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1.
Il Vangelo della vita sta al cuore del messaggio di Gesù. Accolto dalla
Chiesa ogni giorno con amore, esso va annunciato con coraggiosa fedeltà come
buona novella agli uomini di ogni epoca e cultura. All'aurora
della salvezza, è la nascita di un bambino che viene proclamata come lieta
notizia: « Vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi
è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore » (Lc 2,
10-11). A sprigionare questa « grande gioia » è certamente la nascita del
Salvatore; ma nel Natale è svelato anche il senso pieno di ogni nascita
umana, e la gioia messianica appare così fondamento e compimento della gioia
per ogni bimbo che nasce (cf. Gv 16, 21). Presentando
il nucleo centrale della sua missione redentrice, Gesù dice: « Io sono venuto
perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza » (Gv 10, 10). In
verità, Egli si riferisce a quella vita « nuova » ed « eterna », che consiste
nella comunione con il Padre, a cui ogni uomo è gratuitamente chiamato nel
Figlio per opera dello Spirito Santificatore. Ma proprio in tale « vita »
acquistano pieno significato tutti gli aspetti e i momenti della vita
dell'uomo. Il valore incomparabile della persona umana 2.
L'uomo è chiamato a una pienezza di vita che va ben oltre le dimensioni della
sua esistenza terrena, poiché consiste nella partecipazione alla vita stessa
di Dio. L'altezza
di questa vocazione soprannaturale rivela la grandezza e la preziosità
della vita umana anche nella sua fase temporale. La vita nel tempo,
infatti, è condizione basilare, momento iniziale e parte integrante
dell'intero e unitario processo dell'esistenza umana. Un processo che,
inaspettatamente e immeritatamente, viene illuminato dalla promessa e rinnovato
dal dono della vita divina, che raggiungerà il suo pieno compimento
nell'eternità (cf. 1 Gv 3, 1-2). Nello stesso tempo, proprio questa
chiamata soprannaturale sottolinea la relatività della vita terrena
dell'uomo e della donna. Essa, in verità, non è realtà « ultima », ma «
penultima »; è comunque realtà sacra che ci viene affidata perché la
custodiamo con senso di responsabilità e la portiamo a perfezione nell'amore
e nel dono di noi stessi a Dio e ai fratelli. La
Chiesa sa che questo Vangelo della vita, consegnatole dal suo
Signore,(1) ha un'eco profonda e persuasiva nel cuore di ogni persona,
credente e anche non credente, perché esso, mentre ne supera infinitamente le
attese, vi corrisponde in modo sorprendente. Pur tra difficoltà e incertezze,
ogni uomo sinceramente aperto alla verità e al bene, con la luce della
ragione e non senza il segreto influsso della grazia, può arrivare a
riconoscere nella legge naturale scritta nel cuore (cf. Rm 2, 14-15)
il valore sacro della vita umana dal primo inizio fino al suo termine, e ad
affermare il diritto di ogni essere umano a vedere sommamente rispettato
questo suo bene primario. Sul riconoscimento di tale diritto si fonda l'umana
convivenza e la stessa comunità politica. Questo
diritto devono, in modo particolare, difendere e promuovere i credenti in
Cristo, consapevoli della meravigliosa verità ricordata dal Concilio Vaticano
II: « Con l'incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni
uomo ».(2) In questo evento di salvezza, infatti, si rivela all'umanità non
solo l'amore sconfinato di Dio che « ha tanto amato il mondo da dare il suo
Figlio unigenito » (Gv 3, 16), ma anche il valore incomparabile di
ogni persona umana. E
la Chiesa, scrutando assiduamente il mistero della Redenzione, coglie questo
valore con sempre rinnovato stupore (3) e si sente chiamata ad annunciare
agli uomini di tutti i tempi questo « vangelo », fonte di speranza
invincibile e di gioia vera per ogni epoca della storia. Il Vangelo
dell'amore di Dio per l'uomo, il Vangelo della dignità della persona e il
Vangelo della vita sono un unico e indivisibile Vangelo. È
per questo che l'uomo, l'uomo vivente, costituisce la prima e fondamentale
via della Chiesa.(4) Le nuove minacce alla vita umana 3.
Ciascun uomo, proprio a motivo del mistero del Verbo di Dio che si è fatto
carne (cf. Gv 1, 14), è affidato alla sollecitudine materna della
Chiesa. Perciò ogni minaccia alla dignità e alla vita dell'uomo non può non
ripercuotersi nel cuore stesso della Chiesa, non può non toccarla al centro
della propria fede nell'incarnazione redentrice del Figlio di Dio, non può
non coinvolgerla nella sua missione di annunciare il Vangelo della vita in
tutto il mondo e ad ogni creatura (cf. Mc 16, 15). Oggi
questo annuncio si fa particolarmente urgente per l'impressionante
moltiplicarsi ed acutizzarsi delle minacce alla vita delle persone e dei
popoli, soprattutto quando essa è debole e indifesa. Alle antiche dolorose
piaghe della miseria, della fame, delle malattie endemiche, della violenza e
delle guerre, se ne aggiungono altre, dalle modalità inedite e dalle
dimensioni inquietanti. Già
il Concilio Vaticano II, in una pagina di drammatica attualità, ha deplorato
con forza molteplici delitti e attentati contro la vita umana. A trent'anni
di distanza, facendo mie le parole dell'assise conciliare, ancora una volta e
con identica forza li deploro a nome della Chiesa intera, con la certezza di
interpretare il sentimento autentico di ogni coscienza retta: « Tutto ciò che
è contro la vita stessa, come ogni specie di omicidio, il genocidio,
l'aborto, l'eutanasia e lo stesso suicidio volontario; tutto ciò che viola
l'integrità della persona umana, come le mutilazioni, le torture inflitte al
corpo e alla mente, gli sforzi per violentare l'intimo dello spirito; tutto
ciò che offende la dignità umana, come le condizioni infraumane di vita, le
incarcerazioni arbitrarie, le deportazioni, la schiavitù, la prostituzione,
il mercato delle donne e dei giovani, o ancora le ignominiose condizioni di
lavoro con le quali i lavoratori sono trattati come semplici strumenti di
guadagno, e non come persone libere e responsabili; tutte queste cose, e
altre simili, sono certamente vergognose e, mentre guastano la civiltà umana,
inquinano coloro che così si comportano ancor più che non quelli che le
subiscono; e ledono grandemente l'onore del Creatore ».(5) 4.
Purtroppo, questo inquietante panorama, lungi dal restringersi, si va
piuttosto dilatando: con le nuove prospettive aperte dal progresso
scientifico e tecnologico nascono nuove forme di attentati alla dignità
dell'essere umano, mentre si delinea e consolida una nuova situazione
culturale, che dà ai delitti contro la vita un aspetto inedito e — se
possibile — ancora più iniquo suscitando ulteriori gravi preoccupazioni:
larghi strati dell'opinione pubblica giustificano alcuni delitti contro la
vita in nome dei diritti della libertà individuale e, su tale presupposto, ne
pretendono non solo l'impunità, ma persino l'autorizzazione da parte dello
Stato, al fine di praticarli in assoluta libertà ed anzi con l'intervento
gratuito delle strutture sanitarie. Ora,
tutto questo provoca un cambiamento profondo nel modo di considerare la vita
e le relazioni tra gli uomini. Il fatto che le legislazioni di molti Paesi,
magari allontanandosi dagli stessi principi basilari delle loro Costituzioni,
abbiano acconsentito a non punire o addirittura a riconoscere la piena
legittimità di tali pratiche contro la vita è insieme sintomo preoccupante e
causa non marginale di un grave crollo morale: scelte un tempo unanimemente
considerate come delittuose e rifiutate dal comune senso morale, diventano a
poco a poco socialmente rispettabili. La stessa medicina, che per sua
vocazione è ordinata alla difesa e alla cura della vita umana, in alcuni suoi
settori si presta sempre più largamente a realizzare questi atti contro la
persona e in tal modo deforma il suo volto, contraddice sé stessa e avvilisce
la dignità di quanti la esercitano. In un simile contesto culturale e legale,
anche i gravi problemi demografici, sociali o familiari, che pesano su
numerosi popoli del mondo ed esigono un'attenzione responsabile ed operosa
delle comunità nazionali e di quelle internazionali, si trovano esposti a
soluzioni false e illusorie, in contrasto con la verità e il bene delle
persone e delle Nazioni. L'esito
al quale si perviene è drammatico: se è quanto mai grave e inquietante il
fenomeno dell'eliminazione di tante vite umane nascenti o sulla via del
tramonto, non meno grave e inquietante è il fatto che la stessa coscienza,
quasi ottenebrata da così vasti condizionamenti, fatica sempre più a
percepire la distinzione tra il bene e il male in ciò che tocca lo stesso
fondamentale valore della vita umana. In comunione con tutti i Vescovi del mondo 5.
Al problema delle minacce alla vita umana nel nostro tempo è stato dedicato
il Concistoro straordinario dei Cardinali, svoltosi a Roma dal 4 al 7
aprile 1991. Dopo un'ampia e approfondita discussione del problema e delle
sfide poste all'intera famiglia umana e, in particolare, alla comunità
cristiana, i Cardinali, con voto unanime, mi hanno chiesto di riaffermare con
l'autorità del Successore di Pietro il valore della vita umana e la sua
inviolabilità, in riferimento alle attuali circostanze ed agli attentati che
oggi la minacciano. Accogliendo
tale richiesta, ho scritto nella Pentecoste del 1991 una lettera personale
a ciascun Confratello perché, nello spirito della collegialità
episcopale, mi offrisse la sua collaborazione in vista della stesura di uno
specifico documento.(6) Sono profondamente grato a tutti i Vescovi che hanno
risposto, fornendomi preziose informazioni, suggerimenti e proposte. Essi
hanno testimoniato anche così la loro unanime e convinta partecipazione alla
missione dottrinale e pastorale della Chiesa circa il Vangelo della vita. Nella
medesima lettera, a pochi giorni dalla celebrazione del centenario
dell'Enciclica Rerum novarum, attiravo l'attenzione di tutti su questa
singolare analogia: « Come un secolo fa ad essere oppressa nei suoi
fondamentali diritti era la classe operaia, e la Chiesa con grande coraggio
ne prese le difese, proclamando i sacrosanti diritti della persona del
lavoratore, così ora, quando un'altra categoria di persone è oppressa nel
diritto fondamentale alla vita, la Chiesa sente di dover dare voce con
immutato coraggio a chi non ha voce. Il suo è sempre il grido evangelico in
difesa dei poveri del mondo, di quanti sono minacciati, disprezzati e
oppressi nei loro diritti umani ».(7) Ad
essere calpestata nel diritto fondamentale alla vita è oggi una grande
moltitudine di esseri umani deboli e indifesi, come sono, in particolare, i
bambini non ancora nati. Se alla Chiesa, sul finire del secolo scorso, non
era consentito tacere davanti alle ingiustizie allora operanti, meno ancora
essa può tacere oggi, quando alle ingiustizie sociali del passato, purtroppo
non ancora superate, in tante parti del mondo si aggiungono ingiustizie ed
oppressioni anche più gravi, magari scambiate per elementi di progresso in
vista dell'organizzazione di un nuovo ordine mondiale. La
presente Enciclica, frutto della collaborazione dell'Episcopato di ogni Paese
del mondo, vuole essere dunque una riaffermazione precisa e ferma del
valore della vita umana e della sua inviolabilità, ed insieme un
appassionato appello rivolto a tutti e a ciascuno, in nome di Dio: rispetta,
difendi, ama e servi la vita, ogni vita umana! Solo su questa strada
troverai giustizia, sviluppo, libertà vera, pace e felicità! Giungano
queste parole a tutti i figli e le figlie della Chiesa! Giungano a tutte le
persone di buona volontà, sollecite del bene di ogni uomo e donna e del
destino dell'intera società! 6.
In profonda comunione con ogni fratello e sorella nella fede e animato da
sincera amicizia per tutti, voglio rimeditare e annunciare il Vangelo
della vita, splendore di verità che illumina le coscienze, limpida luce
che risana lo sguardo ottenebrato, fonte inesauribile di costanza e coraggio
per affrontare le sempre nuove sfide che incontriamo sul nostro cammino. E
mentre ripenso alla ricca esperienza vissuta durante l'Anno della Famiglia,
quasi completando idealmente la Lettera da me indirizzata « ad ogni
famiglia concreta di qualunque regione della terra »,(8) guardo con rinnovata
fiducia a tutte le comunità domestiche ed auspico che rinasca o si rafforzi
ad ogni livello l'impegno di tutti a sostenere la famiglia, perché anche oggi
— pur in mezzo a numerose difficoltà e a pesanti minacce — essa si conservi
sempre, secondo il disegno di Dio, come « santuario della vita ».(9) A
tutti i membri della Chiesa, popolo della vita e per la vita, rivolgo
il più pressante invito perché, insieme, possiamo dare a questo nostro mondo
nuovi segni di speranza, operando affinché crescano giustizia e solidarietà e
si affermi una nuova cultura della vita umana, per l'edificazione di
un'autentica civiltà della verità e dell'amore.
LA
VOCE DEL SANGUE DI TUO FRATELLO GRIDA A ME DAL SUOLO «
Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise » (Gn 4, 8): alla radice della violenza
contro la vita. 7.
« Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli
infatti ha creato tutto per l'esistenza... Sì, Dio ha creato l'uomo per
l'incorruttibilità; lo fece a immagine della propria natura. Ma la
morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo; e ne fanno esperienza
coloro che gli appartengono » (Sap 1, 13-14; 2, 23-24). Il Vangelo
della vita, risuonato al principio con la creazione dell'uomo a immagine
di Dio per un destino di vita piena e perfetta (cf. Gn 2, 7; Sap 9,
2-3), viene contraddetto dall'esperienza lacerante della morte che entra
nel mondo e getta l'ombra del non senso sull'intera esistenza dell'uomo. La
morte vi entra a causa dell'invidia del diavolo (cf. Gn 3, 1.4-5) e
del peccato dei progenitori (cf. Gn 2, 17; 3, 17-19). E vi entra in
modo violento, attraverso l'uccisione di Abele da parte del fratello
Caino: « Mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il fratello
Abele e lo uccise » (Gn 4, 8). Questa
prima uccisione è presentata con una singolare eloquenza in una pagina
paradigmatica del libro della Genesi: una pagina ritrascritta ogni giorno,
senza sosta e con avvilente ripetizione, nel libro della storia dei popoli. Vogliamo
rileggere insieme questa pagina biblica, che, pur nella sua arcaicità ed
estrema semplicità, si presenta quanto mai ricca di insegnamenti. «
Abele era pastore di greggi e Caino lavoratore del suolo. Dopo un certo
tempo, Caino offrì frutti del suolo in sacrificio al Signore; anche Abele
offrì primogeniti del suo gregge e il loro grasso. Il Signore gradì Abele e
la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta. Caino
ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto. Il Signore disse allora a
Caino: "Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci
bene, non dovrai forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è
accovacciato alla tua porta; verso di te è la sua bramosia, ma tu
dominala". Caino
disse al fratello Abele: "Andiamo in campagna!". Mentre erano in
campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise. Allora
il Signore disse a Caino: "Dov'è Abele, tuo fratello?". Egli
rispose: "Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?".
Riprese: "Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me
dal suolo! Ora sii maledetto lungi da quel suolo che per opera della tua mano
ha bevuto il sangue di tuo fratello. Quando lavorerai il suolo, esso non ti
darà più i suoi prodotti: ramingo e fuggiasco sarai sulla terra". Disse
Caino al Signore: "Troppo grande è la mia colpa per sopportarla! Ecco,
tu mi scacci oggi da questo suolo e io mi dovrò nascondere lontano da te; io
sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà mi potrà uccidere". Ma
il Signore gli disse: "Però chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta
sette volte!". Il Signore impose a Caino un segno, perché non lo
colpisse chiunque l'avesse incontrato. Caino si allontanò dal Signore e abitò
nel paese di Nod, ad oriente di Eden » (Gn 4, 2-16). 8.
Caino è « molto irritato » e ha il volto « abbattuto » perché « il Signore
gradì Abele e la sua offerta » (Gn 4, 4). Il testo biblico non rivela
il motivo per cui Dio preferisce il sacrificio di Abele a quello di Caino;
indica però con chiarezza che, pur preferendo il dono di Abele, non
interrompe il suo dialogo con Caino. Lo ammonisce ricordandogli la sua
libertà di fronte al male: l'uomo non è per nulla un predestinato al
male. Certo, come già Adamo, egli è tentato dalla potenza malefica del
peccato che, come bestia feroce, è appostata alla porta del suo cuore, in
attesa di avventarsi sulla preda. Ma Caino rimane libero di fronte al
peccato. Lo può e lo deve dominare: « Verso di te è la sua bramosia, ma tu
dominala! » (Gn 4, 7). Sull'ammonimento
del Signore hanno il sopravvento la gelosia e l'ira, e così Caino
s'avventa sul proprio fratello e lo uccide. Come leggiamo nel Catechismo
della Chiesa Cattolica, « la Scrittura, nel racconto dell'uccisione di
Abele da parte del fratello Caino, rivela, fin dagli inizi della storia
umana, la presenza nell'uomo della collera e della cupidigia, conseguenze del
peccato originale. L'uomo è diventato il nemico del suo simile ».(10) Il
fratello uccide il fratello. Come
nel primo fratricidio, in ogni omicidio viene violata la parentela «
spirituale », che accomuna gli uomini in un'unica grande famiglia,(11)
essendo tutti partecipi dello stesso bene fondamentale: l'uguale dignità
personale. Non poche volte viene violata anche la parentela « della carne e
del sangue », ad esempio quando le minacce alla vita si sviluppano nel
rapporto tra genitori e figli, come avviene con l'aborto o quando, nel più
vasto contesto familiare o parentale, viene favorita o procurata l'eutanasia. Alla
radice di ogni violenza contro il prossimo c'è un cedimento alla « logica
» del maligno, cioè di colui che « è stato omicida fin da principio » (Gv
8, 44), come ci ricorda l'apostolo Giovanni: « Poiché questo è il
messaggio che avete udito fin da principio: che ci amiamo gli uni gli altri.
Non come Caino, che era dal maligno e uccise il suo fratello » (1 Gv 3,
11-12). Così l'uccisione del fratello, fin dagli albori della storia, è la
triste testimonianza di come il male progredisca con rapidità impressionante:
alla rivolta dell'uomo contro Dio nel paradiso terrestre si accompagna la
lotta mortale dell'uomo contro l'uomo. Dopo
il delitto, Dio interviene a vendicare l'ucciso. Di fronte a Dio, che
lo interroga sulla sorte di Abele, Caino, anziché mostrarsi impacciato e
scusarsi, elude la domanda con arroganza: « Non lo so. Sono forse il
guardiano di mio fratello? » (Gn 4, 9). « Non lo so »: con la
menzogna Caino cerca di coprire il delitto. Così è spesso avvenuto e avviene
quando le più diverse ideologie servono a giustificare e a mascherare i più
atroci delitti verso la persona. « Sono forse io il guardiano di mio
fratello? »: Caino non vuole pensare al fratello e rifiuta di vivere
quella responsabilità che ogni uomo ha verso l'altro. Viene spontaneo pensare
alle odierne tendenze di deresponsabilizzazione dell'uomo verso il suo
simile, di cui sono sintomi, tra l'altro, il venir meno della solidarietà
verso i membri più deboli della società — quali gli anziani, gli ammalati,
gli immigrati, i bambini — e l'indifferenza che spesso si registra nei
rapporti tra i popoli anche quando sono in gioco valori fondamentali come la
sussistenza, la libertà e la pace. 9.
Ma Dio non può lasciare impunito il delitto: dal suolo su cui è stato
versato, il sangue dell'ucciso esige che Egli faccia giustizia (cf. Gn 37,
26; Is 26, 21; Ez 24, 7-8). Da questo testo la Chiesa ha
ricavato la denominazione di « peccati che gridano vendetta al cospetto di
Dio » e vi ha incluso, anzitutto, l'omicidio volontario.(12) Per gli ebrei,
come per molti popoli dell'antichità, il sangue è la sede della vita, anzi «
il sangue è la vita » (Dt 12, 23) e la vita, specie quella umana,
appartiene solo a Dio: per questo chi attenta alla vita dell'uomo, in
qualche modo attenta a Dio stesso. Caino
è maledetto da Dio e anche dalla
terra, che gli rifiuterà i suoi frutti (cf. Gn 4, 11-12). Ed èpunito:
abiterà nella steppa e nel deserto. La violenza omicida cambia
profondamente l'ambiente di vita dell'uomo. La terra da « giardino di Eden »
(Gn 2, 15), luogo di abbondanza, di serene relazioni interpersonali e
di amicizia con Dio, diventa « paese di Nod » (Gn 4, 16), luogo della
« miseria », della solitudine e della lontananza da Dio. Caino sarà « ramingo
e fuggiasco sulla terra » (Gn 4, 14): incertezza e instabilità lo
accompagneranno sempre. Dio,
tuttavia, sempre misericordioso anche quando punisce, « impose a Caino un
segno, perché non lo colpisse chiunque l'avesse incontrato » (Gn 4,
15): gli dà, dunque, un contrassegno, che ha lo scopo non di condannarlo
all'esecrazione degli altri uomini, ma di proteggerlo e difenderlo da quanti
vorranno ucciderlo fosse anche per vendicare la morte di Abele. Neppure
l'omicida perde la sua dignità personale e Dio stesso se ne fa garante.
Ed è proprio qui che si manifesta il paradossale mistero della misericordiosa
giustizia di Dio, come scrive sant'Ambrogio: « Poiché era stato commesso
un fratricidio, cioè il più grande dei crimini, nel momento in cui si
introdusse il peccato, subito dovette essere estesa la legge della
misericordia divina; perché, se il castigo avesse colpito immediatamente il
colpevole, non accadesse che gli uomini, nel punire, non usassero alcuna
tolleranza né mitezza, ma consegnassero immediatamente al castigo i
colpevoli. (...) Dio respinse Caino dal suo cospetto e, rinnegato dai suoi genitori,
lo relegò come nell'esilio di una abitazione separata, per il fatto che era
passato dall'umana mitezza alla ferocia belluina. Tuttavia Dio non volle
punire l'omicida con un omicidio, poiché vuole il pentimento del peccatore
più che la sua morte ».(13) «
Che hai fatto? » (Gn 4,
10): l'eclissi del valore della vita 10.
Il Signore disse a Caino: « Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello
grida a me dal suolo! » (Gn 4, 10). La voce del sangue versato
dagli uomini non cessa di gridare, di generazione in generazione,
assumendo toni e accenti diversi e sempre nuovi. La
domanda del Signore « Che hai fatto? », alla quale Caino non può sfuggire, è
rivolta anche all'uomo contemporaneo perché prenda coscienza dell'ampiezza e
della gravità degli attentati alla vita da cui continua ad essere segnata la
storia dell'umanità; vada alla ricerca delle molteplici cause che li generano
e li alimentano; rifletta con estrema serietà sulle conseguenze che derivano
da questi stessi attentati per l'esistenza delle persone e dei popoli. Alcune
minacce provengono dalla natura stessa, ma sono aggravate dall'incuria
colpevole e dalla negligenza degli uomini che non raramente potrebbero porvi
rimedio; altre invece sono il frutto di situazioni di violenza, di odi, di
contrapposti interessi, che inducono gli uomini ad aggredire altri uomini con
omicidi, guerre, stragi, genocidi. E
come non pensare alla violenza che si fa alla vita di milioni di esseri
umani, specialmente bambini, costretti alla miseria, alla sottonutrizione e alla
fame, a causa di una iniqua distribuzione delle ricchezze tra i popoli e le
classi sociali? o alla violenza insita, prima ancora che nelle guerre, in uno
scandaloso commercio delle armi, che favorisce la spirale dei tanti conflitti
armati che insanguinano il mondo? o alla seminagione di morte che si opera
con l'inconsulto dissesto degli equilibri ecologici, con la criminale
diffusione della droga o col favorire modelli di esercizio della sessualità
che, oltre ad essere moralmente inaccettabili, sono anche forieri di gravi
rischi per la vita? È impossibile registrare in modo completo la vasta gamma
delle minacce alla vita umana, tante sono le forme, aperte o subdole, che
esse rivestono nel nostro tempo! 11.
Ma la nostra attenzione intende concentrarsi, in particolare, su un altro
genere di attentati, concernenti la vita nascente e terminale, che
presentano caratteri nuovi rispetto al passato e sollevano problemi di
singolare gravità per il fatto che tendono a perdere, nella coscienza
collettiva, il carattere di « delitto » e ad assumere paradossalmente quello
del « diritto », al punto che se ne pretende un vero e proprio riconoscimento
legale da parte dello Stato e la successiva esecuzione mediante l'intervento
gratuito degli stessi operatori sanitari. Tali attentati colpiscono la
vita umana in situazioni di massima precarietà, quando è priva di ogni
capacità di difesa. Ancora più grave è il fatto che essi, in larga parte,
sono consumati proprio all'interno e ad opera di quella famiglia che
costitutivamente è invece chiamata ad essere « santuario della vita ». Come
s'è potuta determinare una simile situazione? Occorre prendere in
considerazione molteplici fattori. Sullo sfondo c'è una profonda crisi della
cultura, che ingenera scetticismo sui fondamenti stessi del sapere e
dell'etica e rende sempre più difficile cogliere con chiarezza il senso
dell'uomo, dei suoi diritti e dei suoi doveri. A ciò si aggiungono le più
diverse difficoltà esistenziali e relazionali, aggravate dalla realtà di una
società complessa, in cui le persone, le coppie, le famiglie rimangono spesso
sole con i loro problemi. Non mancano situazioni di particolare povertà,
angustia o esasperazione, in cui la fatica della sopravvivenza, il dolore ai
limiti della sopportabilità, le violenze subite, specialmente quelle che
investono le donne, rendono le scelte di difesa e di promozione della vita
esigenti a volte fino all'eroismo. Tutto
ciò spiega, almeno in parte, come il valore della vita possa oggi subire una specie
di « eclissi », per quanto la coscienza non cessi di additarlo quale valore
sacro e intangibile, come dimostra il fatto stesso che si tende a coprire
alcuni delitti contro la vita nascente o terminale con locuzioni di tipo
sanitario, che distolgono lo sguardo dal fatto che è in gioco il diritto
all'esistenza di una concreta persona umana. 12.
In realtà, se molti e gravi aspetti dell'odierna problematica sociale possono
in qualche modo spiegare il clima di diffusa incertezza morale e talvolta
attenuare nei singoli la responsabilità soggettiva, non è meno vero che siamo
di fronte a una realtà più vasta, che si può considerare come una vera e
propria struttura di peccato, caratterizzata dall'imporsi di una
cultura anti-solidaristica, che si configura in molti casi come vera «
cultura di morte ». Essa è attivamente promossa da forti correnti culturali,
economiche e politiche, portatrici di una concezione efficientistica della
società. Guardando
le cose da tale punto di vista, si può, in certo senso, parlare di una guerra
dei potenti contro i deboli: la vita che richiederebbe più accoglienza,
amore e cura è ritenuta inutile, o è considerata come un peso insopportabile
e, quindi, è rifiutata in molte maniere. Chi, con la sua malattia, con il suo
handicap o, molto più semplicemente, con la stessa sua presenza mette in
discussione il benessere o le abitudini di vita di quanti sono più
avvantaggiati, tende ad essere visto come un nemico da cui difendersi o da
eliminare. Si scatena così una specie di « congiura contro la vita ».
Essa non coinvolge solo le singole persone nei loro rapporti individuali,
familiari o di gruppo, ma va ben oltre, sino ad intaccare e stravolgere, a
livello mondiale, i rapporti tra i popoli e gli Stati. 13.
Per facilitare la diffusione dell'aborto, si sono investite e si
continuano ad investire somme ingenti destinate alla messa a punto di
preparati farmaceutici, che rendono possibile l'uccisione del feto nel grembo
materno, senza la necessità di ricorrere all'aiuto del medico. La stessa ricerca
scientifica, su questo punto, sembra quasi esclusivamente preoccupata di
ottenere prodotti sempre più semplici ed efficaci contro la vita e, nello
stesso tempo, tali da sottrarre l'aborto ad ogni forma di controllo e
responsabilità sociale. Si
afferma frequentemente che la contraccezione, resa sicura e
accessibile a tutti, è il rimedio più efficace contro l'aborto. Si accusa poi
la Chiesa cattolica di favorire di fatto l'aborto perché continua
ostinatamente a insegnare l'illiceità morale della contraccezione. L'obiezione,
a ben guardare, si rivela speciosa. Può essere, infatti, che molti ricorrano
ai contraccettivi anche nell'intento di evitare successivamente la tentazione
dell'aborto. Ma i disvalori insiti nella « mentalità contraccettiva » — ben
diversa dall'esercizio responsabile della paternità e maternità, attuato nel
rispetto della piena verità dell'atto coniugale — sono tali da rendere più
forte proprio questa tentazione, di fronte all'eventuale concepimento di una
vita non desiderata. Di fatto la cultura abortista è particolarmente
sviluppata proprio in ambienti che rifiutano l'insegnamento della Chiesa
sulla contraccezione. Certo, contraccezione ed aborto, dal punto di vista
morale, sono mali specificamente diversi: l'una contraddice all'integra
verità dell'atto sessuale come espressione propria dell'amore coniugale,
l'altro distrugge la vita di un essere umano; la prima si oppone alla virtù
della castità matrimoniale, il secondo si oppone alla virtù della giustizia e
viola direttamente il precetto divino « non uccidere ». Ma
pur con questa diversa natura e peso morale, essi sono molto spesso in intima
relazione, come frutti di una medesima pianta. È vero che non mancano casi in
cui alla contraccezione e allo stesso aborto si giunge sotto la spinta di
molteplici difficoltà esistenziali, che tuttavia non possono mai esonerare
dallo sforzo di osservare pienamente la Legge di Dio. Ma in moltissimi altri
casi tali pratiche affondano le radici in una mentalità edonistica e
deresponsabilizzante nei confronti della sessualità e suppongono un concetto
egoistico di libertà che vede nella procreazione un ostacolo al dispiegarsi
della propria personalità. La vita che potrebbe scaturire dall'incontro
sessuale diventa così il nemico da evitare assolutamente e l'aborto l'unica
possibile risposta risolutiva di fronte ad una contraccezione fallita. Purtroppo
la stretta connessione che, a livello di mentalità, intercorre tra la pratica
della contraccezione e quella dell'aborto emerge sempre di più e lo dimostra
in modo allarmante anche la messa a punto di preparati chimici, di
dispositivi intrauterini e di vaccini che, distribuiti con la stessa facilità
dei contraccettivi, agiscono in realtà come abortivi nei primissimi stadi di
sviluppo della vita del nuovo essere umano. 14.
Anche le varie tecniche di riproduzione artificiale, che sembrerebbero
porsi a servizio della vita e che sono praticate non poche volte con questa
intenzione, in realtà aprono la porta a nuovi attentati contro la vita. Al di
là del fatto che esse sono moralmente inaccettabili, dal momento che
dissociano la procreazione dal contesto integralmente umano dell'atto
coniugale,(14) queste tecniche registrano alte percentuali di insuccesso:
esso riguarda non tanto la fecondazione, quanto il successivo sviluppo
dell'embrione, esposto al rischio di morte entro tempi in genere brevissimi.
Inoltre, vengono prodotti talvolta embrioni in numero superiore a quello
necessario per l'impianto nel grembo della donna e questi cosiddetti «
embrioni soprannumerari » vengono poi soppressi o utilizzati per ricerche
che, con il pretesto del progresso scientifico o medico, in realtà riducono
la vita umana a semplice « materiale biologico » di cui poter liberamente
disporre. Le diagnosi
pre-natali, che non presentano difficoltà morali se fatte per individuare
eventuali cure necessarie al bambino non ancora nato, diventano troppo spesso
occasione per proporre e procurare l'aborto. È l'aborto eugenetico, la cui
legittimazione nell'opinione pubblica nasce da una mentalità — a torto
ritenuta coerente con le esigenze della « terapeuticità » — che accoglie la
vita solo a certe condizioni e che rifiuta il limite, l'handicap,
l'infermità. Seguendo
questa stessa logica, si è giunti a negare le cure ordinarie più elementari,
e perfino l'alimentazione, a bambini nati con gravi handicap o malattie. Lo
scenario contemporaneo, inoltre, si fa ancora più sconcertante a motivo delle
proposte, avanzate qua e là, di legittimare, nella stessa linea del diritto
all'aborto, persino l'infanticidio, ritornando così ad uno stadio di
barbarie che si sperava di aver superato per sempre. 15.
