LETTERA
ENCICLICA
VERITATIS
SPLENDOR
DEL SOMMO PONTEFICE
GIOVANNI PAOLO II
A TUTTI I VESCOVI DELLA CHIESA CATTOLICA
CIRCA ALCUNE QUESTIONI FONDAMENTALI
DELL'INSEGNAMENTO MORALE DELLA CHIESA
Venerati Fratelli nell'Episcopato,
salute e Apostolica Benedizione!
Lo splendore della verità rifulge in tutte
le opere del Creatore e, in modo particolare, nell'uomo creato a immagine e
somiglianza di Dio (cf Gn 1,26): la verità illumina l'intelligenza e informa la
libertà dell'uomo, che in tal modo viene guidato a conoscere e ad amare il
Signore. Per questo il salmista prega: « Risplenda su di noi, Signore, la luce
del tuo volto » (Sal 4,7).
INTRODUZIONE
Gesù Cristo, luce vera che illumina
ogni uomo
1. Chiamati alla salvezza mediante la fede
in Gesù Cristo, « luce vera che illumina ogni uomo » (Gv 1,9), gli
uomini diventano « luce nel Signore » e « figli della luce » (Ef 5,8) e
si santificano con « l'obbedienza alla verità » (1 Pt 1,22).
Questa obbedienza non è sempre facile. In
seguito a quel misterioso peccato d'origine, commesso per istigazione di
Satana, che è « menzognero e padre della menzogna » (Gv 8,44), l'uomo è
permanentemente tentato di distogliere il suo sguardo dal Dio vivo e vero per
volgerlo agli idoli (cf 1 Ts 1,9), cambiando « la verità di Dio con la
menzogna » (Rm 1,25); viene allora offuscata anche la sua capacità di
conoscere la verità e indebolita la sua volontà di sottomettersi ad essa. E
così, abbandonandosi al relativismo e allo scetticismo (cf. Gv 18, 38),
egli va alla ricerca di una illusoria libertà al di fuori della stessa verità.
Ma nessuna tenebra di errore e di peccato
può eliminare totalmente nell'uomo la luce di Dio Creatore. Nella profondità
del suo cuore permane sempre la nostalgia della verità assoluta e la sete di
giungere alla pienezza della sua conoscenza. Ne è prova eloquente l'inesausta
ricerca dell'uomo in ogni campo e in ogni settore. Lo prova ancor più la sua
ricerca sul senso della vita. Lo sviluppo della scienza e della tecnica,
splendida testimonianza delle capacità dell'intelligenza e della tenacia degli
uomini, non dispensa dagli interrogativi religiosi ultimi l'umanità, ma
piuttosto la stimola ad affrontare le lotte più dolorose e decisive, quelle del
cuore e della coscienza morale.
2. Ogni uomo non può sfuggire alle domande
fondamentali: Che cosa devo fare? Come discernere il bene dal male? La
risposta è possibile solo grazie allo splendore della verità che rifulge
nell'intimo dello spirito umano, come attesta il salmista: « Molti dicono:
"Chi ci farà vedere il bene?". Risplenda su di noi, Signore, la luce
del tuo volto » (Sal 4,7).
La luce del volto di Dio splende in tutta la
sua bellezza sul volto di Gesù Cristo, « immagine del Dio invisibile » (Col 1,15),
« irradiazione della sua gloria » (Eb 1,3), « pieno di grazia e di
verità » (Gv 1,14): Egli è « la via, la verità e la vita » (Gv
14,6). Per questo la risposta decisiva ad ogni interrogativo dell'uomo, in
particolare ai suoi interrogativi religiosi e morali, è data da Gesù Cristo,
anzi è Gesù Cristo stesso, come ricorda il Concilio Vaticano II: « In realtà, solamente
nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo.
Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro, e cioè di Cristo
Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e
del suo amore, svela anche pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua
altissima vocazione ».1
Gesù Cristo, « la luce delle genti »,
illumina il volto della sua Chiesa, che Egli manda in tutto il mondo ad
annunciare il Vangelo ad ogni creatura (cf Mc 16,15).2 Così la Chiesa,
Popolo di Dio in mezzo alle nazioni,3 mentre è attenta alle nuove sfide della
storia e agli sforzi che gli uomini compiono nella ricerca del senso della
vita, offre a tutti la risposta che viene dalla verità di Gesù Cristo e del suo
Vangelo. È sempre viva nella Chiesa la coscienza del suo « dovere permanente di
scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che,
in un modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni
interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sul loro
reciproco rapporto ».4
3. I Pastori della Chiesa, in comunione col
Successore di Pietro, sono vicini ai fedeli in questo sforzo, li accompagnano e
li guidano con il loro magistero, trovando accenti sempre nuovi di amore e di
misericordia per rivolgersi non solo ai credenti, ma a tutti gli uomini di
buona volontà. Il Concilio Vaticano II rimane una testimonianza straordinaria
di questo atteggiamento della Chiesa che, « esperta in umanità »,5 si pone al
servizio di ogni uomo e di tutto il mondo.6
La Chiesa sa che l'istanza morale raggiunge
in profondità ogni uomo, coinvolge tutti, anche coloro che non conoscono Cristo
e il suo Vangelo e neppure Dio. Sa che proprio sulla strada della vita
morale è aperta a tutti la via della salvezza, come ha chiaramente
ricordato il Concilio Vaticano II, che così scrive: « Quelli che senza colpa
ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa, e tuttavia cercano sinceramente
Dio, e sotto l'influsso della grazia si sforzano di compiere con le opere la
volontà di Dio, conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono
conseguire la salvezza eterna ». Ed aggiunge: « Né la divina Provvidenza nega
gli aiuti necessari alla salvezza a coloro che senza colpa da parte loro non
sono ancora arrivati a una conoscenza esplicita di Dio, e si sforzano, non
senza la grazia divina, di condurre una vita retta. Poiché tutto ciò che di
buono e di vero si trova in loro, è ritenuto dalla Chiesa come una preparazione
al Vangelo, e come dato da Colui che illumina ogni uomo, affinché abbia
finalmente la vita ».7
L'oggetto della presente Enciclica
4. Sempre, ma soprattutto nel corso degli
ultimi due secoli, i Sommi Pontefici sia personalmente che insieme al Collegio
episcopale hanno sviluppato e proposto un insegnamento morale relativo ai
molteplici e differenti ambiti della vita umana. In nome e con
l'autorità di Gesù Cristo, essi hanno esortato, denunciato, spiegato; in
fedeltà alla loro missione, nelle lotte in favore dell'uomo, hanno confermato,
sostenuto, consolato; con la garanzia dell'assistenza dello Spirito di verità
hanno contribuito ad una migliore comprensione delle esigenze morali negli
ambiti della sessualità umana, della famiglia, della vita sociale, economica e
politica. Il loro insegnamento costituisce, all'interno della tradizione della
Chiesa e della storia dell'umanità, un continuo approfondimento della
conoscenza morale.8
Oggi, però, sembra necessario riflettere
sull'insieme dell'insegnamento morale della Chiesa, con lo scopo preciso di
richiamare alcune verità fondamentali della dottrina cattolica che nell'attuale
contesto rischiano di essere deformate o negate. Si è determinata, infatti, una
nuova situazione entro la stessa comunità cristiana, che ha conosciuto il
diffondersi di molteplici dubbi ed obiezioni, di ordine umano e psicologico,
sociale e culturale, religioso ed anche propriamente teologico, in merito agli
insegnamenti morali della Chiesa. Non si tratta più di contestazioni parziali e
occasionali, ma di una messa in discussione globale e sistematica del
patrimonio morale, basata su determinate concezioni antropologiche ed etiche.
Alla loro radice sta l'influsso più o meno nascosto di correnti di pensiero che
finiscono per sradicare la libertà umana dal suo essenziale e costitutivo
rapporto con la verità. Così si respinge la dottrina tradizionale sulla legge
naturale, sull'universalità e sulla permanente validità dei suoi precetti; si
considerano semplicemente inaccettabili alcuni insegnamenti morali della
Chiesa; si ritiene che lo stesso Magistero possa intervenire in materia morale
solo per « esortare le coscienze » e per « proporre i valori », ai quali
ciascuno ispirerà poi autonomamente le decisioni e le scelte della vita.
È da rilevare, in special modo, la dissonanza
tra la risposta tradizionale della Chiesa e alcune posizioni teologiche, diffuse
anche in Seminari e Facoltà teologiche, circa questioni della massima
importanza per la Chiesa e la vita di fede dei cristiani, nonché per la
stessa convivenza umana. In particolare ci si chiede: i comandamenti di Dio,
che sono scritti nel cuore dell'uomo e fanno parte dell'Alleanza, hanno davvero
la capacità di illuminare le scelte quotidiane delle singole persone e delle
società intere? È possibile obbedire a Dio e quindi amare Dio e il prossimo,
senza rispettare in tutte le circostanze questi comandamenti? È anche diffusa
l'opinione che mette in dubbio il nesso intrinseco e inscindibile che unisce
tra loro la fede e la morale, quasi che solo in rapporto alla fede si debbano
decidere l'appartenenza alla Chiesa e la sua unità interna, mentre si potrebbe
tollerare nell'ambito morale un pluralismo di opinioni e di comportamenti,
lasciati al giudizio della coscienza soggettiva individuale o alla diversità
dei contesti sociali e culturali.
5. In un tale contesto, tuttora attuale, è
maturata in me la decisione di scrivere — come già annunciai nella Lettera
apostolica Spiritus Domini, pubblicata il 1o agosto 1987 in occasione
del secondo centenario della morte di sant'Alfonso Maria de' Liguori —
un'Enciclica destinata a trattare « più ampiamente e più profondamente le
questioni riguardanti i fondamenti stessi della teologia morale »,9 fondamenti
che vengono intaccati da alcune tendenze odierne.
Mi rivolgo a voi, venerati Fratelli
nell'Episcopato, che condividete con me la responsabilità di custodire la «
sana dottrina » (2 Tm 4,3), con l'intenzione di precisare taluni
aspetti dottrinali che risultano decisivi per far fronte a quella che è senza
dubbio una vera crisi, tanto gravi sono le difficoltà che ne conseguono per
la vita morale dei fedeli e per la comunione nella Chiesa, come pure per
un'esistenza sociale giusta e solidale.
Se questa Enciclica, da tanto tempo attesa,
viene pubblicata solo ora, lo è anche perché è apparso conveniente farla
precedere dal Catechismo della Chiesa Cattolica, il quale contiene
un'esposizione completa e sistematica della dottrina morale cristiana. Il
Catechismo presenta la vita morale dei credenti nei suoi fondamenti e nei suoi
molteplici contenuti come vita dei « figli di Dio »: « Riconoscendo nella fede
la loro nuova dignità, i cristiani sono chiamati a comportarsi ormai "da
cittadini degni del Vangelo" (Fil 1,27). Mediante i sacramenti e la
preghiera, essi ricevono la grazia di Cristo e i doni del suo Spirito, che li
rendono capaci di questa vita nuova ».10 Nel rimandare pertanto al Catechismo «
come testo di riferimento sicuro ed autorevole per l'insegnamento della
dottrina cattolica »,11 l'Enciclica si limiterà ad affrontare alcune
questioni fondamentali dell'insegnamento morale della Chiesa, sotto forma
di un necessario discernimento su problemi controversi tra gli studiosi
dell'etica e della teologia morale. È questo l'oggetto specifico della presente
Enciclica, che intende esporre, sui problemi discussi, le ragioni di un
insegnamento morale fondato nella Sacra Scrittura e nella viva Tradizione
apostolica 12 mettendo in luce, nello stesso tempo, i presupposti e le
conseguenze delle contestazioni di cui tale insegnamento è fatto segno.
