rappresentante di tale ecclesialità. Sono due aspetti complementari del
sacramento l'individualità e l'ecclesialità, che la progressiva riforma del
rito della penitenza, specialmente quella dell'«Ordo paenitentiae» promulgata
da Paolo VI, ha cercato di mettere in risalto e di rendere più significativi
nella sua celebrazione.
V. E' da sottolineare, poi, che il frutto
più prezioso del perdono ottenuto nel sacramento della penitenza consiste nella
riconciliazione con Dio, la quale avviene nel segreto del cuore del figlio
prodigo e ritrovato, che è ciascun penitente. Ma bisogna aggiungere che tale
riconciliazione con Dio ha come conseguenza, per così dire, altre
riconciliazioni, che rimediano ad altrettante rotture, causate dal peccato: il
penitente perdonato si riconcilia con se stesso nel fondo più intimo del
proprio essere, in cui ricupera la propria verità interiore; si riconcilia con
i fratelli, da lui in qualche modo aggrediti e lesi; si riconcilia con la
Chiesa; si riconcilia con tutto il creato. Da questa consapevolezza nasce nel
penitente, al termine della celebrazione, il senso della gratitudine a Dio per
il dono della misericordia ottenuta, a cui lo invita la Chiesa. Ogni
confessionale è uno spazio privilegiato e benedetto, dal quale, cancellate le
divisioni, nasce nuovo e incontaminato un uomo riconciliato - un mondo
riconciliato!
VI. Infine, mi sta particolarmente a cuore fare
un'ultima considerazione, che riguarda tutti noi sacerdoti, che siamo i
ministri del sacramento della penitenza, ma ne siamo pure - e dobbiamo esserne
- i beneficiari. La vita spirituale e pastorale del sacerdote, come quella dei
suoi fratelli laici e religiosi, dipende, per la sua qualità e il suo fervore,
dall'assidua e coscienziosa pratica personale del sacramento della penitenza.
La celebrazione dell'eucaristia e il ministero degli altri sacramenti, lo zelo
pastorale, il rapporto con i fedeli, la comunione con i confratelli, la
collaborazione col vescovo, la vita di preghiera, in una parola tutta
l'esistenza sacerdotale subisce un inesorabile scadimento, se viene a mancarle,
per negligenza o per qualsiasi altro motivo, il ricorso, periodico e ispirato
da autentica fede e devozione, al sacramento della penitenza. In un prete che
non si confessasse più o si confessasse male, il suo essere prete e il suo fare
il prete ne risentirebbero molto presto, e se ne accorgerebbe anche la
comunità, di cui egli è pastore.
Ma aggiungo pure che, persino per essere un
buono ed efficace ministro della penitenza, il sacerdote ha bisogno di
ricorrere alla sorgente di grazia e santità presente in questo sacramento. Noi
sacerdoti, in base alla nostra personale esperienza, possiamo ben dire che,
nella misura in cui siamo attenti a ricorrere al sacramento della penitenza e
ci accostiamo ad esso con frequenza e con buone disposizioni, adempiamo meglio
il nostro stesso ministero di confessori e ne assicuriamo il beneficio ai penitenti.
Perderebbe, invece, molto della sua efficacia questo ministero, se in qualche
modo tralasciassimo di essere buoni penitenti. Tale è la logica interna di
questo grande sacramento. Esso invita noi tutti, sacerdoti di Cristo, a una
rinnovata attenzione alla nostra confessione personale.
A sua volta, l'esperienza diventa e deve
diventare oggi uno stimolo all'esercizio diligente, regolare, paziente,
fervoroso del sacro ministero della penitenza, al quale siamo impegnati in
forza del nostro sacerdozio e della nostra vocazione ad essere pastori e
servitori dei nostri fratelli. Anche con la presente esortazione rivolgo,
dunque, un insistente invito a tutti i sacerdoti del mondo, specialmente ai
miei confratelli nell'episcopato e ai parroci, perché favoriscano con tutte le
forze la frequenza dei fedeli a questo sacramento, e mettano in opera tutti i
mezzi possibili e convenienti, tentino tutte le vie per far pervenire al
maggior numero di nostri fratelli la «grazia che a noi è stata data» mediante
la penitenza per la riconciliazione di ogni anima e di tutto il mondo con Dio,
in Cristo.