Minacce non meno gravi incombono pure sui malati inguaribili e sui morenti,
in un contesto sociale e culturale che, rendendo più difficile affrontare
e sopportare la sofferenza, acuisce la tentazione di risolvere il problema
del soffrire eliminandolo alla radice con l'anticipare la morte al
momento ritenuto più opportuno. In
tale scelta confluiscono spesso elementi di diverso segno, purtroppo
convergenti a questo terribile esito. Può essere decisivo, nel soggetto
malato, il senso di angoscia, di esasperazione, persino di disperazione,
provocato da un'esperienza di dolore intenso e prolungato. Ciò mette a dura
prova gli equilibri a volte già instabili della vita personale e familiare,
sicché, da una parte, il malato, nonostante gli aiuti sempre più efficaci
dell'assistenza medica e sociale, rischia di sentirsi schiacciato dalla
propria fragilità; dall'altra, in coloro che gli sono effettivamente legati,
può operare un senso di comprensibile anche se malintesa pietà. Tutto ciò è
aggravato da un'atmosfera culturale che non coglie nella sofferenza alcun
significato o valore, anzi la considera il male per eccellenza, da eliminare
ad ogni costo; il che avviene specialmente quando non si ha una visione
religiosa che aiuti a decifrare positivamente il mistero del dolore. Ma
nell'orizzonte culturale complessivo non manca di incidere anche una sorta di
atteggiamento prometeico dell'uomo che, in tal modo, si illude di potersi
impadronire della vita e della morte perché decide di esse, mentre in realtà
viene sconfitto e schiacciato da una morte irrimediabilmente chiusa ad ogni
prospettiva di senso e ad ogni speranza. Riscontriamo una tragica espressione
di tutto ciò nella diffusione dell'eutanasia, mascherata e strisciante
o attuata apertamente e persino legalizzata. Essa, oltre che per una presunta
pietà di fronte al dolore del paziente, viene talora giustificata con una
ragione utilitaristica, volta ad evitare spese improduttive troppo gravose
per la società. Si propone così la soppressione dei neonati malformati, degli
handicappati gravi, degli inabili, degli anziani, soprattutto se non
autosufficienti, e dei malati terminali. Né ci è lecito tacere di fronte ad
altre forme più subdole, ma non meno gravi e reali, di eutanasia. Esse, ad
esempio, potrebbero verificarsi quando, per aumentare la disponibilità di
organi da trapiantare, si procedesse all'espianto degli stessi organi senza
rispettare i criteri oggettivi ed adeguati di accertamento della morte del
donatore. 16.
Un altro fenomeno attuale, al quale si accompagnano frequentemente
minacce e attentati alla vita, è quello demografico. Esso si presenta
in modo differente nelle diverse parti del mondo: nei Paesi ricchi e
sviluppati si registra un preoccupante calo o crollo delle nascite; i Paesi
poveri, invece, presentano in genere un tasso elevato di aumento della
popolazione, difficilmente sopportabile in un contesto di minore sviluppo
economico e sociale, o addirittura di grave sottosviluppo. Di fronte alla
sovrapopolazione dei Paesi poveri mancano, a livello internazionale,
interventi globali — serie politiche familiari e sociali, programmi di
crescita culturale e di giusta produzione e distribuzione delle risorse —
mentre si continua a mettere in atto politiche antinataliste. Contraccezione,
sterilizzazione e aborto vanno certamente annoverati tra le cause che
contribuiscono a determinare le situazioni di forte denatalità. Può essere
facile la tentazione di ricorrere agli stessi metodi e attentati contro la
vita anche nelle situazioni di « esplosione demografica ». L'antico
faraone, sentendo come un incubo la presenza e il moltiplicarsi dei figli di
Israele, li sottopose ad ogni forma di oppressione e ordinò che venisse fatto
morire ogni neonato maschio delle donne ebree (cf. Es 1, 7-22). Allo
stesso modo si comportano oggi non pochi potenti della terra. Essi
pure avvertono come un incubo lo sviluppo demografico in atto e temono che i
popoli più prolifici e più poveri rappresentino una minaccia per il benessere
e la tranquillità dei loro Paesi. Di conseguenza, piuttosto che voler
affrontare e risolvere questi gravi problemi nel rispetto della dignità delle
persone e delle famiglie e dell'inviolabile diritto alla vita di ogni uomo,
preferiscono promuovere e imporre con qualsiasi mezzo una massiccia
pianificazione delle nascite. Gli stessi aiuti economici, che sarebbero
disposti a dare, vengono ingiustamente condizionati all'accettazione di una
politica antinatalista. 17.
L'umanità di oggi ci offre uno spettacolo davvero allarmante, se pensiamo non
solo ai diversi ambiti nei quali si sviluppano gli attentati alla vita, ma
anche alla loro singolare proporzione numerica, nonché al molteplice e
potente sostegno che viene loro dato dall'ampio consenso sociale, dal
frequente riconoscimento legale, dal coinvolgimento di parte del personale
sanitario. Come
ebbi a dire con forza a Denver, in occasione dell'VIII Giornata Mondiale
della Gioventù, « con il tempo, le minacce contro la vita non vengono meno.
Esse, al contrario, assumono dimensioni enormi. Non si tratta soltanto di
minacce provenienti dall'esterno, di forze della natura o dei
"Caino" che assassinano gli "Abele"; no, si tratta di minacce
programmate in maniera scientifica e sistematica. Il ventesimo secolo
verrà considerato un'epoca di attacchi massicci contro la vita,
un'interminabile serie di guerre e un massacro permanente di vite umane
innocenti. I falsi profeti e i falsi maestri hanno conosciuto il maggior
successo possibile ».(15) Al di là delle intenzioni, che possono essere varie
e magari assumere forme suadenti persino in nome della solidarietà, siamo in
realtà di fronte a una oggettiva « congiura contro la vita » che vede
implicate anche Istituzioni internazionali, impegnate a incoraggiare e
programmare vere e proprie campagne per diffondere la contraccezione, la
sterilizzazione e l'aborto. Non si può, infine, negare che i mass media sono
spesso complici di questa congiura, accreditando nell'opinione pubblica
quella cultura che presenta il ricorso alla contraccezione, alla
sterilizzazione, all'aborto e alla stessa eutanasia come segno di progresso e
conquista di libertà, mentre dipinge come nemiche della libertà e del
progresso le posizioni incondizionatamente a favore della vita. «
Sono forse il guardiano di mio fratello? » (Gn 4, 9): un'idea perversa di libertà 18.
Il panorama descritto chiede di essere conosciuto non soltanto nei fenomeni
di morte che lo caratterizzano, ma anche nelle molteplici cause che lo
determinano. La domanda del Signore « Che hai fatto? » (Gn 4, 10)
sembra essere quasi un invito rivolto a Caino ad andare oltre la materialità
del suo gesto omicida, per coglierne tutta la gravità nelle motivazioni che
ne sono all'origine e nelle conseguenze che ne derivano. Le
scelte contro la vita nascono, talvolta, da situazioni difficili o
addirittura drammatiche di profonda sofferenza, di solitudine, di totale
mancanza di prospettive economiche, di depressione e di angoscia per il
futuro. Tali circostanze possono attenuare anche notevolmente la
responsabilità soggettiva e la conseguente colpevolezza di quanti compiono
queste scelte in sé criminose. Tuttavia oggi il problema va ben al di là del
pur doveroso riconoscimento di queste situazioni personali. Esso si pone
anche sul piano culturale, sociale e politico, dove presenta il suo aspetto
più sovversivo e conturbante nella tendenza, sempre più largamente condivisa,
a interpretare i menzionati delitti contro la vita come legittime
espressioni della libertà individuale, da riconoscere e proteggere come veri
e propri diritti. In
questo modo giunge ad una svolta dalle tragiche conseguenze un lungo processo
storico, che dopo aver scoperto l'idea dei « diritti umani » — come diritti
inerenti a ogni persona e precedenti ogni Costituzione e legislazione degli
Stati — incorre oggi in una sorprendente contraddizione: proprio in
un'epoca in cui si proclamano solennemente i diritti inviolabili della
persona e si afferma pubblicamente il valore della vita, lo stesso diritto
alla vita viene praticamente negato e conculcato, in particolare nei momenti
più emblematici dell'esistenza, quali sono il nascere e il morire. Da
un lato, le varie dichiarazioni dei diritti dell'uomo e le molteplici
iniziative che ad esse si ispirano dicono l'affermarsi a livello mondiale di
una sensibilità morale più attenta a riconoscere il valore e la dignità di
ogni essere umano in quanto tale, senza alcuna distinzione di razza,
nazionalità, religione, opinione politica, ceto sociale. Dall'altro
lato, a queste nobili proclamazioni si contrappone purtroppo, nei fatti, una
loro tragica negazione. Questa è ancora più sconcertante, anzi più
scandalosa, proprio perché si realizza in una società che fa
dell'affermazione e della tutela dei diritti umani il suo obiettivo principale
e insieme il suo vanto. Come mettere d'accordo queste ripetute affermazioni
di principio con il continuo moltiplicarsi e la diffusa legittimazione degli
attentati alla vita umana? Come conciliare queste dichiarazioni col rifiuto
del più debole, del più bisognoso, dell'anziano, dell'appena concepito?
Questi attentati vanno in direzione esattamente contraria al rispetto della
vita e rappresentano una minaccia frontale a tutta la cultura dei diritti
dell'uomo. È una minaccia capace, al limite, di mettere a repentaglio lo
stesso significato della convivenza democratica: da società di « con-
viventi », le nostre città rischiano di diventare società di esclusi, di
emarginati, di rimossi e soppressi. Se poi lo sguardo si allarga ad un
orizzonte planetario, come non pensare che la stessa affermazione dei diritti
delle persone e dei popoli, quale avviene in alti consessi internazionali, si
riduce a sterile esercizio retorico, se non si smaschera l'egoismo dei Paesi
ricchi che chiudono l'accesso allo sviluppo dei Paesi poveri o lo
condizionano ad assurdi divieti di procreazione, contrapponendo lo sviluppo
all'uomo? Non occorre forse mettere in discussione gli stessi modelli
economici, adottati sovente dagli Stati anche per spinte e condizionamenti di
carattere internazionale, che generano ed alimentano situazioni di
ingiustizia e violenza nelle quali la vita umana di intere popolazioni viene
avvilita e conculcata? 19.
Dove stanno le radici di una contraddizione tanto paradossale? Le
possiamo riscontrare in complessive valutazioni di ordine culturale e morale,
a iniziare da quella mentalità che, esasperando e persino deformando il
concetto di soggettività, riconosce come titolare di diritti solo chi si
presenta con piena o almeno incipiente autonomia ed esce da condizioni di
totale dipendenza dagli altri. Ma come conciliare tale impostazione con l'esaltazione
dell'uomo quale essere « indisponibile »? La teoria dei diritti umani si
fonda proprio sulla considerazione del fatto che l'uomo, diversamente dagli
animali e dalle cose, non può essere sottomesso al dominio di nessuno. Si
deve pure accennare a quella logica che tende a identificare la dignità
personale con la capacità di comunicazione verbale ed esplicita e, in
ogni caso, sperimentabile. È chiaro che, con tali presupposti, non c'è spazio
nel mondo per chi, come il nascituro o il morente, è un soggetto
strutturalmente debole, sembra totalmente assoggettato alla mercé di altre
persone e da loro radicalmente dipendente e sa comunicare solo mediante il
muto linguaggio di una profonda simbiosi di affetti. È, quindi, la forza a
farsi criterio di scelta e di azione nei rapporti interpersonali e nella
convivenza sociale. Ma questo è l'esatto contrario di quanto ha voluto
storicamente affermare lo Stato di diritto, come comunità nella quale alle «
ragioni della forza » si sostituisce la « forza della ragione ». Ad
un altro livello, le radici della contraddizione che intercorre tra la
solenne affermazione dei diritti dell'uomo e la loro tragica negazione nella
pratica risiedono in una concezione della libertà che esalta in modo
assoluto il singolo individuo, e non lo dispone alla solidarietà, alla piena
accoglienza e al servizio dell'altro. Se è vero che talvolta la soppressione
della vita nascente o terminale si colora anche di un malinteso senso di
altruismo e di umana pietà, non si può negare che una tale cultura di morte,
nel suo insieme, tradisce una concezione della libertà del tutto
individualistica che finisce per essere la libertà dei « più forti » contro i
deboli destinati a soccombere. Proprio
in questo senso si può interpretare la risposta di Caino alla domanda del
Signore « Dov'è Abele, tuo fratello? »: « Non lo so. Sono forse il
guardiano di mio fratello? » (Gn 4, 9). Sì, ogni uomo è «
guardiano di suo fratello », perché Dio affida l'uomo all'uomo. Ed è anche in
vista di tale affidamento che Dio dona a ogni uomo la libertà, che possiede
un'essenziale dimensione relazionale. Essa è grande dono del Creatore,
posta com'è al servizio della persona e della sua realizzazione mediante il
dono di sé e l'accoglienza dell'altro; quando invece viene assolutizzata in
chiave individualistica, la libertà è svuotata del suo contenuto originario
ed è contraddetta nella sua stessa vocazione e dignità. C'è
un aspetto ancora più profondo da sottolineare: la libertà rinnega sé stessa,
si autodistrugge e si dispone all'eliminazione dell'altro quando non
riconosce e non rispetta più il suo costitutivo legame con la verità. Ogni
volta che la libertà, volendo emanciparsi da qualsiasi tradizione e autorità,
si chiude persino alle evidenze primarie di una verità oggettiva e comune,
fondamento della vita personale e sociale, la persona finisce con l'assumere
come unico e indiscutibile riferimento per le proprie scelte non più la
verità sul bene e sul male, ma solo la sua soggettiva e mutevole opinione o,
addirittura, il suo egoistico interesse e il suo capriccio. 20.
In questa concezione della libertà, la convivenza sociale viene
profondamente deformata. Se la promozione del proprio io è intesa in
termini di autonomia assoluta, inevitabilmente si giunge alla negazione
dell'altro, sentito come un nemico da cui difendersi. In questo modo la
società diventa un insieme di individui posti l'uno accanto all'altro, ma
senza legami reciproci: ciascuno vuole affermarsi indipendentemente
dall'altro, anzi vuol far prevalere i suoi interessi. Tuttavia, di fronte ad
analoghi interessi dell'altro, ci si deve arrendere a cercare qualche forma
di compromesso, se si vuole che nella società sia garantito a ciascuno il
massimo di libertà possibile. Viene meno così ogni riferimento a valori
comuni e a una verità assoluta per tutti: la vita sociale si avventura nelle
sabbie mobili di un relativismo totale. Allora tutto è convenzionabile,
tutto è negoziabile: anche il primo dei diritti fondamentali, quello alla
vita. È
quanto di fatto accade anche in ambito più propriamente politico e statale:
l'originario e inalienabile diritto alla vita è messo in discussione o negato
sulla base di un voto parlamentare o della volontà di una parte — sia pure
maggioritaria — della popolazione. È l'esito nefasto di un relativismo che
regna incontrastato: il « diritto » cessa di essere tale, perché non è più
solidamente fondato sull'inviolabile dignità della persona, ma viene assoggettato
alla volontà del più forte. In questo modo la democrazia, ad onta delle sue
regole, cammina sulla strada di un sostanziale totalitarismo. Lo Stato non è
più la « casa comune » dove tutti possono vivere secondo principi di
uguaglianza sostanziale, ma si trasforma in Stato tiranno, che presume
di poter disporre della vita dei più deboli e indifesi, dal bambino non
ancora nato al vecchio, in nome di una utilità pubblica che non è altro, in
realtà, che l'interesse di alcuni. Tutto
sembra avvenire nel più saldo rispetto della legalità, almeno quando le leggi
che permettono l'aborto o l'eutanasia vengono votate secondo le cosiddette
regole democratiche. In verità, siamo di fronte solo a una tragica parvenza
di legalità e l'ideale democratico, che è davvero tale quando riconosce e
tutela la dignità di ogni persona umana, è tradito nelle sue stesse basi: «
Come è possibile parlare ancora di dignità di ogni persona umana, quando si
permette che si uccida la più debole e la più innocente? In nome di quale
giustizia si opera fra le persone la più ingiusta delle discriminazioni,
dichiarandone alcune degne di essere difese, mentre ad altre questa dignità è
negata? ».(16) Quando si verificano queste condizioni si sono già innescati
quei dinamismi che portano alla dissoluzione di un'autentica convivenza umana
e alla disgregazione della stessa realtà statuale. Rivendicare
il diritto all'aborto, all'infanticidio, all'eutanasia e riconoscerlo
legalmente, equivale ad attribuire alla libertà umana un significato
perverso e iniquo: quello di un potere assoluto sugli altri e contro
gli altri. Ma questa è la morte della vera libertà: « In verità, in
verità vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato » (Gv 8,
34). «
Mi dovrò nascondere lontano da te » (Gn 4, 14): l'eclissi del senso di Dio e dell'uomo 21.
Nel ricercare le radici più profonde della lotta tra la « cultura della vita
» e la « cultura della morte », non ci si può fermare all'idea perversa di
libertà sopra ricordata. Occorre giungere al cuore del dramma vissuto
dall'uomo contemporaneo:l'eclissi del senso di Dio e dell'uomo, tipica
del contesto sociale e culturale dominato dal secolarismo, che coi suoi
tentacoli pervasivi non manca talvolta di mettere alla prova le stesse
comunità cristiane. Chi si lascia contagiare da questa atmosfera, entra
facilmente nel vortice di un terribile circolo vizioso: smarrendo il senso di
Dio, si tende a smarrire anche il senso dell'uomo, della sua dignità e
della sua vita; a sua volta, la sistematica violazione della legge morale,
specie nella grave materia del rispetto della vita umana e della sua dignità,
produce una sorta di progressivo oscuramento della capacità di percepire la
presenza vivificante e salvante di Dio. Ancora
una volta possiamo ispirarci al racconto dell'uccisione di Abele da parte del
fratello. Dopo la maledizione inflittagli da Dio, Caino così si rivolge al
Signore: « Troppo grande è la mia colpa per sopportarla! Ecco, tu mi scacci
oggi da questo suolo e io mi dovrò nascondere lontano da te; io sarò
ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà mi potrà uccidere »
(Gn 4, 13-14). Caino
ritiene che il suo peccato non potrà ottenere perdono dal Signore e che il
suo destino inevitabile sarà di doversi « nascondere lontano » da lui. Se
Caino riesce a confessare che la sua colpa è « troppo grande », è perché egli
sa di trovarsi di fronte a Dio e al suo giusto giudizio. In realtà, solo
davanti al Signore l'uomo può riconoscere il suo peccato e percepirne tutta
la gravità. È questa l'esperienza di Davide, che dopo « aver fatto male agli
occhi del Signore », rimproverato dal profeta Natan (cf. 2 Sam 11-12),
esclama: « Riconosco la mia colpa, il mio peccato mi sta sempre dinanzi.
Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io
l'ho fatto » (Sal 511, 5-6). 22.
Per questo, quando viene meno il senso di Dio, anche il senso dell'uomo viene
minacciato e inquinato, come lapidariamente afferma il Concilio Vaticano II:
« La creatura senza il Creatore svanisce... Anzi, l'oblio di Dio priva di
luce la creatura stessa ».(17) L'uomo non riesce più a percepirsi come «
misteriosamente altro » rispetto alle diverse creature terrene; egli si
considera come uno dei tanti esseri viventi, come un organismo che, tutt'al
più, ha raggiunto uno stadio molto elevato di perfezione. Chiuso nel
ristretto orizzonte della sua fisicità, si riduce in qualche modo a « una
cosa » e non coglie più il carattere « trascendente » del suo « esistere come
uomo ». Non considera più la vita come uno splendido dono di Dio, una realtà
« sacra » affidata alla sua responsabilità e quindi alla sua amorevole
custodia, alla sua « venerazione ». Essa diventa semplicemente « una cosa »,
che egli rivendica come sua esclusiva proprietà, totalmente dominabile e
manipolabile. Così,
di fronte alla vita che nasce e alla vita che muore, non è più capace di
lasciarsi interrogare sul senso più autentico della sua esistenza, assumendo
con vera libertà questi momenti cruciali del proprio « essere ». Egli si
preoccupa solo del « fare » e, ricorrendo ad ogni forma di tecnologia, si
affanna a programmare, controllare e dominare la nascita e la morte. Queste,
da esperienze originarie che chiedono di essere « vissute », diventano cose
che si pretende semplicemente di « possedere » o di « rifiutare ». Del
resto, una volta escluso il riferimento a Dio, non sorprende che il senso di
tutte le cose ne esca profondamente deformato, e la stessa natura, non più «
mater », sia ridotta a « materiale » aperto a tutte le manipolazioni. A ciò
sembra condurre una certa razionalità tecnico-scientifica, dominante nella
cultura contemporanea, che nega l'idea stessa di una verità del creato da
riconoscere o di un disegno di Dio sulla vita da rispettare. E ciò non è meno
vero, quando l'angoscia per gli esiti di tale « libertà senza legge » induce
alcuni all'opposta istanza di una « legge senza libertà », come avviene, ad
esempio, in ideologie che contestano la legittimità di qualunque intervento
sulla natura, quasi in nome di una sua « divinizzazione », che ancora una volta
ne misconosce la dipendenza dal disegno del Creatore. In realtà, vivendo «
come se Dio non esistesse », l'uomo smarrisce non solo il mistero di Dio, ma
anche quello del mondo e il mistero del suo stesso essere. 23.
L'eclissi del senso di Dio e dell'uomo conduce inevitabilmente al materialismo
pratico, nel quale proliferano l'individualismo, l'utilitarismo e
l'edonismo. Si manifesta anche qui la perenne validità di quanto scrive
l'Apostolo: « Poiché hanno disprezzato la conoscenza di Dio, Dio li ha abbandonati
in balìa d'una intelligenza depravata, sicché commettono ciò che è indegno »
(Rm 1, 28). Così i valori dell'essere sono sostituiti da quelli
dell'avere. L'unico
fine che conta è il perseguimento del proprio benessere materiale. La
cosiddetta « qualità della vita » è interpretata in modo prevalente o
esclusivo come efficienza economica, consumismo disordinato, bellezza e
godibilità della vita fisica, dimenticando le dimensioni più profonde —
relazionali, spirituali e religiose — dell'esistenza. In
un simile contesto la sofferenza, inevitabile peso dell'esistenza
umana ma anche fattore di possibile crescita personale, viene « censurata »,
respinta come inutile, anzi combattuta come male da evitare sempre e
comunque. Quando non la si può superare e la prospettiva di un benessere
almeno futuro svanisce, allora pare che la vita abbia perso ogni significato
e cresce nell'uomo la tentazione di rivendicare il diritto alla sua
soppressione. Sempre
nel medesimo orizzonte culturale, il corpo non viene più percepito
come realtà tipicamente personale, segno e luogo della relazione con gli
altri, con Dio e con il mondo. Esso è ridotto a pura materialità: è semplice
complesso di organi, funzioni ed energie da usare secondo criteri di mera
godibilità ed efficienza. Conseguentemente, anche la sessualità è
depersonalizzata e strumentalizzata: da segno, luogo e linguaggio dell'amore,
ossia del dono di sé e dell'accoglienza dell'altro secondo l'intera ricchezza
della persona, diventa sempre più occasione e strumento di affermazione del
proprio io e di soddisfazione egoistica dei propri desideri e istinti. Così
si deforma e falsifica il contenuto originario della sessualità umana e i due
significati, unitivo e procreativo, insiti nella natura stessa dell'atto
coniugale, vengono artificialmente separati: in questo modo l'unione è
tradita e la fecondità è sottomessa all'arbitrio dell'uomo e della donna. La procreazione
allora diventa il « nemico » da evitare nell'esercizio della sessualità: se
viene accettata, è solo perché esprime il proprio desiderio, o addirittura la
propria volontà, di avere il figlio « ad ogni costo » e non, invece, perché
dice totale accoglienza dell'altro e, quindi, apertura alla ricchezza di vita
di cui il figlio è portatore. Nella
prospettiva materialistica fin qui descritta, le relazioni interpersonali
conoscono un grave impoverimento. I primi a subirne i danni sono la
donna, il bambino, il malato o sofferente, l'anziano. Il criterio proprio
della dignità personale — quello cioè del rispetto, della gratuità e del
servizio — viene sostituito dal criterio dell'efficienza, della funzionalità
e dell'utilità: l'altro è apprezzato non per quello che « è », ma per quello
che « ha, fa e rende ». È la supremazia del più forte sul più debole. 24.
È nell'intimo della coscienza morale che l'eclissi del senso di Dio e
dell'uomo, con tutte le sue molteplici e funeste conseguenze sulla vita, si
consuma. È in questione, anzitutto, la coscienza di ciascuna persona, che
nella sua unicità e irripetibilità si trova sola di fronte a Dio.(18) Ma è
pure in questione, in un certo senso, la « coscienza morale » della
società: essa è in qualche modo responsabile non solo perché tollera o
favorisce comportamenti contrari alla vita, ma anche perché alimenta la « cultura
della morte », giungendo a creare e a consolidare vere e proprie « strutture
di peccato » contro la vita. La coscienza morale, sia individuale che
sociale, è oggi sottoposta, anche per l'influsso invadente di molti strumenti
della comunicazione sociale, a un pericolo gravissimo e mortale:
quello della confusione tra il bene e il male in riferimento allo
stesso fondamentale diritto alla vita. Tanta parte dell'attuale società si
rivela tristemente simile a quell'umanità che Paolo descrive nella Lettera ai
Romani. È fatta « di uomini che soffocano la verità nell'ingiustizia » (1,
18): avendo rinnegato Dio e credendo di poter costruire la città terrena
senza di lui, « hanno vaneggiato nei loro ragionamenti » sicché « si è
ottenebrata la loro mente ottusa » (1, 21); « mentre si dichiaravano sapienti
sono diventati stolti » (1, 22), sono diventati autori di opere degne di
morte e « non solo continuano a farle, ma anche approvano chi le fa » (1,
32). Quando la coscienza, questo luminoso occhio dell'anima (cf. Mt 6,
22-23), chiama « bene il male e male il bene » (Is 5, 20), è ormai
sulla strada della sua degenerazione più inquietante e della più tenebrosa
cecità morale. Eppure
tutti i condizionamenti e gli sforzi per imporre il silenzio non riescono a
soffocare la voce del Signore che risuona nella coscienza di ogni uomo: è
sempre da questo intimo sacrario della coscienza che può ripartire un nuovo
cammino di amore, di accoglienza e di servizio alla vita umana. «
Vi siete accostati al sangue dell'aspersione » (cf. Eb 12, 22.24): segni di speranza e
invito all'impegno 25.
« La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! » (Gn 4,
10). Non è solo la voce del sangue di Abele, il primo innocente ucciso, a
gridare verso Dio, sorgente e difensore della vita. Anche il sangue di ogni
altro uomo ucciso dopo Abele è voce che si leva al Signore. In una forma
assolutamente unica, grida a Dio la voce del sangue di Cristo, di cui
Abele nella sua innocenza è figura profetica, come ci ricorda l'autore della
Lettera agli Ebrei: « Voi vi siete invece accostati al monte Sion e alla
città del Dio vivente... al Mediatore della Nuova Alleanza e al sangue
dell'aspersione dalla voce più eloquente di quello di Abele » (12, 22.24). È il
sangue dell'aspersione. Ne era stato simbolo e segno anticipatore il
sangue dei sacrifici dell'Antica Alleanza, con i quali Dio esprimeva la
volontà di comunicare la sua vita agli uomini, purificandoli e consacrandoli
(cf. Es 24, 8; Lv 17, 11). Ora, tutto questo in Cristo si
compie e si avvera: il suo è il sangue dell'aspersione che redime, purifica e
salva; è il sangue del Mediatore della Nuova Alleanza « versato per molti, in
remissione dei peccati » (Mt 26, 28). Questo sangue, che fluisce dal
fianco trafitto di Cristo sulla croce (cf. Gv 19, 34), ha la « voce
più eloquente » del sangue di Abele; esso infatti esprime ed esige una più
profonda « giustizia », ma soprattutto implora misericordia,(19) si fa presso
il Padre intercessione per i fratelli (cf. Eb 7, 25), è fonte di
redenzione perfetta e dono di vita nuova. Il
sangue di Cristo, mentre rivela la grandezza dell'amore del Padre, manifesta
come l'uomo sia prezioso agli occhi di Dio e come sia inestimabile il valore
della sua vita. Ce lo ricorda l'apostolo Pietro: « Voi sapete che non a
prezzo di cose corruttibili, come l'argento e l'oro, foste liberati dalla
vostra vuota condotta ereditata dai vostri padri, ma con il sangue prezioso
di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia » (1 Pt 1,
18-19). Proprio contemplando il sangue prezioso di Cristo, segno della sua
donazione d'amore (cf. Gv 13, 1), il credente impara a riconoscere e
ad apprezzare la dignità quasi divina di ogni uomo e può esclamare con sempre
rinnovato e grato stupore: « Quale valore deve avere l'uomo davanti agli
occhi del Creatore se "ha meritato di avere un tanto nobile e grande
Redentore" (Exultet della Veglia pasquale), se "Dio ha dato
il suo Figlio", affinché egli, l'uomo, "non muoia, ma abbia la vita
eterna" (cf. Gv 3, 16)! ».(20) Il
sangue di Cristo, inoltre, rivela all'uomo che la sua grandezza, e quindi la
sua vocazione, consiste nel dono sincero di sé. Proprio perché viene
versato come dono di vita, il sangue di Gesù non è più segno di morte, di
separazione definitiva dai fratelli, ma strumento di una comunione che è
ricchezza di vita per tutti. Chi nel sacramento dell'Eucaristia beve questo
sangue e dimora in Gesù (cf. Gv 6, 56) è coinvolto nel suo stesso
dinamismo di amore e di donazione di vita, per portare a pienezza
l'originaria vocazione all'amore che è propria di ogni uomo (cf. Gn 1,
27; 2, 18-24). È
ancora nel sangue di Cristo che tutti gli uomini attingono la forza per
impegnarsi a favore della vita. Proprio questo sangue è il motivo più
forte di speranza, anzi è il fondamento dell'assoluta certezza che secondo
il disegno di Dio la vittoria sarà della vita. « Non ci sarà più la morte
», esclama la voce potente che esce dal trono di Dio nella Gerusalemme
celeste (Ap 21, 4). E san Paolo ci assicura che la vittoria attuale
sul peccato è segno e anticipazione della vittoria definitiva sulla morte,
quando « si compirà la parola della Scrittura: "La morte è stata
ingoiata per la vittoria. Dov'è, o morte, la tua vittoria? Dov'è, o morte, il
tuo pungiglione?" » (1 Cor 15, 54-55). 26.
In realtà, segni anticipatori di questa vittoria non mancano nelle nostre
società e culture, pur così fortemente segnate dalla « cultura della morte ».
Si darebbe dunque un'immagine unilaterale, che potrebbe indurre a uno sterile
scoraggiamento, se alla denuncia delle minacce alla vita non si accompagnasse
la presentazione dei segni positivi operanti nell'attuale situazione
dell'umanità. Purtroppo
tali segni positivi faticano spesso a manifestarsi e ad essere riconosciuti, forse
anche perché non trovano adeguata attenzione nei mezzi della comunicazione
sociale. Ma quante iniziative di aiuto e di sostegno alle persone più deboli
e indifese sono sorte e continuano a sorgere, nella comunità cristiana e
nella società civile, a livello locale, nazionale e internazionale, ad opera
di singoli, gruppi, movimenti ed organizzazioni di vario genere! Sono
ancora molti gli sposi che, con generosa responsabilità, sanno
accogliere i figli come « il preziosissimo dono del matrimonio ».(21) Né
mancano famiglie che, al di là del loro quotidiano servizio alla vita,
sanno aprirsi all'accoglienza di bambini abbandonati, di ragazzi e giovani in
difficoltà, di persone portatrici di handicap, di anziani rimasti soli. Non
pochi centri di aiuto alla vita, o istituzioni analoghe, sono promossi
da persone e gruppi che, con ammirevole dedizione e sacrificio, offrono un
sostegno morale e materiale a mamme in difficoltà, tentate di ricorrere
all'aborto. Sorgono pure e si diffondono gruppi di volontari impegnati
a dare ospitalità a chi è senza famiglia, si trova in condizioni di
particolare disagio o ha bisogno di ritrovare un ambiente educativo che lo
aiuti a superare abitudini distruttive e a ricuperare il senso della vita. La medicina,
promossa con grande impegno da ricercatori e professionisti, prosegue nel
suo sforzo per trovare rimedi sempre più efficaci: risultati un tempo del
tutto impensabili e tali da aprire promettenti prospettive sono oggi ottenuti
a favore della vita nascente, delle persone sofferenti e dei malati in fase
acuta o terminale. Enti e organizzazioni varie si mobilitano per portare,
anche nei Paesi più colpiti dalla miseria e da malattie endemiche, i benefici
della medicina più avanzata. Così pure associazioni nazionali e internazionali
di medici si attivano tempestivamente per recare soccorso alle popolazioni
provate da calamità naturali, da epidemie o da guerre. Anche se una vera
giustizia internazionale nella ripartizione delle risorse mediche è ancora
lontana dalla sua piena realizzazione, come non riconoscere nei passi sinora
compiuti il segno di una crescente solidarietà tra i popoli, di
un'apprezzabile sensibilità umana e morale e di un maggiore rispetto per la
vita? 27.
Di fronte a legislazioni che hanno permesso l'aborto e a tentativi, qua e là
riusciti, di legalizzare l'eutanasia, sono sorti in tutto il mondo movimenti
e iniziative di sensibilizzazione sociale in favore della vita. Quando,
in conformità alla loro ispirazione autentica, agiscono con determinata
fermezza ma senza ricorrere alla violenza, tali movimenti favoriscono una più
diffusa presa di coscienza del valore della vita e sollecitano e realizzano
un più deciso impegno per la sua difesa. Come
non ricordare, inoltre, tutti quei gesti quotidiani di accoglienza, di
sacrificio, di cura disinteressata che un numero incalcolabile di persone
compie con amore nelle famiglie, negli ospedali, negli orfanotrofi, nelle
case di riposo per anziani e in altri centri o comunità a difesa della vita?