CAPITOLO I
«
MAESTRO, CHE COSA DEVO FARE DI BUONO...? »
(MT 19,16)
Cristo
e la risposta alla domanda di morale
« Un tale gli si avvicinò... » (Mt 19,16)
6. Il dialogo di Gesù con il giovane
ricco, riferito nel capitolo 19 del Vangelo di san Matteo, può costituire
un'utile traccia per riascoltare in modo vivo e incisivo il suo
insegnamento morale: « Ed ecco un tale gli si avvicinò e gli disse:
"Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?".
Egli rispose: "Perché mi interroghi su ciò che è buono? Uno solo è buono.
Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti". Ed egli chiese:
"Quali?". Gesù rispose: "Non uccidere, non commettere adulterio,
non rubare, non testimoniare il falso, onora il padre e la madre, ama il
prossimo tuo come te stesso. Il giovane gli disse: "Ho sempre osservato
tutte queste cose; che mi manca ancora?". Gli disse Gesù: "Se vuoi
essere perfetto, va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri e avrai un
tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi" » (Mt 19,16-21).13
7. « Ed ecco un tale... ». Nel
giovane, che il Vangelo di Matteo non nomina, possiamo riconoscere ogni uomo
che, coscientemente o no, si avvicina a Cristo, Redentore dell'uomo, e
gli pone la domanda morale. Per il giovane, prima che una domanda sulle
regole da osservare, è una domanda di pienezza di significato per la vita.
E, in effetti, è questa l'aspirazione che sta al cuore di ogni decisione e di
ogni azione umana, la segreta ricerca e l'intimo impulso che muove la libertà.
Questa domanda è ultimamente un appello al Bene assoluto che ci attrae e ci
chiama a sé, è l'eco di una vocazione di Dio, origine e fine della vita
dell'uomo. Proprio in questa prospettiva il Concilio Vaticano II ha invitato a
perfezionare la teologia morale in modo che la sua esposizione illustri
l'altissima vocazione che i fedeli hanno ricevuto in Cristo,14 unica risposta
che appaga pienamente il desiderio del cuore umano.
Perché gli uomini possano realizzare
questo « incontro » con Cristo, Dio ha voluto la sua Chiesa. Essa, infatti, « desidera servire quest'unico fine:
che ogni uomo possa ritrovare Cristo, perché Cristo possa, con ciascuno,
percorrere la strada della vita ».15
« Maestro, che cosa devo fare di buono
per ottenere la vita eterna? » (Mt
19,16)
8. Dalla profondità del cuore sorge la
domanda che il giovane ricco rivolge a Gesù di Nazaret, una domanda
essenziale e ineludibile per la vita di ogni uomo: essa riguarda, infatti,
il bene morale da praticare e la vita eterna. L'interlocutore di Gesù intuisce
che esiste una connessione tra il bene morale e il pieno compimento del proprio
destino. Egli è un pio israelita, cresciuto per così dire all'ombra della Legge
del Signore. Se pone questa domanda a Gesù, possiamo immaginare che non lo
faccia perché ignora la risposta contenuta nella Legge. È più probabile che il
fascino della persona di Gesù abbia fatto sorgere in lui nuovi interrogativi
intorno al bene morale. Egli sente l'esigenza di confrontarsi con Colui che
aveva iniziato la sua predicazione con questo nuovo e decisivo annuncio: « Il
tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo
» (Mc 1,15).
Occorre che l'uomo di oggi si volga
nuovamente verso Cristo per avere da Lui la risposta su ciò che è bene e ciò
che è male. Egli è il Maestro, il
Risorto che ha in sé la vita e che è sempre presente nella sua Chiesa e nel
mondo. È Lui che schiude ai fedeli il libro delle Scritture e, rivelando
pienamente la volontà del Padre, insegna la verità sull'agire morale. Alla
sorgente e al vertice dell'economia della salvezza, Alfa e Omega della storia
umana (cf Ap 1,8; 21,6; 22,13), Cristo rivela la condizione dell'uomo e
la sua vocazione integrale. Per questo, « l'uomo che vuol comprendere se stesso
fino in fondo non soltanto secondo immediati, parziali, spesso superficiali, e
perfino apparenti criteri e misure del proprio essere deve, con la sua
inquietudine e incertezza ed anche con la sua debolezza e peccaminosità, con la
sua vita e morte, avvicinarsi a Cristo. Egli deve, per così dire, entrare in
Lui con tutto se stesso, deve "appropriarsi" ed assimilare tutta la
realtà dell'Incarnazione e della Redenzione per ritrovare se stesso. Se in lui
si attua questo profondo processo, allora egli produce frutti non soltanto di
adorazione di Dio, ma anche di profonda meraviglia di se stesso ».16
Se vogliamo dunque penetrare nel cuore della
morale evangelica e coglierne il contenuto profondo e immutabile, dobbiamo
ricercare accuratamente il senso dell'interrogativo posto dal giovane ricco del
Vangelo e, più ancora, il senso della risposta di Gesù, lasciandoci guidare da
Lui. Gesù, infatti, con delicata attenzione pedagogica, risponde conducendo il
giovane quasi per mano, passo dopo passo, verso la verità piena.
« Uno solo è buono » (Mt 19,17)
9. Gesù dice: « Perché mi interroghi su ciò
che è buono? Uno solo è buono. Se vuoi entrare nella vita, osserva i
comandamenti » (Mt 19, 17). Nella versione degli evangelisti Marco e
Luca la domanda viene così formulata: « Perché mi chiami buono? Nessuno è
buono, se non Dio solo » (Mc 10,18; cf Lc 18,19).
Prima di rispondere alla domanda, Gesù vuole
che il giovane chiarisca a se stesso il motivo per cui lo interroga. Il «
Maestro buono » indica al suo interlocutore — e a tutti noi — che la risposta
all'interrogativo: « Che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna?
», può essere trovata soltanto rivolgendo la mente e il cuore a Colui che «
solo è buono »: « Nessuno è buono, se non Dio solo » (Mc 10,18; cf Lc
18,19). Solo Dio può rispondere alla domanda sul bene, perché Egli è il
Bene.
Interrogarsi sul bene, in effetti, significa rivolgersi in ultima
analisi verso Dio, pienezza della bontà. Gesù mostra che la domanda del
giovane è in realtà una domanda religiosa e che la bontà, che attrae e
al tempo stesso vincola l'uomo, ha la sua fonte in Dio, anzi è Dio stesso,
Colui che solo è degno di essere amato « con tutto il cuore, con tutta l'anima
e con tutta la mente » (Mt 22,37), Colui che è la sorgente della
felicità dell'uomo. Gesù riporta la questione dell'azione moralmente buona alle
sue radici religiose, al riconoscimento di Dio, unica bontà, pienezza della
vita, termine ultimo dell'agire umano, felicità perfetta.
10. La Chiesa, istruita dalle parole del
Maestro, crede che l'uomo, fatto a immagine del Creatore, redento con il sangue
di Cristo e santificato dalla presenza dello Spirito Santo, ha come fine
ultimo della sua vita l'essere « a lode della gloria » di Dio (cf Ef
1,12), facendo sì che ognuna delle sue azioni ne rifletta lo splendore. «
Conosci dunque te stessa, o anima bella: tu sei l'immagine di Dio —
scrive sant'Ambrogio —. Conosci te stesso, o uomo: tu sei la gloria di Dio
(1 Cor 11,7). Ascolta in che modo ne sei la gloria. Dice il profeta: La
tua scienza è divenuta mirabile provenendo da me (Sal 1381,6), cioè:
nella mia opera la tua maestà è più ammirabile, la tua sapienza viene esaltata
nella mente dell'uomo. Mentre considero me stesso, che tu scruti nei segreti
pensieri e negli intimi sentimenti, io riconosco i misteri della tua scienza.
Conosci dunque te stesso, o uomo, quanto grande tu sei e vigila su di te...
».17
Ciò che l'uomo è e deve fare si manifesta
nel momento in cui Dio rivela se stesso. Il Decalogo, infatti, si fonda su queste parole: « Io sono il Signore,
tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di
schiavitù: non avrai altri dèi di fronte a me » (Es 20,2-3). Nelle «
dieci parole » dell'Alleanza con Israele, e in tutta la Legge, Dio si fa
conoscere e riconoscere come Colui che « solo è buono »; come Colui che,
nonostante il peccato dell'uomo, continua a rimanere il « modello » dell'agire
morale, secondo la sua stessa chiamata: « Siate santi, perché io, il Signore,
Dio vostro, sono santo » (Lv 19,2); come Colui che, fedele al suo amore
per l'uomo, gli dona la sua Legge (cf Es 19,9-24 e 20, 18-21), per
ristabilire l'originaria armonia col Creatore e con tutto il creato, ed ancor
più per introdurlo nel suo amore: « Camminerò in mezzo a voi, sarò il vostro
Dio e voi sarete il mio popolo » (Lv 26,12).
La vita morale si presenta come risposta dovuta alle iniziative gratuite che l'amore di Dio
moltiplica nei confronti dell'uomo. È una risposta d'amore, secondo
l'enunciato che del comandamento fondamentale fa il Deuteronomio: «
Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo: Tu amerai
il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze.
Questi precetti, che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore; li ripeterai ai
tuoi figli » (Dt 6,47). Così, la vita morale, coinvolta nella gratuità
dell'amore di Dio, è chiamata a rifletterne la gloria: « Per chi ama Dio è
sufficiente piacere a Colui che egli ama: poiché non deve ricercarsi
nessun'altra ricompensa maggiore dello stesso amore; la carità, infatti,
proviene da Dio in maniera tale che Dio stesso è carità ».18
11. L'affermazione che « uno solo è buono »
ci rimanda così alla « prima tavola » dei comandamenti, che chiama a
riconoscere Dio come Signore unico e assoluto e a rendere culto a Lui solo a
motivo della sua infinita santità (cf Es 20,2-11). Il bene è
appartenere a Dio, obbedire a Lui, camminare umilmente con Lui praticando
la giustizia e amando la pietà (cf Mic 6,8). Riconoscere il Signore
come Dio è il nucleo fondamentale, il cuore della Legge, da cui discendono
e a cui sono ordinati i precetti particolari. Mediante la morale dei
comandamenti si manifesta l'appartenenza del popolo di Israele al Signore,
perché Dio solo è Colui che è buono. Questa è la testimonianza della Sacra
Scrittura, in ogni sua pagina permeata dalla viva percezione dell'assoluta
santità di Dio: « Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti » (Is 6,3).
Ma se Dio solo è il Bene, nessuno sforzo
umano, neppure l'osservanza più rigorosa dei comandamenti, riesce a « compiere
» la Legge, cioè a riconoscere il Signore come Dio e a rendergli l'adorazione
che a Lui solo è dovuta (cf Mt 4,10). Il « compimento » può venire
solo da un dono di Dio: è l'offerta di una partecipazione alla Bontà divina
che si rivela e si comunica in Gesù, colui che il giovane ricco chiama con le
parole « Maestro buono » (Mc 10,17; Lc 18,18). Ciò che ora il
giovane riesce forse solo a intuire, verrà alla fine pienamente rivelato da
Gesù stesso nell'invito: « Vieni e seguimi » (Mt 19,21).