Le forme della celebrazione
32. Seguendo le indicazioni del Concilio
Vaticano II, l'«Ordo paenitentiae» ha predisposto tre riti che, salvi sempre
gli elementi essenziali, permettono di adattare la celebrazione del sacramento
della penitenza a determinate circostanze pastorali. La prima forma -
riconciliazione dei singoli penitenti - costituisce l'unico modo normale e
ordinario della celebrazione sacramentale, e non può né deve essere lasciata
cadere in disuso o essere trascurata. La seconda - riconciliazione di più
penitenti con confessione e assoluzione individuale -, anche se negli atti
preparatori permette di sottolineare di più gli aspetti comunitari del
sacramento, raggiunge la prima forma nell'atto sacramentale culminante, che è
la confessione e l'assoluzione individuale dei peccati, e perciò può essere
equiparata alla prima forma per quanto riguarda la normalità del rito. La
terza, invece - riconciliazione di più penitenti con la confessione e
l'assoluzione generale - riveste un carattere di eccezionalità, e non è,
quindi, lasciata alla libera scelta, ma è regolata da un'apposita disciplina.
La prima forma consente la valorizzazione
degli aspetti più propriamente personali - ed essenziali - che son compresi
nell'itinerario penitenziale. Il dialogo tra penitente e confessore, l'insieme
stesso degli elementi utilizzati (i testi biblici, la scelta delle forme di
«soddisfazione», ecc.) sono elementi che rendono la celebrazione sacramentale
più rispondente alla concreta situazione del penitente. Si scopre il valore di
tali elementi, quando si pensa alle diverse ragioni che portano un cristiano
alla penitenza sacramentale: un bisogno di personale riconciliazione e
riammissione all'amicizia con Dio, riacquistando la grazia perduta a causa del
peccato; un bisogno di verifica del cammino spirituale e, a volte, di un più
puntuale discernimento vocazionale; tante altre volte un bisogno e un desiderio
di uscire da uno stato di apatia spirituale e di crisi religiosa. Grazie, poi,
alla sua indole individuale la prima forma di celebrazione permette di
associare il sacramento della penitenza a qualcosa di diverso, ma ben
conciliabile con esso: mi riferisco alla direzione spirituale. E' certo, dunque,
che la decisione e l'impegno personali sono chiaramente significati e promossi
in questa prima forma.
La seconda forma di celebrazione, proprio
per il suo carattere comunitario e per la modalità che la distingue, dà risalto
ad alcuni aspetti di grande importanza: la parola di Dio ascoltata in comune ha
un singolare effetto rispetto alla sua lettura individuale, e sottolinea meglio
il carattere ecclesiale della conversione e della riconciliazione. Essa risulta
particolarmente significativa nei diversi tempi dell'anno liturgico e in
connessione con avvenimenti di speciale rilevanza pastorale. Basti qui solo
accennare che per tale celebrazione è opportuna la presenza di un numero
sufficiente di confessori.
E' naturale, pertanto, che i criteri per
stabilire a quale delle due forme di celebrazione si debba ricorrere vengano
dettati non da motivazioni congiunturali e soggettive, ma dalla volontà di
ottenere il vero bene spirituale dei fedeli, in obbedienza alla disciplina
penitenziale della Chiesa.
Sarà bene anche ricordare che, per un
equilibrato orientamento spirituale e pastorale in merito, è necessario
continuare ad attribuire grande valore ed educare i fedeli al ricorso al
sacramento della penitenza anche solo per i peccati veniali, come attestano una
tradizione dottrinale e una prassi ormai secolari.
Pur sapendo e insegnando che i peccati
veniali vengono perdonati anche in altri modi - si pensi agli atti di dolore,
alle opere di carità, alla preghiera, ai riti penitenziali -, la Chiesa non
cessa di ricordare a tutti la singolare ricchezza del momento sacramentale
anche in riferimento a tali peccati. Il ricorso frequente al sacramento - a cui
sono tenute alcune categorie di fedeli - rafforza la consapevolezza che anche i
peccati minori offendono Dio e feriscono la Chiesa, corpo di Cristo, e la sua
celebrazione diventa per loro «l'occasione e lo stimolo a conformarsi più
intimamente a Cristo e a rendersi più docili alla voce dello Spirito» («Ordo
Paenitentiae», 7b). Soprattutto è da sottolineare il fatto che la grazia
propria della celebrazione sacramentale ha una grande virtù terapeutica e
contribuisce a togliere le radici stesse del peccato.