Lasciandosi guidare dall'esempio di Gesù « buon samaritano » (cf. Lc 10,
29-37) e sostenuta dalla sua forza, la Chiesa è sempre stata in prima linea
su queste frontiere della carità: tanti suoi figli e figlie, specialmente
religiose e religiosi, in forme antiche e sempre nuove, hanno consacrato e
continuano a consacrare la loro vita a Dio donandola per amore del prossimo
più debole e bisognoso. Questi
gesti costruiscono nel profondo quella « civiltà dell'amore e della vita »,
senza la quale l'esistenza delle persone e della società smarrisce il suo
significato più autenticamente umano. Anche se nessuno li notasse e
rimanessero nascosti ai più, la fede assicura che il Padre, « che vede nel
segreto » (Mt 6, 4), non solo saprà ricompensarli, ma già fin d'ora li
rende fecondi di frutti duraturi per tutti. Tra
i segni di speranza va pure annoverata la crescita, in molti strati
dell'opinione pubblica, di una nuova sensibilità sempre più contraria alla
guerra come strumento di soluzione dei conflitti tra i popoli e sempre
più orientata alla ricerca di strumenti efficaci ma « non violenti » per
bloccare l'aggressore armato. Nel medesimo orizzonte si pone altresì la sempre
più diffusa avversione dell'opinione pubblica alla pena di morte anche
solo come strumento di « legittima difesa » sociale, in considerazione delle
possibilità di cui dispone una moderna società di reprimere efficacemente il
crimine in modi che, mentre rendono inoffensivo colui che l'ha commesso, non
gli tolgono definitivamente la possibilità di redimersi. È
da salutare con favore anche l'accresciuta attenzione allaqualità della
vita e all'ecologia, che si registra soprattutto nelle società a
sviluppo avanzato, nelle quali le attese delle persone non sono più
concentrate tanto sui problemi della sopravvivenza quanto piuttosto sulla
ricerca di un miglioramento globale delle condizioni di vita. Particolarmente
significativo è il risveglio di una riflessione etica attorno alla vita: con
la nascita e lo sviluppo sempre più diffuso della bioetica vengono
favoriti la riflessione e il dialogo — tra credenti e non credenti, come pure
tra credenti di diverse religioni — su problemi etici, anche fondamentali,
che interessano la vita dell'uomo. 28.
Questo orizzonte di luci ed ombre deve renderci tutti pienamente consapevoli
che ci troviamo di fronte ad uno scontro immane e drammatico tra il male e il
bene, la morte e la vita, la « cultura della morte » e la « cultura della
vita ». Ci troviamo non solo « di fronte », ma necessariamente « in mezzo » a
tale conflitto: tutti siamo coinvolti e partecipi, con l'ineludibile
responsabilità di scegliere incondizionatamente a favore della vita. Anche
per noi risuona chiaro e forte l'invito di Mosè: « Vedi, io pongo oggi
davanti a te la vita e il bene, la morte e il male...; io ti ho posto davanti
la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la
vita, perché viva tu e la tua discendenza » (Dt 30, 15.19). È un
invito che ben si addice anche a noi, chiamati ogni giorno a dover decidere
tra la « cultura della vita » e la « cultura della morte ». Ma l'appello del
Deuteronomio è ancora più profondo, perché ci sollecita ad una scelta
propriamente religiosa e morale. Si tratta di dare alla propria esistenza un
orientamento fondamentale e di vivere in fedeltà e coerenza con la legge del
Signore: « Io oggi ti comando di amare il Signore tuo Dio, di camminare
per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue
norme...; scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza, amando il
Signore tuo Dio, obbedendo alla sua voce e tenendoti unito a lui, poiché è
lui la tua vita e la tua longevità » (30, 16.19-20). La
scelta incondizionata a favore della vita raggiunge in pienezza il suo
significato religioso e morale quando scaturisce, viene plasmata ed è
alimentata dalla fede in Cristo. Nulla aiuta ad affrontare
positivamente il conflitto tra la morte e la vita, nel quale siamo immersi,
come la fede nel Figlio di Dio che si è fatto uomo ed è venuto tra gli uomini
« perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza » (Gv 10, 10): è la
fede nel Risorto, che ha vinto la morte; è la fede nel sangue di
Cristo « dalla voce più eloquente di quello di Abele » (Eb 12, 24). Con
la luce e la forza di tale fede, quindi, di fronte alle sfide dell'attuale
situazione, la Chiesa prende più viva coscienza della grazia e della
responsabilità che le vengono dal suo Signore per annunciare, celebrare e
servire il Vangelo della vita.
SONO
VENUTO PERCHÈ ABBIANO LA VITA «
La vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta » (1 Gv 1, 2): lo sguardo rivolto a Cristo,
« il Verbo della vita » 29.
Di fronte alle innumerevoli e gravi minacce alla vita presenti nel mondo
contemporaneo, si potrebbe rimanere come sopraffatti dal senso di
un'impotenza insuperabile: il bene non potrà mai avere la forza di vincere il
male! È
questo il momento nel quale il Popolo di Dio, e in esso ciascun credente, è
chiamato a professare, con umiltà e coraggio, la propria fede in Gesù Cristo
« il Verbo della vita » (1 Gv 1, 1). Il Vangelo della vita non
è una semplice riflessione, anche se originale e profonda, sulla vita umana;
neppure è soltanto un comandamento destinato a sensibilizzare la coscienza e
a provocare significativi cambiamenti nella società; tanto meno è
un'illusoria promessa di un futuro migliore. Il Vangelo della vita è
una realtà concreta e personale, perché consiste nell'annuncio della persona
stessa di Gesù. All'apostolo Tommaso, e in lui a ogni uomo, Gesù si
presenta con queste parole: « Io sono la via, la verità e la vita » (Gv 14,
6). È la stessa identità indicata a Marta, la sorella di Lazzaro: « Io sono
la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque
vive e crede in me, non morrà in eterno » (Gv 11, 25-26). Gesù è il
Figlio che dall'eternità riceve la vita dal Padre (cf. Gv 5, 26) ed è
venuto tra gli uomini per farli partecipi di questo dono: « Io sono venuto
perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza » (Gv 10, 10). È
allora dalla parola, dall'azione, dalla persona stessa di Gesù che all'uomo è
data la possibilità di « conoscere » la verità intera circa il valore
della vita umana; è da quella « fonte » che gli viene, in particolare, la
capacità di « fare » perfettamente tale verità (cf. Gv 3, 21), ossia
di assumere e realizzare in pienezza la responsabilità di amare e servire, di
difendere e promuovere la vita umana. In
Cristo, infatti, è annunciato definitivamente ed è pienamente donato quel Vangelo
della vita che, offerto già nella Rivelazione dell'Antico Testamento, ed
anzi scritto in qualche modo nel cuore stesso di ogni uomo e donna, risuona
in ogni coscienza « dal principio », ossia dalla creazione stessa, così che,
nonostante i condizionamenti negativi del peccato, può essere conosciuto
nei suoi tratti essenziali anche dalla ragione umana. Come scrive il
Concilio Vaticano II, Cristo « con tutta la sua presenza e con la
manifestazione di sé, con le parole e con le opere, con i segni e con i
miracoli, e specialmente con la sua morte e la gloriosa risurrezione di tra i
morti, e infine con l'invio dello Spirito di verità, compie e completa la
rivelazione e la corrobora con la testimonianza divina, che cioè Dio è con
noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte e risuscitarci per
la vita eterna ».(22) 30.
È dunque con lo sguardo fisso al Signore Gesù che intendiamo riascoltare da
lui « le parole di Dio » (Gv 3, 34) e rimeditare il Vangelo della
vita. Il senso più profondo e originale di questa meditazione sul
messaggio rivelato circa la vita umana è stato colto dall'apostolo Giovanni,
quando scrive, all'inizio della sua Prima Lettera: « Ciò che era fin da
principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri
occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno
toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi
l'abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita
eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che
abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate
in comunione con noi » (1, 1-3). In
Gesù, « Verbo della vita », viene quindi annunciata e comunicata la vita
divina ed eterna. Grazie a tale annuncio e a tale dono, la vita fisica e
spirituale dell'uomo, anche nella sua fase terrena, acquista pienezza di
valore e di significato: la vita divina ed eterna, infatti, è il fine a cui
l'uomo che vive in questo mondo è orientato e chiamato. Il Vangelo della
vita racchiude così quanto la stessa esperienza e ragione umana dicono
circa il valore della vita, lo accoglie, lo eleva e lo porta a compimento. «
Mia forza e mio canto è il Signore, egli mi ha salvato » (Es 15, 2): la vita è sempre un bene 31.
In verità, la pienezza evangelica dell'annuncio sulla vita è preparata già
nell'Antico Testamento. È soprattutto nella vicenda dell'Esodo, fulcro
dell'esperienza di fede dell'Antico Testamento, che Israele scopre quanto la
sua vita sia preziosa agli occhi di Dio. Quando sembra ormai votato allo
sterminio, perché su tutti i suoi neonati maschi incombe la minaccia di morte
(cf. Es 1, 15-22), il Signore gli si rivela come salvatore, capace di
assicurare un futuro a chi è senza speranza. Nasce così in Israele una
precisa consapevolezza: la sua vita non si trova alla mercé di un
faraone che può usarne con dispotico arbitrio; al contrario, essa è l'oggetto
di un tenero e forte amore da parte di Dio. La
liberazione dalla schiavitù è il dono di una identità, il riconoscimento di
una dignità indelebile e l'inizio di una storia nuova, in cui la
scoperta di Dio e la scoperta di sé vanno di pari passo. È una esperienza,
quella dell'Esodo, fondante ed esemplare. Israele vi apprende che, ogni volta
in cui è minacciato nella sua esistenza, non ha che da ricorrere a Dio con
rinnovata fiducia per trovare in lui efficace assistenza: « Io ti ho formato,
mio servo sei tu; Israele, non sarai dimenticato da me » (Is 44, 21). Così,
mentre riconosce il valore della propria esistenza come popolo, Israele
progredisce anche nella percezione del senso e del valore della vita in
quanto tale. È una riflessione che si sviluppa in modo particolare nei
libri sapienziali, muovendo dalla quotidiana esperienza della precarietà della
vita e dalla consapevolezza delle minacce che la insidiano. Di fronte alle
contraddizioni dell'esistenza, la fede è provocata ad offrire una risposta. È
soprattutto il problema del dolore ad incalzare la fede e a metterla alla
prova. Come non cogliere il gemito universale dell'uomo nella meditazione del
libro di Giobbe? L'innocente schiacciato dalla sofferenza è,
comprensibilmente, portato a chiedersi: « Perché dare la luce ad un infelice
e la vita a chi ha l'amarezza nel cuore, a quelli che aspettano la morte e
non viene, che la cercano più di un tesoro? » (3, 20-21). Ma anche nella più
fitta oscurità la fede orienta al riconoscimento fiducioso e adorante del «
mistero »: « Comprendo che puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile per te
» (Gb 42, 2). Progressivamente
la Rivelazione fa cogliere con sempre maggiore chiarezza il germe di vita
immortale posto dal Creatore nel cuore degli uomini: « Egli ha fatto bella
ogni cosa a suo tempo, ma egli ha messo la nozione dell'eternità nel loro
cuore » (Qo 3, 11). Questo germe di totalità e di pienezza attende
di manifestarsi nell'amore e di compiersi, per dono gratuito di Dio, nella
partecipazione alla sua vita eterna. «
Il nome di Gesù ha dato vigore a questo uomo » (At 3, 16): nella precarietà
dell'esistenza umana Gesù porta a compimento il senso della vita 32.
L'esperienza del popolo dell'Alleanza si rinnova in quella di tutti i «
poveri » che incontrano Gesù di Nazaret. Come già il Dio « amante della vita
» (Sap 11, 26) aveva rassicurato Israele in mezzo ai pericoli, così
ora il Figlio di Dio, a quanti si sentono minacciati e impediti nella loro
esistenza, annuncia che anche la loro vita è un bene, al quale l'amore del
Padre dà senso e valore. « I
ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati,
i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunziata la buona novella »
(Lc 7, 22). Con queste parole del profeta Isaia (35, 5-6; 61, 1), Gesù
presenta il significato della propria missione: così quanti soffrono per
un'esistenza in qualche modo « diminuita », ascoltano da lui la buona novella
dell'interesse di Dio nei loro confronti ed hanno la conferma che anche
la loro vita è un dono gelosamente custodito nelle mani del Padre (cf. Mt 6,
25-34). Sono
i « poveri » ad essere interpellati particolarmente dalla predicazione e dall'azione
di Gesù. Le folle di malati e di emarginati, che lo seguono e lo cercano (cf.
Mt 4, 23-25), trovano nella sua parola e nei suoi gesti la rivelazione
di quale grande valore abbia la loro vita e di come siano fondate le loro
attese di salvezza. Non
diversamente accade nella missione della Chiesa, fin dalle sue origini. Essa,
che annuncia Gesù come colui che « passò beneficando e risanando tutti coloro
che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui » (At 10,
38), sa di essere portatrice di un messaggio di salvezza che risuona in tutta
la sua novità proprio nelle situazioni di miseria e di povertà della vita
dell'uomo. Così fa Pietro con la guarigione dello storpio, posto ogni giorno
presso la porta « Bella » del tempio di Gerusalemme a chiedere l'elemosina: «
Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù
Cristo, il Nazareno, cammina! » (At 3, 6). Nella fede in Gesù, «
autore della vita » (At 3, 15), la vita che giace abbandonata e
implorante ritrova consapevolezza di sé e dignità piena. La
parola e i gesti di Gesù e della sua Chiesa non riguardano solo chi è nella
malattia, nella sofferenza o nelle varie forme di emarginazione sociale. Più
profondamente toccano il senso stesso della vita di ogni uomo nelle sue
dimensioni morali e spirituali. Solo chi riconosce che la propria vita è
segnata dalla malattia del peccato, nell'incontro con Gesù Salvatore può
ritrovare la verità e l'autenticità della propria esistenza, secondo le sue
stesse parole: « Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati;
io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi » (Lc
5, 31-32). Chi,
invece, come il ricco agricoltore della parabola evangelica, pensa di poter
assicurare la propria vita mediante il possesso dei soli beni materiali, in
realtà si illude: essa gli sta sfuggendo, ed egli ne resterà ben presto
privo, senza essere arrivato a percepirne il vero significato: « Stolto,
questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato
di chi sarà? » (Lc 12, 20). 33.
È nella vita stessa di Gesù, dall'inizio alla fine, che si ritrova questa
singolare « dialettica » tra l'esperienza della precarietà della vita umana e
l'affermazione del suo valore. Infatti, la precarietà segna la vita di Gesù
fin dalla sua nascita. Egli trova certamente l'accoglienza dei giusti,
che si uniscono al « sì » pronto e gioioso di Maria (cf. Lc 1, 38). Ma
c'è anche, da subito, il rifiuto di un mondo che si fa ostile e cerca
il bambino « per ucciderlo » (Mt 2, 13), oppure resta indifferente e
disattento al compiersi del mistero di questa vita che entra nel mondo: « non
c'era posto per loro nell'albergo » (Lc 2, 7). Proprio dal contrasto
tra le minacce e le insicurezze da una parte e la potenza del dono di Dio
dall'altra, risplende con maggior forza la gloria che si sprigiona dalla casa
di Nazaret e dalla mangiatoia di Betlemme: questa vita che nasce è salvezza
per l'intera umanità (cf. Lc 2, 11). Contraddizioni
e rischi della vita vengono assunti pienamente da Gesù: « da ricco che era,
si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua
povertà » (2 Cor 8, 9). La povertà, di cui parla Paolo, non è solo
spogliamento dei privilegi divini, ma anche condivisione delle condizioni più
umili e precarie della vita umana (cf. Fil 2, 6-7). Gesù vive questa
povertà lungo tutto il corso della sua vita, fino al momento culminante della
Croce: « umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte
di croce. Per questo Dio l'ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di
sopra di ogni altro nome » (Fil 2, 8-9). È proprio nella sua morte che
Gesù rivela tutta la grandezza e il valore della vita, in quanto il
suo donarsi in croce diventa fonte di vita nuova per tutti gli uomini (cf. Gv
12, 32). In questo peregrinare nelle contraddizioni e nella stessa
perdita della vita, Gesù è guidato dalla certezza che essa è nelle mani del
Padre. Per questo sulla Croce può dirgli: « Padre nelle tue mani consegno il
mio spirito » (Lc 23, 46), cioè la mia vita. Davvero grande è il
valore della vita umana se il Figlio di Dio l'ha assunta e l'ha resa luogo
nel quale la salvezza si attua per l'intera umanità! «
Chiamati... ad essere conformi all'immagine del Figlio suo » (Rm 8, 28-29): la gloria di Dio risplende
sul volto dell'uomo 34.
La vita è sempre un bene. È, questa, una intuizione o addirittura un dato di
esperienza, di cui l'uomo è chiamato a cogliere la ragione profonda. Perché
la vita è un bene? L'interrogativo
attraversa tutta la Bibbia e fin dalle sue prime pagine trova una risposta
efficace e mirabile. La vita che Dio dona all'uomo è diversa e originale di
fronte a quella di ogni altra creatura vivente, in quanto egli, pur
imparentato con la polvere della terra (cf. Gn 2, 7; 3, 19; Gb 34,
15; Sal 103/102, 14; 104/103, 29), è nel mondo manifestazione di
Dio, segno della sua presenza, orma della sua gloria (cf. Gn 1,
26-27; Sal 8, 6). È quanto ha voluto sottolineare anche sant'Ireneo di
Lione con la sua celebre definizione: « l'uomo che vive è la gloria di Dio ».(23)
All'uomo è donata un'altissima dignità, che ha le sue radici
nell'intimo legame che lo unisce al suo Creatore: nell'uomo risplende un
riflesso della stessa realtà di Dio. Lo
afferma il libro della Genesi nel primo racconto delle origini, ponendo l'uomo
al vertice dell'attività creatrice di Dio, come suo coronamento, al termine
di un processo che dall'indistinto caos porta alla creatura più perfetta. Tutto
nel creato è ordinato all'uomo e tutto è a lui sottomesso: « Riempite la
terra; soggiogatela e dominate... su ogni essere vivente » (1, 28), comanda
Dio all'uomo e alla donna. Un messaggio simile viene anche dall'altro
racconto delle origini: « Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino
di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse » (Gn 2, 15). Si
riafferma così il primato dell'uomo sulle cose: esse sono finalizzate a lui e
affidate alla sua responsabilità, mentre per nessuna ragione egli può essere
asservito ai suoi simili e quasi ridotto al rango di cosa. Nella
narrazione biblica la distinzione dell'uomo dalle altre creature è
evidenziata soprattutto dal fatto che solo la sua creazione è presentata come
frutto di una speciale decisione da parte di Dio, di una deliberazione che
consiste nello stabilire un legame particolare e specifico con il Creatore:
« Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza » (Gn 1,
26). La vita che Dio offre all'uomo è un dono con cui Dio partecipa
qualcosa di sé alla sua creatura. Israele
si interrogherà a lungo sul senso di questo legame particolare e specifico
dell'uomo con Dio. Anche il libro del Siracide riconosce che Dio nel creare
gli uomini « secondo la sua natura li rivestì di forza, e a sua immagine li
formò » (17, 3). A ciò l'autore sacro riconduce non solo il loro dominio sul
mondo, ma anche le facoltà spirituali più proprie dell'uomo, come la
ragione, il discernimento del bene e del male, la volontà libera: « Li riempì
di dottrina e d'intelligenza, e indicò loro anche il bene e il male » (Sir
17, 6). La capacità di attingere la verità e la libertà sono
prerogative dell'uomo in quanto creato ad immagine del suo Creatore, il
Dio vero e giusto (cf. Dt 32, 4). Soltanto l'uomo, fra tutte le
creature visibili, è « capa- ce di conoscere e di amare il proprio Creatore
».(24) La vita che Dio dona all'uomo è ben più di un esistere nel tempo. È
tensione verso una pienezza di vita; è germe di una esistenza che va oltre
i limiti stessi del tempo: « Sì, Dio ha creato l'uomo per
l'incorruttibilità; lo fece a immagine della propria natura » (Sap 2,
23). 35.
Anche il racconto jahvista delle origini esprime la stessa convinzione.
L'antica narrazione, infatti, parla di un soffio divino che viene
inalato nell'uomo perché questi entri nella vita: « Il Signore Dio plasmò
l'uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e
l'uomo divenne un essere vivente » (Gn 2, 7). L'origine
divina di questo spirito di vita spiega la perenne insoddisfazione che
accompagna l'uomo nei suoi giorni. Fatto da Dio, portando in sé una traccia
indelebile di Dio, l'uomo tende naturalmente a lui. Quando ascolta
l'aspirazione profonda del suo cuore, ogni uomo non può non fare propria la
parola di verità espressa da sant'Agostino: « Tu ci hai fatti per te, o
Signore, e il nostro cuore è inquieto sino a quando non riposa in Te ».(25) Quanto
mai eloquente è l'insoddisfazione di cui è preda la vita dell'uomo nell'Eden
fin quando il suo unico riferimento rimane il mondo vegetale e animale (cf. Gn
2, 20). Solo l'apparizione della donna, di un essere cioè che è carne
dalla sua carne e osso dalle sue ossa (cf. Gn 2, 23), e in cui
ugualmente vive lo spirito di Dio Creatore, può soddisfare l'esigenza di
dialogo inter-personale che è così vitale per l'esistenza umana. Nell'altro, uomo
o donna, si riflette Dio stesso, approdo definitivo e appagante di ogni
persona. «
Che cosa è l'uomo perché te ne ricordi, il figlio dell'uomo perché te ne
curi? », si chiede il Salmista (Sal 8, 5). Di fronte all'immensità
dell'universo, egli è ben piccola cosa; ma proprio questo contrasto fa
emergere la sua grandezza: « Lo hai fatto poco meno degli angeli (ma si
potrebbe tradurre anche: « poco meno di Dio »), di gloria e di onore lo hai
coronato » (Sal 8, 6). La gloria di Dio risplende sul volto dell'uomo.
In lui il Creatore trova il suo riposo, come commenta stupito e commosso
sant'Ambrogio: « È finito il sesto giorno e si è conclusa la creazione del
mondo con la formazione di quel capolavoro che è l'uomo, il quale esercita il
dominio su tutti gli esseri viventi ed è come il culmine dell'universo e la
suprema bellezza di ogni essere creato. Veramente dovremmo mantenere un
reverente silenzio, poiché il Signore si riposò da ogni opera del mondo. Si
riposò poi nell'intimo dell'uomo, si riposò nella sua mente e nel suo
pensiero; infatti aveva creato l'uomo dotato di ragione, capace d'imitarlo,
emulo delle sue virtù, bramoso delle grazie celesti. In queste sue doti
riposa Iddio che ha detto: "O su chi riposerò, se non su chi è umile,
tranquillo e teme le mie parole?" (Is 66, 1-2). Ringrazio il
Signore Dio nostro che ha creato un'opera così meravigliosa nella quale
trovare il suo riposo ».(26) 36.
Purtroppo lo stupendo progetto di Dio viene offuscato dalla irruzione del
peccato nella storia. Con il peccato l'uomo si ribella al Creatore, finendo
con l'idolatrare le creature: « Hanno venerato e adorato la creatura
al posto del Creatore » (Rm 1, 25). In questo modo l'essere umano non
solo deturpa in se stesso l'immagine di Dio, ma è tentato di offenderla anche
negli altri, sostituendo ai rapporti di comunione atteggiamenti di
diffidenza, di indifferenza, di inimicizia, fino all'odio omicida. Quando non
si riconosce Dio come Dio, si tradisce il senso profondo dell'uomo e
si pregiudica la comunione tra gli uomini. Nella
vita dell'uomo, l'immagine di Dio torna a risplendere e si manifesta in tutta
la sua pienezza con la venuta nella carne umana del Figlio di Dio: « Egli è
immagine del Dio invisibile » (Col 1, 15), « irradiazione della sua
gloria e impronta della sua sostanza » (Eb 1, 3). Egli è l'immagine
perfetta del Padre. Il
progetto di vita consegnato al primo Adamo trova finalmente in Cristo il suo
compimento. Mentre la disobbedienza di Adamo rovina e deturpa il disegno di
Dio sulla vita dell'uomo e introduce la morte nel mondo, l'obbedienza
redentrice di Cristo è fonte di grazia che si riversa sugli uomini
spalancando a tutti le porte del regno della vita (cf. Rm 5, 12-21).
Afferma l'apostolo Paolo: « Il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente,
ma l'ultimo Adamo divenne spirito datore di vita » (1 Cor 15, 45). A
quanti accettano di porsi alla sequela di Cristo viene donata la pienezza
della vita: in loro l'immagine divina viene restaurata, rinnovata e condotta
alla perfezione. Questo è il disegno di Dio sugli esseri umani: che divengano
« conformi all'immagine del Figlio suo » (Rm 8, 29). Solo così, nello
splendore di questa immagine, l'uomo può essere liberato dalla schiavitù
dell'idolatria, può ricostruire la fraternità dispersa e ritrovare la sua
identità. «
Chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno » (Gv 11, 26): il dono della vita eterna 37.
La vita che il Figlio di Dio è venuto a donare agli uomini non si riduce alla
sola esistenza nel tempo. La vita, che da sempre è « in lui » e costituisce «
la luce degli uomini » (Gv 1, 4), consiste nell'essere generati da
Dio e nel partecipare alla pienezza del suo amore: « A quanti l'hanno
accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono
nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di
uomo, ma da Dio sono stati generati » (Gv 1, 12-13). A
volte Gesù chiama questa vita, che egli è venuto a donare, semplicemente
così: « la vita »; e presenta la generazione da Dio come una condizione
necessaria per poter raggiungere il fine per cui Dio ha creato l'uomo: « Se
uno non rinasce dall'alto, non può vedere il regno di Dio » (Gv 3, 3).
Il dono di questa vita costituisce l'oggetto proprio della missione di Gesù:
egli « è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo » (Gv 6,
33), così che può affermare con piena verità: « Chi segue me... avrà la luce
della vita » (Gv 8, 12). Altre
volte Gesù parla di « vita eterna », dove l'aggettivo non richiama soltanto
una prospettiva sovratemporale. « Eterna » è la vita che Gesù promette e
dona, perché è pienezza di partecipazione alla vita dell' « Eterno ».
Chiunque crede in Gesù ed entra in comunione con lui ha la vita eterna (cf. Gv
3, 15; 6, 40), perché da lui ascolta le uniche parole che rivelano e
infondono pienezza di vita alla sua esistenza; sono le « parole di vita
eterna » che Pietro riconosce nella sua confessione di fede: « Signore, da
chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto
che tu sei il Santo di Dio » (Gv 6, 68-69). In che cosa consista poi
la vita eterna, lo dichiara Gesù stesso rivolgendosi al Padre nella grande
preghiera sacerdotale: « Questa è la vita eterna: che conoscano te, l'unico
vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo » (Gv 17, 3). Conoscere
Dio e il suo Figlio è accogliere il mistero della comunione d'amore del
Padre, del Figlio e dello Spirito Santo nella propria vita, che si apre già
fin d'ora alla vita eterna nella partecipazione alla vita divina. 38.
La vita eterna è, dunque, la vita stessa di Dio ed insieme la vita dei
figli di Dio. Stupore sempre nuovo e gratitudine senza limiti non possono
non prendere il credente di fronte a questa inattesa e ineffabile verità che
ci viene da Dio in Cristo. Il credente fa sue le parole dell'apostolo
Giovanni: « Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli
di Dio, e lo siamo realmente!... Carissimi, noi fin d'ora siamo figli di Dio,
ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli
si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come
egli è » (1 Gv 3, 1-2). Così
giunge al suo culmine la verità cristiana sulla vita. La dignità di
questa non è legata solo alle sue origini, al suo venire da Dio, ma anche al
suo fine, al suo destino di comunione con Dio nella conoscenza e nell'amore
di Lui. È alla luce di questa verità che sant'Ireneo precisa e completa la
sua esaltazione dell'uomo: « gloria di Dio » è, sì, « l'uomo che vive », ma «
la vita dell'uomo consiste nella visione di Dio ».(27) Nascono
da qui immediate conseguenze per la vita umana nella sua stessa condizione
terrena, nella quale è già germogliata ed è in crescita la vita eterna.
Se l'uomo ama istintivamente la vita perché è un bene, tale amore trova
ulteriore motivazione e forza, nuova ampiezza e profondità nelle dimensioni
divine di questo bene. In simile prospettiva, l'amore che ogni essere umano
ha per la vita non si riduce alla semplice ricerca di uno spazio in cui
esprimere se stesso ed entrare in relazione con gli altri, ma si sviluppa
nella gioiosa consapevolezza di poter fare della propria esistenza il « luogo
» della manifestazione di Dio, dell'incontro e della comunione con Lui. La
vita che Gesù ci dona non svaluta la nostra esistenza nel tempo, ma la assume
e la conduce al suo ultimo destino: « Io sono la risurrezione e la vita...;
chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno » (Gv 11, 25.26). «
Domanderò conto ... a ognuno di suo fratello » (Gn 9, 5): venerazione e amore per la
vita di tutti 39.
La vita dell'uomo proviene da Dio, è suo dono, sua immagine e impronta,
partecipazione del suo soffio vitale. Di questa vita, pertanto, Dio
è l'unico signore: l'uomo non può disporne. Dio stesso lo ribadisce a Noè
dopo il diluvio: « Domanderò conto della vita dell'uomo all'uomo, a ognuno di
suo fratello » (Gn 9, 5). E il testo biblico si preoccupa di
sottolineare come la sacralità della vita abbia il suo fondamento in Dio e
nella sua azione creatrice: « Perché ad immagine di Dio Egli ha fatto l'uomo
» (Gn 9, 6). La
vita e la morte dell'uomo sono, dunque, nelle mani di Dio, in suo potere: «
Egli ha in mano l'anima di ogni vivente e il soffio d'ogni carne umana »,
esclama Giobbe (12, 10). « Il Signore fa morire e fa vivere, scendere agli
inferi e risalire » (1 Sam 2, 6). Egli solo può dire: « Sono io che do
la morte e faccio vivere » (Dt 32, 39). Ma
questo potere Dio non lo esercita come arbitrio minaccioso, bensì come cura
e sollecitudine amorosa nei riguardi delle sue creature. Se è vero che la
vita dell'uomo è nelle mani di Dio, non è men vero che queste sono mani
amorevoli come quelle di una madre che accoglie, nutre e si prende cura del
suo bambino: « Io sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a
sua madre, come un bimbo svezzato è l'anima mia » (Sal 131/130, 2; cf.
Is 49, 15; 66, 12-13; Os 11, 4). Così nelle vicende dei popoli
e nella sorte degli individui Israele non vede il frutto di una pura
casualità o di un destino cieco, ma l'esito di un disegno d'amore con il
quale Dio raccoglie tutte le potenzialità di vita e contrasta le forze di
morte, che nascono dal peccato: « Dio non ha creato la morte e non gode per
la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per l'esistenza » (Sap
1, 13-14). 40.
Dalla sacralità della vita scaturisce la sua inviolabilità, inscritta fin
dalle origini nel cuore dell'uomo, nella sua coscienza. La domanda « Che
hai fatto? » (Gn 4, 10), con cui Dio si rivolge a Caino dopo che
questi ha ucciso il fratello Abele, traduce l'esperienza di ogni uomo: nel
profondo della sua coscienza, egli viene sempre richiamato alla inviolabilità
della vita — della sua vita e di quella degli altri —, come realtà che non
gli appartiene, perché proprietà e dono di Dio Creatore e Padre. Il
comandamento relativo all'inviolabilità della vita umana risuona al centro
delle « dieci parole » nell'Alleanza del Sinai (cf. Es 34, 28).
Esso proibisce, anzitutto, l'omicidio: « Non uccidere » (Es 20, 13); «
Non far morire l'innocente e il giusto » (Es 23, 7); ma proibisce anche
— come viene esplicitato nell'ulteriore legislazione di Israele — ogni
lesione inflitta all'altro (cf. Es 21, 12-27). Certo, bisogna
riconoscere che nell'Antico Testamento questa sensibilità per il valore della
vita, pur già così marcata, non raggiunge ancora la finezza del Discorso
della Montagna, come emerge da alcuni aspetti della legislazione allora
vigente, che prevedeva pene corporali non lievi e persino la pena di morte.
Ma il messaggio complessivo, che spetterà al Nuovo Testamento di portare alla
perfezione, è un forte appello al rispetto dell'inviolabilità della vita
fisica e dell'integrità personale, ed ha il suo vertice nel comandamento
positivo che obbliga a farsi carico del prossimo come di se stessi: « Amerai
il tuo prossimo come te stesso » (Lv 19, 18). 41.
Il comandamento del « non uccidere », incluso e approfondito in quello
positivo dell'amore del prossimo, viene ribadito in tutta la sua validità
dal Signore Gesù. Al giovane ricco che gli chiede: « Maestro, che cosa
devo fare di buono per ottenere la vita eterna? », risponde: « Se vuoi
entrare nella vita, osserva i comandamenti » (Mt 19, 16.17). E cita,
come primo, il « non uccidere » (v. 18). Nel Discorso della Montagna, Gesù
esige dai discepoli una giustizia superiore a quella degli scribi e
dei farisei anche nel campo del rispetto della vita: « Avete inteso che fu
detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio.
Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a
giudizio » (Mt 5, 21-22). Con
la sua parola e i suoi gesti Gesù esplicita ulteriormente le esigenze
positive del comandamento circa l'inviolabilità della vita. Esse erano già
presenti nell'Antico Testamento, dove la legislazione si preoccupava di
garantire e salvaguardare le situazioni di vita debole e minacciata: il
forestiero, la vedova, l'orfano, il malato, il povero in genere, la stessa
vita prima della nascita (cf. Es 21, 22; 22, 20-26). Con Gesù queste
esigenze positive acquistano vigore e slancio nuovi e si manifestano in tutta
la loro ampiezza e profondità: vanno dal prendersi cura della vita del fratello
(familiare, appartenente allo stesso popolo, straniero che abita nella
terra di Israele), al farsi carico dell'estraneo, fino all'amare il nemico. L'estraneo
non è più tale per chi deve farsi prossimo di chiunque è nel bisogno
fino ad assumersi la responsabilità della sua vita, come insegna in modo
eloquente e incisivo la parabola del buon samaritano (cf. Lc 10,
25-37). Anche il nemico cessa di essere tale per chi è tenuto ad amarlo (cf. Mt
5, 38-48; Lc 6, 27-35) e a « fargli del bene » (cf. Lc 6,
27.33.35), venendo incontro alle necessità della sua vita con prontezza e
senso di gratuità (cf. Lc 6, 34-35). Vertice di questo amore è la
preghiera per il nemico, mediante la quale ci si pone in sintonia con l'amore
provvidente di Dio: « Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i
vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa
sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i
giusti e sopra gli ingiusti » (Mt 5, 44-45; cf. Lc 6, 28.35). Così
il comandamento di Dio a salvaguardia della vita dell'uomo ha il suo aspetto
più profondo nell'esigenza di venerazione e di amore nei confronti di
ogni persona e della sua vita. È questo l'insegnamento che l'apostolo Paolo,
facendo eco alla parola di Gesù (cf. Mt 19, 17-18), rivolge ai
cristiani di Roma: « Il precetto: Non commettere adulterio, non uccidere, non
rubare, non desiderare e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste
parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso. L'amore non fa nessun
male al prossimo: pieno compimento della legge è l'amore » (Rm 13,
9-10). «
Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela » (Gn 1, 28): le responsabilità dell'uomo verso
la vita 42.
Difendere e promuovere, venerare e amare la vita è un compito che Dio affida
a ogni uomo, chiamandolo, come sua palpitante immagine, a partecipare alla
signoria che Egli ha sul mondo: « Dio li benedisse e disse loro: "Siate
fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui
pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che
striscia sulla terra" » (Gn 1, 28). Il
testo biblico mette in luce l'ampiezza e la profondità della signoria che Dio
dona all'uomo. Si tratta, anzitutto, del dominio sulla terra e su ogni
essere vivente, come ricorda il libro della Sapienza: « Dio dei padri e
Signore di misericordia... con la tua sapienza hai formato l'uomo, perché
domini sulle creature che tu hai fatto, e governi il mondo con santità e
giustizia » (9, 1.2-3). Anche il Salmista esalta il dominio dell'uomo come
segno della gloria e dell'onore ricevuti dal Creatore: « Gli hai dato potere
sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi; tutti i greggi
e gli armenti, tutte le bestie della campagna; gli uccelli del cielo e i
pesci del mare, che percorrono le vie del mare » (Sal 8, 7-9). Chiamato
a coltivare e custodire il giardino del mondo (cf. Gn 2, 15), l'uomo
ha una specifica responsabilità sull'ambiente di vita, ossia sul
creato che Dio ha posto al servizio della sua dignità personale, della sua
vita: in rapporto non solo al presente, ma anche alle generazioni future. È
la questione ecologica — dalla preservazione degli « habitat »
naturali delle diverse specie animali e delle varie forme di vita, alla «
ecologia umana » propriamente detta (28) — che trova nella pagina biblica una
luminosa e forte indicazione etica per una soluzione rispettosa del grande
bene della vita, di ogni vita. In realtà, « il dominio accordato dal Creatore
all'uomo non è un potere assoluto, né si può parlare di libertà di
"usare e abusare", o di disporre delle cose come meglio aggrada. La
limitazione imposta dallo stesso Creatore fin dal principio, ed espressa
simbolicamente con la proibizione di "mangiare il frutto
dell'albero" (cf. Gn 2, 16-17), mostra con sufficiente chiarezza
che, nei confronti della natura visibile, siamo sottomessi a leggi non solo
biologiche, ma anche morali, che non si possono impunemente trasgredire ».(29) 43.
Una certa partecipazione dell'uomo alla signoria di Dio si manifesta anche
nella specifica responsabilità che gli viene affidata nei confronti
della vita propriamente umana. È responsabilità che tocca il suo vertice
nella donazione della vita mediante la generazione da parte dell'uomo
e della donna nel matrimonio, come ci ricorda il Concilio Vaticano II: « Lo
stesso Dio che disse: "non è bene che l'uomo sia solo" (Gn 2,
18) e che "creò all'inizio l'uomo maschio e femmina" (Mt 19,
4), volendo comunicare all'uomo una certa speciale partecipazione nella sua
opera creatrice, benedisse l'uomo e la donna, dicendo loro: "crescete e
moltiplicatevi" (Gn 1, 28) ».(30) Parlando
di « una certa speciale partecipazione » dell'uomo e della donna all'« opera
creatrice » di Dio, il Concilio intende rilevare come la generazione del
figlio sia un evento profondamente umano e altamente religioso, in quanto
coinvolge i coniugi che formano « una sola carne » (Gn 2, 24) ed
insieme Dio stesso che si fa presente. Come ho scritto nella Lettera alle
Famiglie, « quando dall'unione coniugale dei due nasce un nuovo uomo,
questi porta con sé al mondo una particolare immagine e somiglianza di Dio
stesso: nella biologia della generazione è inscritta la genealogia della
persona. Affermando che i coniugi, come genitori, sono collaboratori di
Dio Creatore nel concepimento e nella generazione di un nuovo essere umano
non ci riferiamo solo alle leggi della biologia; intendiamo sottolineare
piuttosto che nella paternità e maternità umane Dio stesso è presente in
modo diverso da come avviene in ogni altra generazione "sulla
terra". Infatti soltanto da Dio può provenire quella "immagine e
somiglianza" che è propria dell'essere umano, così come è avvenuto nella
creazione. La generazione è la continuazione della creazione ».(31) È
quanto insegna, con linguaggio immediato ed eloquente, il testo sacro
riportando il grido gioioso della prima donna, « la madre di tutti i viventi
» (Gn 3, 20). Consapevole dell'intervento di Dio, Eva esclama: « Ho
acquistato un uomo dal Signore » (Gn 4, 1). Nella generazione dunque,
mediante la comunicazione della vita dai genitori al figlio, si trasmette,
grazie alla creazione dell'anima immortale,(32) l'immagine e la somiglianza
di Dio stesso. In questo senso si esprime l'inizio del « libro della
genealogia di Adamo »: « Quando Dio creò l'uomo, lo fece a somiglianza di
Dio; maschio e femmina li creò, li benedisse e li chiamò uomini quando furono
creati. Adamo aveva centotrenta anni quando generò a sua immagine, a sua somiglianza,
un figlio e lo chiamò Set » (Gn 5, 1-3). Proprio in questo loro ruolo
di collaboratori di Dio, che trasmette la sua immagine alla nuova
creatura, sta la grandezza dei coniugi disposti « a cooperare con l'amore
del Creatore e del Salvatore, che attraverso di loro continuamente dilata e
arricchisce la Sua famiglia ».(33) In questa luce il Vescovo Anfilochio
esaltava il « matrimonio santo, eletto ed elevato al di sopra di tutti i doni
terreni » come « generatore dell'umanità, artefice di immagini di Dio ».(34) Così
l'uomo e la donna uniti in matrimonio sono associati ad un'opera divina:
mediante l'atto della generazione, il dono di Dio viene accolto e una nuova
vita si apre al futuro. Ma,
al di là della missione specifica dei genitori, il compito di accogliere e
servire la vita riguarda tutti e deve manifestarsi soprattutto verso la vita
nelle condizioni di maggior debolezza. È Cristo stesso che ce lo ricorda,
chiedendo di essere amato e servito nei fratelli provati da qualsiasi tipo di
sofferenza: affamati, assetati, forestieri, nudi, malati, carcerati... Quanto
è fatto a ciascuno di loro è fatto a Cristo stesso (cf. Mt 25, 31-46). «
Sei tu che hai creato le mie viscere » (Sal 139/138, 13): la dignità del bambino non ancora nato 44.
La vita umana viene a trovarsi in situazione di grande precarietà quando
entra nel mondo e quando esce dal tempo per approdare all'eternità. Sono ben
presenti nella Parola di Dio — soprattutto nei riguardi dell'esistenza insidiata
dalla malattia e dalla vecchiaia — gli inviti alla cura e al rispetto. Se
mancano inviti diretti ed espliciti a salvaguardare la vita umana alle sue
origini, in specie la vita non ancora nata, come anche quella vicina alla sua
fine, ciò si spiega facilmente per il fatto che anche la sola possibilità di
offendere, aggredire o addirittura negare la vita in queste condizioni esula
dall'orizzonte religioso e culturale del popolo di Dio. Nell'Antico
Testamento la sterilità è temuta come una maledizione, mentre la prole
numerosa è sentita come una benedizione: « Dono del Signore sono i figli, è
sua grazia il frutto del grembo » (Sal 127/126, 3; cf. Sal 128/127,
3-4). Gioca in questa convinzione anche la consapevolezza di Israele di
essere il popolo dell'Alleanza, chiamato a moltiplicarsi secondo la promessa
fatta ad Abramo: « Guarda il cielo e conta le stelle, se riesci a contarle...
tale sarà la tua discendenza » (Gn 15, 5). Ma è soprattutto operante
la certezza che la vita trasmessa dai genitori ha la sua origine in Dio, come
attestano le tante pagine bibliche che con rispetto e amore parlano del
concepimento, del plasmarsi della vita nel grembo materno, della nascita e
dello stretto legame che v'è tra il momento iniziale dell'esistenza e l'agire
di Dio Creatore. «
Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla
luce, ti avevo consacrato » (Ger 1, 5):l'esistenza di ogni
individuo, fin dalle sue origini, è nel disegno di Dio. Giobbe, dal fondo
del suo dolore, si ferma a contemplare l'opera di Dio nel miracoloso formarsi
del suo corpo nel grembo della madre, traendone motivo di fiducia ed
esprimendo la certezza dell'esistenza di un progetto divino sulla sua vita: «
Le tue mani mi hanno plasmato e mi hanno fatto integro in ogni parte; vorresti
ora distruggermi? Ricordati che come argilla mi hai plasmato e in polvere mi
farai tornare. Non m'hai colato forse come latte e fatto accagliare come
cacio? Di pelle e di carne mi hai rivestito, d'ossa e di nervi mi hai
intessuto. Vita e benevolenza tu mi hai concesso e la tua premura ha
custodito il mio spirito » (10, 8-12). Accenti di adorante stupore per
l'intervento di Dio sulla vita in formazione nel grembo materno risuonano
anche nei Salmi.(35) Come
pensare che anche un solo momento di questo meraviglioso processo dello
sgorgare della vita possa essere sottratto all'opera sapiente e amorosa del
Creatore e lasciato in balìa dell'arbitrio dell'uomo? Non lo pensa certo la
madre dei sette fratelli, che professa la sua fede in Dio, principio e garanzia
della vita fin dal suo concepimento, e al tempo stesso fondamento della
speranza della nuova vita oltre la morte: « Non so come siate apparsi nel mio
seno; non io vi ho dato lo spirito e la vita, né io ho dato forma alle membra
di ciascuno di voi. Senza dubbio il Creatore del mondo, che ha plasmato
all'origine l'uomo e ha provveduto alla generazione di tutti, per la sua
misericordia vi restituirà di nuovo lo spirito e la vita, come voi ora per le
sue leggi non vi curate di voi stessi » (2 Mac 7, 22-23). 45.
La rivelazione del Nuovo Testamento conferma l'indiscusso riconoscimento
del valore della vita fin dai suoi inizi. L'esaltazione della fecondità e
l'attesa premurosa della vita risuonano nelle parole con cui Elisabetta
gioisce per la sua gravidanza: « Il Signore... si è degnato di togliere la
mia vergogna » (Lc 1, 25). Ma ancor più il valore della persona fin
dal suo concepimento è celebrato nell'incontro tra la Vergine Maria ed
Elisabetta, e tra i due fanciulli che esse portano in grembo. Sono proprio
loro, i bambini, a rivelare l'avvento dell'era messianica: nel loro incontro
inizia ad operare la forza redentrice della presenza del Figlio di Dio tra
gli uomini. « Subito — scrive sant'Ambrogio — si fanno sentire i benefici
della venuta di Maria e della presenza del Signore... Elisabetta udì per
prima la voce, ma Giovanni percepì per primo la grazia; essa udì secondo
l'ordine della natura, egli esultò in virtù del mistero; essa sentì l'arrivo
di Maria, egli del Signore; la donna l'arrivo della donna, il bambino
l'arrivo del Bambino. Esse parlano delle grazie ricevute, essi nel seno delle
loro madri realizzano la grazia e il mistero della misericordia a profitto
delle madri stesse: e queste per un duplice miracolo profetizzano sotto
l'ispirazione dei figli che portano. Del figlio si dice che esultò, della
madre che fu ricolma di Spirito Santo. Non fu prima la madre a essere ricolma
dello Spirito, ma fu il figlio, ripieno di Spirito Santo, a ricolmare anche
la madre ».(36) «
Ho creduto anche quando dicevo: "Sono troppo infelice" » (Sal 116/115, 10): la vita nella
vecchiaia e nella sofferenza 46.
Anche per quanto riguarda gli ultimi istanti dell'esistenza, sarebbe
anacronistico attendersi dalla rivelazione biblica un espresso riferimento
all'attuale problematica del rispetto delle persone anziane e malate e
un'esplicita condanna dei tentativi di anticiparne violentemente la fine:
siamo infatti in un contesto culturale e religioso che non è intaccato da
simile tentazione, e che anzi, per quanto riguarda l'anziano, riconosce nella
sua saggezza ed esperienza una insostituibile ricchezza per la famiglia e la
società. La
vecchiaia è segnata da prestigio e circondata da venerazione (cf. 2 Mac 6, 23). E il giusto non chiede di
essere privato della vecchiaia e del suo peso; al contrario così egli prega:
« Sei tu, Signore, la mia speranza, la mia fiducia fin dalla mia
giovinezza... E ora, nella vecchiaia e nella canizie, Dio, non abbandonarmi,
finché io annunzi la tua potenza, a tutte le generazioni le tue meraviglie »
(Sal 71/70, 5.18). L'ideale del tempo messianico è proposto come
quello in cui « non ci sarà più... un vecchio che non giunga alla pienezza
dei suoi giorni » (Is 65, 20). Ma,
nella vecchiaia, come affrontare il declino inevitabile della vita? Come
atteggiarsi di fronte alla morte? Il credente sa che la sua vita sta nelle
mani di Dio: « Signore, nelle tue mani è la mia vita » (cf. Sal 16/15,
5), e da lui accetta anche il morire: « Questo è il decreto del Signore per
ogni uomo; perché ribellarsi al volere dell'Altissimo? » (Sir 41, 4).
Come della vita, così della morte l'uomo non è padrone; nella sua vita come
nella sua morte, egli deve affidarsi totalmente al « volere dell'Altissimo »,
al suo disegno di amore. Anche
nel momento della malattia, l'uomo è chiamato a vivere lo stesso
affidamento al Signore e a rinnovare la sua fondamentale fiducia in lui che «
guarisce tutte le malattie » (cf. Sal 103/102, 3). Quando ogni
orizzonte di salute sembra chiudersi di fronte all'uomo — tanto da indurlo a
gridare: « I miei giorni sono come ombra che declina, e io come erba
inaridisco » (Sal 102/101, 12) —, anche allora il credente è animato
dalla fede incrollabile nella potenza vivificante di Dio. La malattia non lo
spinge alla disperazione e alla ricerca della morte, ma all'invocazione piena
di speranza: « Ho creduto anche quando dicevo: "Sono troppo
infelice" (Sal 116/115, 10); « Signore Dio mio, a te ho gridato e
mi hai guarito. Signore, mi hai fatto risalire dagli inferi, mi hai dato vita
perché non scendessi nella tomba » (Sal 30/29, 3-4). 47.
La missione di Gesù, con le numerose guarigioni operate, indica quanto Dio
abbia a cuore anche la vita corporale dell'uomo. « Medico della carne e
dello spirito »,(37) Gesù è mandato dal Padre ad annunciare la buona novella
ai poveri e a sanare i cuori affranti (cf. Lc 4, 18; Is 61, 1).
Inviando poi i suoi discepoli nel mondo, egli affida loro una missione, nella
quale la guarigione dei malati si accompagna all'annuncio del Vangelo: « E strada
facendo, predicate che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi,
risuscitate i morti, sanate i lebbrosi, cacciate i demoni » (Mt 10,
7-8; cf. Mc 6, 13; 16, 18). Certo,
la vita del corpo nella sua condizione terrena non è un assoluto per
il credente, tanto che gli può essere richiesto di abbandonarla per un bene
superiore; come dice Gesù, « chi vorrà salvare la propria vita, la perderà;
ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà » (Mc
8, 35). Diverse sono, a questo proposito, le testimonianze del Nuovo
Testamento. Gesù non esita a sacrificare sé stesso e, liberamente, fa della
sua vita una offerta al Padre (cf. Gv 10, 17) e ai suoi (cf. Gv 10,
15). Anche la morte di Giovanni il Battista, precursore del Salvatore, attesta
che l'esistenza terrena non è il bene assoluto: è più importante la fedeltà
alla parola del Signore anche se essa può mettere in gioco la vita (cf. Mc
6, 17-29). E Stefano, mentre viene privato della vita nel tempo, perché
testimone fedele della risurrezione del Signore, segue le orme del Maestro e
va incontro ai suoi lapidatori con le parole del perdono (cf. At 7,
59-60), aprendo la strada all'innumerevole schiera di martiri, venerati dalla
Chiesa fin dall'inizio. Nessun
uomo, tuttavia, può scegliere arbitrariamente di vivere o di morire; di tale
scelta, infatti, è padrone assoluto soltanto il Creatore, colui nel quale «
viviamo, ci muoviamo ed esistiamo » (At 17, 28). «
Quanti si attengono ad essa avranno la vita » (Bar 4, 1): dalla Legge del Sinai al dono
dello Spirito 48.
La vita porta indelebilmente inscritta in sé una sua verità. L'uomo,
accogliendo il dono di Dio, deve impegnarsi amantenere la vita in questa
verità, che le è essenziale. Distaccarsene equivale a condannare se
stessi all'insignificanza e all'infelicità, con la conseguenza di poter
diventare anche una minaccia per l'esistenza altrui, essendo stati rotti gli
argini che garantiscono il rispetto e la difesa della vita, in ogni
situazione. La
verità della vita è rivelata dal comandamento di Dio. La parola del Signore indica concretamente quale
indirizzo la vita debba seguire per poter rispettare la propria verità e
salvaguardare la propria dignità. Non è soltanto lo specifico comandamento «
non uccidere » (Es 20, 13; Dt 5, 17) ad assicurare la
protezione della vita: tutta intera la Legge del Signore è a servizio
di tale protezione, perché rivela quella verità nella quale la vita trova il
suo pieno significato. Non
meraviglia, dunque, che l'Alleanza di Dio con il suo popolo sia così
fortemente legata alla prospettiva della vita, anche nella sua dimensione
corporea. Il comandamento è in essa offerto come via della vita: «
Io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; poiché io
oggi ti comando di amare il Signore tuo Dio, di camminare per le sue vie, di
osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme, perché tu viva e ti
moltiplichi e il Signore tuo Dio ti benedica nel paese che tu stai per
entrare a prendere in possesso » (Dt 30, 15-16). È in questione non
soltanto la terra di Canaan e l'esistenza del popolo di Israele, ma il mondo
di oggi e del futuro e l'esistenza di tutta l'umanità. Infatti, non è
assolutamente possibile che la vita resti autentica e piena distaccandosi dal
bene; e il bene, a sua volta, è essenzialmente legato ai comandamenti del
Signore, cioè alla « legge della vita » (Sir 17, 9). Il bene da
compiere non si sovrappone alla vita come un peso che grava su di essa,
perché la ragione stessa della vita è precisamente il bene e la vita è
costruita solo mediante il compimento del bene. È
dunque il complesso della Legge a salvaguardare pienamente la vita
dell'uomo. Ciò spiega come sia difficile mantenersi fedeli al « non uccidere
» quando non vengono osservate le altre « parole di vita » (At 7, 38),
alle quali questo comandamento è connesso. Al di fuori di questo orizzonte,
il comandamento finisce per diventare un semplice obbligo estrinseco, di cui
ben presto si vorranno vedere i limiti e si cercheranno le attenuazioni o le
eccezioni. Solo se ci si apre alla pienezza della verità su Dio, sull'uomo e
sulla storia, la parola « non uccidere » torna a risplendere come bene per
l'uomo in tutte le sue dimensioni e relazioni. In questa prospettiva possiamo
cogliere la pienezza di verità contenuta nel passo del libro del
Deuteronomio, ripreso da Gesù nella risposta alla prima tentazione: « L'uomo
non vive soltanto di pane, ma... di quanto esce dalla bocca del Signore » (8,
3; cf. Mt 4, 4). È ascoltando la parola del Signore che l'uomo può
vivere secondo dignità e giustizia; è osservando la Legge di Dio che l'uomo
può portare frutti di vita e di felicità: « quanti si attengono ad essa
avranno la vita, quanti l'abbandonano moriranno » (Bar 4, 1). 49.
La storia di Israele mostra quanto sia difficile mantenere la fedeltà alla
legge della vita, che Dio ha inscritto nel cuore degli uomini e ha
consegnato sul Sinai al popolo dell'Alleanza. Di fronte alla ricerca di
progetti di vita alternativi al piano di Dio, sono in particolare i Profeti a
richiamare con forza che solo il Signore è l'autentica fonte della vita. Così
Geremia scrive: « Il mio popolo ha commesso due iniquità: essi hanno
abbandonato me, sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne, cisterne
screpolate, che non tengono l'acqua » (2, 13). I Profeti puntano il dito
accusatore su quanti disprezzano la vita e violano i diritti delle persone: «
Calpestano come la polvere della terra la testa dei poveri » (Am 2,
7); « Essi hanno riempito questo luogo di sangue innocente » (Ger 19,
4). E tra essi il profeta Ezechiele più volte stigmatizza la città di
Gerusalemme, chiamandola « la città sanguinaria » (22, 2; 24, 6.9), la «
città che sparge il sangue in mezzo a se stessa » (22, 3). Ma
mentre denunciano le offese alla vita, i Profeti si preoccupano soprattutto
di suscitare l'attesa di un nuovo principio di vita, capace di fondare
un rinnovato rapporto con Dio e con i fratelli, dischiudendo possibilità
inedite e straordinarie per comprendere e attuare tutte le esigenze insite
nel Vangelo della vita . Ciò sarà possibile unicamente grazie al dono
di Dio, che purifica e rinnova: « Vi aspergerò con acqua pura e sarete
purificati; io vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri
idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo » (Ez
36, 25-26; cf. Ger 31, 31-34). Grazie a questo « cuore nuovo » si
può comprendere e realizzare il senso più vero e profondo della vita: quello
di essere un dono che si compie nel donarsi. È il messaggio luminoso
che sul valore della vita ci viene dalla figura del Servo del Signore: «
Quan- do offrirà se stesso in espiazione, vedrà una discendenza, vivrà a
lungo... Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce » (Is 53, 10.11). È
nella vicenda di Gesù di Nazaret che la Legge si compie e il cuore nuovo viene
donato mediante il suo Spirito. Gesù, infatti, non rinnega la Legge, ma la
porta a compimento (cf. Mt 5, 17): Legge e Profeti si riassumono nella
regola d'oro dell'amore reciproco (cf. Mt 7, 12). In Lui la Legge
diventa definitivamente « vangelo », buona notizia della signoria di Dio sul
mondo, che riporta tutta l'esistenza alle sue radici e alle sue prospettive
originarie. È la Legge Nuova, « la legge dello Spirito che dà vita in
Cristo Gesù » (Rm 8, 2), la cui espressione fondamentale, a imitazione
del Signore che dà la vita per i propri amici (cf. Gv 15, 13), è il
dono di sé nell'amore ai fratelli: « Noi sappiamo di essere passati dalla
morte alla vita, perché amiamo i fratelli » (1 Gv 3, 14). È legge di
libertà, di gioia e di beatitudine. «
Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto » (Gv 19, 37): sull'albero della Croce si
compie il Vangelo della vita 50.
Al termine di questo capitolo, nel quale abbiamo meditato il messaggio
cristiano sulla vita, vorrei fermarmi con ciascuno di voi a contemplare Colui
che hanno trafitto e che attira tutti a sé (cf. Gv 19, 37; 12,
32). Guardando « lo spettacolo » della Croce (cf. Lc 23, 48), potremo
scoprire in questo albero glorioso il compimento e la rivelazione piena di
tutto il Vangelo della vita. Nelle
prime ore del pomeriggio del venerdì santo, « il sole si eclissò e si fece
buio su tutta la terra... Il velo del tempio si squarciò nel mezzo » (Lc 23,
44.45). È il simbolo di un grande sconvolgimento cosmico e di una immane
lotta tra le forze del bene e le forze del male, tra la vita e la morte. Noi
pure, oggi, ci troviamo nel mezzo di una lotta drammatica tra la « cultura
della morte » e la « cultura della vita ». Ma da questa oscurità lo splendore
della Croce non viene sommerso; essa, anzi, si staglia ancora più nitida e
luminosa e si rivela come il centro, il senso e il fine di tutta la storia e
di ogni vita umana. Gesù
è inchiodato sulla Croce e viene innalzato da terra. Vive il momento della
sua massima « impotenza » e la sua vita sembra totalmente consegnata agli
scherni dei suoi avversari e alle mani dei suoi uccisori: viene beffeggiato,
deriso, oltraggiato (cf. Mc 15, 24-36). Eppure, proprio di fronte a
tutto ciò e « vistolo spirare in quel modo », il centurione romano esclama: «
Veramente quest'uomo era Figlio di Dio! » (Mc 15, 39). Si rivela così,
nel momento della sua estrema debolezza, l'identità del Figlio di Dio: sulla
Croce si manifesta la sua gloria! Con
la sua morte, Gesù illumina il senso della vita e della morte di ogni essere
umano. Prima di morire, Gesù prega il Padre invocando il perdono per i suoi
persecutori (cf. Lc 23, 34) e al malfattore, che gli chiede di
ricordarsi di lui nel suo regno, risponde: « In verità ti dico, oggi sarai
con me nel paradiso » (Lc 23, 43). Dopo la sua morte « i sepolcri si
aprirono e molti corpi di santi morti risuscitarono » (Mt 27, 52). La
salvezza operata da Gesù è donazione di vita e di risurrezione. Lungo la sua
esistenza, Gesù aveva donato salvezza anche sanando e beneficando tutti (cf. At
10, 38). Ma i miracoli, le guarigioni e le stesse risuscitazioni erano
segno di un'altra salvezza, consistente nel perdono dei peccati, ossia nella
liberazione dell'uomo dalla malattia più profonda, e nella sua elevazione
alla vita stessa di Dio. Sulla
Croce si rinnova e si realizza nella sua piena e definitiva perfezione il
prodigio del serpente innalzato da Mosè nel deserto (cf. Gv 3, 14-15; Nm
21, 8-9). Anche oggi, volgendo lo sguardo a Colui che è stato trafitto,
ogni uomo minacciato nella sua esistenza incontra la sicura speranza di
trovare liberazione e redenzione. 51.
Ma c'è ancora un altro avvenimento preciso che attira il mio sguardo e
suscita la mia commossa meditazione: « Dopo aver ricevuto l'aceto, Gesù
disse: 'Tutto è compiuto!'. E, chinato il capo, rese lo spirito » (Gv 19,
30). E il soldato romano « gli colpì il costato con la lancia e subito ne
uscì sangue e acqua » (Gv 19, 34). Tutto
ormai è giunto al suo pieno compimento. Il « rendere lo spirito » descrive la
morte di Gesù, simile a quella di ogni altro essere umano, ma sembra alludere
anche al « dono dello Spirito », col quale Egli ci riscatta dalla morte e ci
apre a una vita nuova. È
la vita stessa di Dio che viene partecipata all'uomo. È la vita che, mediante
i sacramenti della Chiesa — di cui il sangue e l'acqua sgorgati dal fianco di
Cristo sono simbolo — viene continuamente comunicata ai figli di Dio,
costituiti così come popolo della Nuova Alleanza. Dalla Croce, fonte di
vita, nasce e si diffonde il « popolo della vita ». La
contemplazione della Croce ci porta così alle radici più profonde di quanto è
accaduto. Gesù, che entrando nel mondo aveva detto: « Ecco, io vengo per
fare, o Dio, la tua volontà » (cf.Eb 10, 9), si rese in tutto
obbediente al Padre e, avendo « amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino
alla fine » (Gv 13, 1), donando tutto se stesso per loro. Lui,
che non era « venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria
vita in riscatto per molti » (Mc 10, 45), raggiunge sulla Croce il vertice
dell'amore. « Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i
propri amici » (Gv 15, 13). Ed egli è morto per noi mentre eravamo
ancora peccatori (cf. Rm 5, 8). In
tal modo egli proclama che la vita raggiunge il suo centro, il suo senso e
la sua pienezza quando viene donata. La
meditazione a questo punto si fa lode e ringraziamento e, nello stesso tempo,
ci sollecita a imitare Gesù e a seguirne le orme (cf. 1 Pt 2, 21). Anche
noi siamo chiamati a dare la nostra vita per i fratelli realizzando così in
pienezza di verità il senso e il destino della nostra esistenza. Lo
potremo fare perché Tu, o Signore, ci hai donato l'esempio e ci hai
comunicato la forza del tuo Spirito. Lo potremo fare se ogni giorno, con Te e
come Te, saremo obbedienti al Padre e faremo la sua volontà. Concedici,
perciò, di ascoltare con cuore docile e generoso ogni parola che esce dalla
bocca di Dio: impareremo così non solo a « non uccidere » la vita dell'uomo,
ma a venerarla, amarla e promuoverla.
NON
UCCIDERE «
Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti » (Mt 19, 17): Vangelo e comandamento 52.
« Ed ecco un tale gli si avvicinò e gli disse: "Maestro, che cosa devo
fare di buono per ottenere la vita eterna?" » (Mt 19, 16). Gesù
rispose: « Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti » (Mt 19,
17). Il Maestro parla della vita eterna, ossia della partecipazione alla vita
stessa di Dio. A questa vita si giunge attraverso l'osservanza dei
comandamenti del Signore, compreso dunque il comandamento « non uccidere ».
Proprio questo è il primo precetto del Decalogo che Gesù ricorda al giovane
che gli chiede quali comandamenti debba osservare: « Gesù rispose: "Non
uccidere, non commettere adulterio, non rubare..." » (Mt 19, 18). Il
comandamento di Dio non è mai separato dal suo amore: è sempre un dono per la crescita e la gioia
dell'uomo. Come tale, costituisce un aspetto essenziale e un elemento
irrinunciabile del Vangelo, anzi esso stesso si configura come « vangelo »,
ossia buona e lieta notizia. Anche il Vangelo della vita è un grande
dono di Dio e insieme un compito impegnativo per l'uomo. Esso suscita stupore
e gratitudine nella persona libera e chiede di essere accolto, custodito e
valorizzato con vivo senso di responsabilità: donandogli la vita, Dio esige
dall'uomo che la ami, la rispetti e la promuova. In tal modo il dono
si fa comandamento, e il comandamento è esso stesso un dono. L'uomo,
immagine vivente di Dio, è voluto dal suo Creatore come re e signore. « Dio
ha fatto l'uomo — scrive san Gregorio di Nissa — in modo tale che potesse
svolgere la sua funzione di re della terra... L'uomo è stato creato a
immagine di Colui che governa l'universo. Tutto dimostra che fin dal
principio la sua natura è contrassegnata dalla regalità... Anche l'uomo è re.
Creato per dominare il mondo, ha ricevuto la somiglianza col re universale, è
l'immagine viva che partecipa con la sua dignità alla perfezione del divino
modello ».(38) Chiamato ad essere fecondo e a moltiplicarsi, a soggiogare la
terra e a dominare sugli esseri infraumani (cf. Gn 1, 28), l'uomo è re
e signore non solo delle cose, ma anche ed anzitutto di se stesso (39) e, in
un certo senso, della vita che gli è donata e che egli puó trasmettere
mediante l'opera generatrice compiuta nell'amore e nel rispetto del disegno
di Dio. La sua, tuttavia, non è una signoria assoluta, ma ministeriale;
è riflesso reale della signoria unica e infinita di Dio. Per questo
l'uomo deve viverla con sapienza e amore, partecipando alla sapienza e
all'amore incommensurabili di Dio. E ciò avviene con l'obbedienza alla sua
Legge santa: un'obbedienza libera e gioiosa (cf. Sal 119/118), che
nasce ed è nutrita dalla consapevolezza che i precetti del Signore sono dono
di grazia affidati all'uomo sempre e solo per il suo bene, per la custodia
della sua dignità personale e per il perseguimento della sua felicità. Come
già di fronte alle cose, ancor più di fronte alla vita, l'uomo non è padrone
assoluto e arbitro insindacabile, ma — e in questo sta la sua impareggiabile
grandezza — è « ministro del disegno di Dio ».(40) La
vita viene affidata all'uomo come un tesoro da non disperdere, come un
talento da trafficare. Di essa l'uomo deve rendere conto al suo Signore (cf. Mt
25, 14-30; Lc 19, 12-27). «
Domanderò conto della vita dell'uomo all'uomo » (Gn 9, 5): la vita umana è sacra e
inviolabile 53.