« Se vuoi entrare nella vita, osserva
i comandamenti » (Mt
19,17)
12. Solo Dio può rispondere alla domanda sul
bene, perché Egli è il Bene. Ma Dio ha già dato risposta a questa domanda: lo
ha fatto creando l'uomo e ordinandolo con sapienza e con amore al suo
fine, mediante la legge inscritta nel suo cuore (cf Rm 2,15), la « legge
naturale ». Questa « altro non è che la luce dell'intelligenza infusa in noi da
Dio. Grazie ad essa conosciamo ciò che si deve compiere e ciò che si deve
evitare. Questa luce e questa legge Dio l'ha donata nella creazione ».19 Lo ha
fatto poi nella storia di Israele, in particolare con le « dieci parole
», ossia con i comandamenti del Sinai, mediante i quali Egli ha fondato
l'esistenza del popolo dell'Alleanza (cf Es 24) e l'ha chiamato ad
essere la sua « proprietà tra tutti i popoli », « una nazione santa » (Es 19,56),
che facesse risplendere la sua santità tra tutte le genti (cf Sap 18,4; Ez
20,41). Il dono del Decalogo è promessa e segno dell'Alleanza Nuova, quando
la legge sarà nuovamente e definitivamente scritta nel cuore dell'uomo (cf
Ger 31, 31-34), sostituendosi alla legge del peccato, che quel cuore aveva
deturpato (cf Ger 17,1). Allora verrà donato « un cuore nuovo » perché
in esso abiterà « uno spirito nuovo », lo Spirito di Dio (cf Ez
36,24-28).20
Per questo, dopo l'importante precisazione:
« Uno solo è buono », Gesù risponde al giovane: « Se vuoi entrare nella vita,
osserva i comandamenti » (Mt 19,17). Viene in tal modo enunciato uno
stretto legame tra la vita eterna e l'obbedienza ai comandamenti di Dio:
sono i comandamenti di Dio che indicano all'uomo la via della vita e ad essa
conducono. Dalla bocca stessa di Gesù, nuovo Mosè, vengono ridonati agli uomini
i comandamenti del Decalogo; egli stesso li conferma definitivamente e li
propone a noi come via e condizione di salvezza. Il comandamento si lega a
una promessa: nella Alleanza Antica oggetto della promessa era il possesso
di una terra in cui il popolo avrebbe potuto condurre un'esistenza nella
libertà e secondo giustizia (cf Dt 6,20-25); nella Alleanza Nuova
oggetto della promessa è il « Regno dei cieli », come Gesù afferma all'inizio
del « Discorso della Montagna » — discorso che contiene la formulazione più
ampia e completa della Legge Nuova (cf Mt 5-7) —, in evidente
connessione con il Decalogo affidato da Dio a Mosè sul monte Sinai. Alla
medesima realtà del Regno fa riferimento l'espressione « vita eterna », che è
partecipazione alla vita stessa di Dio: essa si realizza nella sua perfezione
solo dopo la morte, ma nella fede è già fin d'ora luce di verità, sorgente di
senso per la vita, incipiente partecipazione ad una pienezza nella sequela di
Cristo. Dice, infatti, Gesù ai discepoli dopo l'incontro con il giovane ricco:
« Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o
figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la
vita eterna » (Mt 19,29).
13. La risposta di Gesù non basta al
giovane, che insiste interrogando il Maestro circa i comandamenti da osservare:
« Ed egli chiese: "Quali?" » (Mt 19,18). Chiede che cosa deve
fare nella vita per rendere manifesto il riconoscimento della santità di Dio.
Dopo aver orientato lo sguardo del giovane verso Dio, Gesù gli ricorda i comandamenti
del Decalogo che riguardano il prossimo: « Gesù rispose: "Non uccidere,
non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, onora il padre
e la madre, ama il prossimo tuo come te stesso » (Mt 19,18-19).
Dal contesto del colloquio e, specialmente,
dal confronto del testo di Matteo con i passi paralleli di Marco e di Luca,
risulta che Gesù non intende elencare tutti e singoli i comandamenti necessari
per « entrare nella vita », ma, piuttosto, rimandare il giovane alla centralità
del Decalogo rispetto ad ogni altro precetto, quale interpretazione di ciò
che per l'uomo significa « Io sono il Signore, Dio tuo ». Non può sfuggire,
comunque, alla nostra attenzione quali comandamenti della Legge il Signore Gesù
ricorda al giovane: sono alcuni comandamenti che appartengono alla cosiddetta «
seconda tavola » del Decalogo, di cui compendio (cf Rm 13,8-10) e
fondamento è il comandamento dell'amore del prossimo: « Ama il prossimo
tuo come te stesso » (Mt 19,19; cf Mc 12,31). In questo
comandamento si esprime precisamente la singolare dignità della persona
umana, la quale è « la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa
».21 I diversi comandamenti del Decalogo non sono in effetti che la rifrazione
dell'unico comandamento riguardante il bene della persona, a livello dei
molteplici beni che connotano la sua identità di essere spirituale e corporeo,
in relazione con Dio, col prossimo e col mondo delle cose. Come leggiamo nel Catechismo
della Chiesa Cattolica, « i dieci comandamenti appartengono alla
rivelazione di Dio. Al tempo stesso ci insegnano la vera umanità dell'uomo.
Mettono in luce i doveri essenziali e, quindi, indirettamente, i diritti
fondamentali inerenti alla natura della persona umana ».22
I comandamenti, ricordati da Gesù al giovane
interlocutore, sono destinati a tutelare il bene della persona, immagine
di Dio, mediante la protezione dei suoi beni. « Non uccidere, non
commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso » sono regole
morali formulate in termini di divieto. I precetti negativi esprimono con
particolare forza l'esigenza insopprimibile di proteggere la vita umana, la
comunione delle persone nel matrimonio, la proprietà privata, la veridicità e
la buona fama.
I comandamenti rappresentano, quindi, la
condizione di base per l'amore del prossimo; essi ne sono al contempo la
verifica. Sono la prima tappa necessaria nel cammino verso la libertà, il
suo inizio: « La prima libertà — scrive sant'Agostino — consiste nell'essere
esenti da crimini... come sarebbero l'omicidio, l'adulterio, la fornicazione,
il furto, la frode, il sacrilegio e così via. Quando uno comincia a non avere
questi crimini (e nessun cristiano deve averli), comincia a levare il capo
verso la libertà, ma questo non è che l'inizio della libertà, non la libertà
perfetta... ».23
14. Ciò non significa, certo, che Gesù
intenda dare la precedenza all'amore del prossimo o addirittura separarlo
dall'amore di Dio. Lo testimonia il suo dialogo col dottore della Legge:
questi, che pone una domanda molto simile a quella del giovane, si sente
rimandato da Gesù ai due comandamenti dell'amore di Dio e dell'amore del
prossimo (cf Lc 10, 25-27) e invitato a ricordare che solo la loro
osservanza conduce alla vita eterna: « Fa' questo e vivrai » (Lc 10,28).
È comunque significativo che sia proprio il secondo di questi comandamenti a
suscitare la curiosità e l'interrogativo del dottore della Legge: « Chi è il
mio prossimo? » (Lc 10,29). Il Maestro risponde con la parabola del buon
Samaritano, la parabola-chiave per la piena comprensione del comandamento
dell'amore del prossimo (cf Lc 10,30-37).
I due comandamenti, dai quali « dipende
tutta la Legge e i Profeti » (Mt 22,40), sono profondamente uniti tra
loro e si compenetrano reciprocamente. La loro unità inscindibile è
testimoniata da Gesù con le parole e con la vita: la sua missione culmina nella
Croce che redime (cf Gv 3,14-15), segno del suo indivisibile amore al
Padre e all'umanità (cf Gv 13,1).
Sia l'Antico che il Nuovo Testamento sono
espliciti nell'affermare che senza l'amore per il prossimo, che si
concretizza nell'osservanza dei comandamenti, non è possibile l'autentico
amore per Dio. Lo scrive con vigore straordinario san Giovanni: « Se uno
dicesse: "Io amo Dio", e odiasse il suo fratello, è un mentitore.
Chi, infatti, non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non
vede » (1 Gv 4,20). L'evangelista fa eco alla predicazione morale di
Cristo, espressa in modo mirabile e inequivocabile nella parabola del buon
Samaritano (cf Lc 10, 19-37) e nel « discorso » sul giudizio finale (cf Mt
25,31-46).
15. Nel « Discorso della Montagna », che
costituisce la magna charta della morale evangelica,24 Gesù dice: « Non
pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per
abolire, ma per dare compimento » (Mt 5,17). Cristo è la chiave delle
Scritture: « Voi scrutate le Scritture: esse parlano di me » (cf Gv 5,39);
è il centro dell'economia della salvezza, la ricapitolazione dell'Antico e del
Nuovo Testamento, delle promesse della Legge e del loro compimento nel Vangelo;
è il legame vivente ed eterno tra l'Antica e la Nuova Alleanza. Commentando
l'affermazione di Paolo « Il termine della legge è Cristo » (Rm 10,4),
sant'Ambrogio scrive: « Fine non in quanto mancanza, ma in quanto pienezza della
legge: questa si compie in Cristo (plenitudo legis in Christo est), dal
momento che Egli è venuto non a dissolvere la legge, ma a portarla a
compimento. Allo stesso modo in cui c'è un Testamento Antico, ma ogni verità
sta all'interno del Nuovo Testamento, così avviene per la legge: quella che è
stata data per mezzo di Mosè è figura della vera legge. Dunque, quella legge
mosaica è copia della verità ».25
Gesù porta a compimento i comandamenti di
Dio, in particolare il comandamento
dell'amore del prossimo, interiorizzando e radicalizzando le sue esigenze:
l'amore del prossimo scaturisce da un cuore che ama, e che, proprio
perché ama, è disposto a vivere le esigenze più alte. Gesù mostra che i
comandamenti non devono essere intesi come un limite minimo da non
oltrepassare, ma piuttosto come una strada aperta per un cammino morale e
spirituale di perfezione, la cui anima è l'amore (cf Col 3,14). Così il
comandamento « Non uccidere » diventa l'appello ad un amore sollecito che
tutela e promuove la vita del prossimo; il precetto che vieta l'adulterio
diventa l'invito ad uno sguardo puro, capace di rispettare il significato
sponsale del corpo: « Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere;
chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si
adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio... Avete inteso che
fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque
guarda ad una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo
cuore » (Mt 5,21-22.27-28). È Gesù stesso il « compimento » vivo
della Legge in quanto egli ne realizza il significato autentico con il dono
totale di sé: diventa Lui stesso Legge vivente e personale, che invita
alla sua sequela, dà mediante lo Spirito la grazia di condividere la sua stessa
vita e il suo stesso amore e offre l'energia per testimoniarlo nelle scelte e
nelle opere (cf Gv 13,34-35).
« Se vuoi essere perfetto » (Mt 19,21)
16. La risposta sui comandamenti non
soddisfa il giovane, che interroga Gesù: « Ho sempre osservato tutte queste
cose; che cosa mi manca ancora? » (Mt 19,20). Non è facile dire
con buona coscienza: « ho sempre osservato tutte queste cose », se appena si
comprende l'effettiva portata delle esigenze racchiuse nella Legge di Dio. E
tuttavia, se anche gli è possibile dare una simile risposta, se anche ha
seguito l'ideale morale con serietà e generosità fin dalla fanciullezza, il
giovane ricco sa di essere ancora lontano dalla meta: davanti alla persona di
Gesù avverte che qualcosa ancora gli manca. È alla consapevolezza di questa
insufficienza che si rivolge Gesù nella sua ultima risposta: cogliendo la
nostalgia per una pienezza che superi l'interpretazione legalistica dei
comandamenti, il Maestro buono invita il giovane ad entrare nella strada
della perfezione: « Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che
possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi » (Mt
19,21).