La cura dell'aspetto celebrativo, con
particolare riferimento all'importanza della parola di Dio, letta, richiamata e
spiegata, quando sia possibile e opportuno, ai fedeli e con i fedeli,
contribuirà a vivificare la pratica del sacramento e a impedire che scada in
qualcosa di formalistico e abitudinario. Il penitente sarà piuttosto aiutato a
scoprire che sta vivendo un evento di salvezza, capace di infondere un nuovo
slancio di vita e una vera pace nel cuore. Questa cura per la celebrazione
porterà, fra l'altro, a fissare nelle singole Chiese dei tempi appositi per la
celebrazione del sacramento, e a educare i fedeli, specialmente i fanciulli e i
giovani, ad attenervisi in via ordinaria, salvo i casi di necessità, nei quali
il pastore d'anime dovrà sempre dimostrarsi pronto ad accogliere volentieri chi
ricorre a lui.
La celebrazione del sacramento con
assoluzione generale
33. Nel nuovo ordinamento liturgico e, più
recentemente, nel nuovo Codice di diritto canonico («Codex Iuris Canonici»,
can. 961-963), si precisano le condizioni che legittimano il ricorso al «rito
della riconciliazione di più penitenti con la confessione e l'assoluzione
generale». Le norme e gli ordinamenti dati su questo punto, frutto di matura ed
equilibrata considerazione, devono essere accolti e applicati evitando ogni
tipo di interpretazione arbitraria.
E' opportuno riflettere in maniera più
approfondita sulle motivazioni, che impongono la celebrazione della penitenza
in una delle prime due forme e consentono il ricorso alla terza forma. Vi è,
anzitutto, una motivazione di fedeltà alla volontà del Signore Gesù, trasmessa
dalla dottrina della Chiesa, e di obbedienza, altresì, alle leggi della Chiesa;
il Sinodo ha ribadito in una delle sue «Propositiones» l'immutato insegnamento,
che la Chiesa ha attinto alla più antica tradizione, e la legge, con cui essa
ha codificato l'antica prassi penitenziale: la confessione individuale e
integra dei peccati con l'assoluzione egualmente individuale costituisce
l'unico modo ordinario, con cui il fedele, consapevole di peccato grave, è
riconciliato con Dio e con la Chiesa. Da questa riconferma dell'insegnamento
della Chiesa risulta chiaramente che ogni peccato grave deve essere sempre
dichiarato, con le sue circostanze determinanti, in una confessione
individuale.
Vi è, poi, una motivazione di ordine
pastorale. Se è vero che, ricorrendo le condizioni richieste dalla disciplina
canonica, si può fare uso della terza forma di celebrazione, non si deve però
dimenticare che questa non può diventare una forma ordinaria, e che non può e
non deve essere adoperata - lo ha ripetuto il Sinodo - se non «in casi di grave
necessità», fermo restando l'obbligo di confessare individualmente i peccati
gravi prima di ricorrere di nuovo a un'altra assoluzione generale. Il vescovo,
pertanto, al quale soltanto spetta, nell'ambito della sua diocesi, di valutare
se esistano in concreto le condizioni che la legge canonica stabilisce per
l'uso della terza forma, darà questo giudizio con grave onere della sua
coscienza, nel pieno rispetto della legge e della prassi della Chiesa, e
tenendo conto, altresì, dei criteri e degli orientamenti concordati - sulla
base delle considerazioni dottrinali e pastorali sopra esposte - con gli altri
membri della conferenza episcopale. Parimenti, sarà sempre un'autentica
preoccupazione pastorale a porre e garantire le condizioni che rendono il
ricorso alla terza forma capace di dare quei frutti spirituali, per i quali
essa è prevista. Né l'uso eccezionale della terza forma di celebrazione dovrà
mai condurre ad una minore considerazione, tanto meno all'abbandono, delle
forme ordinarie, né a ritenere tale forma come alternativa delle altre due: non
è, infatti, lasciato alla libertà dei pastori e dei fedeli di scegliere fra le
menzionate forme di celebrazione quella ritenuta più opportuna. Ai pastori
rimane l'obbligo di facilitare ai fedeli la pratica della confessione integra e
individuale dei peccati, che costituisce per essi non solo un dovere, ma anche
un diritto inviolabile e inalienabile, oltre che un bisogno dell'anima. Per i
fedeli l'uso della terza forma di celebrazione comporta l'obbligo di attenersi
a tutte le norme che ne regolano l'esercizio, compresa quella di non ricorrere
di nuovo all'assoluzione generale prima di una regolare confessione integra e
individuale dei peccati, che deve essere fatta non appena possibile. Di questa
norma e dell'obbligo di osservarla i fedeli devono essere avvertiti e istruiti
dal sacerdote prima dell'assoluzione.