« La vita umana è sacra perché, fin dal suo inizio, comporta "l'azione
creatrice di Dio" e rimane per sempre in una relazione speciale con il
Creatore, suo unico fine. Solo Dio è il Signore della vita dal suo inizio
alla sua fine: nessuno, in nessuna circostanza, può rivendicare a sé il
diritto di distruggere direttamente un essere umano innocente ».(41) Con
queste parole l'Istruzione Donum vitae espone il contenuto centrale
della rivelazione di Dio sulla sacralità e inviolabilità della vita umana. La Sacra
Scrittura, infatti, presenta all'uomo il precetto « non uccidere » come
comandamento divino (Es 20, 13; Dt 5, 17). Esso — come ho già
sottolineato — si trova nel Decalogo, al cuore dell'Alleanza che il Signore
conclude con il popolo eletto; ma era già contenuto nell'originaria alleanza
di Dio con l'umanità dopo il castigo purificatore del diluvio, provocato dal
dilagare del peccato e della violenza (cf. Gn 9, 5-6). Dio
si proclama Signore assoluto della vita dell'uomo, plasmato a sua immagine e
somiglianza (cf. Gn 1, 26-28). La vita umana presenta, pertanto, un
carattere sacro ed inviolabile, in cui si rispecchia l'inviolabilità stessa
del Creatore. Proprio per questo sarà Dio a farsi giudice severo di ogni
violazione del comandamento « non uccidere », posto alle basi dell'intera
convivenza sociale. Egli è il « goel », ossia il difensore dell'innocente
(cf. Gn 4, 9-15; Is 41, 14; Ger 50, 34; Sal 19/18,
15). Anche in questo modo Dio dimostra di non godere della rovina dei viventi
(cf. Sap 1, 13). Solo Satana ne può godere: per la sua invidia la
morte è entrata nel mondo (cf. Sap 2, 24). Egli, che è « omicida fin
da principio », è anche « menzognero e padre della menzogna » (Gv 8,
44): ingannando l'uomo, lo conduce a traguardi di peccato e di morte,
presentati come mete e frutti di vita. 54.
Esplicitamente, il precetto « non uccidere » ha un forte contenuto negativo:
indica il confine estremo che non può mai essere valicato. Implicitamente,
però, esso spinge ad un atteggiamento positivo di rispetto assoluto per la
vita portando a promuoverla e a progredire sulla via dell'amore che si dona,
accoglie e serve. Anche il popolo dell'Alleanza, pur con lentezze e contraddizioni,
ha conosciuto una maturazione progressiva secondo questo orientamento,
preparandosi così al grande annuncio di Gesù: l'amore del prossimo è
comandamento simile a quello dell'amore di Dio; « da questi due comandamenti
dipende tutta la Legge e i Profeti » (cf. Mt 22, 36-40). « Il
precetto... non uccidere... e qualsiasi altro comandamento — sottolinea san
Paolo — si riassume in queste parole: "Amerai il prossimo tuo come te
stesso" » (Rm 13, 9; cf. Gal 5, 14). Assunto e portato a
compimento nella Legge Nuova, il precetto « non uccidere » rimane come
condizione irrinunciabile per poter « entrare nella vita » (cf. Mt 19,
16-19). In questa stessa prospettiva, risuona perentoria anche la parola
dell'apostolo Giovanni: « Chiun- que odia il proprio fratello è omicida e voi
sapete che nessun omicida possiede in se stesso la vita eterna » (1 Gv 3,
15). Sin
dai suoi inizi, la Tradizione viva della Chiesa — come testimonia la Didachè,
il più antico scritto cristiano non biblico — ha riproposto in modo categorico
il comandamento « non uccidere »: « Vi sono due vie, una della vita, e
l'altra della morte; vi è una grande differenza fra di esse... Secondo
precetto della dottrina: Non ucciderai... non farai perire il bambino con
l'aborto né l'ucciderai dopo che è nato... La via della morte è questa: ...
non hanno compassione per il povero, non soffrono con il sofferente, non
riconoscono il loro Creatore, uccidono i loro figli e con l'aborto fanno
perire creature di Dio; allontanano il bisognoso, opprimono il tribolato,
sono avvocati dei ricchi e giudici ingiusti dei poveri; sono pieni di ogni
peccato. Possiate star sempre lontani, o figli, da tutte queste colpe! ».(42) Procedendo
nel tempo, la stessa Tradizione della Chiesa ha sempre unanimemente insegnato
il valore assoluto e permanente del comandamento « non uccidere ». È noto
che, nei primi secoli, l'omicidio veniva posto fra i tre peccati più gravi —
insieme all'apostasia e all'adulterio — e si esigeva una penitenza pubblica
particolarmente onerosa e lunga prima che all'omicida pentito venissero
concessi il perdono e la riammissione nella comunione ecclesiale. 55.
La cosa non deve stupire: uccidere l'essere umano, nel quale è presente
l'immagine di Dio, è peccato di particolare gravità. Solo Dio è padrone della
vita! Da sempre, tuttavia, di fronte ai molteplici e spesso drammatici
casi che la vita individuale e sociale presenta, la riflessione dei credenti
ha cercato di raggiungere un'intelligenza più completa e profonda di quanto
il comandamento di Dio proibisca e prescriva.(43) Vi sono, infatti,
situazioni in cui i valori proposti dalla Legge di Dio appaiono sotto forma
di un vero paradosso. È il caso, ad esempio, della legittima difesa, in
cui il diritto a proteggere la propria vita e il dovere di non ledere quella
dell'altro risultano in concreto difficilmente componibili. Indubbiamente, il
valore intrinseco della vita e il dovere di portare amore a se stessi non
meno che agli altri fondano un vero diritto alla propria difesa. Lo
stesso esigente precetto dell'amore per gli altri, enunciato nell'Antico
Testamento e confermato da Gesù, suppone l'amore per se stessi quale termine
di confronto: « Amerai il prossimo tuo come te stesso » (Mc 12,
31). Al diritto di difendersi, dunque, nessuno potrebbe rinunciare per scarso
amore alla vita o a se stesso, ma solo in forza di un amore eroico, che
approfondisce e trasfigura lo stesso amore di sé, secondo lo spirito delle
beatitudini evangeliche (cf. Mt 5, 38-48) nella radicalità oblativa di
cui è esempio sublime lo stesso Signore Gesù. D'altra
parte, « la legittima difesa può essere non soltanto un diritto, ma un grave
dovere, per chi è responsabile della vita di altri, del bene comune della
famiglia o della comunità civile ».(44) Accade purtroppo che la necessità di
porre l'aggressore in condizione di non nuocere comporti talvolta la sua
soppressione. In tale ipotesi, l'esito mortale va attribuito allo stesso
aggressore che vi si è esposto con la sua azione, anche nel caso in cui egli
non fosse moralmente responsabile per mancanza dell'uso della ragione.(45) 56.
In questo orizzonte si colloca anche il problema della pena di morte, su
cui si registra, nella Chiesa come nella società civile, una crescente
tendenza che ne chiede un'applicazione assai limitata ed anzi una totale
abolizione. Il problema va inquadrato nell'ottica di una giustizia penale che
sia sempre più conforme alla dignità dell'uomo e pertanto, in ultima analisi,
al disegno di Dio sull'uomo e sulla società. In effetti, la pena che la
società infligge « ha come primo scopo di riparare al disordine introdotto
dalla colpa ».(46) La pubblica autorità deve farsi vindice della violazione
dei diritti personali e sociali mediante l'imposizione al reo di una adeguata
espiazione del crimine, quale condizione per essere riammesso all'esercizio
della propria libertà. In tal modo l'autorità ottiene anche lo scopo di
difendere l'ordine pubblico e la sicurezza delle persone, non senza offrire
allo stesso reo uno stimolo e un aiuto a correggersi e redimersi.(47) È
chiaro che, proprio per conseguire tutte queste finalità, la misura e la
qualità della pena devono essere attentamente valutate e decise, e non
devono giungere alla misura estrema della soppressione del reo se non in casi
di assoluta necessità, quando cioè la difesa della società non fosse
possibile altrimenti. Oggi, però, a seguito dell'organizzazione sempre più
adeguata dell'istituzione penale, questi casi sono ormai molto rari, se non
addirittura praticamente inesistenti. In
ogni caso resta valido il principio indicato dal nuovo Catechismo della
Chiesa Cattolica, secondo cui « se i mezzi incruenti sono sufficienti per
difendere le vite umane dall'aggressore e per proteggere l'ordine pubblico e
la sicurezza delle persone, l'autorità si limiterà a questi mezzi, poiché
essi sono meglio rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono
più conformi alla dignità della persona umana ».(48) 57.
Se così grande attenzione va posta al rispetto di ogni vita, persino di
quella del reo e dell'ingiusto aggressore, il comandamento « non uccidere »
ha valore assoluto quando si riferisce alla persona innocente. E ciò
tanto più se si tratta di un essere umano debole e indifeso, che solo nella
forza assoluta del comandamento di Dio trova la sua radicale difesa rispetto
all'arbitrio e alla prepotenza altrui. In
effetti, l'inviolabilità assoluta della vita umana innocente è una verità
morale esplicitamente insegnata nella Sacra Scrittura, costantemente ritenuta
nella Tradizione della Chiesa e unanimemente proposta dal suo Magistero. Tale
unanimità è frutto evidente di quel « senso soprannaturale della fede » che,
suscitato e sorretto dallo Spirito Santo, garantisce dall'errore il popolo di
Dio, quando « esprime l'universale suo consenso in materia di fede e di
costumi ».(49) Dinanzi
al progressivo attenuarsi nelle coscienze e nella società della percezione
dell'assoluta e grave illiceità morale della diretta soppressione di ogni
vita umana innocente, specialmente al suo inizio e al suo termine, il
Magistero della Chiesa ha intensificato i suoi interventi a difesa della
sacralità e dell'inviolabilità della vita umana. Al Magistero pontificio,
particolarmente insistente, s'è sempre unito quello episcopale, con numerosi
e ampi documenti dottrinali e pastorali, sia di Conferenze Episcopali, sia di
singoli Vescovi. Né è mancato, forte e incisivo nella sua brevità,
l'intervento del Concilio Vaticano II.(50) Pertanto,
con l'autorità che Cristo ha conferito a Pietro e ai suoi Successori, in
comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica, confermo che l'uccisione
diretta e volontaria di un essere umano innocente è sempre gravemente
immorale. Tale dottrina, fondata in quella legge non scritta che ogni
uomo, alla luce della ragione, trova nel proprio cuore (cf. Rm 2,
14-15), è riaffermata dalla Sacra Scrittura, trasmessa dalla Tradizione della
Chiesa e insegnata dal Magistero ordinario e universale.(51) La
scelta deliberata di privare un essere umano innocente della sua vita è
sempre cattiva dal punto di vista morale e non può mai essere lecita né come
fine, né come mezzo per un fine buono. È, infatti, grave disobbedienza alla
legge morale, anzi a Dio stesso, autore e garante di essa; contraddice le
fondamentali virtù della giustizia e della carità. « Niente e nessuno può
autorizzare l'uccisione di un essere umano innocente, feto o embrione che
sia, bambino o adulto, vecchio, ammalato incurabile o agonizzante. Nessuno,
inoltre, può richiedere questo gesto omicida per se stesso o per un altro
affidato alla sua responsabilità, né può acconsentirvi esplicitamente o
implicitamente. Nessuna autorità può legittimamente imporlo né permetterlo
».(52) Nel
diritto alla vita, ogni essere umano innocente è assolutamente uguale a tutti
gli altri. Tale uguaglianza è la base di ogni autentico rapporto sociale che,
per essere veramente tale, non può non fondarsi sulla verità e sulla
giustizia, riconoscendo e tutelando ogni uomo e ogni donna come persona e non
come una cosa di cui si possa disporre. Di fronte alla norma morale che
proibisce la soppressione diretta di un essere umano innocente « non ci
sono privilegi né eccezioni per nessuno. Essere il padrone del mondo o
l'ultimo miserabile sulla faccia della terra non fa alcuna differenza:
davanti alle esigenze morali siamo tutti assolutamente uguali ».(53) «
Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi » (Sal 139/138, 16): il delitto abominevole
dell'aborto 58.
Fra tutti i delitti che l'uomo può compiere contro la vita, l'aborto
procurato presenta caratteristiche che lo rendono particolarmente grave e
deprecabile. Il Concilio Vaticano II lo definisce, insieme all'infanticidio,
« delitto abominevole ».(54) Ma
oggi, nella coscienza di molti, la percezione della sua gravità è andata
progressivamente oscurandosi. L'accettazione dell'aborto nella mentalità, nel
costume e nella stessa legge è segno eloquente di una pericolosissima crisi
del senso morale, che diventa sempre più incapace di distinguere tra il bene
e il male, persino quando è in gioco il diritto fondamentale alla vita. Di
fronte a una così grave situazione, occorre più che mai il coraggio di
guardare in faccia alla verità e di chiamare le cose con il loro nome, senza
cedere a compromessi di comodo o alla tentazione di autoinganno. A tale
proposito risuona categorico il rimprovero del Profeta: « Guai a coloro che
chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la
luce in tenebre » (Is 5, 20). Proprio nel caso dell'aborto si registra
la diffusione di una terminologia ambigua, come quella di « interruzione
della gravidanza », che tende a nasconderne la vera natura e ad attenuarne la
gravità nell'opinione pubblica. Forse questo fenomeno linguistico è esso
stesso sintomo di un disagio delle coscienze. Ma nessuna parola vale a
cambiare la realtà delle cose: l'aborto procurato è l'uccisione deliberata
e diretta, comunque venga attuata, di un essere umano nella fase iniziale
della sua esistenza, compresa tra il concepimento e la nascita. La
gravità morale dell'aborto procurato appare in tutta la sua verità se si
riconosce che si tratta di un omicidio e, in particolare, se si considerano
le circostanze specifiche che lo qualificano. Chi viene soppresso è un essere
umano che si affaccia alla vita, ossia quanto di più innocente in
assoluto si possa immaginare: mai potrebbe essere considerato un aggressore,
meno che mai un ingiusto aggressore! È debole, inerme, al punto di
essere privo anche di quella minima forma di difesa che è costituita dalla
forza implorante dei gemiti e del pianto del neonato. È totalmente
affidato alla protezione e alle cure di colei che lo porta in grembo.
Eppure, talvolta, è proprio lei, la mamma, a deciderne e a chiederne la
soppressione e persino a procurarla. È
vero che molte volte la scelta abortiva riveste per la madre carattere
drammatico e doloroso, in quanto la decisione di disfarsi del frutto del
concepimento non viene presa per ragioni puramente egoistiche e di comodo, ma
perché si vorrebbero salvaguardare alcuni importanti beni, quali la propria
salute o un livello dignitoso di vita per gli altri membri della famiglia.
Talvolta si temono per il nascituro condizioni di esistenza tali da far
pensare che per lui sarebbe meglio non nascere. Tuttavia, queste e altre
simili ragioni, per quanto gravi e drammatiche, non possono mai
giustificare la soppressione deliberata di un essere umano innocente. 59.
A decidere della morte del bambino non ancora nato, accanto alla madre, ci
sono spesso altre persone. Anzitutto, può essere colpevole il padre del
bambino, non solo quando espressamente spinge la donna all'aborto, ma anche
quando indirettamente favorisce tale sua decisione perché la lascia sola di
fronte ai problemi della gravidanza: (55) in tal modo la famiglia viene
mortalmente ferita e profanata nella sua natura di comunità di amore e nella
sua vocazione ad essere « santuario della vita ». Né vanno taciute le
sollecitazioni che a volte provengono dal più ampio contesto familiare e
dagli amici. Non di rado la donna è sottoposta a pressioni talmente forti da
sentirsi psicologicamente costretta a cedere all'aborto: non v'è dubbio che
in questo caso la responsabilità morale grava particolarmente su quelli che
direttamente o indirettamente l'hanno forzata ad abortire. Responsabili sono
pure i medici e il personale sanitario, quando mettono a servizio della morte
la competenza acquisita per promuovere la vita. Ma
la responsabilità coinvolge anche i legislatori, che hanno promosso e
approvato leggi abortive e, nella misura in cui la cosa dipende da loro, gli
amministratori delle strutture sanitarie utilizzate per praticare gli aborti.
Una responsabilità generale non meno grave riguarda sia quanti hanno favorito
il diffondersi di una mentalità di permissivismo sessuale e disistima della
maternità, sia coloro che avrebbero dovuto assicurare — e non l'hanno fatto —
valide politiche familiari e sociali a sostegno delle famiglie, specialmente
di quelle numerose o con particolari difficoltà economiche ed educative. Non
si può infine sottovalutare la rete di complicità che si allarga fino a
comprendere istituzioni internazionali, fondazioni e associazioni che si
battono sistematicamente per la legalizzazione e la diffusione dell'aborto
nel mondo. In tal senso l'aborto va oltre la responsabilità delle singole
persone e il danno loro arrecato, assumendo una dimensione fortemente
sociale: è una ferita gravissima inferta alla società e alla sua
cultura da quanti dovrebbero esserne i costruttori e i difensori. Come ho
scritto nella mia Lettera alle Famiglie, « ci troviamo di fronte ad
un'enorme minaccia contro la vita, non solo di singoli individui, ma anche
dell'intera civiltà ».(56) Ci troviamo di fronte a quella che può definirsi una
« struttura di peccato » contro la vita umana non ancora nata. 60.
Alcuni tentano di giustificare l'aborto sostenendo che il frutto del
concepimento, almeno fin a un certo numero di giorni, non può essere ancora
considerato una vita umana personale. In realtà, « dal momento in cui l'ovulo
è fecondato, si inaugura una vita che non è quella del padre o della madre,
ma di un nuovo essere umano che si sviluppa per proprio conto. Non sarà mai
reso umano se non lo è stato fin da allora. A questa evidenza di sempre... la
scienza genetica moderna fornisce preziose conferme. Essa ha mostrato come
dal primo istante si trovi fissato il programma di ciò che sarà questo
vivente: una persona, questa persona individua con le sue note
caratteristiche già ben determinate. Fin dalla fecondazione è iniziata
l'avventura di una vita umana, di cui ciascuna delle grandi capacità richiede
tempo, per impostarsi e per trovarsi pronta ad agire ».(57) Anche se la
presenza di un'anima spirituale non può essere rilevata dall'osservazione di
nessun dato sperimentale, sono le stesse conclusioni della scienza
sull'embrione umano a fornire « un'indicazione preziosa per discernere
razionalmente una presenza personale fin da questo primo comparire di una
vita umana: come un individuo umano non sarebbe una persona umana? ».(58) Del
resto, tale è la posta in gioco che, sotto il profilo dell'obbligo morale,
basterebbe la sola probabilità di trovarsi di fronte a una persona per
giustificare la più netta proibizione di ogni intervento volto a sopprimere
l'embrione umano. Proprio per questo, al di là dei dibattiti scientifici e
delle stesse affermazioni filosofiche nelle quali il Magistero non si è
espressamente impegnato, la Chiesa ha sempre insegnato, e tuttora insegna,
che al frutto della generazione umana, dal primo momento della sua esistenza,
va garantito il rispetto incondizionato che è moralmente dovuto all'essere
umano nella sua totalità e unità corporale e spirituale: « L'essere umano
va rispettato e trattato come una persona fin dal suo concepimento e,
pertanto, da quello stesso momento gli si devono riconoscere i diritti della
persona, tra i quali anzitutto il diritto inviolabile di ogni essere umano
innocente alla vita ».(59) 61.
I testi della Sacra Scrittura, che non parlano mai di aborto
volontario e quindi non presentano condanne dirette e specifiche in
proposito, mostrano una tale considerazione dell'essere umano nel grembo
materno, da esigere come logica conseguenza che anche ad esso si estenda il
comandamento di Dio: « non uccidere ». La
vita umana è sacra e inviolabile in ogni momento della sua esistenza, anche
in quello iniziale che precede la nascita. L'uomo, fin dal grembo materno,
appartiene a Dio che tutto scruta e conosce, che lo forma e lo plasma con le
sue mani, che lo vede mentre è ancora un piccolo embrione informe e che in
lui intravede l'adulto di domani i cui giorni sono contati e la cui vocazione
è già scritta nel « libro della vita » (cf. Sal 139/138, 1.13-16).
Anche lì, quando è ancora nel grembo materno, — come testimoniano numerosi
testi biblici (60) — l'uomo è il termine personalissimo dell'amorosa e
paterna provvidenza di Dio. La Tradizione
cristiana — come ben rileva la Dichiarazione emanata al riguardo
dalla Congregazione per la Dottrina della Fede (61) — è chiara e unanime,
dalle origini fino ai nostri giorni, nel qualificare l'aborto come disordine
morale particolarmente grave. Fin dal suo primo confronto con il mondo
greco-romano, nel quale erano ampiamente praticati l'aborto e l'infanticidio,
la comunità cristiana si è radicalmente opposta, con la sua dottrina e con la
sua prassi, ai costumi diffusi in quella società, come dimostra la già citata
Didachè.(62) Tra gli scrittori ecclesiastici di area greca, Atenagora
ricorda che i cristiani considerano come omicide le donne che fanno ricorso a
medicine abortive, perché i bambini, anche se ancora nel seno della madre, «
sono già l'oggetto delle cure della Provvidenza divina ».(63) Tra i latini,
Tertulliano afferma: « È un omicidio anticipato impedire di nascere; poco
importa che si sopprima l'anima già nata o che la si faccia scomparire nel
nascere. È già un uomo colui che lo sarà ».(64) Lungo
la sua storia ormai bimillenaria, questa medesima dottrina è stata
costantemente insegnata dai Padri della Chiesa, dai suoi Pastori e Dottori.
Anche le discussioni di carattere scientifico e filosofico circa il momento
preciso dell'infusione dell'anima spirituale non hanno mai comportato alcuna esitazione
circa la condanna morale dell'aborto. 62.
Il più recente Magistero pontificio ha ribadito con grande vigore
questa dottrina comune. In particolare Pio XI nell'Enciclica Casti
connubii ha respinto le pretestuose giustificazioni dell'aborto; (65) Pio
XII ha escluso ogni aborto diretto, cioè ogni atto che tende direttamente a
distruggere la vita umana non ancora nata, « sia che tale distruzione venga
intesa come fine o soltanto come mezzo al fine »; (66) Giovanni XXIII ha
riaffermato che la vita umana è sacra, perché « fin dal suo affiorare impegna
direttamente l'azione creatrice di Dio ».(67) Il Concilio Vaticano II, come
già ricordato, ha condannato con grande severità l'aborto: « La vita, una
volta concepita, deve essere protetta con la massima cura; e l'aborto come
l'infanticidio sono abominevoli delitti ».(68) La disciplina
canonica della Chiesa, fin dai primi secoli, ha colpito con sanzioni
penali coloro che si macchiavano della colpa dell'aborto e tale prassi, con
pene più o meno gravi, è stata confermata nei vari periodi storici. Il Codice
di Diritto Canonico del 1917 comminava per l'aborto la pena della
scomunica.(69) Anche la rinnovata legislazione canonica si pone in questa
linea quando sancisce che « chi procura l'aborto ottenendo l'effetto incorre
nella scomunica latae sententiae »,(70) cioè automatica. La scomunica
colpisce tutti coloro che commettono questo delitto conoscendo la pena,
inclusi anche quei complici senza la cui opera esso non sarebbe stato
realizzato: (71) con tale reiterata sanzione, la Chiesa addita questo delitto
come uno dei più gravi e pericolosi, spingendo così chi lo commette a
ritrovare sollecitamente la strada della conversione. Nella Chiesa, infatti,
la pena della scomunica è finalizzata a rendere pienamente consapevoli della
gravità di un certo peccato e a favorire quindi un'adeguata conversione e
penitenza. Di
fronte a una simile unanimità nella tradizione dottrinale e disciplinare
della Chiesa, Paolo VI ha potuto dichiarare che tale insegnamento non è
mutato ed è immutabile.(72) Pertanto, con l'autorità che Cristo ha conferito
a Pietro e ai suoi Successori, in comunione con i Vescovi — che a varie
riprese hanno condannato l'aborto e che nella consultazione precedentemente
citata, pur dispersi per il mondo, hanno unanimemente consentito circa questa
dottrina — dichiaro che l'aborto diretto, cioè voluto come fine o come
mezzo, costituisce sempre un disordine morale grave, in quanto uccisione
deliberata di un essere umano innocente. Tale dottrina è fondata sulla legge naturale
e sulla Parola di Dio scritta, è trasmessa dalla Tradizione della Chiesa ed
insegnata dal Magistero ordinario e universale.(73) Nessuna
circostanza, nessuna finalità, nessuna legge al mondo potrà mai rendere
lecito un atto che è intrinsecamente illecito, perché contrario alla Legge di
Dio, scritta nel cuore di ogni uomo, riconoscibile dalla ragione stessa, e
proclamata dalla Chiesa. 63.
La valutazione morale dell'aborto è da applicare anche alle recenti forme di intervento
sugli embrioni umani che, pur mirando a scopi in sé legittimi, ne
comportano inevitabilmente l'uccisione. È il caso della sperimentazione
sugli embrioni, in crescente espansione nel campo della ricerca biomedica
e legalmente ammessa in alcuni Stati. Se « si devono ritenere leciti gli
interventi sull'embrione umano a patto che rispettino la vita e l'integrità
dell'embrione, non comportino per lui rischi sproporzionati, ma siano
finalizzati alla sua guarigione, al miglioramento delle sue condizioni di
salute o alla sua sopravvivenza individuale »,(74) si deve invece affermare
che l'uso degli embrioni o dei feti umani come oggetto di sperimentazione
costituisce un delitto nei riguardi della loro dignità di esseri umani, che
hanno diritto al medesimo rispetto dovuto al bambino già nato e ad ogni
persona.(75) La
stessa condanna morale riguarda anche il procedimento che sfrutta gli
embrioni e i feti umani ancora vivi — talvolta « prodotti » appositamente per
questo scopo mediante la fecondazione in vitro — sia come « materiale
biologico » da utilizzare sia come fornitori di organi o di tessuti da
trapiantare per la cura di alcune malattie. In realtà, l'uccisione di
creature umane innocenti, seppure a vantaggio di altre, costituisce un atto
assolutamente inaccettabile. Una
speciale attenzione deve essere riservata alla valutazione morale delle tecniche
diagnostiche prenatali, che permettono di individuare precocemente
eventuali anomalie del nascituro. Infatti, per la complessità di queste
tecniche, tale valutazione deve farsi più accurata e articolata. Quando sono
esenti da rischi sproporzionati per il bambino e per la madre e sono ordinate
a rendere possibile una terapia precoce o anche a favorire una serena e
consapevole accettazione del nascituro, queste tecniche sono moralmente
lecite. Dal momento però che le possibilità di cura prima della nascita sono
oggi ancora ridotte, accade non poche volte che queste tecniche siano messe
al servizio di una mentalità eugenetica, che accetta l'aborto selettivo, per
impedire la nascita di bambini affetti da vari tipi di anomalie. Una simile
mentalità è ignominiosa e quanto mai riprovevole, perché pretende di misurare
il valore di una vita umana soltanto secondo parametri di « normali- tà » e
di benessere fisico, aprendo così la strada alla legittimazione anche
dell'infanticidio e dell'eutanasia. In
realtà, però, proprio il coraggio e la serenità con cui tanti nostri
fratelli, affetti da gravi menomazioni, conducono la loro esistenza quando
sono da noi accettati ed amati, costituiscono una testimonianza particolarmente
efficace dei valori autentici che qualificano la vita e che la rendono, anche
in condizioni di difficoltà, preziosa per sé e per gli altri. La Chiesa è
vicina a quei coniugi che, con grande ansia e sofferenza, accettano di
accogliere i loro bambini gravemente colpiti da handicap, così come è grata a
tutte quelle famiglie che, con l'adozione, accolgono quanti sono stati
abbandonati dai loro genitori a motivo di menomazioni o malattie. «
Sono io che do la morte e faccio vivere » (Dt 32, 39): il dramma dell'eutanasia 64.
All'altro capo dell'esistenza, l'uomo si trova posto di fronte al mistero
della morte. Oggi, in seguito ai progressi della medicina e in un contesto
culturale spesso chiuso alla trascendenza, l'esperienza del morire si
presenta con alcune caratteristiche nuove. Infatti, quando prevale la
tendenza ad apprezzare la vita solo nella misura in cui porta piacere e
benessere, la sofferenza appare come uno scacco insopportabile, di cui
occorre liberarsi ad ogni costo. La morte, considerata « assurda » se
interrompe improvvisamente una vita ancora aperta a un futuro ricco di
possibili esperienze interessanti, diventa invece una « liberazione
rivendicata » quando l'esistenza è ritenuta ormai priva di senso perché
immersa nel dolore e inesorabilmente votata ad un'ulteriore più acuta
sofferenza. Inoltre,
rifiutando o dimenticando il suo fondamentale rapporto con Dio, l'uomo pensa
di essere criterio e norma a se stesso e ritiene di avere il diritto di
chiedere anche alla società di garantirgli possibilità e modi di decidere
della propria vita in piena e totale autonomia. È, in particolare, l'uomo che
vive nei Paesi sviluppati a comportarsi così: egli si sente spinto a ciò
anche dai continui progressi della medicina e dalle sue tecniche sempre più avanzate.
Mediante sistemi e apparecchiature estremamente sofisticati, la scienza e la
pratica medica sono oggi in grado non solo di risolvere casi precedentemente
insolubili e di lenire o eliminare il dolore, ma anche di sostenere e
protrarre la vita perfino in situazioni di debolezza estrema, di rianimare
artificialmente persone le cui funzioni biologiche elementari hanno subito
tracolli improvvisi, di intervenire per rendere disponibili organi da
trapiantare. In
un tale contesto si fa sempre più forte la tentazione dell'eutanasia, cioè
di impadronirsi della morte, procurandola in anticipo e ponendo così
fine « dolcemente » alla vita propria o altrui. In realtà, ciò che potrebbe
sembrare logico e umano, visto in profondità si presenta assurdo e
disumano. Siamo qui di fronte a uno dei sintomi più allarmanti della «
cultura di morte », che avanza soprattutto nelle società del benessere,
caratterizzate da una mentalità efficientistica che fa apparire troppo
oneroso e insopportabile il numero crescente delle persone anziane e
debilitate. Esse vengono molto spesso isolate dalla famiglia e dalla società,
organizzate quasi esclusivamente sulla base di criteri di efficienza
produttiva, secondo i quali una vita irrimediabilmente inabile non ha più
alcun valore. 65.
Per un corretto giudizio morale sull'eutanasia, occorre innanzitutto
chiaramente definirla. Per eutanasia in senso vero e proprio si deve
intendere un'azione o un'omissione che di natura sua e nelle intenzioni
procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. « L'eutanasia si
situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati ».(76) Da
essa va distinta la decisione di rinunciare al cosiddetto « accanimento
terapeutico », ossia a certi interventi medici non più adeguati alla
reale situazione del malato, perché ormai sproporzionati ai risultati che si
potrebbero sperare o anche perché troppo gravosi per lui e per la sua
famiglia. In queste situazioni, quando la morte si preannuncia imminente e
inevitabile, si può in coscienza « rinunciare a trattamenti che
procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza
tuttavia interrompere le cure normali dovute all'ammalato in simili casi
».(77) Si dà certamente l'obbligo morale di curarsi e di farsi curare, ma
tale obbligo deve misurarsi con le situazioni concrete; occorre cioè valutare
se i mezzi terapeutici a disposizione siano oggettivamente proporzionati
rispetto alle prospettive di miglioramento. La rinuncia a mezzi straordinari
o sproporzionati non equivale al suicidio o all'eutanasia; esprime piuttosto
l'accettazione della condizione umana di fronte alla morte.(78) Nella
medicina moderna vanno acquistando rilievo particolare le cosiddette « cure
palliative », destinate a rendere più sopportabile la sofferenza nella
fase finale della malattia e ad assicurare al tempo stesso al paziente un
adeguato accompagnamento umano. In questo contesto sorge, tra gli altri, il
problema della liceità del ricorso ai diversi tipi di analgesici e sedativi
per sollevare il malato dal dolore, quando ciò comporta il rischio di
abbreviargli la vita. Se, infatti, può essere considerato degno di lode chi
accetta volontariamente di soffrire rinunciando a interventi antidolorifici
per conservare la piena lucidità e partecipare, se credente, in maniera consapevole
alla passione del Signore, tale comportamento « eroico » non può essere
ritenuto doveroso per tutti. Già Pio XII aveva affermato che è lecito
sopprimere il dolore per mezzo di narcotici, pur con la conseguenza di
limitare la coscienza e di abbreviare la vita, « se non esistono altri mezzi
e se, nelle date circostanze, ciò non impedisce l'adempimento di altri doveri
religiosi e morali ».(79) In questo caso, infatti, la morte non è voluta o
ricercata, nonostante che per motivi ragionevoli se ne corra il rischio:
semplicemente si vuole lenire il dolore in maniera efficace, ricorrendo agli
analgesici messi a disposizione dalla medicina. Tuttavia, « non si deve
privare il moribondo della coscienza di sé senza grave motivo »: (80)
avvicinandosi alla morte, gli uomini devono essere in grado di poter
soddisfare ai loro obblighi morali e familiari e soprattutto devono potersi
preparare con piena coscienza all'incontro definitivo con Dio. Fatte
queste distinzioni, in conformità con il Magistero dei miei Predecessori (81)
e in comunione con i Vescovi della Chiesa cattolica, confermo che
l'eutanasia è una grave violazione della Legge di Dio, in quanto
uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona umana. Tale
dottrina è fondata sulla legge naturale e sulla Parola di Dio scritta, è
trasmessa dalla Tradizione della Chiesa ed insegnata dal Magistero ordinario
e universale.(82) Una
tale pratica comporta, a seconda delle circostanze, la malizia propria del
suicidio o dell'omicidio. 66.