Come già il precedente passo della risposta
di Gesù, così anche questo deve essere letto e interpretato nel contesto di
tutto il messaggio morale del Vangelo e, specialmente, nel contesto del
Discorso della Montagna, delle beatitudini (cf Mt 5,3-12), la prima
delle quali è proprio la beatitudine dei poveri, dei « poveri in spirito »,
come precisa san Matteo (Mt 5,3), ossia degli umili. In tal senso si può
dire che anche le beatitudini rientrano nello spazio aperto dalla risposta che
Gesù dà all'interrogativo del giovane: « Che cosa devo fare di buono per
ottenere la vita eterna? ». Infatti, ogni beatitudine promette, secondo una
particolare prospettiva, proprio quel « bene » che apre l'uomo alla vita
eterna, anzi che è la stessa vita eterna.
Le beatitudini non hanno propriamente come oggetto delle norme
particolari di comportamento, ma parlano di atteggiamenti e di disposizioni di
fondo dell'esistenza e quindi non coincidono esattamente con i comandamenti.
D'altra parte, non c'è separazione o estraneità tra le beatitudini e i
comandamenti: ambedue si riferiscono al bene, alla vita eterna. Il Discorso
della Montagna inizia con l'annuncio delle beatitudini, ma contiene anche il
riferimento ai comandamenti (cf Mt 5,20-48). Nello stesso tempo, tale
Discorso mostra l'apertura e l'orientamento dei comandamenti alla prospettiva
della perfezione che è propria delle beatitudini. Queste sono, anzitutto,
promesse, da cui derivano in forma indiretta anche indicazioni normative
per la vita morale. Nella loro profondità originale sono una specie di autoritratto
di Cristo e, proprio per questo, sono inviti alla sua sequela e alla
comunione di vita con Lui.26
17. Non sappiamo quanto il giovane del
Vangelo abbia compreso il profondo ed esigente contenuto della prima risposta
data da Gesù: « Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti »; è certo,
però, che l'impegno manifestato dal giovane nel rispetto di tutte le esigenze
morali dei comandamenti costituisce l'indispensabile terreno sul quale può
germogliare e maturare il desiderio della perfezione, cioè della realizzazione
del loro significato compiuto nella sequela di Cristo. Il colloquio di Gesù con
il giovane ci aiuta a cogliere le condizioni per la crescita morale
dell'uomo chiamato alla perfezione: il giovane, che ha osservato tutti i
comandamenti, si dimostra incapace con le sole sue forze di fare il passo
successivo. Per farlo occorrono una libertà umana matura: « Se vuoi », e il
dono divino della grazia: « Vieni e seguimi ».
La perfezione esige quella maturità nel
dono di sé, a cui è chiamata la libertà dell'uomo. Gesù indica al giovane i comandamenti come la prima
condizione irrinunciabile per avere la vita eterna; l'abbandono di tutto ciò
che il giovane possiede e la sequela del Signore assumono invece il carattere
di una proposta: « Se vuoi... ». La parola di Gesù rivela la particolare
dinamica della crescita della libertà verso la sua maturità e, nello stesso
tempo, attesta il fondamentale rapporto della libertà con la legge divina. La
libertà dell'uomo e la legge di Dio non si oppongono, ma, al contrario, si
richiamano a vicenda. Il discepolo di Cristo sa che la sua è una vocazione alla
libertà. « Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà » (Gal 5,13),
proclama con gioia e fierezza l'apostolo Paolo. Subito però precisa: « Purché
questa libertà non divenga pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la
carità siate a servizio gli uni degli altri » (ibid.). La fermezza con
la quale l'Apostolo si oppone a chi affida la propria giustificazione alla
Legge, non ha nulla da spartire con la « liberazione » dell'uomo dai precetti,
i quali al contrario sono al servizio della pratica dell'amore: « Perché chi
ama il suo simile ha adempiuto la legge. Infatti il precetto: Non commettere
adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare e qualsiasi altro
comandamento, si riassume in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te
stesso » (Rm 13,8-9). Lo stesso sant'Agostino, dopo aver parlato
dell'osservanza dei comandamenti come della prima imperfetta libertà, così
prosegue: « Perché, domanderà qualcuno, non ancora perfetta? Perché "sento
nelle mie membra un'altra legge in conflitto con la legge della mia
ragione"... Libertà parziale, parziale schiavitù: non ancora completa, non
ancora pura, non ancora piena è la libertà, perché ancora non siamo
nell'eternità. In parte conserviamo la debolezza, e in parte abbiamo raggiunto
la libertà. Tutti i nostri peccati nel battesimo sono stati distrutti, ma è
forse scomparsa la debolezza, dopo che è stata distrutta l'iniquità? Se essa
fosse scomparsa, si vivrebbe in terra senza peccato. Chi oserà affermare questo
se non chi è superbo, se non chi è indegno della misericordia del
liberatore?... Ora siccome è rimasta in noi qualche debolezza, oso dire che
nella misura in cui serviamo Dio siamo liberi, mentre nella misura in cui
seguiamo la legge del peccato siamo schiavi ».27
18. Chi vive « secondo la carne » sente la
legge di Dio come un peso, anzi come una negazione o comunque una restrizione
della propria libertà. Chi, invece, è animato dall'amore e « cammi- na secondo
lo Spirito » (Gal 5,16) e desidera servire gli altri trova nella legge
di Dio la via fondamentale e necessaria per praticare l'amore liberamente
scelto e vissuto. Anzi, egli avverte l'urgenza interiore — una vera e propria «
necessità », e non già una costrizione — di non fermarsi alle esigenze minime
della legge, ma di viverle nella loro « pienezza ». È un cammino ancora incerto
e fragile fin che siamo sulla terra, ma reso possibile dalla grazia che ci dona
di possedere la piena libertà dei figli di Dio (cf Rm 8, 21) e quindi di
rispondere nella vita morale alla sublime vocazione di essere « figli nel
Figlio ».
Questa vocazione all'amore perfetto non è
riservata solo ad una cerchia di persone. L'invito « va', vendi quello
che possiedi, dàllo ai poveri » con la promessa « avrai un tesoro nel cielo »riguarda
tutti, perché è una radicalizzazione del comandamento dell'amore del
prossimo, come il successivo invito « vieni e seguimi » è la nuova forma
concreta del comandamento dell'amore di Dio. I comandamenti e l'invito di Gesù
al giovane ricco sono al servizio di un'unica e indivisibile carità, che
spontaneamente tende alla perfezione, la cui misura è Dio solo: « Siate voi
dunque perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste » (Mt 5,48).
Nel Vangelo di Luca Gesù precisa ulteriormente il senso di questa perfezione: «
Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro » (Lc 6,36).
« Vieni e seguimi » (Mt 19,21)
19. La via e, nello stesso tempo, il
contenuto di questa perfezione consiste nella sequela Christi, nel
seguire Gesù, dopo aver rinunciato ai propri beni e a se stessi. Proprio questa
è la conclusione del colloquio di Gesù con il giovane: « Poi vieni e seguimi »
(Mt 19,21). È un invito la cui meravigliosa profondità sarà pienamente
percepita dai discepoli dopo la risurrezione di Cristo, quando lo Spirito Santo
li guiderà alla verità tutta intera (cf Gv 16,13).
È Gesù stesso che prende l'iniziativa e
chiama a seguirlo. L'appello è rivolto innanzi tutto a coloro ai quali egli
affida una particolare missione, a cominciare dai Dodici; ma appare anche
chiaro che essere discepoli di Cristo è la condizione di ogni credente (cf At
6,1). Per questo, seguire Cristo è il fondamento essenziale e originale
della morale cristiana: come il popolo d'Israele seguiva Dio che lo
conduceva nel deserto verso la Terra promessa (cf Es 13,21), così il
discepolo deve seguire Gesù, verso il quale il Padre stesso lo attira (cf Gv
6,44).
Non si tratta qui soltanto di mettersi in
ascolto di un insegnamento e di accogliere nell'obbedienza un comandamento. Si
tratta, più radicalmente, di aderire alla persona stessa di Gesù, di
condividere la sua vita e il suo destino, di partecipare alla sua obbedienza
libera e amorosa alla volontà del Padre. Seguendo, mediante la risposta della
fede, colui che è la Sapienza incarnata, il discepolo di Gesù diventa veramente
discepolo di Dio (cf Gv 6,45). Gesù, infatti, è la luce del
mondo, la luce della vita (cf Gv 8,12); è il pastore che guida e nutre
le pecore (cf Gv 10,11-16), è la via, la verità e la vita (cf Gv 14,6),
è colui che conduce al Padre, al punto che vedere lui, il Figlio, è vedere il
Padre (cf Gv 14,6-10). Pertanto imitare il Figlio, « l'immagine del Dio
invisibile » (Col 1,15), significa imitare il Padre.
20. Gesù chiede di seguirlo e di imitarlo
sulla strada dell'amore, di un amore che si dona totalmente ai fratelli per
amore di Dio: « Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli
altri, come io vi ho amati » (Gv 15,12). Questo « come » esige l'imitazione
di Gesù, del suo amore di cui la lavanda dei piedi è segno: « Se dunque io,
il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i
piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l'esempio, perché come ho
fatto io, facciate anche voi » (Gv 13,14-15). L'agire di Gesù e la sua
parola, le sue azioni e i suoi precetti costituiscono la regola morale della
vita cristiana. Infatti, queste sue azioni e, in modo particolare, la passione
e la morte in croce, sono la viva rivelazione del suo amore per il Padre e per
gli uomini. Proprio questo amore Gesù chiede che sia imitato da quanti lo
seguono. Esso è il comandamento « nuovo »: « Vi do un comandamento
nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così
amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei
discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri » (Gv 13,34-35).
Questo « come » indica anche la misura con
la quale Gesù ha amato, e con la quale devono amarsi tra loro i suoi discepoli.
Dopo aver detto: « Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli
altri, come io vi ho amati » (Gv 15,12), Gesù prosegue con le
parole che indicano il dono sacrificale della sua vita sulla croce, quale
testimonianza di un amore « sino alla fine » (Gv 13,1): « Nessuno ha un
amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici » (Gv 15,13).
Chiamando il giovane a seguirlo sulla strada
della perfezione, Gesù gli chiede di essere perfetto nel comandamento
dell'amore, nel « suo » comandamento: di inserirsi nel movimento della sua
donazione totale, di imitare e di rivivere l'amore stesso del Maestro « buono
», di colui che ha amato « sino alla fine ». È quanto Gesù chiede ad ogni uomo
che vuole mettersi alla sua sequela: « Se qualcuno vuol venire dietro a me,
rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua » (Mt 16,24).
21. Seguire Cristo non è una
imitazione esteriore, perché tocca l'uomo nella sua profonda interiorità.
Essere discepoli di Gesù significa essere resi conformi a Lui, che si è
fatto servo fino al dono di sé sulla croce (cf Fil 2,5-8). Mediante la
fede, Cristo abita nel cuore del credente (cf Ef 3,17), e così il
discepolo è assimilato al suo Signore e a Lui configurato. Questo è frutto
della grazia, della presenza operante dello Spirito Santo in noi.
Inserito in Cristo, il cristiano diventa membro
del suo Corpo, che è la Chiesa (cf 1 Cor 12,13.27). Sotto l'impulso
dello Spirito, il Battesimo configura radicalmente il fedele a Cristo nel
mistero pasquale della morte e risurrezione, lo « riveste » di Cristo (cf Gal
3,27): « Rallegriamoci e ringraziamo — esclama sant'Agostino rivolgendosi
ai battezzati —: siamo diventati non solo cristiani, ma Cristo (...). Stupite e
gioite: Cristo siamo diventati! ».28 Morto al peccato, il battezzato riceve la
vita nuova (cf Rm 6,3-11): vivente per Dio in Cristo Gesù, è chiamato a
camminare secondo lo Spirito e a manifestarne nella vita i frutti (cf Gal 5,16-25).