Con questo richiamo alla dottrina e alla
legge della Chiesa intendo inculcare in tutti il vivo senso di responsabilità,
che deve guidarci nel trattare le cose sacre, le quali non sono di nostra
proprietà, come i sacramenti, o hanno diritto a non essere lasciate
nell'incertezza e nella confusione, come le coscienze. Cose sacre - ripeto -
sono le une e le altre - i sacramenti e le coscienze -, ed esigono da parte
nostra di essere servite nella verità.
Questa è la ragione della legge della
Chiesa.
Alcuni casi più delicati
34. Ritengo di dover fare a questo punto un
accenno, sia pur brevissimo, a un caso pastorale che il Sinodo ha voluto
trattare - per quanto gli era possibile farlo -, contemplandolo anche in una
delle «Propositiones». Mi riferisco a certe situazioni, oggi non infrequenti,
in cui vengono a trovarsi cristiani desiderosi di continuare la pratica
religiosa sacramentale, ma che ne sono impediti dalla condizione personale in
contrasto con gli impegni liberamente assunti davanti a Dio e alla Chiesa. Sono
situazioni che appaiono particolarmente delicate e quasi inestricabili.
Non pochi interventi nel corso del Sinodo, esprimendo
il pensiero generale dei padri, hanno messo in luce la coesistenza e il mutuo
influsso di due principi, egualmente importanti, in merito a questi casi. Il
primo è il principio della compassione e della misericordia, secondo il quale
la Chiesa, continuatrice nella storia della presenza e dell'opera di Cristo,
non volendo la morte del peccatore ma che si converta e viva, attenta a non
spezzare la canna incrinata e a non spegnere il lucignolo che fumiga ancora,
cerca sempre di offrire, per quanto le è possibile, la via del ritorno a Dio e
della riconciliazione con lui. L'altro è il principio della verità e della
coerenza, per cui la Chiesa non accetta di chiamare bene il male e male il
bene. Basandosi su questi due principi complementari, la Chiesa non può che
invitare i suoi figli, i quali si trovano in quelle situazioni dolorose, ad
avvicinarsi alla misericordia divina per altre vie, non però per quella dei
sacramenti della penitenza e dell'eucaristia, finché non abbiano raggiunto le
disposizioni richieste.
Circa questa materia, che affligge
profondamente anche il nostro cuore di pastori, è sembrato mio preciso dovere
dire parole chiare nell'esortazione apostolica «Familiaris Consortio», per
quanto riguarda il caso di divorziati risposati, o comunque di cristiani che
convivono irregolarmente.
Al tempo stesso, sento il vivo dovere di
esortare, insieme col Sinodo, le comunità ecclesiali e, soprattutto, i vescovi
a portare ogni aiuto possibile ai sacerdoti, che, venendo meno ai gravi impegni
assunti nell'ordinazione si trovano in situazioni irregolari. Nessuno di questi
fratelli deve sentirsi abbandonato dalla Chiesa. Per tutti coloro che non si
trovano attualmente nelle condizioni oggettive richieste dal sacramento della
penitenza, le dimostrazioni di materna bontà da parte della Chiesa, il sostegno
di atti di pietà diversi da quelli sacramentali, lo sforzo sincero di
mantenersi in contatto col Signore, la partecipazione alla santa messa, la
ripetizione frequente di atti di fede, di speranza, di carità, di dolore il più
possibile perfetti, potranno preparare il cammino per una piena riconciliazione
nell'ora che solo la Provvidenza conosce.