Ora, il suicidio è sempre moralmente inaccettabile quanto l'omicidio. La
tradizione della Chiesa l'ha sempre respinto come scelta gravemente
cattiva.(83) Benché determinati condizionamenti psicologici, culturali e
sociali possano portare a compiere un gesto che contraddice così radicalmente
l'innata inclinazione di ognuno alla vita, attenuando o annullando la
responsabilità soggettiva, il suicidio, sotto il profilo oggettivo, è
un atto gravemente immorale, perché comporta il rifiuto dell'amore verso se
stessi e la rinuncia ai doveri di giustizia e di carità verso il prossimo,
verso le varie comunità di cui si fa parte e verso la società nel suo
insieme.(84) Nel suo nucleo più profondo, esso costituisce un rifiuto della
sovranità assoluta di Dio sulla vita e sulla morte, così proclamata nella
preghiera dell'antico saggio di Israele: « Tu hai potere sulla vita e sulla
morte; conduci giù alle porte degli inferi e fai risalire » (Sap 16,
13; cf. Tb 13, 2). Condividere
l'intenzione suicida di un altro e aiutarlo a realizzarla mediante il
cosiddetto « suicidio assistito » significa farsi collaboratori, e qualche
volta attori in prima persona, di un'ingiustizia, che non può mai essere
giustificata, neppure quando fosse richiesta. « Non è mai lecito — scrive con
sorprendente attualità sant'Agostino — uccidere un altro: anche se lui lo
volesse, anzi se lo chiedesse perché, sospeso tra la vita e la morte,
supplica di essere aiutato a liberare l'anima che lotta contro i legami del
corpo e desidera distaccarsene; non è lecito neppure quando il malato non
fosse più in grado di vivere ».(85) Anche se non motivata dal rifiuto
egoistico di farsi carico dell'esistenza di chi soffre, l'eutanasia deve
dirsi una falsa pietà, anzi una preoccupante « perversione » di essa:
la vera « compassione », infatti, rende solidale col dolore altrui, non
sopprime colui del quale non si può sopportare la sofferenza. E tanto più
perverso appare il gesto dell'eutanasia se viene compiuto da coloro che —
come i parenti — dovrebbero assistere con pazienza e con amore il loro
congiunto o da quanti — come i medici —, per la loro specifica professione,
dovrebbero curare il malato anche nelle condizioni terminali più penose. La
scelta dell'eutanasia diventa più grave quando si configura come un omicidio
che gli altri praticano su una persona che non l'ha richiesta in nessun
modo e che non ha mai dato ad essa alcun consenso. Si raggiunge poi il colmo
dell'arbitrio e dell'ingiustizia quando alcuni, medici o legislatori, si
arrogano il potere di decidere chi debba vivere e chi debba morire. Si
ripropone così la tentazione dell'Eden: diventare come Dio « conoscendo il
bene e il male » (cf. Gn 3, 5). Ma Dio solo ha il potere di far morire
e di far vivere: « Sono io che do la morte e faccio vivere » (Dt 32,
39; cf. 2 Re 5, 7; 1 Sam 2, 6). Egli attua il suo potere sempre
e solo secondo un disegno di sapienza e di amore. Quando l'uomo usurpa tale
potere, soggiogato da una logica di stoltezza e di egoismo, inevitabilmente
lo usa per l'ingiustizia e per la morte. Così
la vita del più debole è messa nelle mani del più forte; nella società si
perde il senso della giustizia ed è minata alla radice la fiducia reciproca,
fondamento di ogni autentico rapporto tra le persone. 67.
Ben diversa, invece, è la via dell'amore e della vera pietà, che la
nostra comune umanità impone e che la fede in Cristo Redentore, morto e
risorto, illumina con nuove ragioni. La domanda che sgorga dal cuore
dell'uomo nel confronto supremo con la sofferenza e la morte, specialmente
quando è tentato di ripiegarsi nella disperazione e quasi di annientarsi in
essa, è soprattutto domanda di compagnia, di solidarietà e di sostegno nella
prova. È richiesta di aiuto per continuare a sperare, quando tutte le speranze
umane vengono meno. Come ci ha ricordato il Concilio Vaticano II, « in faccia
alla morte l'enigma della condizione umana diventa sommo » per l'uomo; e
tuttavia « l'istinto del cuore lo fa giudicare rettamente, quando aborrisce e
respinge l'idea di una totale rovina e di un annientamento definitivo della
sua persona. Il germe dell'eternità che porta in sé, irriducibile com'è alla
sola materia, insorge contro la morte ».(86) Questa
naturale ripugnanza per la morte e questa germinale speranza di immortalità
sono illuminate e portate a compimento dalla fede cristiana, che promette e
offre la partecipazione alla vittoria del Cristo Risorto: è la vittoria di
Colui che, mediante la sua morte redentrice, ha liberato l'uomo dalla morte,
« salario del peccato » (Rm 6, 23), e gli ha donato lo Spirito, pegno
di risurrezione e di vita (cf. Rm 8, 11). La certezza dell'immortalità
futura e la speranza nella risurrezione promessa proiettano una luce
nuova sul mistero del soffrire e del morire e infondono nel credente una
forza straordinaria per affidarsi al disegno di Dio. L'apostolo
Paolo ha espresso questa novità nei termini di un'appartenenza totale al
Signore che abbraccia qualsiasi condizione umana: « Nessuno di noi vive per
se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per
il Signore; se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che
moriamo, siamo dunque del Signore » (Rm 14, 7-8). Morire per il
Signore significa vivere la propria morte come atto supremo di obbedienza
al Padre (cf. Fil 2, 8), accettando di incontrarla nell'« ora » voluta
e scelta da lui (cf. Gv 13, 1), che solo può dire quando il cammino
terreno è compiuto. Vivere per il Signore significa anche riconoscere
che la sofferenza, pur restando in se stessa un male e una prova, può sempre
diventare sorgente di bene. Lo diventa se viene vissuta per amore e con
amore, nella partecipazione, per dono gratuito di Dio e per libera scelta
personale, alla sofferenza stessa di Cristo crocifisso. In tal modo, chi vive
la sua sofferenza nel Signore viene più pienamente conformato a lui (cf. Fil
3, 10; 1 Pt 2, 21) e intimamente associato alla sua opera
redentrice a favore della Chiesa e dell'umanità.(87) È questa l'esperienza
dell'Apostolo, che anche ogni persona che soffre è chiamata a rivivere: «
Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne
quello che manca alle tribolazioni di Cristo nella mia carne, a favore del
suo corpo che è la Chiesa » (Col 1, 24). «
Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini » (At 5, 29): la legge civile e la legge
morale 68.
Una delle caratteristiche proprie degli attuali attentati alla vita umana —
come si è già detto più volte — consiste nella tendenza ad esigere una loro legittimazione
giuridica, quasi fossero diritti che lo Stato, almeno a certe condizioni,
deve riconoscere ai cittadini e, conseguentemente, nella tendenza a
pretendere la loro attuazione con l'assistenza sicura e gratuita dei medici e
degli operatori sanitari. Si
pensa non poche volte che la vita di chi non è ancora nato o è gravemente
debilitato sia un bene solo relativo: secondo una logica proporzionalista o
di puro calcolo, dovrebbe essere confrontata e soppesata con altri beni. E si
ritiene pure che solo chi si trova nella situazione concreta e vi è
personalmente coinvolto possa compiere una giusta ponderazione dei beni in
gioco: di conseguenza, solo lui potrebbe decidere della moralità della sua
scelta. Lo Stato, perciò, nell'interesse della convivenza civile e
dell'armonia sociale, dovrebbe rispettare questa scelta, giungendo anche ad
ammettere l'aborto e l'eutanasia. Si
pensa, altre volte, che la legge civile non possa esigere che tutti i
cittadini vivano secondo un grado di moralità più elevato di quello che essi
stessi riconoscono e condividono. Per questo la legge dovrebbe sempre
esprimere l'opinione e la volontà della maggioranza dei cittadini e
riconoscere loro, almeno in certi casi estremi, anche il diritto all'aborto e
all'eutanasia. Del resto, la proibizione e la punizione dell'aborto e dell'eutanasia
in questi casi condurrebbero inevitabilmente — così si dice — ad un aumento
di pratiche illegali: esse, peraltro, non sarebbero soggette al necessario
controllo sociale e verrebbero attuate senza la dovuta sicurezza medica. Ci
si chiede, inoltre, se sostenere una legge concretamente non applicabile non
significhi, alla fine, minare anche l'autorità di ogni altra legge. Nelle
opinioni più radicali, infine, si giunge a sostenere che, in una società
moderna e pluralistica, dovrebbe essere riconosciuta a ogni persona piena
autonomia di disporre della propria vita e della vita di chi non è ancora
nato: non spetterebbe, infatti, alla legge la scelta tra le diverse opinioni
morali e, tanto meno, essa potrebbe pretendere di imporne una particolare a
svantaggio delle altre. 69.
In ogni caso, nella cultura democratica del nostro tempo si è largamente
diffusa l'opinione secondo la quale l'ordinamento giuridico di una società
dovrebbe limitarsi a registrare e recepire le convinzioni della maggioranza
e, pertanto, dovrebbe costruirsi solo su quanto la maggioranza stessa
riconosce e vive come morale. Se poi si ritiene addirittura che una verità
comune e oggettiva sia di fatto inaccessibile, il rispetto della libertà dei
cittadini — che in un regime democratico sono ritenuti i veri sovrani —
esigerebbe che, a livello legislativo, si riconosca l'autonomia delle singole
coscienze e quindi, nello stabilire quelle norme che in ogni caso sono
necessarie alla convivenza sociale, ci si adegui esclusivamente alla volontà della
maggioranza, qualunque essa sia. In tal modo, ogni politico, nella sua
azione, dovrebbe separare nettamente l'ambito della coscienza privata da
quello del comportamento pubblico. Si
registrano, di conseguenza, due tendenze, in apparenza diametralmente
opposte. Da un lato, i singoli individui rivendicano per sé la più completa
autonomia morale di scelta e chiedono che lo Stato non faccia propria e non
imponga nessuna concezione etica, ma si limiti a garantire lo spazio più
ampio possibile alla libertà di ciascuno, con l'unico limite esterno di non
ledere lo spazio di autonomia al quale anche ogni altro cittadino ha diritto.
Dall'altro lato, si pensa che, nell'esercizio delle funzioni pubbliche e
professionali, il rispetto dell'altrui libertà di scelta imponga a ciascuno
di prescindere dalle proprie convinzioni per mettersi a servizio di ogni
richiesta dei cittadini, che le leggi riconoscono e tutelano, accettando come
unico criterio morale per l'esercizio delle proprie funzioni quanto è
stabilito da quelle medesime leggi. In questo modo la responsabilità della
persona viene delegata alla legge civile, con un'abdicazione alla propria
coscienza morale almeno nell'ambito dell'azione pubblica. 70.
Comune radice di tutte queste tendenze è il relativismo etico che
contraddistingue tanta parte della cultura contemporanea. Non manca chi
ritiene che tale relativismo sia una condizione della democrazia, in quanto
solo esso garantirebbe tolleranza, rispetto reciproco tra le persone, e
adesione alle decisioni della maggioranza, mentre le norme morali,
considerate oggettive e vincolanti, porterebbero all'autoritarismo e
all'intolleranza. Ma
è proprio la problematica del rispetto della vita a mostrare quali equivoci e
contraddizioni, accompagnati da terribili esiti pratici, si celino in questa
posizione. È
vero che la storia registra casi in cui si sono commessi dei crimini in nome
della « verità ». Ma crimini non meno gravi e radicali negazioni della
libertà si sono commessi e si commettono anche in nome del « relativismo
etico ». Quando una maggioranza parlamentare o sociale decreta la legittimità
della soppressione, pur a certe condizioni, della vita umana non ancora nata,
non assume forse una decisione « tirannica » nei confronti dell'essere umano
più debole e indifeso? La coscienza universale giustamente reagisce nei
confronti dei crimini contro l'umanità di cui il nostro secolo ha fatto così
tristi esperienze. Forse che questi crimini cesserebbero di essere tali se,
invece di essere commessi da tiranni senza scrupoli, fossero legittimati dal
consenso popolare? In
realtà, la democrazia non può essere mitizzata fino a farne un surrogato
della moralità o un toccasana dell'immoralità. Fondamentalmente, essa è un «
ordinamento » e, come tale, uno strumento e non un fine. Il suo carattere «
morale » non è automatico, ma dipende dalla conformità alla legge morale a
cui, come ogni altro comportamento umano, deve sottostare: dipende cioè dalla
moralità dei fini che persegue e dei mezzi di cui si serve. Se oggi si
registra un consenso pressoché universale sul valore della democrazia, ciò va
considerato un positivo « segno dei tempi », come anche il Magistero della
Chiesa ha più volte rilevato.(88) Ma il valore della democrazia sta o cade
con i valori che essa incarna e promuove: fondamentali e imprescindibili sono
certamente la dignità di ogni persona umana, il rispetto dei suoi diritti
intangibili e inalienabili, nonché l'assunzione del « bene comune » come fine
e criterio regolativo della vita politica. Alla
base di questi valori non possono esservi provvisorie e mutevoli «
maggioranze » di opinione, ma solo il riconoscimento di una legge morale
obiettiva che, in quanto « legge naturale » iscritta nel cuore dell'uomo, è
punto di riferimento normativo della stessa legge civile. Quando, per un
tragico oscuramento della coscienza collettiva, lo scetticismo giungesse a
porre in dubbio persino i principi fondamentali della legge morale, lo stesso
ordinamento democratico sarebbe scosso nelle sue fondamenta, riducendosi a un
puro meccanismo di regolazione empirica dei diversi e contrapposti
interessi.(89) Qualcuno
potrebbe pensare che anche una tale funzione, in mancanza di meglio, sia da
apprezzare ai fini della pace sociale. Pur riconoscendo un qualche aspetto di
verità in una tale valutazione, è difficile non vedere che, senza un
ancoraggio morale obiettivo, neppure la democrazia può assicurare una pace
stabile, tanto più che la pace non misurata sui valori della dignità di ogni
uomo e della solidarietà tra tutti gli uomini è non di rado illusoria. Negli
stessi regimi partecipativi, infatti, la regolazione degli interessi avviene
spesso a vantaggio dei più forti, essendo essi i più capaci di manovrare non
soltanto le leve del potere, ma anche la formazione del consenso. In una tale
situazione, la democrazia diventa facilmente una parola vuota. 71.
Urge dunque, per l'avvenire della società e lo sviluppo di una sana
democrazia, riscoprire l'esistenza di valori umani e morali essenziali e
nativi, che scaturiscono dalla verità stessa dell'essere umano ed esprimono e
tutelano la dignità della persona: valori, pertanto, che nessun individuo,
nessuna maggioranza e nessuno Stato potranno mai creare, modificare o
distruggere, ma dovranno solo riconoscere, rispettare e promuovere. Occorre
riprendere, in tal senso, gli elementi fondamentali della visione dei
rapporti tra legge civile e legge morale, quali sono proposti dalla
Chiesa, ma che pure fanno parte del patrimonio delle grandi tradizioni
giuridiche dell'umanità. Certamente,
il compito della legge civile è diverso e di ambito più limitato
rispetto a quello della legge morale. Però « in nessun ambito di vita la
legge civile può sostituirsi alla coscienza né può dettare norme su ciò che
esula dalla sua competenza »,(90) che è quella di assicurare il bene comune
delle persone, attraverso il riconoscimento e la difesa dei loro fondamentali
diritti, la promozione della pace e della pubblica moralità.(91) Il compito
della legge civile consiste, infatti, nel garantire un'ordinata convivenza
sociale nella vera giustizia, perché tutti « possiamo trascorrere una vita
calma e tranquilla con tutta pietà e dignità » (1 Tm 2, 2). Proprio
per questo, la legge civile deve assicurare per tutti i membri della società
il rispetto di alcuni diritti fondamentali, che appartengono nativamente alla
persona e che qualsiasi legge positiva deve riconoscere e garantire. Primo e
fondamentale tra tutti è l'inviolabile diritto alla vita di ogni essere umano
innocente. Se la pubblica autorità può talvolta rinunciare a reprimere quanto
provocherebbe, se proibito, un danno più grave,(92) essa non può mai
accettare però di legittimare, come diritto dei singoli — anche se questi
fossero la maggioranza dei componenti la società —, l'offesa inferta ad altre
persone attraverso il misconoscimento di un loro diritto così fondamentale
come quello alla vita. La tolleranza legale dell'aborto o dell'eutanasia non
può in alcun modo richiamarsi al rispetto della coscienza degli altri,
proprio perché la società ha il diritto e il dovere di tutelarsi contro gli
abusi che si possono verificare in nome della coscienza e sotto il pretesto
della libertà.(93) Nell'Enciclica
Pacem in terris, Giovanni XXIII aveva ricordato in proposito: «
Nell'epoca moderna l'attuazione del bene comune trova la sua indicazione di
fondo nei diritti e nei doveri della persona. Per cui i compiti precipui dei
poteri pubblici consistono, soprattutto, nel riconoscere, rispettare,
comporre, tutelare e promuovere quei diritti; e nel contribuire, di
conseguenza, a rendere più facile l'adempimento dei rispettivi doveri.
"Tutelare l'intangibile campo dei diritti della persona umana e renderle
agevole il compimento dei suoi doveri vuol essere ufficio essenziale di ogni
pubblico potere". Per cui ogni atto dei poteri pubblici, che sia o implichi
un misconoscimento o una violazione di quei diritti, è un atto contrastante
con la loro stessa ragion d'essere e rimane per ciò stesso destituito d'ogni
valore giuridico ».(94) 72.
In continuità con tutta la tradizione della Chiesa è anche la dottrina sulla
necessaria conformità della legge civile con la legge morale, come
appare, ancora una volta, dall'enciclica citata di Giovanni XXIII: «
L'autorità è postulata dall'ordine morale e deriva da Dio. Qualora pertanto
le sue leggi o autorizzazioni siano in contrasto con quell'ordine, e quindi
in contrasto con la volontà di Dio, esse non hanno forza di obbligare la
coscienza...; in tal caso, anzi, chiaramente l'autorità cessa di essere tale
e degenera in sopruso ».(95) È questo il limpido insegnamento di san Tommaso
d'Aquino, che tra l'altro scrive: « La legge umana in tanto è tale in quanto
è conforme alla retta ragione e quindi deriva dalla legge eterna. Quando
invece una legge è in contrasto con la ragione, la si denomina legge iniqua;
in tal caso però cessa di essere legge e diviene piuttosto un atto di
violenza ».(96) E ancora: « Ogni legge posta dagli uomini in tanto ha ragione
di legge in quanto deriva dalla legge naturale. Se invece in qualche cosa è
in contrasto con la legge naturale, allora non sarà legge bensì corruzione
della legge ».(97) Ora
la prima e più immediata applicazione di questa dottrina riguarda la legge
umana che misconosce il diritto fondamentale e fontale alla vita, diritto
proprio di ogni uomo. Così le leggi che, con l'aborto e l'eutanasia,
legittimano la soppressione diretta di esseri umani innocenti sono in totale
e insanabile contraddizione con il diritto inviolabile alla vita proprio di
tutti gli uomini e negano, pertanto, l'uguaglianza di tutti di fronte alla
legge. Si potrebbe obiettare che tale non è il caso dell'eutanasia, quando
essa è richiesta in piena coscienza dal soggetto interessato. Ma uno Stato
che legittimasse tale richiesta e ne autorizzasse la realizzazione, si
troverebbe a legalizzare un caso di suicidio-omicidio, contro i principi
fondamentali dell'indisponibilità della vita e della tutela di ogni vita
innocente. In questo modo si favorisce una diminuzione del rispetto della
vita e si apre la strada a comportamenti distruttivi della fiducia nei
rapporti sociali. Le
leggi che autorizzano e favoriscono l'aborto e l'eutanasia si pongono dunque
radicalmente non solo contro il bene del singolo, ma anche contro il bene
comune e, pertanto, sono del tutto prive di autentica validità giuridica. Il misconoscimento
del diritto alla vita, infatti, proprio perché porta a sopprimere la persona
per il cui servizio la società ha motivo di esistere, è ciò che si
contrappone più frontalmente e irreparabilmente alla possibilità di
realizzare il bene comune. Ne segue che, quando una legge civile legittima
l'aborto o l'eutanasia cessa, per ciò stesso, di essere una vera legge
civile, moralmente obbligante. 73.
L'aborto e l'eutanasia sono dunque crimini che nessuna legge umana può
pretendere di legittimare. Leggi di questo tipo non solo non creano nessun
obbligo per la coscienza, ma sollevano piuttosto un grave e preciso
obbligo di opporsi ad esse mediante obiezione di coscienza. Fin dalle
origini della Chiesa, la predicazione apostolica ha inculcato ai cristiani il
dovere di obbedire alle autorità pubbliche legittimamente costituite (cf.
Rm 13, 1-7; 1 Pt 2, 13-14), ma nello stesso tempo ha ammonito
fermamente che « bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini » (At 5,
29). Già nell'Antico Testamento, proprio in riferimento alle minacce contro
la vita, troviamo un esempio significativo di resistenza al comando ingiusto
dell'autorità. Al faraone, che aveva ordinato di far morire ogni neonato
maschio, le levatrici degli Ebrei si opposero. Esse « non fecero come aveva
loro ordinato il re di Egitto e lasciarono vivere i bambini » (Es 1,
17). Ma occorre notare il motivo profondo di questo loro comportamento: « Le
levatrici temettero Dio » (ivi). È proprio dall'obbedienza a Dio —
al quale solo si deve quel timore che è riconoscimento della sua assoluta
sovranità — che nascono la forza e il coraggio di resistere alle leggi
ingiuste degli uomini. È la forza e il coraggio di chi è disposto anche ad
andare in prigione o ad essere ucciso di spada, nella certezza che « in questo
sta la costanza e la fede dei santi » (Ap 13, 10). Nel
caso quindi di una legge intrinsecamente ingiusta, come è quella che ammette
l'aborto o l'eutanasia, non è mai lecito conformarsi ad essa, « né
partecipare ad una campagna di opinione in favore di una legge siffatta, né
dare ad essa il suffragio del proprio voto ».(98) Un
particolare problema di coscienza potrebbe porsi in quei casi in cui un voto
parlamentare risultasse determinante per favorire una legge più restrittiva,
volta cioè a restringere il numero degli aborti autorizzati, in alternativa
ad una legge più permissiva già in vigore o messa al voto. Simili casi non
sono rari. Si registra infatti il dato che mentre in alcune parti del mondo
continuano le campagne per l'introduzione di leggi a favore dell'aborto,
sostenute non poche volte da potenti organismi internazionali, in altre
Nazioni invece — in particolare in quelle che hanno già fatto l'amara
esperienza di simili legislazioni permissive — si vanno manifestando segni di
ripensamento. Nel caso ipotizzato, quando non fosse possibile scongiurare o
abrogare completamente una legge abortista, un parlamentare, la cui personale
assoluta opposizione all'aborto fosse chiara e a tutti nota, potrebbe
lecitamente offrire il proprio sostegno a proposte mirate a limitare i
danni di una tale legge e a diminuirne gli effetti negativi sul piano
della cultura e della moralità pubblica. Così facendo, infatti, non si attua
una collaborazione illecita a una legge ingiusta; piuttosto si compie un
legittimo e doveroso tentativo di limitarne gli aspetti iniqui. 74.
L'introduzione di legislazioni ingiuste pone spesso gli uomini moralmente
retti di fronte a difficili problemi di coscienza in materia di
collaborazione in ragione della doverosa affermazione del proprio diritto a
non essere costretti a partecipare ad azioni moralmente cattive. Talvolta le
scelte che si impongono sono dolorose e possono richiedere il sacrificio di
affermate posizioni professionali o la rinuncia a legittime prospettive di
avanzamento nella carriera. In altri casi, può risultare che il compiere
alcune azioni in se stesse indifferenti, o addirittura positive, previste
nell'articolato di legislazioni globalmente ingiuste, consenta la
salvaguardia di vite umane minacciate. D'altro canto, però, si può
giustamente temere che la disponibilità a compiere tali azioni non solo
comporti uno scandalo e favorisca l'indebolirsi della necessaria opposizione
agli attentati contro la vita, ma induca insensibilmente ad arrendersi sempre
più ad una logica permissiva. Per
illuminare questa difficile questione morale occorre richiamare i principi
generali sulla cooperazione ad azioni cattive. I cristiani, come tutti
gli uomini di buona volontà, sono chiamati, per un grave dovere di coscienza,
a non prestare la loro collaborazione formale a quelle pratiche che, pur
ammesse dalla legislazione civile, sono in contrasto con la Legge di Dio.
Infatti, dal punto di vista morale, non è mai lecito cooperare formalmente al
male. Tale cooperazione si verifica quando l'azione compiuta, o per la sua
stessa natura o per la configurazione che essa viene assumendo in un concreto
contesto, si qualifica come partecipazione diretta ad un atto contro la vita
umana innocente o come condivisione dell'intenzione immorale dell'agente principale.
Questa cooperazione non può mai essere giustificata né invocando il rispetto
della libertà altrui, né facendo leva sul fatto che la legge civile la
prevede e la richiede: per gli atti che ciascuno personalmente compie esiste,
infatti, una responsabilità morale a cui nessuno può mai sottrarsi e sulla
quale ciascuno sarà giudicato da Dio stesso (cf. Rm 2, 6; 14, 12). Rifiutarsi
di partecipare a commettere un'ingiustizia è non solo un dovere morale, ma è anche
un diritto umano basilare. Se così non fosse, la persona umana sarebbe
costretta a compiere un'azione intrinsecamente incompatibile con la sua
dignità e in tal modo la sua stessa libertà, il cui senso e fine autentici
risiedono nell'orientamento al vero e al bene, ne sarebbe radicalmente
compromessa. Si tratta, dunque, di un diritto essenziale che, proprio perché
tale, dovrebbe essere previsto e protetto dalla stessa legge civile. In tal
senso, la possibilità di rifiutarsi di partecipare alla fase consultiva,
preparatoria ed esecutiva di simili atti contro la vita dovrebbe essere
assicurata ai medici, agli operatori sanitari e ai responsabili delle
istituzioni ospedaliere, delle cliniche e delle case di cura. Chi ricorre
all'obiezione di coscienza deve essere salvaguardato non solo da sanzioni
penali, ma anche da qualsiasi danno sul piano legale, disciplinare, economico
e professionale. «
Amerai il prossimo tuo come te stesso » (Lc 10, 27): « promuovi » la vita. 75.
I comandamenti di Dio ci insegnano la via della vita. Iprecetti morali
negativi, cioè quelli che dichiarano moralmente inaccettabile la scelta
di una determinata azione, hanno un valore assoluto per la libertà umana:
essi valgono sempre e comunque, senza eccezioni. Indicano che la scelta di determinati
comportamenti è radicalmente incompatibile con l'amore verso Dio e con la
dignità della persona, creata a sua immagine: tale scelta, perciò, non può
essere riscattata dalla bontà di nessuna intenzione e di nessuna conseguenza,
è in contrasto insanabile con la comunione tra le persone, contraddice la
decisione fondamentale di orientare la propria vita a Dio.(99) Già
in questo senso i precetti morali negativi hanno un'importantissima funzione
positiva: il « no » che esigono incondizionatamente dice il limite
invalicabile al di sotto del quale l'uomo libero non può scendere e, insieme,
indica il minimo che egli deve rispettare e dal quale deve partire per
pronunciare innumerevoli « sì », capaci di occupare progressivamente l'intero
orizzonte del bene (cf. Mt 5, 48). I comandamenti, in particolare
i precetti morali negativi, sono l'inizio e la prima tappa necessaria del
cammino verso la libertà: « La prima libertà — scrive sant'Agostino —
consiste nell'essere esenti da crimini... come sarebbero l'omicidio,
l'adulterio, la fornicazione, il furto, la frode, il sacrilegio e così via.
Quando uno comincia a non avere questi crimini (e nessun cristiano deve
averli), comincia a levare il capo verso la libertà, ma questo non è che
l'inizio della libertà, non la libertà perfetta ».(100) 76.
Il comandamento « non uccidere » stabilisce quindi il punto di partenza di un
cammino di vera libertà, che ci porta a promuovere attivamente la vita e
sviluppare determinati atteggiamenti e comportamenti al suo servizio: così facendo
esercitiamo la nostra responsabilità verso le persone che ci sono affidate e
manifestiamo, nei fatti e nella verità, la nostra riconoscenza a Dio per il
grande dono della vita (cf. Sal 139/138, 13-14). Il
Creatore ha affidato la vita dell'uomo alla sua responsabile sollecitudine,
non perché ne disponga in modo arbitrario, ma perché la custodisca con
saggezza e la amministri con amorevole fedeltà. Il Dio dell'Alleanza ha
affidato la vita di ciascun uomo all'altro uomo suo fratello, secondo la
legge della reciprocità del dare e del ricevere, del dono di sé e
dell'accoglienza dell'altro. Nella pienezza dei tempi, incarnandosi e donando
la sua vita per l'uomo, il Figlio di Dio ha mostrato a quale altezza e
profondità possa giungere questa legge della reciprocità. Con il dono del suo
Spirito, Cristo dà contenuti e significati nuovi alla legge della
reciprocità, all'affidamento dell'uomo all'uomo. Lo Spirito, che è artefice
di comunione nell'amore, crea tra gli uomini una nuova fraternità e
solidarietà, vero riflesso del mistero di reciproca donazione e accoglienza
proprio della Trinità santissima. Lo stesso Spirito diventa la legge nuova,
che dona ai credenti la forza e sollecita la loro responsabilità per vivere
reciprocamente il dono di sé e l'accoglienza dell'altro, partecipando
all'amore stesso di Gesù Cristo e secondo la sua misura. 77.
Da questa legge nuova viene animato e plasmato anche il comandamento del «
non uccidere ». Per il cristiano, quindi, esso implica in definitiva
l'imperativo di rispettare, amare e promuovere la vita di ogni fratello,
secondo le esigenze e le dimensioni dell'amore di Dio in Gesù Cristo. « Egli
ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i
fratelli » (1 Gv 3, 16). Il
comandamento del « non uccidere », anche nei suoi contenuti più positivi di
rispetto, amore e promozione della vita umana, vincola ogni uomo. Esso,
infatti, risuona nella coscienza morale di ciascuno come un'eco
insopprimibile dell'alleanza originaria di Dio creatore con l'uomo; da tutti
può essere conosciuto alla luce della ragione e può essere osservato grazie
all'opera misteriosa dello Spirito che, soffiando dove vuole (cf. Gv 3,
8), raggiunge e coinvolge ogni uomo che vive in questo mondo. È
dunque un servizio d'amore quello che tutti siamo impegnati ad assicurare al
nostro prossimo, perché la sua vita sia difesa e promossa sempre, ma
soprattutto quando è più debole o minacciata. È una sollecitudine non solo
personale ma sociale, che tutti dobbiamo coltivare, ponendo l'incondizionato
rispetto della vita umana a fondamento di una rinnovata società. Ci
è chiesto di amare e onorare la vita di ogni uomo e di ogni donna e di
lavorare con costanza e con coraggio, perché nel nostro tempo, attraversato
da troppi segni di morte, si instauri finalmente una nuova cultura della
vita, frutto della cultura della verità e dell'amore.
L'AVETE
FATTO A ME «
Voi siete il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le sue opere
meravigliose » (1 Pt 2, 9):
il popolo della vita e per la vita 78.
La Chiesa ha ricevuto il Vangelo come annuncio e fonte di gioia e di
salvezza. L'ha ricevuto in dono da Gesù, inviato dal Padre « per annunziare
ai poveri un lieto messaggio » (Lc 4, 18). L'ha ricevuto mediante gli
Apostoli, da Lui mandati in tutto il mondo (cf. Mc 16, 15; Mt 28,
19-20). Nata da questa azione evangelizzatrice, la Chiesa sente risuonare in
se stessa ogni giorno la parola ammonitrice dell'Apostolo: « Guai a me se non
predicassi il Vangelo » (1 Cor 9, 16). « Evangelizzare,
infatti, — come scriveva Paolo VI — è la grazia e la vocazione propria
della Chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per evangelizzare
».(101) L'evangelizzazione
è un'azione globale e dinamica, che coinvolge la Chiesa nella sua
partecipazione alla missione profetica, sacerdotale e regale del Signore
Gesù. Essa, pertanto, comporta inscindibilmente le dimensioni
dell'annuncio, della celebrazione e del servizio della carità. È un atto
profondamente ecclesiale, che chiama in causa tutti i diversi operai del
Vangelo, ciascuno secondo i propri carismi e il proprio ministero. Così
è anche quando si tratta di annunciare il Vangelo della vita, parte
integrante del Vangelo che è Gesù Cristo. Di questo Vangelo noi siamo al
servizio, sostenuti dalla consapevolezza di averlo ricevuto in dono e di
essere inviati a proclamarlo a tutta l'umanità « fino agli estremi confini
della terra » (At 1, 8). Nutriamo perciò umile e grata coscienza di
essere il popolo della vita e per la vita e in tal modo ci presentiamo
davanti a tutti. 79.