La partecipazione poi all'Eucaristia, sacramento della Nuova Alleanza (cf 1
Cor 11,23-29), è vertice dell'assimilazione a Cristo, fonte di « vita
eterna » (cf Gv 6,51-58), principio e forza del dono totale di sé, di
cui Gesù secondo la testimonianza tramandata da Paolo comanda di far memoria
nella celebrazione e nella vita: « Ogni volta che mangiate di questo pane e
bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga
» (1 Cor 11,26).
« A Dio tutto è possibile » (Mt 19,26)
22. Amara è la conclusione del colloquio di
Gesù con il giovane ricco: « Udito questo, il giovane se ne andò triste; poiché
aveva molte ricchezze » (Mt 19,22). Non solo l'uomo ricco, ma anche gli
stessi discepoli sono spaventati dall'appello di Gesù alla sequela, le cui
esigenze superano le aspirazioni e le forze umane: « A queste parole i
discepoli rimasero costernati e chiesero: "Chi si potrà dunque
salvare?" » (Mt 19,25). Ma il Maestro rimanda alla potenza di
Dio: « Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile » (Mt
19,26).
Nel medesimo capitolo del Vangelo di Matteo
(19,3-10), Gesù, interpretando la Legge mosaica sul matrimonio, rifiuta il
diritto al ripudio, richiamando ad un « principio » più originario e più
autorevole rispetto alla Legge di Mosè: il disegno nativo di Dio sull'uomo, un
disegno al quale l'uomo dopo il peccato è diventato inadeguato: « Per la
durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma
da principio non fu così » (Mt 19,8). Il richiamo al « principio »
sgomenta i discepoli, che commentano con queste parole: « Se questa è la
condizione dell'uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi » (Mt
19,10). E Gesù, riferendosi in modo specifico al carisma del celibato « per il
Regno dei cieli » (Mt 19,12), ma enunciando una regola generale, rimanda
alla nuova e sorprendente possibilità aperta all'uomo dalla grazia di Dio: «
Egli rispose loro: "Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è
stato concesso" » (Mt 19,11).
Imitare e rivivere l'amore di Cristo non è
possibile all'uomo con le sole sue forze. Egli diventa capace di questo
amore soltanto in virtù di un dono ricevuto. Come il Signore Gesù riceve l'amore
del Padre suo, così egli a sua volta lo comunica gratuitamente ai discepoli: «
Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi. Rimanete nel mio amore »
(Gv 15,9). Il dono di Cristo è il suo Spirito, il cui primo «
frutto » (cf Gal 5,22) è la carità: « L'amore di Dio è stato riversato
nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci è stato dato » (Rm 5,5).
Sant'Agostino si chiede: « È l'amore che ci fa osservare i comandamenti, oppure
è l'osservanza dei comandamenti che fa nascere l'amore? ». E risponde: « Ma chi
può mettere in dubbio che l'amore precede l'osservanza? Chi infatti non ama è
privo di motivazioni per osservare i comandamenti ».29
23. « La legge dello Spirito che dà vita in
Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte » (Rm 8,2).
Con queste parole l'apostolo Paolo ci introduce a considerare nella prospettiva
della storia della Salvezza che si compie in Cristo il rapporto tra la Legge
(antica) e la grazia (Legge nuova). Egli riconosce il ruolo
pedagogico della Legge, la quale, permettendo all'uomo peccatore di misurare la
sua impotenza e togliendogli la presunzione dell'autosufficienza, lo apre
all'invocazione e all'accoglienza della « vita nello Spirito ». Solo in questa
vita nuova è possibile la pratica dei comandamenti di Dio. Infatti, è per la
fede in Cristo che noi siamo resi giusti (cf Rm 3,28): la « giustizia »
che la Legge esige, ma non può dare a nessuno, ogni credente la trova
manifestata e concessa dal Signore Gesù. Così mirabilmente ancora sant'Agostino
sintetizza la dialettica paolina di legge e grazia: « La legge, perciò, è stata
data perché si invocasse la grazia; la grazia è stata data perché si osservasse
la legge ».30
L'amore e la vita secondo il Vangelo non
possono essere pensati prima di tutto nella forma del precetto, perché ciò che
essi domandano va al di là delle forze dell'uomo: essi sono possibili solo come
frutto di un dono di Dio, che risana e guarisce e trasforma il cuore dell'uomo
per mezzo della sua grazia: « Perché la legge fu data per mezzo di Mosè, la
grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo » (Gv 1,17). Per
questo la promessa della vita eterna è legata al dono della grazia, e il dono
dello Spirito che abbiamo ricevuto è già « caparra della nostra eredità » (Ef
1,14).
24. Si rivela così il volto autentico e
originale del comandamento dell'amore e della perfezione alla quale esso è
ordinato: si tratta di una possibilità aperta all'uomo esclusivamente dalla
grazia, dal dono di Dio, dal suo amore. D'altra parte, proprio la coscienza
di aver ricevuto il dono, di possedere in Gesù Cristo l'amore di Dio, genera e
sostiene la risposta responsabile di un amore pieno verso Dio e tra i
fratelli, come con insistenza ricorda l'apostolo Giovanni nella sua prima Lettera:
« Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l'amore è da Dio: chiunque
ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché
Dio è amore... Carissimi, se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni
gli altri... Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo » (1 Gv 4,7-8.11.19).
Questa connessione inscindibile tra la
grazia del Signore e la libertà dell'uomo, tra il dono e il compito, è stata
espressa in termini semplici e profondi da sant'Agostino, che così prega: « Da
quod iubes et iube quod vis » (dona ciò che comandi e comanda ciò che
vuoi).31
Il dono non diminuisce, ma rafforza
l'esigenza morale dell'amore: «
Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo
e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato » (1 Gv 3,23).
Si può « rimanere » nell'amore solo a condizione di osservare i comandamenti,
come afferma Gesù: « Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio
amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo
amore » (Gv 15,10).
Raccogliendo quanto è al cuore del messaggio
morale di Gesù e della predicazione degli Apostoli, e riproponendo in una
sintesi mirabile la grande tradizione dei Padri d'Oriente e d'Occidente — in
particolare di sant'Agostino — 32 san Tommaso ha potuto scrivere che la
Legge Nuova è la grazia dello Spirito Santo donata mediante la fede in
Cristo.33 I precetti esterni, di cui pure il Vangelo parla, dispongono a
questa grazia o ne dispiegano gli effetti nella vita. Infatti, la Legge Nuova
non si contenta di dire ciò che si deve fare, ma dona anche la forza di « fare
la verità » (cf Gv 3,21). Nello stesso tempo san Giovanni Crisostomo ha
osservato che la Legge Nuova fu promulgata proprio quando lo Spirito Santo discese
dal cielo nel giorno di Pentecoste e che gli Apostoli « non discesero dal monte
portando, come Mosè, delle tavole di pietra nelle loro mani; ma se ne venivano
portando lo Spirito Santo nei loro cuori..., divenuti mediante la sua grazia
una legge viva, un libro animato ».34
« Ecco, io sono con voi tutti i
giorni, sino alla fine del mondo » (Mt 28,20)
25. Il colloquio di Gesù con il giovane
ricco continua, in un certo senso, in ogni epoca della storia, anche oggi. La
domanda: « Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna? »
sboccia nel cuore di ogni uomo, ed è sempre e solo Cristo a offrire la risposta
piena e risolutiva. Il Maestro, che insegna i comandamenti di Dio, che invita
alla sequela e dà la grazia per una vita nuova, è sempre presente e operante in
mezzo a noi, secondo la promessa: « Ecco, io sono con voi tutti i giorni, sino
alla fine del mondo » (Mt 28,20). La contemporaneità di Cristo
all'uomo di ogni tempo si realizza nel suo corpo, che è la Chiesa. Per
questo il Signore promise ai suoi discepoli lo Spirito Santo, che avrebbe loro
« ricordato » e fatto comprendere i suoi comandamenti (cf Gv 14,26) e
sarebbe stato il principio sorgivo di una vita nuova nel mondo (cf Gv 3,5-8;
Rm 8,1-13).
Le prescrizioni morali, impartite da Dio
nell'Antica Alleanza e giunte alla loro perfezione in quella Nuova ed Eterna
nella persona stessa del Figlio di Dio fatto uomo, devono essere fedelmente
custodite e permanentemente attualizzate nelle differenti culture lungo il
corso della storia. Il compito della loro interpretazione è stato affidato da
Gesù agli Apostoli e ai loro successori, con l'assistenza speciale dello
Spirito di verità: « Chi ascolta voi ascolta me » (Lc 10,16). Con la
luce e la forza di questo Spirito gli Apostoli hanno adempiuto la missione di
predicare il Vangelo e di indicare la « via » del Signore (cf At 18,25),
insegnando anzitutto la sequela e l'imitazione di Cristo: « Per me il vivere è
Cristo » (Fil 1,21).
26. Nella catechesi morale degli
Apostoli, accanto ad esortazioni e ad indicazioni legate al contesto
storico e culturale, c'è un insegnamento etico con precise norme di
comportamento. È quanto emerge nelle loro Lettere, che contengono
l'interpretazione, guidata dallo Spirito Santo, dei precetti del Signore da
vivere nelle diverse circostanze culturali (cf Rm 12-15; 1 Cor 11-14;
Gal 5-6; Ef 4-6; Col 3-4; 1 Pt e Gc).
Incaricati di predicare il Vangelo, gli Apostoli fin dalle origini della
Chiesa, in virtù della loro responsabilità pastorale, hanno vegliato sulla rettitudine
della condotta dei cristiani,35 allo stesso modo in cui hanno vegliato
sulla purezza della fede e sulla trasmissione dei doni divini mediante i
Sacramenti.36 I primi cristiani, provenienti sia dal popolo giudaico sia dalle
nazioni, differivano dai pagani non solo per la loro fede e per la loro
liturgia, ma anche per la testimonianza della loro condotta morale, ispirata
alla Legge Nuova.37 La Chiesa, infatti, è insieme comunione di fede e di vita;
la sua norma è « la fede che opera per mezzo della carità » (Gal 5,6).
Nessuna lacerazione deve attentare all'armonia
tra la fede e la vita: l'unità della Chiesa è ferita non solo dai cristiani
che rifiutano o stravolgono le verità della fede, ma anche da quelli che
misconoscono gli obblighi morali a cui li chiama il Vangelo (cf 1 Cor 5,9-13).
Con decisione gli Apostoli hanno rifiutato ogni dissociazione tra l'impegno del
cuore e i gesti che lo esprimono e verificano (cf 1 Gv 2,3-6). E fin dai
tempi apostolici i Pastori della Chiesa hanno denunciato con chiarezza i modi
di agire di coloro che erano fautori di divisione con i loro insegnamenti o con
i loro comportamenti.38
27. Promuovere e custodire, nell'unità della
Chiesa, la fede e la vita morale è il compito affidato da Gesù agli Apostoli
(cf Mt 28,19-20), che prosegue nel ministero dei loro successori. È
quanto si ritrova nella viva Tradizione, mediante la quale — come
insegna il Concilio Vaticano II — « la Chiesa, nella sua dottrina, nella sua
vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che
essa è, tutto ciò che essa crede. Questa Tradizione, che trae origine dagli
Apostoli, progredisce nella Chiesa sotto l'assistenza dello Spirito Santo ».39
Nello Spirito la Chiesa accoglie e trasmette la Scrittura come testimonianza delle
« grandi cose » che Dio opera nella storia (cf Lc 1,49), confessa per
bocca dei Padri e dei Dottori la verità del Verbo fatto carne, ne mette in
pratica i precetti e la carità nella vita dei Santi e delle Sante e nel
sacrificio dei Martiri, ne celebra la speranza nella Liturgia: mediante la
stessa Tradizione i cristiani ricevono « la viva voce del Vangelo »,40 come
espressione fedele della sapienza e della volontà divina.