AUSPICIO
CONCLUSIVO
35. Al termine di questo documento, sento
echeggiare in me e desidero ripetere a voi tutti l'esortazione che il primo
vescovo di Roma, in un'ora critica degli albori della Chiesa, volle indirizzare
«ai fedeli nella diaspora (...), eletti secondo la prescienza di Dio Padre:
siate tutti concordi, partecipi delle gioia e dei dolori degli altri, animati da
affetto fraterno, misericordiosi, umili». L'apostolo raccomandava: «Siate tutti
concordi...»; ma subito proseguiva col segnalare i peccati contro la concordia
e la pace, che bisogna evitare: «Non rendete male per male, né ingiuria per
ingiuria, ma, al contrario, rispondete benedicendo, poiché a questo siete stati
chiamati per avere in eredità la benedizione». E concludeva con una parola di
incoraggiamento e di speranza: «Chi vi potrà fare del male, se sarete ferventi
nel bene?».
Oso riallacciare la mia esortazione, in
un'ora non meno critica della storia, a quella del principe degli apostoli, che
per primo sedette su questa cattedra romana, come testimone di Cristo e pastore
della Chiesa, e qui «presiedette alla carità» di fronte al mondo intero.
Anch'io, in comunione con i vescovi successori degli apostoli, e confortato
dalla riflessione collegiale che molti di essi, riuniti nel Sinodo, hanno
dedicato ai temi e problemi della riconciliazione, ho voluto comunicarvi con lo
stesso spirito del pescatore di Galilea quanto egli diceva ai nostri fratelli
di fede, lontani nel tempo e così uniti nel cuore: «Siate tutti concordi (...),
non rendete male per male (...), siate ferventi nel bene». E aggiungeva: «E'
meglio infatti, se così vuole Dio, soffrire operando il bene piuttosto che fare
il male» (1Pt 3,17). Questa consegna è tutta pervasa da parole, che Pietro
aveva ascoltato dallo stesso Gesù, e da concetti che facevano parte della sua
«lieta novella»: il nuovo comandamento dell'amore vicendevole; l'anelito e l'impegno
all'unità; le beatitudini della misericordia e della pazienza nella
persecuzione per la giustizia; il ripagare il male col bene; il perdono delle
offese; l'amore ai nemici. In tali parole e concetti è la sintesi originale e
trascendente dell'etica cristiana o, meglio e più profondamente, della
spiritualità dell'alleanza nuova in Gesù Cristo.
Affido al Padre, ricco di misericordia,
affido al Figlio di Dio, fatto uomo come nostro redentore e riconciliatore,
affido allo Spirito Santo, sorgente di unità e di pace, questo mio appello di
padre e di pastore alla penitenza e alla riconciliazione. Voglia la Trinità
santissima e adorabile far germinare nella Chiesa e nel mondo il piccolo seme,
che in quest'ora consegno alla terra generosa di tanti cuori umani.
Perché ne provengano in un giorno non
lontano copiosi frutti, vi invito tutti a rivolgervi con me al cuore di Cristo,
segno eloquente della divina misericordia, «propiziazione per i nostri
peccati», «nostra pace e riconciliazione», per attingervi la spinta interiore
verso la detestazione del peccato e la conversione a Dio, e trovarvi la
benignità divina che risponde amorosamente al pentimento umano.
Vi invito pure a rivolgervi con me al cuore
immacolato di Maria, madre di Gesù, nella quale «si è operata la riconciliazione
di Dio con l'umanità (...), si è compiuta l'opera della riconciliazione, perché
ella ha ricevuto da Dio la pienezza della grazia in virtù del sacrificio
redentore di Cristo». In verità, Maria è diventata «l'alleata di Dio», in virtù
della sua maternità divina, nell'opera della riconciliazione.
Alle mani di questa Madre, il cui «fiat»
segnò l'inizio di quella «pienezza dei tempi», nella quale fu attuata da Cristo
la riconciliazione dell'uomo con Dio, e al suo cuore immacolato - al quale
abbiamo ripetutamente affidato l'intera umanità, turbata dal peccato e
straziata da tante tensioni e conflitti - affido ora in special modo questa
intenzione: che, per la sua intercessione, l'umanità stessa scopra e percorra
la via della penitenza, l'unica che potrà condurla alla piena riconciliazione.
A tutti voi, che con spirito di ecclesiale
comunione nell'obbedienza e nella fede, vorrete accogliere le indicazioni, i
suggerimenti e le direttive contenute in questo documento, studiandovi di
tradurle in vitale prassi pastorale, imparto ben volentieri la confortatrice
benedizione apostolica.
Dato a Roma, presso San Pietro, il 2
dicembre, I domenica di avvento, dell'anno 1984, settimo del mio Pontificato.