Siamo il popolo della vita perché Dio, nel suo amore gratuito, ci ha
donato il Vangelo della vita e da questo stesso Vangelo noi siamo
stati trasformati e salvati. Siamo stati riconquistati dall' « autore della
vita » (At 3, 15) a prezzo del suo sangue prezioso (cf. 1 Cor 6,
20; 7, 23; 1 Pt 1, 19) e mediante il lavacro battesimale siamo stati
inseriti in lui (cf. Rm 6, 4-5; Col 2, 12), come rami che
dall'unico albero traggono linfa e fecondità (cf. Gv 15, 5). Rinnovati
interiormente dalla grazia dello Spirito, « che è Signore e dà la vita »,
siamo diventati un popolo per la vita e come tali siamo chiamati a
comportarci. Siamo
mandati: essere al servizio della
vita non è per noi un vanto, ma un dovere, che nasce dalla coscienza di
essere « il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le sue opere
meravigliose » (1 Pt 2, 9). Nel nostro cammino ci guida e ci
sostiene la legge dell'amore: è l'amore di cui è sorgente e modello il
Figlio di Dio fatto uomo, che « morendo ha dato la vita al mondo ».(102) Siamo
mandati come popolo. L'impegno a
servizio della vita grava su tutti e su ciascuno. È una responsabilità
propriamente « ecclesiale », che esige l'azione concertata e generosa di
tutti i membri e di tutte le articolazioni della comunità cristiana. Il
compito comunitario però non elimina né diminuisce la responsabilità della singola
persona, alla quale è rivolto il comando del Signore a « farsi prossimo »
di ogni uomo: « Và e anche tu fà lo stesso » (Lc 10, 37). Tutti
insieme sentiamo il dovere di annunciare il Vangelo della vita, di celebrarlo
nella liturgia e nell'intera esistenza, diservirlo con le diverse
iniziative e strutture di sostegno e di promozione. «
Quello che abbiamo veduto e udito noi lo annunziamo anche a voi » (1 Gv 1, 3): annunciare il Vangelo della
vita 80.
« Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi
abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le
nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita... noi lo annunziamo
anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi » (1 Gv 1,
1.3). Gesù è l'unico Vangelo: noi non abbiamo altro da dire e da
testimoniare. È
proprio l'annuncio di Gesù ad essere annuncio della vita. Egli, infatti, è « il Verbo della vita » (1 Gv 1,
1). In lui « la vita si è fatta visibile » (1 Gv 1, 2); anzi lui
stesso è « la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi
» (ivi). Questa stessa vita, grazie al dono dello Spirito, è stata
comunicata all'uomo. Ordinata alla vita in pienezza, la « vita eterna »,
anche la vita terrena di ciascuno acquista il suo senso pieno. Illuminati
da questo Vangelo della vita, sentiamo il bisogno di proclamarlo e di
testimoniarlo nella novità sorprendente che lo contraddistingue:
poiché si identifica con Gesù stesso, apportatore di ogni novità (103) e
vincitore della « vecchiezza » che deriva dal peccato e porta alla
morte,(104) tale Vangelo supera ogni aspettativa dell'uomo e svela a quali
sublimi altezze viene elevata, per grazia, la dignità della persona. Così la
contempla san Gregorio di Nissa: « L'uomo che, tra gli esseri, non conta
nulla, che è polvere, erba, vanità, una volta che è adottato dal Dio
dell'universo come figlio, diventa familiare di questo Essere, la cui
eccellenza e grandezza nessuno può vedere, ascoltare e comprendere. Con quale
parola, pensiero o slancio dello spirito si potrà esaltare la sovrabbondanza
di questa grazia? L'uomo sorpassa la sua natura: da mortale diventa
immortale, da perituro imperituro, da effimero eterno, da uomo diventa dio
».(105) La
gratitudine e la gioia per l'incommensurabile dignità dell'uomo ci spinge a
rendere tutti partecipi di questo messaggio: « Quello che abbiamo veduto e
udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con
noi » (1 Gv 1, 3). È necessario far giungere il Vangelo della vita al
cuore di ogni uomo e donna e immetterlo nelle pieghe più recondite
dell'intera società. 81.
Si tratta di annunciare anzitutto il centro di questo Vangelo. Esso è
annuncio di un Dio vivo e vicino, che ci chiama a una profonda comunione con
sé e ci apre alla speranza certa della vita eterna; è affermazione
dell'inscindibile legame che intercorre tra la persona, la sua vita e la sua
corporeità; è presentazione della vita umana come vita di relazione, dono di
Dio, frutto e segno del suo amore; è proclamazione dello straordinario
rapporto di Gesù con ciascun uomo, che consente di riconoscere in ogni volto
umano il volto di Cristo; è indicazione del « dono sincero di sé » quale
compito e luogo di realizzazione piena della propria libertà. Nello
stesso tempo, si tratta di additare tutte le conseguenze di questo
stesso Vangelo, che così si possono riassumere: la vita umana, dono prezioso
di Dio, è sacra e inviolabile e per questo, in particolare, sono
assolutamente inaccettabili l'aborto procurato e l'eutanasia; la vita
dell'uomo non solo non deve essere soppressa, ma va protetta con ogni amorosa
attenzione; la vita trova il suo senso nell'amore ricevuto e donato, nel cui
orizzonte attingono piena verità la sessualità e la procreazione umana; in
questo amore anche la sofferenza e la morte hanno un senso e, pur permanendo
il mistero che le avvolge, possono diventare eventi di salvezza; il rispetto
per la vita esige che la scienza e la tecnica siano sempre ordinate all'uomo
e al suo sviluppo integrale; l'intera società deve rispettare, difendere e
promuovere la dignità di ogni persona umana, in ogni momento e condizione
della sua vita. 82.
Per essere veramente un popolo al servizio della vita dobbiamo, con costanza
e coraggio, proporre questi contenuti fin dal primo annuncio del Vangelo e,
in seguito, nella catechesi e nelle diverse forme di predicazione, nel
dialogo personale e in ogni azione educativa. Agli educatori, insegnanti,
catechisti e teologi, spetta il compito di mettere in risalto le ragioni
antropologiche che fondano e sostengono il rispetto di ogni vita umana.
In tal modo, mentre faremo risplendere l'originale novità del Vangelo
della vita, potremo aiutare tutti a scoprire anche alla luce della
ragione e dell'esperienza, come il messaggio cristiano illumini pienamente
l'uomo e il significato del suo essere ed esistere; troveremo preziosi punti
di incontro e di dialogo anche con i non credenti, tutti insieme impegnati a
far sorgere una nuova cultura della vita. Circondati
dalle voci più contrastanti, mentre molti rigettano la sana dottrina intorno
alla vita dell'uomo, sentiamo rivolta anche a noi la supplica indirizzata da
Paolo a Timoteo: « Annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e
non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina
» (2 Tm 4, 2). Questa esortazione deve risuonare con particolare vigore
nel cuore di quanti, nella Chiesa, partecipano più direttamente, a diverso
titolo, alla sua missione di « maestra » della verità. Risuoni innanzitutto
per noi Vescovi: a noi per primi è chiesto di farci annunciatori
instancabili delVangelo della vita; a noi è pure affidato il compito
di vigilare sulla trasmissione integra e fedele dell'insegnamento riproposto
in questa Enciclica e di ricorrere alle misure più opportune perché i fedeli
siano preservati da ogni dottrina ad esso contraria. Una speciale attenzione
dobbiamo porre perché nelle facoltà teologiche, nei seminari e nelle diverse
istituzioni cattoliche venga diffusa, illustrata e approfondita la conoscenza
della sana dottrina.(106) L'esortazione di Paolo risuoni per tutti i teologi,
per i pastori e per quanti altri svolgono compiti diinsegnamento,
catechesi e formazione delle coscienze: consapevoli del ruolo ad essi
spettante, non si assumano mai la grave responsabilità di tradire la verità e
la loro stessa missione esponendo idee personali contrarie al Vangelo
della vita quale il Magistero fedelmente ripropone e interpreta. Nell'annunciare
questo Vangelo, non dobbiamo temere l'ostilità e l'impopolarità, rifiutando
ogni compromesso ed ambiguità, che ci conformerebbero alla mentalità di
questo mondo (cf. Rm 12, 2). Dobbiamo essere nel mondo ma non del
mondo (cf. Gv 15, 19; 17, 16), con la forza che ci viene da
Cristo, che con la sua morte e risurrezione ha vinto il mondo (cf. Gv 16,
33). «
Ti lodo perché mi hai fatto come un prodigio » (Sal 139/138, 14): celebrare il Vangelo
della vita 83.
Mandati nel mondo come « popolo per la vita », il nostro annuncio deve
diventare anche una vera e propria celebrazione del Vangelo della vita. È
anzi questa stessa celebrazione, con la forza evocativa dei suoi gesti, simboli
e riti, a diventare luogo prezioso e significativo per trasmettere la
bellezza e la grandezza di questo Vangelo. A
tal fine, urge anzitutto coltivare, in noi e negli altri, uno
sguardo contemplativo.(107) Questo nasce dalla fede nel Dio della vita,
che ha creato ogni uomo facendolo come un prodigio (cf. Sal 139/138,
14). È lo sguardo di chi vede la vita nella sua profondità, cogliendone le
dimensioni di gratuità, di bellezza, di provocazione alla libertà e alla
responsabilità. È lo sguardo di chi non pretende d'impossessarsi della
realtà, ma la accoglie come un dono, scoprendo in ogni cosa il riflesso del
Creatore e in ogni persona la sua immagine vivente (cf. Gn 1, 27; Sal
8, 6). Questo sguardo non si arrende sfiduciato di fronte a chi è nella
malattia, nella sofferenza, nella marginalità e alle soglie della morte; ma
da tutte queste situazioni si lascia interpellare per andare alla ricerca di
un senso e, proprio in queste circostanze, si apre a ritrovare nel volto di
ogni persona un appello al confronto, al dialogo, alla solidarietà. È
tempo di assumere tutti questo sguardo, ridiventando capaci, con l'animo
colmo di religioso stupore, di venerare e onorare ogni uomo, come ci
invitava a fare Paolo VI in uno dei suoi messaggi natalizi.(108) Animato da questo
sguardo contemplativo, il popolo nuovo dei redenti non può non prorompere in inni
di gioia, di lode e di ringraziamento per il dono inestimabile della vita, per
il mistero della chiamata di ogni uomo a partecipare in Cristo alla vita di
grazia e a un'esistenza di comunione senza fine con Dio Creatore e Padre. 84.
Celebrare il Vangelo della vita significa celebrare il Dio della vita, il
Dio che dona la vita: « Noi dobbiamo celebrare la Vita eterna, dalla quale
procede qualsiasi altra vita. Da essa riceve la vita, proporzionalmente alle
sue capacità, ogni essere che partecipa in qualche modo alla vita. Questa
Vita divina, che è al di sopra di qualsiasi vita, vivifica e conserva la
vita. Qualsiasi vita e qualsiasi movimento vitale procedono da questa Vita
che trascende ogni vita ed ogni principio di vita. Ad essa le anime debbono
la loro incorruttibilità, come pure grazie ad essa vivono tutti gli animali e
tutte le piante, che ricevono della vita l'eco più debole. Agli uomini,
esseri composti di spirito e di materia, la Vita dona la vita. Se poi ci
accade di abbandonarla, allora la Vita, per il traboccare del suo amore verso
l'uomo, ci converte e ci richiama a sé. Non solo: ci promette di condurci,
anime e corpi, alla vita perfetta, all'immortalità. È troppo poco dire che
questa Vita è viva: essa è Principio di vita, Causa e Sorgente unica di vita.
Ogni vivente deve contemplarla e lodarla: è Vita che trabocca vita ».(109) Anche
noi, come il Salmista, nella preghiera quotidiana, individuale e
comunitaria, lodiamo e benediciamo Dio nostro Padre, che ci ha tessuti nel
seno materno e ci ha visti e amati quando ancora eravamo informi (cf. Sal 139/138,
13. 15-16), ed esclamiamo con gioia incontenibile: « Ti lodo, perché mi hai
fatto come un prodigio; sono stupende le tue opere, tu mi conosci fino in
fondo » (Sal 139/138, 14). Sì, « questa vita mortale è, nonostante i
suoi travagli, i suoi oscuri misteri, le sue sofferenze, la sua fatale
caducità, un fatto bellissimo, un prodigio sempre originale e commovente, un
avvenimento degno d'essere cantato in gaudio e in gloria ».(110) Di più,
l'uomo e la sua vita non ci appaiono solo come uno dei prodigi più alti della
creazione: all'uomo Dio ha conferito una dignità quasi divina (cf. Sal 8,
6-7). In ogni bimbo che nasce e in ogni uomo che vive o che muore noi
riconosciamo l'immagine della gloria di Dio: questa gloria noi celebriamo in
ogni uomo, segno del Dio vivente, icona di Gesù Cristo. Siamo
chiamati ad esprimere stupore e gratitudine per la vita ricevuta in dono e ad
accogliere, gustare e comunicare il Vangelo della vita non solo con la
preghiera personale e comunitaria, ma soprattutto con le celebrazioni
dell'anno liturgico. Sono qui da ricordare in particolare i Sacramenti,
segni efficaci della presenza e dell'azione salvifica del Signore Gesù
nell'esistenza cristiana: essi rendono gli uomini partecipi della vita
divina, assicurando loro l'energia spirituale necessaria per realizzare nella
sua piena verità il significato del vivere, del soffrire e del morire. Grazie
ad una genuina riscoperta del senso dei riti e ad una loro adeguata
valorizzazione, le celebrazioni liturgiche, soprattutto quelle sacramentali,
saranno sempre più in grado di esprimere la verità piena sulla nascita, la
vita, la sofferenza e la morte, aiutando a vivere queste realtà come
partecipazione al mistero pasquale di Cristo morto e risorto. 85.
Nella celebrazione del Vangelo della vita occorre saperapprezzare e
valorizzare anche i gesti e i simboli, di cui sono ricche le diverse
tradizioni e consuetudini culturali e popolari. Sono momenti e forme di
incontro con cui, nei diversi Paesi e culture, si manifestano la gioia per
una vita che nasce, il rispetto e la difesa di ogni esistenza umana, la cura
per chi soffre o è nel bisogno, la vicinanza all'anziano o al morente, la
condivisione del dolore di chi è nel lutto, la speranza e il desiderio
dell'immortalità. In
questa prospettiva, accogliendo anche il suggerimento offerto dai Cardinali
nel Concistoro del 1991, propongo che si celebri ogni anno nelle varie
Nazioni una Giornata per la Vita, quale già si attua ad iniziativa di
alcune Conferenze Episcopali. È necessario che tale Giornata venga preparata
e celebrata con l'attiva partecipazione di tutte le componenti della Chiesa locale.
Suo scopo fondamentale è quello di suscitare, nelle coscienze, nelle
famiglie, nella Chiesa e nella società civile, il riconoscimento del senso e
del valore della vita umana in ogni suo momento e condizione, ponendo
particolarmente al centro dell'attenzione la gravità dell'aborto e
dell'eutanasia, senza tuttavia trascurare gli altri momenti e aspetti della
vita, che meritano di essere presi di volta in volta in attenta
considerazione, secondo quanto suggerito dall'evolversi della situazione
storica. 86.
Nella logica del culto spirituale gradito a Dio (cf. Rm 12, 1), la
celebrazione del Vangelo della vita chiede di realizzarsi soprattutto
nell'esistenza quotidiana, vissuta nell'amore per gli altri e nella
donazione di se stessi. Sarà così tutta la nostra esistenza a farsi
accoglienza autentica e responsabile del dono della vita e lode sincera e
riconoscente a Dio che ci ha fatto tale dono. È quanto già avviene in
tantissimi gesti di donazione, spesso umile e nascosta, compiuti da uomini e
donne, bambini e adulti, giovani e anziani, sani e ammalati. È
in questo contesto, ricco di umanità e di amore, che nascono anche i gesti
eroici. Essi sono la celebrazione più solenne del Vangelo della vita, perché
lo proclamano con il dono totale di sé; sono la manifestazione
luminosa del grado più elevato di amore, che è dare la vita per la persona
amata (cf. Gv 15, 13); sono la partecipazione al mistero della Croce,
nella quale Gesù svela quanto valore abbia per lui la vita di ogni uomo e
come questa si realizzi in pienezza nel dono sincero di sé. Al di là dei
fatti clamorosi, c'è l'eroismo del quotidiano, fatto di piccoli o grandi
gesti di condivisione che alimentano un'autentica cultura della vita. Tra
questi gesti merita particolare apprezzamento la donazione di organi compiuta
in forme eticamente accettabili, per offrire una possibilità di salute e
perfino di vita a malati talvolta privi di speranza. A
tale eroismo del quotidiano appartiene la testimonianza silenziosa, ma quanto
mai feconda ed eloquente, di « tutte le madri coraggiose, che si dedicano
senza riserve alla propria famiglia, che soffrono nel dare alla luce i propri
figli, e poi sono pronte ad intraprendere ogni fatica, ad affrontare ogni
sacrificio, per trasmettere loro quanto di meglio esse custodiscono in sé
».(111) Nel vivere la loro missione « non sempre queste madri eroiche trovano
sostegno nel loro ambiente. Anzi, i modelli di civiltà, spesso promossi e
propagati dai mezzi di comunicazione, non favoriscono la maternità. Nel nome
del progresso e della modernità vengono presentati come ormai superati i
valori della fedeltà, della castità, del sacrificio, nei quali si sono
distinte e continuano a distinguersi schiere di spose e di madri cristiane...
Vi ringraziamo, madri eroiche, per il vostro amore invincibile! Vi
ringraziamo per l'intrepida fiducia in Dio e nel suo amore. Vi ringraziamo
per il sacrificio della vostra vita... Cristo nel Mistero pasquale vi
restituisce il dono che gli avete fatto. Egli infatti ha il potere di
restituirvi la vita che gli avete portato in offerta ».(112) «
Che giova, fratelli miei se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? » (Gc 2, 14): servire il Vangelo della vita 87.
In forza della partecipazione alla missione regale di Cristo, il sostegno e
la promozione della vita umana devono attuarsi mediante il servizio della
carità, che si esprime nella testimonianza personale, nelle diverse forme
di volontariato, nell'animazione sociale e nell'impegno politico. È, questa,
un'esigenza particolarmente pressante nell'ora presente, nella quale la «
cultura della morte » così fortemente si contrappone alla « cultura della
vita » e spesso sembra avere il sopravvento. Ancor prima, però, è un'esigenza
che nasce dalla « fede che opera per mezzo della carità » (Gal 5, 6),
come ci ammonisce la Lettera di Giacomo: « Che giova, fratelli miei, se uno
dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo?
Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo
quotidiano e uno di voi dice loro: "Andatevene in pace, riscaldatevi e
saziatevi", ma non date loro il necessario per il corpo, che giova? Così
anche la fede: se non ha le opere, è morta in se stessa » (2, 14-17). Nel
servizio della carità c'è un atteggiamento che ci deve animare e
contraddistinguere: dobbiamo prenderci cura dell'altro in quanto persona
affidata da Dio alla nostra responsabilità. Come discepoli di Gesù, siamo
chiamati a farci prossimi di ogni uomo (cf. Lc 10, 29-37), riservando
una speciale preferenza a chi è più povero, solo e bisognoso. Proprio
attraverso l'aiuto all'affamato, all'assetato, al forestiero, all'ignudo, al
malato, al carcerato — come pure al bambino non ancora nato, all'anziano
sofferente o vicino alla morte — ci è dato di servire Gesù, come Egli stesso
ha dichiarato: « Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi
miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me » (Mt 25, 40). Per
questo, non possiamo non sentirci interpellati e giudicati dalla pagina
sempre attuale di san Giovanni Crisostomo: « Vuoi onorare il corpo di Cristo?
Non trascurarlo quando si trova nudo. Non rendergli onore qui nel tempio con
stoffe di seta, per poi trascurarlo fuori, dove patisce freddo e nudità
».(113) Il servizio
della carità nei riguardi della vita deve essere profondamente unitario: non
può tollerare unilateralismi e discriminazioni, perché la vita umana è sacra
e inviolabile in ogni sua fase e situazione; essa è un bene indivisibile. Si
tratta dunque di « prendersi cura » di tutta la vita e della vita di
tutti. Anzi, ancora più profondamente, si tratta di andare fino alle
radici stesse della vita e dell'amore. Proprio
partendo da un amore profondo per ogni uomo e donna, si è sviluppata lungo i
secoli una straordinaria storia di carità, che ha introdotto nella
vita ecclesiale e civile numerose strutture di servizio alla vita, che
suscitano l'ammirazione di ogni osservatore non prevenuto. È una storia che,
con rinnovato senso di responsabilità, ogni comunità cristiana deve
continuare a scrivere con una molteplice azione pastorale e sociale. In tal
senso si devono mettere in atto forme discrete ed efficaci diaccompagnamento
della vita nascente, con una speciale vicinanza a quelle mamme che, anche
senza il sostegno del padre, non temono di mettere al mondo il loro bambino e
di educarlo. Analoga cura deve essere riservata alla vita nella marginalità o
nella sofferenza, specie nelle sue fasi finali. 88.
Tutto questo comporta una paziente e coraggiosa opera educativa che
solleciti tutti e ciascuno a farsi carico dei pesi degli altri (cf. Gal 6,
2); richiede una continua promozione di vocazioni al servizio, in
particolare tra i giovani; implica la realizzazione di progetti e
iniziative concrete, stabili ed evangelicamente ispirate. Molteplici
sono gli strumenti da valorizzare con competenza e serietà di impegno.
Alle sorgenti della vita, i centri per i metodi naturali di regolazione
della fertilità vanno promossi come un valido aiuto per la paternità e
maternità responsabili, nella quale ogni persona, a cominciare dal figlio, è
riconosciuta e rispettata per se stessa e ogni scelta è animata e guidata dal
criterio del dono sincero di sé. Anche i consultori matrimoniali e
familiari, mediante la loro specifica azione di consulenza e di
prevenzione, svolta alla luce di un'antropologia coerente con la visione
cristiana della persona, della coppia e della sessualità, costituiscono un
prezioso servizio per riscoprire il senso dell'amore e della vita e per
sostenere e accompagnare ogni famiglia nella sua missione di « santuario
della vita ». A servizio della vita nascente si pongono pure i centri di
aiuto alla vita e le case o i centri di accoglienza della vita. Grazie
alla loro opera, non poche madri nubili e coppie in difficoltà ritrovano
ragioni e convinzioni e incontrano assistenza e sostegno per superare disagi
e paure nell'accogliere una vita nascente o appena venuta alla luce. Di
fronte alla vita in condizioni di disagio, di devianza, di malattia e di
marginalità, altri strumenti — come le comunità di recupero per
tossicodipendenti, le comunità alloggio per i minori o per i malati mentali,
i centri di cura e accoglienza per malati di AIDS, le cooperative di
solidarietà soprattutto per i disabili — sono espressione eloquente di
ciò che la carità sa inventare per dare a ciascuno ragioni nuove di speranza
e possibilità concrete di vita. Quando
poi l'esistenza terrena volge al termine, è ancora la carità a trovare le
modalità più opportune perché gli anziani, specialmente se non
autosufficienti, e i cosiddetti malati terminali possano godere di
un'assistenza veramente umana e ricevere risposte adeguate alle loro
esigenze, in particolare alla loro angoscia e solitudine. Insostituibile è in
questi casi il ruolo delle famiglie; ma esse possono trovare grande aiuto
nelle strutture sociali di assistenza e, quando necessario, nel ricorso alle cure
palliative, avvalendosi degli idonei servizi sanitari e sociali, operanti
sia nei luoghi di ricovero e cura pubblici che a domicilio. In
particolare, deve essere riconsiderato il ruolo degli ospedali, delle cliniche
e delle case di cura: la loro vera identità non è solo quella di
strutture nelle quali ci si prende cura dei malati e dei morenti, ma
anzitutto quella di ambienti nei quali la sofferenza, il dolore e la morte
vengono riconosciuti ed interpretati nel loro significato umano e
specificamente cristiano. In modo speciale tale identità deve mostrarsi
chiara ed efficace negli istituti dipendenti da religiosi o, comunque,
legati alla Chiesa. 89.
Queste strutture e luoghi di servizio alla vita, e tutte le altre iniziative
di sostegno e solidarietà che le situazioni potranno di volta in volta
suggerire, hanno bisogno di essere animate da persone generosamente
disponibili e profondamente consapevoli di quanto decisivo sia il Vangelo
della vita per il bene dell'individuo e della società. Peculiare
è la responsabilità affidata agli operatori sanitari: medici, farmacisti,
infermieri, cappellani, religiosi e religiose, amministratori e volontari. La loro professione li vuole custodi e servitori
della vita umana. Nel contesto culturale e sociale odierno, nel quale la
scienza e l'arte medica rischiano di smarrire la loro nativa dimensione
etica, essi possono essere talvolta fortemente tentati di trasformarsi in
artefici di manipolazione della vita o addirittura in operatori di morte. Di
fronte a tale tentazione la loro responsabilità è oggi enormemente
accresciuta e trova la sua ispirazione più profonda e il suo sostegno più
forte proprio nell'intrinseca e imprescindibile dimensione etica della professione
sanitaria, come già riconosceva l'antico e sempre attuale giuramento di
Ippocrate, secondo il quale ad ogni medico è chiesto di impegnarsi per il
rispetto assoluto della vita umana e della sua sacralità. Il
rispetto assoluto di ogni vita umana innocente esige anchel'esercizio
dell'obiezione di coscienza di fronte all'aborto procurato e
all'eutanasia. Il « far morire » non può mai essere considerato come una cura
medica, neppure quando l'intenzione fosse solo quella di assecondare una
richiesta del paziente: è, piuttosto, la negazione della professione
sanitaria che si qualifica come un appassionato e tenace « sì » alla vita.
Anche la ricerca biomedica, campo affascinante e promettente di nuovi grandi
benefici per l'umanità, deve sempre rifiutare sperimentazioni, ricerche o
applicazioni che, misconoscendo l'inviolabile dignità dell'essere umano,
cessano di essere a servizio degli uomini e si trasformano in realtà che,
mentre sembrano soccorrerli, li opprimono. 90.
Uno specifico ruolo sono chiamate a svolgere le persone impegnate nel
volontariato: esse offrono un apporto prezioso nel servizio alla vita,
quando sanno coniugare capacità professionale e amore generoso e gratuito. Il
Vangelo della vita le spinge ad elevare i sentimenti di semplice
filantropia all'altezza della carità di Cristo; a riconquistare ogni giorno,
tra fatiche e stanchezze, la coscienza della dignità di ogni uomo; ad andare
alla scoperta dei bisogni delle persone iniziando — se necessario — nuovi
cammini là dove più urgente è il bisogno e più deboli sono l'attenzione e il
sostegno. Il
realismo tenace della carità esige che il Vangelo della vita sia
servito anche mediante forme di animazione sociale e di impegno politico, difendendo
e proponendo il valore della vita nelle nostre società sempre più complesse e
pluraliste. Singoli, famiglie, gruppi, realtà associative hanno, sia
pure a titolo e in modi diversi, una responsabilità nell'animazione sociale e
nell'elaborazione di progetti culturali, economici, politici e legislativi
che, nel rispetto di tutti e secondo la logica della convivenza democratica,
contribuiscano a edificare una società nella quale la dignità di ogni persona
sia riconosciuta e tutelata, e la vita di tutti sia difesa e promossa. Tale
compito grava in particolare sui responsabili della cosa pubblica. Chiamati
a servire l'uomo e il bene comune, hanno il dovere di compiere scelte
coraggiose a favore della vita, innanzitutto nell'ambito delle disposizioni
legislative. In un regime democratico, ove le leggi e le decisioni si formano
sulla base del consenso di molti, può attenuarsi nella coscienza dei singoli
che sono investiti di autorità il senso della responsabilità personale. Ma a
questa nessuno può mai abdicare, soprattutto quando ha un mandato legislativo
o decisionale, che lo chiama a rispondere a Dio, alla propria coscienza e
all'intera società di scelte eventualmente contrarie al vero bene comune. Se
le leggi non sono l'unico strumento per difendere la vita umana, esse però
svolgono un ruolo molto importante e talvolta determinante nel promuovere una
mentalità e un costume. Ripeto ancora una volta che una norma che viola il
diritto naturale alla vita di un innocente è ingiusta e, come tale, non può
avere valore di legge. Per questo rinnovo con forza il mio appello a tutti i
politici perché non promulghino leggi che, misconoscendo la dignità della
persona, minano alla radice la stessa convivenza civile. La
Chiesa sa che, nel contesto di democrazie pluraliste, per la presenza di
forti correnti culturali di diversa impostazione, è difficile attuare
un'efficace difesa legale della vita. Mossa tuttavia dalla certezza che la
verità morale non può non avere un'eco nell'intimo di ogni coscienza, essa
incoraggia i politici, cominciando da quelli cristiani, a non rassegnarsi e a
compiere quelle scelte che, tenendo conto delle possibilità concrete, portino
a ristabilire un ordine giusto nell'affermazione e promozione del valore
della vita. In questa prospettiva, occorre rilevare che non basta eliminare
le leggi inique. Si dovranno rimuovere le cause che favoriscono gli attentati
alla vita, soprattutto assicurando il dovuto sostegno alla famiglia e alla
maternità: la politica familiare deve essere perno e motore di
tutte le politiche sociali. Pertanto, occorre avviare iniziative sociali
e legislative capaci di garantire condizioni di autentica libertà nella
scelta in ordine alla paternità e alla maternità; inoltre è necessario
reimpostare le politiche lavorative, urbanistiche, abitative e dei servizi,
perché si possano conciliare tra loro i tempi del lavoro e quelli della
famiglia e diventi effettivamente possibile la cura dei bambini e degli
anziani. 91.
Un capitolo importante della politica per la vita è costituito oggi dalla problematica
demografica. Le pubbliche autorità hanno certo la responsabilità di
prendere « iniziative al fine di orientare la demografia della popolazione »;
(114) ma tali iniziative devono sempre presupporre e rispettare la
responsabilità primaria ed inalienabile dei coniugi e delle famiglie e non
possono ricorrere a metodi non rispettosi della persona e dei suoi diritti
fondamentali, a cominciare dal diritto alla vita di ogni essere umano
innocente. È, quindi, moralmente inaccettabile che, per regolare le nascite,
si incoraggi o addirittura si imponga l'uso di mezzi come la contraccezione,
la sterilizzazione e l'aborto. Ben
altre sono le vie per risolvere il problema demografico: i Governi e le varie
istituzioni internazionali devono innanzitutto mirare alla creazione di
condizioni economiche, sociali, medico-sanitarie e culturali che consentano
agli sposi di fare le loro scelte procreative in piena libertà e con vera
responsabilità; devono poi sforzarsi di « potenzia re le possibilità e
distribuire con maggiore giustizia le ricchezze, affinché tutti possano partecipare
equamente ai beni del creato. Occorre creare soluzioni a livello mondiale,
instaurando un'autentica economia di comunione e condivisione dei beni, sia
sul piano internazionale che su quello nazionale ».(115) Questa sola è la
strada che rispetta la dignità delle persone e delle famiglie, oltre che
l'autentico patrimonio culturale dei popoli. Vasto
e complesso è dunque il servizio al Vangelo della vita. Esso ci appare
sempre più come ambito prezioso e favorevole per una fattiva collaborazione
con i fratelli delle altre Chiese e Comunità ecclesiali nella linea di quell'ecumenismo
delle opere che il Concilio Vaticano II ha autorevolmente
incoraggiato.(116) Esso, inoltre, si presenta come spazio provvidenziale per
il dialogo e la collaborazione con i seguaci di altre religioni e con tutti
gli uomini di buona volontà: la difesa e la promozione della vita non sono
monopolio di nessuno, ma compito e responsabilità di tutti. La sfida che
ci sta di fronte, alla vigilia del terzo millennio, è ardua: solo la concorde
cooperazione di quanti credono nel valore della vita potrà evitare una
sconfitta della civiltà dalle conseguenze imprevedibili. «
Dono del Signore sono i figli, è sua grazia il frutto del grembo » (Sal 126/125, 3): la famiglia « santuario
della vita » 92.