All'interno della Tradizione si sviluppa,
con l'assistenza dello Spirito Santo, l'interpretazione autentica della
legge del Signore. Lo stesso Spirito, che è all'origine della Rivelazione dei
comandamenti e degli insegnamenti di Gesù, garantisce che vengano santamente
custoditi, fedelmente esposti e correttamente applicati nel variare dei tempi e
delle circostanze. Questa « attualizzazione » dei comandamenti è segno e frutto
di una più profonda penetrazione della Rivelazione e di una comprensione alla
luce della fede delle nuove situazioni storiche e culturali. Essa, tuttavia,
non può che confermare la permanente validità della Rivelazione e inserirsi nel
solco dell'interpretazione che ne dà la grande Tradizione di insegnamento e di
vita della Chiesa, di cui sono testimoni la dottrina dei Padri, la vita dei
Santi, la liturgia della Chiesa e l'insegnamento del Magistero.
In particolare, poi, come afferma il
Concilio, « l'ufficio d'interpretare autenticamente la parola di Dio scritta
o trasmessa è stato affidato al solo Magistero vivo della Chiesa, la cui
autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo ».41 In tal modo la Chiesa,
nella sua vita e nel suo insegnamento, si presenta come « colonna e sostegno
della verità » (1 Tm 3,15), anche della verità circa l'agire morale.
Infatti, « è compito della Chiesa annunziare sempre e dovunque i principi
morali anche circa l'ordine sociale, e così pure pronunciare il giudizio su
qualsiasi realtà umana, in quanto lo esigano i diritti fondamentali della
persona umana o la salvezza delle anime ».42
Proprio sulle domande che caratterizzano
oggi la discussione morale e intorno alle quali si sono sviluppate nuove
tendenze e teorie, il Magistero, in fedeltà a Gesù Cristo e in continuità con
la tradizione della Chiesa, sente più urgente il dovere di offrire il proprio
discernimento e insegnamento, per aiutare l'uomo nel suo cammino verso la
verità e la libertà.
CAPITOLO
II
«
NON CONFORMATEVI ALLA MENTALITÀ
DI QUESTO MONDO »
(Rm 12,2)
La
chiesa e il discernimento di alcune tendenze della teologia morale odierna
Insegnare ciò che è secondo la sana
dottrina (cf Tt 2,1)
28. La meditazione del dialogo tra Gesù e il
giovane ricco ci ha permesso di raccogliere i contenuti essenziali della
Rivelazione dell'Antico e del Nuovo Testamento circa l'agire morale. Essi sono:
la subordinazione dell'uomo e del suo agire a Dio, Colui che « solo è
buono »; il rapporto tra il bene morale degli atti umani e la vita
eterna; la sequela di Cristo, che apre all'uomo la prospettiva
dell'amore perfetto; ed infine il dono dello Spirito Santo, fonte e
risorsa della vita morale della « creatura nuova » (cf 2 Cor 5,17).
Nella sua riflessione morale la Chiesa ha
sempre avuto presenti le parole che Gesù ha rivolto al giovane ricco. La Sacra
Scrittura, infatti, rimane la sorgente viva e feconda della dottrina morale
della Chiesa, come ha ricordato il Concilio Vaticano II: « Il Vangelo 1...
fonte di ogni verità salutare e di ogni regola morale ».43 Essa ha custodito
fedelmente ciò che la parola di Dio insegna, non solo circa le verità da
credere, ma anche circa l'agire morale, cioè l'agire che piace a Dio (cf 1
Ts 4,1), realizzando uno sviluppo dottrinale analogo a quello che si
è avuto nell'ambito delle verità della fede. Assistita dallo Spirito Santo che
la guida alla verità tutta intera (cf Gv 16,13), la Chiesa non ha
cessato, e non può mai cessare, di scrutare il « mistero del Verbo incarnato »,
nel quale « trova vera luce il mistero dell'uomo ».44
29. La riflessione morale della Chiesa,
operata sempre nella luce di Cristo, il « Maestro buono », si è sviluppata
anche nella forma specifica della scienza teologica, detta « teologia morale
», una scienza che accoglie e interroga la rivelazione divina e insieme
risponde alle esigenze della ragione umana. La teologia morale è una
riflessione che riguarda la « moralità », ossia il bene e il male degli atti
umani e della persona che li compie, e in tal senso è aperta a tutti gli
uomini; ma è anche « teologia », in quanto riconosce il principio e il fine
dell'agire morale in Colui che « solo è buono » e che, donandosi all'uomo in
Cristo, gli offre la beatitudine della vita divina.
Il Concilio Vaticano II ha invitato gli
studiosi a porre « speciale cura nel perfezionare la teologia morale in
modo che la sua esposizione scientifica, maggiormente fondata sulla Sacra
Scrittura, illustri l'altezza della vocazione dei fedeli in Cristo e il loro
obbligo di apportare frutto nella carità per la vita del mondo ».45 Lo stesso
Concilio ha invitato i teologi, « nel rispetto dei metodi e delle esigenze
proprie della scienza teologica, a ricercare modi sempre più adatti di comunicare
la dottrina agli uomini della loro epoca, perché altro è il deposito o le
verità della fede, altro è il modo con cui vengono enunciate, rimanendo pur
sempre lo stesso il significato e il senso profondo ».46 Di qui l'ulteriore
invito, esteso a tutti i fedeli, ma rivolto in particolare ai teologi: « I
fedeli dunque vivano in strettissima unione con gli uomini del loro tempo, e si
sforzino di penetrare perfettamente il loro modo di pensare e di sentire, di
cui la cultura è espressione ».47
Lo sforzo di molti teologi, sostenuti
dall'incoraggiamento del Concilio, ha già dato i suoi frutti con interessanti e
utili riflessioni intorno alle verità della fede da credere e da applicare
nella vita, presentate in forma più corrispondente alla sensibilità e agli
interrogativi degli uomini del nostro tempo. La Chiesa e, in particolare, i
Vescovi, ai quali Gesù Cristo ha affidato innanzitutto il servizio
dell'insegnamento, accolgono con gratitudine tale sforzo ed incoraggiano i
teologi a un ulteriore lavoro, animato da un profondo e autentico timore del
Signore, che è il principio della sapienza (cf Prv 1,7).
Nello stesso tempo, nell'ambito delle
discussioni teologiche postconciliari si sono sviluppate però alcune
interpretazioni della morale cristiana che non sono compatibili con la « sana
dottrina » (2 Tm 4,3). Certamente il Magistero della Chiesa non
intende imporre ai fedeli nessun particolare sistema teologico né tanto meno
filosofico, ma, per « custodire santamente ed esporre fedelmente » la Parola di
Dio,48 esso ha il dovere di dichiarare l'incompatibilità di certi orientamenti
del pensiero teologico o di talune affermazioni filosofiche con la verità
rivelata.49
30. Rivolgendomi con questa Enciclica a voi,
Confratelli nell'Episcopato, intendo enunciare i principi necessari per il
discernimento di ciò che è contrario alla « sana dottrina », richiamando
quegli elementi dell'insegnamento morale della Chiesa che sembrano oggi
particolarmente esposti all'errore, all'ambiguità o alla dimenticanza. Sono,
peraltro, gli elementi dai quali dipende « la risposta agli oscuri enigmi della
condizione umana che ieri come oggi turbano profondamente il cuore dell'uomo:
la natura dell'uomo, il senso e il fine della nostra vita, il bene e il
peccato, l'origine e il fine del dolore, la via per raggiungere la vera
felicità, la morte, il giudizio e la sanzione dopo la morte, infine l'ultimo e
ineffabile mistero che circonda la nostra esistenza, dal quale noi traiamo
origine e verso il quale tendiamo ».50
Questi e altri interrogativi, come: cosa è
la libertà e qual è la sua relazione con la verità contenuta nella legge di
Dio? qual è il ruolo della coscienza nella formazione del profilo morale
dell'uomo? come discernere, in conformità con la verità sul bene, i diritti e i
doveri concreti della persona umana?, si possono riassumere nella fondamentale
domanda che il giovane del Vangelo pose a Gesù: « Maestro, che cosa devo
fare di buono per ottenere la vita eterna? ». Inviata da Gesù a predicare il
Vangelo e ad « ammae- strare tutte le nazioni..., insegnando loro ad osservare
tutto ciò » che egli ha comandato (cf Mt 28,19-20),la Chiesa
ripropone, ancora oggi, la risposta del Maestro: questa possiede una luce e
una forza capaci di risolvere anche le questioni più discusse e complesse.
Questa stessa luce e forza sollecitano la Chiesa a sviluppare costantemente la
riflessione non solo dogmatica, ma anche morale in un ambito interdisciplinare,
così com'è necessario specialmente per i nuovi problemi.51
È sempre in questa medesima luce e forza che
il Magistero della Chiesa compie la sua opera di discernimento,
accogliendo e rivivendo il monito che l'apostolo Paolo rivolgeva a Timoteo: «
Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù che verrà a giudicare i vivi e i
morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annunzia la parola, insisti in
ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con
ogni magnanimità e dottrina. Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà
più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si
circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto
alla verità per volgersi alle favole. Tu però vigila attentamente, sappi
sopportare le sofferenze, compi la tua opera di annunziatore del Vangelo,
adempi il tuo ministero » (2 Tm 4,1-5; cf Tt 1,10.13-14).
« Conoscerete la verità e la verità vi
farà liberi » (Gv 8,32)
31. I problemi umani più dibattuti e
diversamente risolti nella riflessione morale contemporanea si ricollegano, sia
pure in vari modi, ad un problema cruciale: quello della libertà dell'uomo.
Non c' è dubbio che il nostro tempo ha
acquisito una percezione particolarmente viva della libertà. « In questa nostra
età gli uomini diventano sempre più consapevoli della dignità della persona
umana », come costatava già la dichiarazione conciliareDignitatis humanae sulla
libertà religiosa.52 Da qui l'esigenza che « gli uomini nell'agire seguano la
loro iniziativa e godano di una libertà responsabile, non mossi da coercizione
bensì guidati dalla coscienza del dovere ».53 In particolare il diritto alla
libertà religiosa e al rispetto della coscienza nel suo cammino verso la verità
è sentito sempre più come fondamento dei diritti della persona, considerati nel
loro insieme.54
Così, il senso più acuto della dignità della
persona umana e della sua unicità, come anche del rispetto dovuto al cammino
della coscienza, costituisce certamente un'acquisizione positiva della cultura
moderna. Questa percezione, in se stessa autentica, ha trovato molteplici
espressioni, più o meno adeguate, di cui alcune però si discostano dalla verità
sull'uomo come creatura e immagine di Dio ed esigono pertanto di essere
corrette o purificate alla luce della fede.55
32. In alcune correnti del pensiero moderno
si è giunti adesaltare la libertà al punto da farne un assoluto, che sarebbe
la sorgente dei valori. In questa direzione si muovono le dottrine che
perdono il senso della trascendenza o quelle che sono esplicitamente atee. Si
sono attribuite alla coscienza individuale le prerogative di un'istanza suprema
del giudizio morale, che decide categoricamente e infallibilmente del bene e
del male. All'affermazione del dovere di seguire la propria coscienza si è
indebitamente aggiunta l'affermazione che il giudizio morale è vero per il
fatto stesso che proviene dalla coscienza. Ma, in tal modo, l'imprescindibile
esigenza di verità è scomparsa, in favore di un criterio di sincerità, di
autenticità, di « accordo con se stessi », tanto che si è giunti ad una
concezione radicalmente soggettivista del giudizio morale.
Come si può immediatamente comprendere, non
è estranea a questa evoluzione la crisi intorno alla verità. Persa
l'idea di una verità universale sul bene, conoscibile dalla ragione umana, è
inevitabilmente cambiata anche la concezione della coscienza: questa non è più
considerata nella sua realtà originaria, ossia un atto dell'intelligenza della
persona, cui spetta di applicare la conoscenza universale del bene in una
determinata situazione e di esprimere così un giudizio sulla condotta giusta da
scegliere qui e ora; ci si è orientati a concedere alla coscienza
dell'individuo il privilegio di fissare, in modo autonomo, i criteri del bene e
del male e agire di conseguenza. Tale visione fa tutt'uno con un'etica
individualista, per la quale ciascuno si trova confrontato con la sua verità,
differente dalla verità degli altri. Spinto alle estreme conseguenze,
l'individualismo sfocia nella negazione dell'idea stessa di natura umana.
Queste differenti concezioni sono
all'origine degli orientamenti di pensiero che sostengono l'antinomia tra legge
morale e coscienza, tra natura e libertà.
33. Parallelamente all'esaltazione
della libertà, e paradossalmente in contrasto con essa, la cultura moderna
mette radicalmente in questione questa medesima libertà. Un insieme di
discipline, raggruppate sotto il nome di « scienze umane », hanno giustamente
attirato l'attenzione sui condizionamenti di ordine psicologico e sociale, che
pesano sull'esercizio della libertà umana. La conoscenza di tali
condizionamenti e l'attenzione che viene loro prestata sono acquisizioni
importanti, che hanno trovato applicazione in diversi ambiti dell'esistenza,
come per esempio nella pedagogia o nell'amministrazione della giustizia. Ma
alcuni, superando le conclusioni che si possono legittimamente trarre da queste
osservazioni, sono arrivati al punto di mettere in dubbio o di negare la realtà
stessa della libertà umana.
Si devono anche ricordare alcune
interpretazioni abusive dell'indagine scientifica a livello antropologico.
Traendo argomento dalla grande varietà dei costumi, delle abitudini e delle
istituzioni presenti nell'umanità, si conclude, se non sempre con la negazione
di valori umani universali, almeno con una concezione relativistica della morale.
34. « Maestro, che cosa devo fare di buono
per ottenere la vita eterna? ». La domanda morale, alla quale Cristo
risponde, non può prescindere dalla questione della libertà, anzi la colloca
al suo centro, perché non si dà morale senza libertà: « L'uomo può volgersi
al bene soltanto nella libertà ».56 Ma quale libertà? Il Concilio, di
fronte ai nostri contemporanei che « tanto tengono » alla libertà e che la «
cercano ardentemente » ma che « spesso la coltivano in malo modo, quasi sia
lecito tutto purché piaccia, compreso il male », presenta la « vera »
libertà: « La vera libertà è nell'uomo segno altissimo dell'immagine
divina. Dio volle, infatti, lasciare l'uomo "in mano al suo
consiglio" (cf Sir 15,14), così che esso cerchi spontaneamente il
suo Creatore, e giunga liberamente, con la adesione a lui, alla piena e beata
perfezione ».57 Se esiste il diritto di essere rispettati nel proprio cammino
di ricerca della verità, esiste ancor prima l'obbligo morale grave per ciascuno
di cercare la verità e di aderirvi una volta conosciuta.58 In tal senso il
Card. J. H. Newman, eminente assertore dei diritti della coscienza, affermava
con decisione: « La coscienza ha dei diritti perché ha dei doveri ».59
Alcune tendenze della teologia morale
odierna, sotto l'influsso delle correnti soggettiviste ed individualiste ora
ricordate, interpretano in modo nuovo il rapporto della libertà con la legge
morale, con la natura umana e con la coscienza, e propongono criteri innovativi
di valutazione morale degli atti: sono tendenze che, pur nella loro varietà, si
ritrovano nel fatto di indebolire o addirittura di negare la dipendenza
della libertà dalla verità.
Se vogliamo operare un discernimento critico
di queste tendenze, capace di riconoscere quanto in esse vi è di legittimo, utile
e prezioso e di indicarne, al tempo stesso, le ambiguità, i pericoli e gli
errori, dobbiamo esaminarle alla luce della fondamentale dipendenza della
libertà dalla verità, dipendenza che è stata espressa nel modo più limpido e
autorevole dalle parole di Cristo: « Conoscerete la verità, e la verità vi farà
liberi » (Gv 8,32).
I. La libertà e la legge
« Dell'albero della conoscenza del
bene e del male non devi mangiare » (Gn 2,17)
35. Leggiamo nel libro della Genesi: «
Il Signore Dio diede questo comando all'uomo: "Tu potrai mangiare di tutti
gli alberi del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male
non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti" »
(Gn 2,16-17).
Con questa immagine, la Rivelazione insegna
che il potere di decidere del bene e del male non appartiene all'uomo, ma a
Dio solo. L'uomo è certamente libero, dal momento che può comprendere ed
accogliere i comandi di Dio. Ed è in possesso d'una libertà quanto mai ampia,
perché può mangiare « di tutti gli alberi del giardino ». Ma questa libertà non
è illimitata: deve arrestarsi di fronte all'« albero della conoscenza del bene
e del male », essendo chiamata ad accettare la legge morale che Dio dà
all'uomo. In realtà, proprio in questa accettazione la libertà dell'uomo trova
la sua vera e piena realizzazione. Dio, che solo è buono, conosce perfettamente
ciò che è buono per l'uomo, e in forza del suo stesso amore glielo propone nei
comandamenti.
La legge di Dio, dunque, non attenua né
tanto meno elimina la libertà dell'uomo, al contrario la garantisce e la
promuove. Ben diversamente però, alcune tendenze culturali odierne sono
all'origine di non pochi orientamenti etici che pongono al centro del loro
pensiero un presunto conflitto tra la libertà e la legge. Tali sono le
dottrine che attribuiscono ai singoli individui o ai gruppi sociali la facoltà
di decidere del bene e del male: la libertà umana potrebbe « creare i
valori » e godrebbe di un primato sulla verità, al punto che la verità stessa
sarebbe considerata una creazione della libertà. Questa, dunque,
rivendicherebbe una tale autonomia morale che praticamente
significherebbe la sua sovranità assoluta.
36. L'istanza moderna di autonomia non ha
mancato di esercitare un suo influsso anche nell'ambito della teologia
morale cattolica. Se questa, certamente, non ha mai inteso contrapporre la
libertà umana alla legge divina, né mettere in questione l'esistenza di un
fondamento religioso ultimo delle norme morali, è stata però provocata ad un
profondo ripensamento del ruolo della ragione e della fede nell'individuazione
delle norme morali che si riferiscono a specifici comportamenti « intramondani
», ossia verso se stessi, gli altri e il mondo delle cose.
Si deve riconoscere che all'origine di
questo sforzo di ripensamento si ritrovano alcune istanze positive, che
peraltro appartengono, in buona parte, alla miglior tradizione del pensiero
cattolico. Sollecitati dal Concilio Vaticano II,60 si è voluto favorire il
dialogo con la cultura moderna, mettendo in luce il carattere razionale —
quindi universalmente comprensibile e comunicabile — delle norme morali
appartenenti all'ambito della legge morale naturale.61 Si è inteso, inoltre,
ribadire il carattere interiore delle esigenze etiche che da essa derivano e
che non si impongono alla volontà come un obbligo, se non in forza del
riconoscimento previo della ragione umana e, in concreto, della coscienza
personale.
Dimenticando però la dipendenza della
ragione umana dalla Sapienza divina e la necessità, nel presente stato di natura
decaduta, nonché l'effettiva realtà della divina rivelazione per la conoscenza
di verità morali anche di ordine naturale,62 alcuni sono giunti a teorizzare
una completa sovranità della ragione nell'ambito delle norme morali
relative al retto ordinamento della vita in questo mondo: tali norme
costituirebbero l'ambito di una morale solamente « umana », sarebbero cioè
l'espressione di una legge che l'uomo autonomamente dà a se stesso e che ha la
sua sorgente esclusivamente nella ragione umana. Di questa legge Dio non
potrebbe essere considerato in nessun modo Autore, se non nel senso che la
ragione umana esercita la sua autonomia legislativa in forza di un originario e
totale mandato di Dio all'uomo. Ora queste tendenze di pensiero hanno condotto
a negare, contro la Sacra Scrittura e la dottrina costante della Chiesa, che la
legge morale naturale abbia Dio come autore e che l'uomo, mediante la sua
ragione, partecipi alla legge eterna, che non è lui a stabilire.
37. Volendo però mantenere la vita morale in
un contesto cristiano, è stata introdotta da alcuni teologi moralisti una netta
distinzione, contraria alla dottrina cattolica,63 tra un ordine etico, che
avrebbe origine umana e valore solo mondano, e un ordine della
salvezza, per il quale avrebbero rilevanza solo alcune intenzioni ed
atteggiamenti interiori circa Dio e il prossimo. Si è giunti conseguentemente
al punto di negare l'esistenza, nella rivelazione divina, di un contenuto
morale specifico e determinato, universalmente valido e permanente: la Parola
di Dio si limiterebbe a proporre un'esortazione, una generica parenesi, che poi
solo la ragione autonoma avrebbe il compito di riempire di determinazioni
normative veramente « oggettive », ossia adeguate alla situazione storica
concreta. Naturalmente un'autonomia così concepita comporta anche la negazione
di una competenza dottrinale specifica da parte della Chiesa e del suo
Magistero circa norme morali determinate riguardanti il cosiddetto « bene umano
»: esse non apparterrebbero al contenuto proprio della Rivelazione e non
sarebbero in se stesse rilevanti in ordine alla salvezza.
Non vi è chi non veda che una simile
interpretazione dell'autonomia della ragione umana comporta tesi incompatibili
con la dottrina cattolica.
In un tale contesto è assolutamente
necessario chiarire, alla luce della Parola di Dio e della viva tradizione
della Chiesa, le fondamentali nozioni della libertà umana e della legge morale,
nonché i loro profondi e interiori rapporti. Solo così sarà possibile
corrispondere alle giuste istanze della razionalità umana, integrando gli
elementi validi di alcune correnti dell'odierna teologia morale, senza
pregiudicare il patrimonio morale della Chiesa con tesi derivanti da un erroneo
concetto di autonomia.
Dio volle lasciare l'uomo « in mano al
suo consiglio » (Sir
15,14)
38. Riprendendo le parole del Siracide, il
Concilio Vaticano II così spiega la « vera libertà » che nell'uomo è « segno
altissimo dell'immagine divina »: « Dio volle lasciare l'uomo "in mano al
suo consiglio", così che egli cerchi spontaneamente il suo Creatore, e
giunga liberamente, con l'adesione a Lui, alla piena e beata perfezione ».64
Queste parole indicano la meravigliosa profondità della partecipazione alla
signoria divina, cui l'uomo è stato chiamato: indicano che il dominio
dell'uomo si estende, in un certo senso, sull'uomo stesso. È questo un aspetto
costantemente accentuato nella riflessione teologica sulla libertà umana,
interpretata nei termini di una forma di regalità. Scrive, ad esempio, san
Gregorio Nisseno: « L'animo manifesta la sua regalità ed eccellenza... nel suo
essere senza padrone e libero, governandosi autocraticamente con il suo volere.