All'interno del « popolo della vita e per la vita »,decisiva è la
responsabilità della famiglia: è una responsabilità che scaturisce dalla
sua stessa natura — quella di essere comunità di vita e di amore, fondata sul
matrimonio — e dalla sua missione di « custodire, rivelare e comunicare
l'amore ».(117) È in questione l'amore stesso di Dio, del quale i genitori
sono costituiti collaboratori e quasi interpreti nel trasmettere la vita e
nell'educarla secondo il suo progetto di Padre.(118) È quindi l'amore che si
fa gratuità, accoglienza, donazione: nella famiglia ciascuno è riconosciuto,
rispettato e onorato perché è persona e, se qualcuno ha più bisogno, più
intensa e più vigile è la cura nei suoi confronti. La
famiglia è chiamata in causa nell'intero arco di esistenza dei suoi membri,
dalla nascita alla morte. Essa è veramente « ilsantuario della vita...,
il luogo in cui la vita, dono di Dio, può essere adeguatamente accolta e
protetta contro i molteplici attacchi a cui è esposta, e può svilupparsi
secondo le esigenze di un'autentica crescita umana ».(119) Per questo, determinante
e insostituibile è il ruolo della famiglia nel costruire la cultura della
vita. Come
chiesa domestica, la famiglia è chiamata ad annunciare, celebrare e
servire il Vangelo della vita. È un compito che riguarda innanzitutto
i coniugi, chiamati ad essere trasmettitori della vita, sulla base di una
sempre rinnovata consapevolezza del senso della generazione, come
evento privilegiato nel quale si manifesta che la vita umana è un dono ricevuto
per essere a sua volta donato. Nella procreazione di una nuova vita i
genitori avvertono che il figlio « se è frutto della loro reciproca donazione
d'amore, è, a sua volta, un dono per ambedue, un dono che scaturisce dal dono
».(120) È
soprattutto attraverso l'educazione dei figli che la famiglia assolve
la sua missione di annunciare il Vangelo della vita. Con la parola e
con l'esempio, nella quotidianità dei rapporti e delle scelte e mediante
gesti e segni concreti, i genitori iniziano i loro figli alla libertà
autentica, che si realizza nel dono sincero di sé, e coltivano in loro il
rispetto dell'altro, il senso della giustizia, l'accoglienza cordiale, il
dialogo, il servizio generoso, la solidarietà e ogni altro valore che aiuti a
vivere la vita come un dono. L'opera educativa dei genitori cristiani deve
farsi servizio alla fede dei figli e aiuto loro offerto perché adempiano la
vocazione ricevuta da Dio. Rientra nella missione educativa dei genitori
insegnare e testimoniare ai figli il vero senso del soffrire e del morire: lo
potranno fare se sapranno essere attenti ad ogni sofferenza che trovano
intorno a sé e, prima ancora, se sapranno sviluppare atteggiamenti di
vicinanza, assistenza e condivisione verso malati e anziani nell'ambito
familiare. 93.
La famiglia, inoltre, celebra il Vangelo della vita con la preghiera
quotidiana, individuale e familiare: con essa loda e ringrazia il Signore
per il dono della vita ed invoca luce e forza per affrontare i momenti di
difficoltà e di sofferenza, senza mai smarrire la speranza. Ma la
celebrazione che dà significato ad ogni altra forma di preghiera e di culto è
quella che s'esprime nell'esistenza quotidiana della famiglia, se è
un'esistenza fatta di amore e donazione. La
celebrazione si trasforma così in un servizio al Vangelo della vita, che
si esprime attraverso la solidarietà, sperimentata dentro e intorno
alla famiglia come attenzione premurosa, vigile e cordiale nelle azioni
piccole e umili di ogni giorno. Un'espressione particolarmente significativa
di solidarietà tra le famiglie è la disponibilità all'adozione o
all'affidamento dei bambini abbandonati dai loro genitori o comunque in
situazioni di grave disagio. Il vero amore paterno e materno sa andare al di
là dei legami della carne e del sangue ed accogliere anche bambini di altre
famiglie, offrendo ad essi quanto è necessario per la loro vita ed il loro
pieno sviluppo. Tra le forme di adozione, merita di essere proposta anche
l'adozione a distanza, da preferire nei casi in cui l'abbandono ha come
unico motivo le condizioni di grave povertà della famiglia. Con tale tipo di
adozione, infatti, si offrono ai genitori gli aiuti necessari per mantenere
ed educare i propri figli, senza doverli sradicare dal loro ambiente
naturale. Intesa
come « determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune
»,(121) la solidarietà chiede di attuarsi anche attraverso forme di partecipazione
sociale e politica. Di conseguenza, servire il Vangelo della vita comporta
che le famiglie, specie partecipando ad apposite associazioni, si adoperino
affinché le leggi e le istituzioni dello Stato non ledano in nessun modo il
diritto alla vita, dal concepimento alla morte naturale, ma lo difendano e lo
promuovano. 94.
Un posto particolare va riconosciuto agli anziani. Mentre in alcune
culture la persona più avanzata in età rimane inserita nella famiglia con un
ruolo attivo importante, in altre culture invece chi è vecchio è sentito come
un peso inutile e viene abbandonato a se stesso: in simile contesto può
sorgere più facilmente la tentazione di ricorrere all'eutanasia. L'emarginazione
o addirittura il rifiuto degli anziani sono intollerabili. La loro presenza
in famiglia, o almeno la vicinanza ad essi della famiglia quando per la
ristrettezza degli spazi abitativi o per altri motivi tale presenza non fosse
possibile, sono di fondamentale importanza nel creare un clima di reciproco
scambio e di arricchente comunicazione fra le varie età della vita. È
importante, perciò, che si conservi, o si ristabilisca dove è andato smarrito,
una sorta di « patto » tra le generazioni, così che i genitori anziani,
giunti al termine del loro cammino, possano trovare nei figli l'accoglienza e
la solidarietà che essi hanno avuto nei loro confronti quando s'affacciavano
alla vita: lo esige l'obbedienza al comando divino di onorare il padre e la
madre (cf. Es 20, 12; Lv 19, 3). Ma c'è di più. L'anziano non è
da considerare solo oggetto di attenzione, vicinanza e servizio. Anch'egli ha
un prezioso contributo da portare al Vangelo della vita. Grazie al
ricco patrimonio di esperienza acquisito lungo gli anni, può e deve essere dispensatore
di sapienza, testimone di speranza e di carità. Se
è vero che « l'avvenire dell'umanità passa attraverso la famiglia »,(122) si
deve riconoscere che le odierne condizioni sociali, economiche e culturali
rendono spesso più arduo e faticoso il compito della famiglia nel servire la
vita. Perché possa realizzare la sua vocazione di « santuario della vita »,
quale cellula di una società che ama e accoglie la vita, è necessario e
urgente che la famiglia stessa sia aiutata e sostenuta. Le società e
gli Stati le devono assicurare tutto quel sostegno, anche economico che è
necessario perché le famiglie possano rispondere in modo più umano ai propri
problemi. Da parte sua la Chiesa deve promuovere instancabilmente una
pastorale familiare capace di stimolare ogni famiglia a riscoprire e vivere
con gioia e con coraggio la sua missione nei confronti del Vangelo della
vita. «
Comportatevi come i figli della luce » (Ef 5, 8): per realizzare una svolta culturale 95.
« Comportatevi come i figli della luce... Cercate ciò che è gradito al
Signore, e non partecipate alle opere infruttuose delle tenebre » (Ef 5,
8.10-11). Nell'odierno contesto sociale, segnato da una drammatica lotta tra la
« cultura della vita » e la « cultura della morte », occorre far maturare
un forte senso critico, capace di discernere i veri valori e le
autentiche esigenze. Urgono
una generale mobilitazione delle coscienze e un comune sforzo
etico, per mettere in atto una grande strategia a favore della vita.
Tutti insieme dobbiamo costruire una nuova cultura della vita: nuova,
perché in grado di affrontare e risolvere gli inediti problemi di oggi circa
la vita dell'uomo; nuova, perché fatta propria con più salda e operosa
convinzione da parte di tutti i cristiani; nuova, perché capace di suscitare
un serio e coraggioso confronto culturale con tutti. L'urgenza di questa
svolta culturale è legata alla situazione storica che stiamo attraversando,
ma si radica nella stessa missione evangelizzatrice, propria della Chiesa. Il
Vangelo, infatti, mira a « trasformare dal di dentro, rendere nuova l'umanità
»; (123) è come il lievito che fermenta tutta la pasta (cf. Mt 13, 33)
e, come tale, è destinato a permeare tutte le culture e ad animarle
dall'interno,(124) perché esprimano l'intera verità sull'uomo e sulla sua
vita. Si
deve cominciare dal rinnovare la cultura della vita all'interno delle
stesse comunità cristiane. Troppo spesso i credenti, perfino quanti
partecipano attivamente alla vita ecclesiale, cadono in una sorta di
dissociazione tra la fede cristiana e le sue esigenze etiche a riguardo della
vita, giungendo così al soggettivismo morale e a taluni comportamenti
inaccettabili. Dobbiamo allora interrogarci, con grande lucidità e coraggio,
su quale cultura della vita sia oggi diffusa tra i singoli cristiani, le
famiglie, i gruppi e le comunità delle nostre Diocesi. Con altrettanta
chiarezza e decisione, dobbiamo individuare quali passi siamo chiamati a
compiere per servire la vita secondo la pienezza della sua verità. Nello
stesso tempo, dobbiamo promuovere un confronto serio e approfondito con
tutti, anche con i non credenti, sui problemi fondamentali della vita umana,
nei luoghi dell'elaborazione del pensiero, come nei diversi ambiti
professionali e là dove si snoda quotidianamente l'esistenza di ciascuno. 96.
Il primo e fondamentale passo per realizzare questa svolta culturale consiste
nella formazione della coscienza morale circa il valore
incommensurabile e inviolabile di ogni vita umana. È di somma importanza riscoprire
il nesso inscindibile tra vita e libertà. Sono beni indivisibili: dove è
violato l'uno, anche l'altro finisce per essere violato. Non c'è libertà vera
dove la vita non è accolta e amata; e non c'è vita piena se non nella
libertà. Ambedue queste realtà hanno poi un riferimento nativo e peculiare,
che le lega indissolubilmente: la vocazione all'amore. Questo amore, come
dono sincero di sé,(125) è il senso più vero della vita e della libertà della
persona. Non
meno decisiva nella formazione della coscienza è la riscoperta del legame
costitutivo che unisce la libertà alla verità. Come ho ribadito più
volte, sradicare la libertà dalla verità oggettiva rende impossibile fondare
i diritti della persona su una solida base razionale e pone le premesse
perché nella società si affermino l'arbitrio ingovernabile dei singoli o il
totalitarismo mortificante del pubblico potere.(126) È
essenziale allora che l'uomo riconosca l'originaria evidenza della sua
condizione di creatura, che riceve da Dio l'essere e la vita come un dono e
un compito: solo ammettendo questa sua nativa dipendenza nell'essere, l'uomo
può realizzare in pienezza la sua vita e la sua libertà e insieme rispettare
fino in fondo la vita e la libertà di ogni altra persona. Qui soprattutto si
svela che « al centro di ogni cultura sta l'atteggiamento che l'uomo assume
davanti al mistero più grande: il mistero di Dio ».(127) Quando si nega Dio e
si vive come se Egli non esistesse, o comunque non si tiene conto dei suoi
comandamenti, si finisce facilmente per negare o compromettere anche la
dignità della persona umana e l'inviolabilità della sua vita. 97.
Alla formazione della coscienza è strettamente connessal'opera educativa, che
aiuta l'uomo ad essere sempre più uomo, lo introduce sempre più profondamente
nella verità, lo indirizza verso un crescente rispetto della vita, lo forma
alle giuste relazioni tra le persone. In
particolare, è necessario educare al valore della vitacominciando dalle
sue stesse radici. È un'illusione pensare di poter costruire una vera
cultura della vita umana, se non si aiutano i giovani a cogliere e a vivere
la sessualità, l'amore e l'intera esistenza secondo il loro vero significato
e nella loro intima correlazione. La sessualità, ricchezza di tutta la
persona, « manifesta il suo intimo significato nel portare la persona al dono
di sé nell'amore ».(128) La banalizzazione della sessualità è tra i
principali fattori che stanno all'origine del disprezzo della vita nascente:
solo un amore vero sa custodire la vita. Non ci si può, quindi, esimere
dall'offrire soprattutto agli adolescenti e ai giovani l'autentica educazione
alla sessualità e all'amore, un'educazione implicante la formazione
alla castità, quale virtù che favorisce la maturità della persona e la
rende capace di rispettare il significato « sponsale » del corpo. L'opera
di educazione alla vita comporta la formazione dei coniugi alla
procreazione responsabile. Questa, nel suo vero significato, esige che
gli sposi siano docili alla chiamata del Signore e agiscano come fedeli
interpreti del suo disegno: ciò avviene con l'aprire generosamente la
famiglia a nuove vite, e comunque rimanendo in atteggiamento di apertura e di
servizio alla vita anche quando, per seri motivi e nel rispetto della legge
morale, i coniugi scelgono di evitare temporaneamente o a tempo indeterminato
una nuova nascita. La legge morale li obbliga in ogni caso a governare le
tendenze dell'istinto e delle passioni e a rispettare le leggi biologiche iscritte
nella loro persona. Proprio tale rispetto rende legittimo, a servizio della
responsabilità nel procreare, il ricorso ai metodi naturali di regolazione
della fertilità: essi vengono sempre meglio precisati dal punto di vista
scientifico e offrono possibilità concrete per scelte in armonia con i valori
morali. Una onesta considerazione dei risultati raggiunti dovrebbe far cadere
pregiudizi ancora troppo diffusi e convincere i coniugi nonché gli operatori
sanitari e sociali circa l'importanza di un'adeguata formazione al riguardo.
La Chiesa è riconoscente verso coloro che con sacrificio personale e
dedizione spesso misconosciuta si impegnano nella ricerca e nella diffusione
di tali metodi, promovendo al tempo stesso un'educazione ai valori morali che
il loro uso suppone. L'opera
educativa non può non prendere in considerazione anche la sofferenza e la
morte. In realtà, esse fanno parte
dell'esperienza umana, ed è vano, oltre che fuorviante, cercare di censurarle
e rimuoverle. Ciascuno invece deve essere aiutato a coglierne, nella concreta
e dura realtà, il mistero profondo. Anche il dolore e la sofferenza hanno un
senso e un valore, quando sono vissuti in stretta connessione con l'amore
ricevuto e donato. In questa prospettiva ho voluto che si celebrasse ogni
anno la Giornata Mondiale del Malato, sottolineando « l'indole
salvifica dell'offerta della sofferenza, che vissuta in comunione con Cristo
appartiene all'essenza stessa della redenzione ».(129) Del resto perfino la
morte è tutt'altro che un'avventura senza speranza: è la porta dell'esistenza
che si spalanca sull'eternità e, per quanti la vivono in Cristo, è esperienza
di partecipazione al suo mistero di morte e risurrezione. 98.
In sintesi, possiamo dire che la svolta culturale qui auspicata esige da tutti
il coraggio di assumere un nuovo stile di vita che s'esprime nel porre
a fondamento delle scelte concrete — a livello personale, familiare, sociale
e internazionale — la giusta scala dei valori: il primato dell'essere
sull'avere,(130) della persona sulle cose.(131) Questo rinnovato
stile di vita implica anche il passaggio dall'indifferenza
all'interessamento per l'altro e dal rifiuto alla sua accoglienza: gli
altri non sono concorrenti da cui difenderci, ma fratelli e sorelle con cui
essere solidali; sono da amare per se stessi; ci arricchiscono con la loro
stessa presenza. Nella
mobilitazione per una nuova cultura della vita nessuno si deve sentire
escluso: tutti hanno un ruolo importante da svolgere. Insieme con
quello delle famiglie, particolarmente prezioso è il compito degli insegnanti
e degli educatori. Molto dipenderà da loro se i giovani, formati
ad una vera libertà, sapranno custodire dentro di sé e diffondere intorno a
sé ideali autentici di vita e sapranno crescere nel rispetto e nel servizio di
ogni persona, in famiglia e nella società. Anche
gli intellettuali possono fare molto per costruire una nuova cultura
della vita umana. Un compito particolare spetta agli intellettuali cattolici,
chiamati a rendersi attivamente presenti nelle sedi privilegiate
dell'elaborazione culturale, nel mondo della scuola e delle università, negli
ambienti della ricerca scientifica e tecnica, nei luoghi della creazione
artistica e della riflessione umanistica. Alimentando il loro genio e la loro
azione alle chiare linfe del Vangelo, si devono impegnare a servizio di una
nuova cultura della vita con la produzione di contributi seri, documentati e
capaci di imporsi per i loro pregi al rispetto e all'interesse di tutti.
Proprio in questa prospettiva ho istituito la Pontificia Accademia per la
Vita con il compito di « studiare, informare e formare circa i principali
problemi di biomedicina e di diritto, relativi alla promozione e alla difesa
della vita, soprattutto nel diretto rapporto che essi hanno con la morale
cristiana e le direttive del magistero della Chiesa ».(132) Uno specifico
apporto dovrà venire anche dalle Università, in particolare da quellecattoliche,
e dai Centri, Istituti e Comitati di bioetica. Grande
e grave è la responsabilità degli operatori dei mass media, chiamati
ad adoperarsi perché i messaggi trasmessi con tanta efficacia contribuiscano
alla cultura della vita. Devono allora presentare esempi alti e nobili di
vita e dare spazio alle testimonianze positive e talvolta eroiche di amore
all'uomo; proporre con grande rispetto i valori della sessualità e
dell'amore, senza indugiare su ciò che deturpa e svilisce la dignità
dell'uomo. Nella lettura della realtà, devono rifiutare di mettere in risalto
quanto può insinuare o far crescere sentimenti o atteggiamenti di
indifferenza, di disprezzo o di rifiuto nei confronti della vita. Nella
scrupolosa fedeltà alla verità dei fatti, sono chiamati a coniugare insieme
la libertà di informazione, il rispetto di ogni persona e un profondo senso
di umanità. 99.
Nella svolta culturale a favore della vita le donne hanno uno spazio
di pensiero e di azione singolare e forse determinante: tocca a loro di farsi
promotrici di un « nuovo femminismo » che, senza cadere nella tentazione di
rincorrere modelli « maschilisti », sappia riconoscere ed esprimere il vero
genio femminile in tutte le manifestazioni della convivenza civile, operando
per il superamento di ogni forma di discriminazione, di violenza e di
sfruttamento. Riprendendo
le parole del messaggio conclusivo del Concilio Vaticano II, rivolgo anch'io
alle donne il pressante invito: « Riconciliate gli uomini con la vita
».(133) Voi siete chiamate a testimoniare il senso dell'amore autentico, di
quel dono di sé e di quella accoglienza dell'altro che si realizzano in modo
specifico nella relazione coniugale, ma che devono essere l'anima di ogni
altra relazione interpersonale. L'esperienza della maternità favorisce in voi
una sensibilità acuta per l'altra persona e, nel contempo, vi conferisce un
compito particolare: « La maternità contiene in sé una speciale comunione col
mistero della vita, che matura nel seno della donna... Questo modo unico di
contatto col nuovo uomo che si sta formando crea a sua volta un atteggiamento
verso l'uomo — non solo verso il proprio figlio, ma verso l'uomo in genere —
tale da caratterizzare profondamente tutta la personalità della donna ».(134)
La madre, infatti, accoglie e porta in sé un altro, gli dà modo di crescere
dentro di sé, gli fa spazio, rispettandolo nella sua alterità. Così, la donna
percepisce e insegna che le relazioni umane sono autentiche se si aprono
all'accoglienza dell'altra persona, riconosciuta e amata per la dignità che
le deriva dal fatto di essere persona e non da altri fattori, quali
l'utilità, la forza, l'intelligenza, la bellezza, la salute. Questo è il
contributo fondamentale che la Chiesa e l'umanità si attendono dalle donne.
Ed è la premessa insostituibile per un'autentica svolta culturale. Un
pensiero speciale vorrei riservare a voi, donne che avete fatto ricorso
all'aborto. La Chiesa sa quanti condizionamenti possono aver influito
sulla vostra decisione, e non dubita che in molti casi s'è trattato d'una
decisione sofferta, forse drammatica. Probabilmente la ferita nel vostro
animo non s'è ancor rimarginata. In realtà, quanto è avvenuto è stato e
rimane profondamente ingiusto. Non lasciatevi prendere, però, dallo
scoraggiamento e non abbandonate la speranza. Sappiate comprendere,
piuttosto, ciò che si è verificato e interpretatelo nella sua verità. Se
ancora non l'avete fatto, apritevi con umiltà e fiducia al pentimento: il
Padre di ogni misericordia vi aspetta per offrirvi il suo perdono e la sua
pace nel sacramento della Riconciliazione. Vi accorgerete che nulla è perduto
e potrete chiedere perdono anche al vostro bambino, che ora vive nel Signore.
Aiutate dal consiglio e dalla vicinanza di persone amiche e competenti,
potrete essere con la vostra sofferta testimonianza tra i più eloquenti
difensori del diritto di tutti alla vita. Attraverso il vostro impegno per la
vita, coronato eventualmente dalla nascita di nuove creature ed esercitato
con l'accoglienza e l'attenzione verso chi è più bisognoso di vicinanza,
sarete artefici di un nuovo modo di guardare alla vita dell'uomo. 100.
In questo grande sforzo per una nuova cultura della vita siamo sostenuti e
animati dalla fiducia di chi sa che il Vangelo della vita, come il
Regno di Dio, cresce e dà i suoi frutti abbondanti (cf. Mc 4, 26-29).
È certamente enorme la sproporzione che esiste tra i mezzi, numerosi e
potenti, di cui sono dotate le forze operanti a sostegno della « cultura
della morte » e quelli di cui dispongono i promotori di una « cultura della
vita e dell'amore ». Ma noi sappiamo di poter confidare sull'aiuto di Dio, al
quale nulla è impossibile (cf. Mt 19, 26). Con
questa certezza nel cuore, e mosso da accorata sollecitudine per le sorti di
ogni uomo e donna, ripeto oggi a tutti quanto ho detto alle famiglie
impegnate nei loro difficili compiti fra le insidie che le minacciano: (135) èurgente
una grande preghiera per la vita, che attraversi il mondo intero. Con
iniziative straordinarie e nella preghiera abituale, da ogni comunità
cristiana, da ogni gruppo o associazione, da ogni famiglia e dal cuore di
ogni credente, si elevi una supplica appassionata a Dio, Creatore e amante
della vita. Gesù stesso ci ha mostrato col suo esempio che preghiera e
digiuno sono le armi principali e più efficaci contro le forze del male (cf. Mt
4, 1-11) e ha insegnato ai suoi discepoli che alcuni demoni non si
scacciano se non in questo modo (cf. Mc 9, 29). Ritroviamo, dunque,
l'umiltà e il coraggio di pregare e digiunare, per ottenere che la
forza che viene dall'Alto faccia crollare i muri di inganni e di menzogne,
che nascondono agli occhi di tanti nostri fratelli e sorelle la natura perversa
di comportamenti e di leggi ostili alla vita, e apra i loro cuori a propositi
e intenti ispirati alla civiltà della vita e dell'amore. «
Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta » (1 Gv 1, 4): il Vangelo della vita è per
la città degli uomini 101.
« Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta » (1 Gv 1,
4). La rivelazione del Vangelo della vita ci è data come bene da
comunicare a tutti: perché tutti gli uomini siano in comunione con noi e con
la Trinità (cf. 1 Gv 1, 3). Neppure noi potremmo essere nella gioia
piena se non comunicassimo questo Vangelo agli altri, ma lo tenessimo solo
per noi stessi. Il Vangelo
della vita non è esclusivamente per i credenti: è per tutti. La
questione della vita e della sua difesa e promozione non è prerogativa dei
soli cristiani. Anche se dalla fede riceve luce e forza straordinarie, essa
appartiene ad ogni coscienza umana che aspira alla verità ed è attenta e
pensosa per le sorti dell'umanità. Nella vita c'è sicuramente un valore sacro
e religioso, ma in nessun modo esso interpella solo i credenti: si tratta,
infatti, di un valore che ogni essere umano può cogliere anche alla luce
della ragione e che perciò riguarda necessariamente tutti. Per
questo, la nostra azione di « popolo della vita e per la vita » domanda di
essere interpretata in modo giusto e accolta con simpatia. Quando la Chiesa
dichiara che il rispetto incondizionato del diritto alla vita di ogni persona
innocente — dal concepimento alla sua morte naturale — è uno dei pilastri su
cui si regge ogni società civile, essa « vuole semplicemente promuovere
uno Stato umano. Uno Stato che riconosca come suo primario dovere la
difesa dei diritti fondamentali della persona umana, specialmente di quella
più debole ».(136) Il Vangelo
della vita è per la città degli uomini. Agire a favore della vita è
contribuire al rinnovamento della società mediante l'edificazione del
bene comune. Non è possibile, infatti, costruire il bene comune senza
riconoscere e tutelare il diritto alla vita, su cui si fondano e si
sviluppano tutti gli altri diritti inalienabili dell'essere umano. Né può
avere solide basi una società che — mentre afferma valori quali la dignità
della persona, la giustizia e la pace — si contraddice radicalmente
accettando o tollerando le più diverse forme di disistima e violazione della
vita umana, soprattutto se debole ed emarginata. Solo il rispetto della vita
può fondare e garantire i beni più preziosi e necessari della società, come
la democrazia e la pace. Infatti,
non ci può essere vera democrazia, se non si riconosce la dignità di
ogni persona e non se ne rispettano i diritti. Non
ci può essere neppure vera pace, se non si difende e promuove la
vita, come ricordava Paolo VI: « Ogni delitto contro la vita è un attentato
contro la pace, specialmente se esso intacca il costume del popolo..., mentre
dove i diritti dell'uomo sono realmente professati e pubblicamente
riconosciuti e difesi, la pace diventa l'atmosfera lieta e operosa della
convivenza sociale ».(137) Il
« popolo della vita » gioisce di poter condividere con tanti altri il suo
impegno, così che sempre più numeroso sia il « popolo per la vita » e la
nuova cultura dell'amore e della solidarietà possa crescere per il vero bene
della città degli uomini.
102.
Al termine di questa Enciclica, lo sguardo ritorna spontaneamente al Signore
Gesù, il « Bambino nato per noi » (cf. Is 9, 5) per contemplare in lui
« la Vita » che « si è manifestata » (1 Gv 1, 2). Nel mistero di
questa nascita si compie l'incontro di Dio con l'uomo e ha inizio il cammino
del Figlio di Dio sulla terra, un cammino che culminerà nel dono della vita
sulla Croce: con la sua morte Egli vincerà la morte e diventerà per l'umanità
intera principio di vita nuova. Ad
accogliere « la Vita » a nome di tutti e a vantaggio di tutti è stata Maria,
la Vergine Madre, la quale ha quindi legami personali strettissimi con il Vangelo
della vita. Il consenso di Maria all'Annunciazione e la sua maternità si
trovano alla sorgente stessa del mistero della vita che Cristo è venuto a
donare agli uomini (cf. Gv 10, 10). Attraverso la sua accoglienza e la
sua cura premurosa per la vita del Verbo fatto carne, la vita dell'uomo è
stata sottratta alla condanna della morte definitiva ed eterna. Per
questo Maria « è madre di tutti coloro che rinascono alla vita, proprio come
la Chiesa di cui è modello. È madre di quella vita di cui tutti vivono.
Generando la vita, ha come rigenerato coloro che di questa vita dovevano
vivere ».(138) Contemplando
la maternità di Maria, la Chiesa scopre il senso della propria maternità e il
modo con cui è chiamata ad esprimerla. Nello stesso tempo l'esperienza
materna della Chiesa dischiude la prospettiva più profonda per comprendere
l'esperienza di Maria quale incomparabile modello di accoglienza e di cura
della vita. «
Nel cielo apparve un segno grandioso: una donna vestita di sole » (Ap 12, 1): la maternità di Maria e della
Chiesa 103.
Il rapporto reciproco tra il mistero della Chiesa e Maria si manifesta con chiarezza
nel « segno grandioso » descritto nell'Apocalisse: « Nel cielo apparve poi un
segno grandioso: una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e
sul suo capo una corona di dodici stelle » (12,1). In questo segno la Chiesa
riconosce una immagine del proprio mistero: immersa nella storia, essa è
consapevole di trascenderla, in quanto costituisce sulla terra il « germe e
l'inizio » del Regno di Dio.(139) Questo mistero la Chiesa lo vede realizzato
in modo pieno ed esemplare in Maria. È Lei la donna gloriosa, nella quale il
disegno di Dio si è potuto attuare con somma perfezione. La
« donna vestita di sole » — rileva il Libro dell'Apocalisse — « era incinta »
(12, 2). La Chiesa è pienamente consapevole di portare in sé il Salvatore del
mondo, Cristo Signore, e di essere chiamata a donarlo al mondo, rigenerando
gli uomini alla vita stessa di Dio. Non può però dimenticare che questa sua
missione è stata resa possibile dalla maternità di Maria, che ha concepito e
dato alla luce colui che è « Dio da Dio », « Dio vero da Dio vero ». Maria è
veramente Madre di Dio, la Theotokos nella cui maternità è esaltata al
sommo grado la vocazione alla maternità inscritta da Dio in ogni donna. Così
Maria si pone come modello per la Chiesa, chiamata ad essere la « nuova Eva
», madre dei credenti, madre dei « viventi » (cf. Gn 3, 20). La
maternità spirituale della Chiesa non si realizza — anche di questo la Chiesa
è consapevole — se non in mezzo alle doglie e al « travaglio del parto » (Ap
12, 2), cioè nella perenne tensione con le forze del male, che continuano
ad attraversare il mondo ed a segnare il cuore degli uomini, facendo
resistenza a Cristo: « In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini;
la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l'hanno accolta » (Gv 1,
4-5). Come
la Chiesa, anche Maria ha dovuto vivere la sua maternità nel segno della
sofferenza: « Egli è qui... segno di contraddizione perché siano svelati i
pensieri di molti cuori. E anche a te una spada trafiggerà l'anima » (Lc 2,
34-35). Nelle parole che, agli albori stessi dell'esistenza del Salvatore,
Simeone rivolge a Maria è sinteticamente raffigurato quel rifiuto nei
confronti di Gesù, e con Lui di Maria, che giungerà al suo vertice sul
Calvario. « Presso la croce di Gesù » (Gv 19, 25), Maria partecipa al
dono che il Figlio fa di sé: offre Gesù, lo dona, lo genera definitivamente
per noi. Il « sì » del giorno dell'Annunciazione matura in pienezza nel
giorno della Croce, quando per Maria giunge il tempo di accogliere e di
generare come figlio ogni uomo divenuto discepolo, riversando su di lui
l'amore redentore del Figlio: « Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a
lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: "Donna, ecco il tuo
figlio" » (Gv 19, 26). «
Il drago si pose davanti alla donna... per divorare il bambino appena nato » (Ap 12, 4): la vita insidiata dalle forze
del male 104.
Nel Libro dell'Apocalisse il « segno grandioso » della « donna » (12, 1) è
accompagnato da « un altro segno nel cielo »: « un enorme drago rosso » (12,
3), che raffigura Satana, potenza personale malefica, e insieme tutte le
forze del male che operano nella storia e contrastano la missione della
Chiesa. Anche
in questo Maria illumina la Comunità dei Credenti: l'ostilità delle forze del
male è, infatti, una sorda opposizione che, prima di toccare i discepoli di
Gesù, si rivolge contro sua Madre. Per salvare la vita del Figlio da quanti
lo temono come una pericolosa minaccia, Maria deve fuggire con Giuseppe e il
Bambino in Egitto (cf. Mt 2, 13-15). Maria
aiuta così la Chiesa a prendere coscienza che la vita è sempre al centro
di una grande lotta tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre. Il
drago vuole divorare « il bambino appena nato » (Ap 12, 4), figura di
Cristo, che Maria genera nella « pienezza del tempo » (Gal 4, 4) e che
la Chiesa deve continuamente offrire agli uomini nelle diverse epoche della
storia. Ma in qualche modo è anche figura di ogni uomo, di ogni bambino,
specie di ogni creatura debole e minacciata, perché — come ricorda il Concilio
— « con la sua incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni
uomo ».(140) Proprio nella « carne » di ogni uomo, Cristo continua a
rivelarsi e ad entrare in comunione con noi, così che il rifiuto della
vita dell'uomo, nelle sue diverse forme, è realmente rifiuto di
Cristo. È questa la verità affascinante ed insieme esigente che Cristo ci
svela e che la sua Chiesa ripropone instancabilmente: « Chi accoglie anche
uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me » (Mt 18, 5); « In
verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno di questi miei
fratelli più piccoli, l'avete fatto a me » (Mt 25, 40). «
Non ci sarà più la morte » (Ap 21,
4): lo splendore della risurrezione 105.
L'annunciazione dell'angelo a Maria è racchiusa tra queste parole
rassicuranti: « Non temere, Maria » e « Nulla è impossibile a Dio » (Lc 1,
30.37). In verità, tutta l'esistenza della Vergine Madre è avvolta dalla
certezza che Dio le è vicino e l'accompagna con la sua provvidente
benevolenza. Così è anche della Chiesa, che trova « un rifugio » (Ap 12,
6) nel deserto, luogo della prova ma anche della manifestazione dell'amore di
Dio verso il suo popolo (cf. Os 2, 16). Maria è vivente parola di
consolazione per la Chiesa nella sua lotta contro la morte. Mostrandoci il
Figlio, ella ci assicura che in lui le forze della morte sono già state
sconfitte: « Morte e vita si sono affrontate in un prodigioso duello. Il
Signore della vita era morto; ma ora, vivo, trionfa ».(141) L'Agnello
immolato vive con i segni della passione
nello splendore della risurrezione. Solo lui domina tutti gli eventi della
storia: ne scioglie i « sigilli » (cf. Ap 5, 1-10) e afferma, nel
tempo e oltre il tempo, il potere della vita sulla morte. Nella «
nuova Gerusalemme », ossia nel mondo nuovo, verso cui tende la storia degli
uomini, « non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno,
perché le cose di prima sono passate » (Ap 21, 4). E
mentre, come popolo pellegrinante, popolo della vita e per la vita,
camminiamo fiduciosi verso « un nuovo cielo e una nuova terra » (Ap 21,
1), volgiamo lo sguardo a Colei che è per noi « segno di sicura speranza e di
consolazione ».(142) O
Maria, Dato
a Roma, presso San Pietro, il 25 marzo, solennità dell'Annunciazione del
Signore, dell'anno 1995, decimosettimo di Pontificato. |
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