Di chi altro questo è proprio, se non del re?... Così la natura umana, creata
per essere padrona delle altre creature, per la somiglianza con il sovrano
dell'universo fu stabilita come una viva immagine, partecipe della dignità e
del nome dell'Archetipo ».65
Già il governare il mondo costituisce
per l'uomo un compito grande e colmo di responsabilità, che impegna la sua libertà
in obbedienza al Creatore: « Riempite la terra; soggiogatela » (Gn
1,28). Sotto questo aspetto al singolo uomo, come pure alla comunità umana,
spetta una giusta autonomia, alla quale la Costituzione conciliare Gaudium
et spes dedica una speciale attenzione. È l'autonomia delle realtà terrene,
che significa che « le cose create e le stesse società hanno leggi e valori
propri, che l'uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare ».66
39. Non solo il mondo però, ma anche l'uomo
stesso è stato affidato alla sua propria cura e responsabilità. Dio l'ha
lasciato « in mano al suo consiglio » (Sir 15,14), perché cercasse il
suo Creatore e giungesse liberamente alla perfezione. Giungere significa edificare
personalmente in sé tale perfezione. Infatti, come governando il mondo
l'uomo lo forma secondo la sua intelligenza e volontà, così compiendo atti
moralmente buoni l'uomo conferma, sviluppa e consolida in se stesso la
somiglianza di Dio.
Il Concilio, tuttavia, chiede vigilanza di
fronte a un falso concetto dell'autonomia delle realtà terrene, quello di
ritenere che « le cose create non dipendono da Dio, e che l'uomo può adoperarle
senza riferirle al Creatore ».67 Nei riguardi dell'uomo poi simile concetto di
autonomia produce effetti particolarmente dannosi, assumendo in ultima istanza
un carattere ateo: « La creatura, infatti, senza il Creatore svanisce... Anzi,
l'oblio di Dio priva di luce la creatura stessa ».68
40. L'insegnamento del Concilio sottolinea,
da un lato, l'attività della ragione umana nel rinvenimento e nella
applicazione della legge morale: la vita morale esige la creatività e
l'ingegnosità proprie della persona, sorgente e causa dei suoi atti deliberati.
D'altro lato, la ragione trae la sua verità e la sua autorità dalla legge
eterna, che non è altro che la stessa sapienza divina.69 Alla base della vita
morale sta dunque il principio di una « giusta autonomia » 70 dell'uomo,
soggetto personale dei suoi atti. La legge morale proviene da Dio e trova
sempre in lui la sua sorgente: in forza della ragione naturale, che deriva
dalla sapienza divina, essa è, al tempo stesso, la legge propria dell'uomo. La
legge naturale infatti, come si è visto, « altro non è che la luce
dell'intelligenza infusa in noi da Dio. Grazie ad essa conosciamo ciò che si
deve compiere e ciò che si deve evitare. Questa luce e questa legge Dio l'ha
donata nella creazione ».71 La giusta autonomia della ragione pratica significa
che l'uomo possiede in se stesso la propria legge, ricevuta dal Creatore.
Tuttavia, l'autonomia della ragione non può significare la creazione, da
parte della stessa ragione, dei valori e delle norme morali.72 Se questa
autonomia implicasse una negazione della partecipazione della ragione pratica
alla sapienza del Creatore e Legislatore divino, oppure se suggerisse una
libertà creatrice delle norme morali, a seconda delle contingenze storiche o
delle diverse società e culture, una tale pretesa autonomia contraddirebbe
l'insegnamento della Chiesa sulla verità dell'uomo.73 Sarebbe la morte della
vera libertà: « Ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi
mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti » (Gn 2,17).
41. La vera autonomia morale dell'uomo
non significa affatto il rifiuto, bensì l'accoglienza della legge morale, del
comando di Dio: « Il Signore Dio diede questo comando all'uomo... » (Gn
2,16). La libertà dell'uomo e la legge di Dio s'incontrano e sono chiamate a
compenetrarsi tra loro, nel senso della libera obbedienza dell'uomo a Dio e
della gratuita benevolenza di Dio all'uomo. E pertanto l'obbedienza a Dio non
è, come taluni credono, un'eteronomia, come se la vita morale fosse
sottomessa alla volontà di un'onnipotenza assoluta, esterna all'uomo e
contraria all'affermazione della sua libertà. In realtà, se eteronomia della
morale significasse negazione dell'autodeterminazione dell'uomo o imposizione
di norme estranee al suo bene, essa sarebbe in contraddizione con la
rivelazione dell'Alleanza e dell'Incarnazione redentrice. Una simile eteronomia
non sarebbe che una forma di alienazione, contraria alla sapienza divina ed
alla dignità della persona umana.
Alcuni parlano, a giusto titolo, di teonomia,
o di teonomia partecipata, perché la libera obbedienza dell'uomo
alla legge di Dio implica effettivamente la partecipazione della ragione e
della volontà umane alla sapienza e alla provvidenza di Dio. Proibendo all'uomo
di mangiare « dell'albero della conoscenza del bene e del male », Dio afferma
che l'uomo non possiede originariamente in proprio questa « conoscenza », ma
solamente vi partecipa mediante la luce della ragione naturale e della
rivelazione divina, che gli manifestano le esigenze e gli appelli della
sapienza eterna. La legge quindi deve dirsi un'espressione della sapienza
divina: sottomettendosi ad essa, la libertà si sottomette alla verità della
creazione. Per questo occorre riconoscere nella libertà della persona umana
l'immagine e la vicinanza di Dio, che è « presente in tutti » (cf Ef 4,6);
allo stesso modo, bisogna confessare la maestà del Dio dell'universo e venerare
la santità della legge di Dio infinitamente trascendente. Deus semper maior.74
Beato l'uomo che si compiace della
legge del Signore (cf Sal
1,1-2)
42. Modellata su quella di Dio, la libertà
dell'uomo non solo non è negata dalla sua obbedienza alla legge divina, ma
soltanto mediante questa obbedienza essa permane nella verità ed è conforme
alla dignità dell'uomo, come scrive apertamente il Concilio: « La dignità
dell'uomo richiede che egli agisca secondo scelte consapevoli e libere, mosso
cioè e indotto da convinzioni personali e non per un cieco impulso interno e
per mera coazione esterna. Ma tale dignità l'uomo la ottiene quando,
liberandosi da ogni schiavitù di passioni, tende al suo fine con scelta libera
del bene, e si procura da sé e con la sua diligente iniziativa i mezzi
convenienti ».75
Nel suo tendere a Dio, a Colui che « solo è
buono », l'uomo deve liberamente compiere il bene ed evitare il male. Ma per
questo l'uomo deve poter distinguere il bene dal male. Ed è quanto
avviene, anzitutto, grazie alla luce della ragione naturale, riflesso nell'uomo
dello splendore del volto di Dio. In questo senso, commentando un versetto del
Salmo 4, san Tommaso scrive: « Dopo aver detto: Offrite sacrifici di giustizia
(Sal 4,6), come se alcuni gli chiedessero quali sono le opere della
giustizia, il Salmista soggiunge: Molti dicono: Chi ci farà vedere il bene? E,
rispondendo alla domanda, dice: La luce del tuo volto, Signore, è stata
impressa su di noi. Come se volesse dire che la luce della ragione naturale
con la quale distinguiamo il bene dal male — il che è di competenza della legge
naturale — non è altro che un'impronta in noi della luce divina ».76 Da ciò
segue anche per quale motivo questa legge è chiamata legge naturale: viene
detta così non in rapporto alla natura degli esseri irrazionali, ma perché la
ragione che la promulga è propria della natura umana.77
43. Il Concilio Vaticano II ricorda che «
norma suprema della vita umana è la legge divina, eterna, oggettiva e
universale, per mezzo della quale Dio con un disegno di sapienza e di amore
ordina, dirige e governa tutto il mondo e le vie della comunità umana. E Dio
rende partecipe l'uomo della sua legge, cosicché l'uomo, per soave disposizione
della provvidenza divina, possa sempre più conoscere l'immutabile verità ».78
Il Concilio rimanda alla dottrina classica
sulla legge eterna di Dio. Sant'Agostino la definisce come « la ragione
o la volontà di Dio che comanda di conservare l'ordine naturale e proibisce di
turbarlo »; 79 san Tommaso la identifica con « la ragione della divina sapienza
che muove tutto al fine dovuto ».80 E la sapienza di Dio è provvidenza, amore
che si prende cura. È Dio stesso, dunque, ad amare e a prendersi cura, nel
senso più letterale e fondamentale, di tutta la creazione (cf Sap 7,22;
8,11). Ma Dio provvede agli uomini in modo diverso rispetto agli esseri che non
sono persone: non « dall'esterno », attraverso le leggi della natura fisica, ma
« dal di dentro », mediante la ragione che, conoscendo col lume naturale la
legge eterna di Dio, è perciò stesso in grado di indicare all'uomo la giusta
direzione del suo libero agire.81 In questo modo Dio chiama l'uomo a
partecipare alla sua provvidenza, volendo per mezzo dell'uomo stesso, ossia
attraverso la sua ragionevole e responsabile cura, guidare il mondo: non
soltanto il mondo della natura, ma anche quello delle persone umane. In questo
contesto, come espressione umana della legge eterna di Dio, si pone la legge
naturale: « Rispetto alle altre creature — scrive san Tommaso — la creatura
razionale è soggetta in un modo più eccellente alla divina provvidenza, in
quanto anche essa diventa partecipe della provvidenza, provvedendo a se stessa
e agli altri: perciò si ha in essa una partecipazione della ragione eterna, grazie
alla quale ha una naturale inclinazione all'atto ed al fine dovuti: tale
partecipazione della legge eterna nella creatura razionale è chiamata legge
naturale ».82
44. La Chiesa ha fatto spesso riferimento
alla dottrina tomistica di legge naturale, assumendola nel proprio insegnamento
morale. Così il mio venerato predecessore Leone XIII ha sottolineato l'essenziale
subordinazione della ragione e della legge umana alla Sapienza di Dio e alla
sua legge. Dopo aver detto che « la legge naturale è scritta e scolpita
nell'animo di tutti e di ciascun uomo, poiché essa non è altro che la stessa
ragione umana che ci comanda di fare il bene e ci intima di non peccare »,
Leone XIII rimanda alla « ragione più alta » del Legislatore divino: « Ma tale
prescrizione della ragione umana non potrebbe aver forza di legge, se non fosse
la voce e l'interprete di una ragione più alta, a cui il nostro spirito e la
nostra libertà devono essere sottomessi ». Infatti, la forza della legge
risiede nella sua autorità di imporre dei doveri, di conferire dei diritti e di
dare la sanzione a certi comportamenti: « Ora tutto ciò non potrebbe esistere
nell'uomo, se fosse egli stesso a darsi, quale legislatore supremo, la norma
delle sue azioni ». E conclude: « Ne consegue che la legge naturale è la stessa
legge eterna, insita negli esseri dotati di ragione, che li inclina all'atto
e al fine che loro convengono; essa è la stessa ragione eterna del Creatore
e governatore dell'universo ».83
L'uomo può riconoscere il bene e il male
grazie a quel discernimento del bene dal male che egli stesso opera mediante la
sua ragione, in particolare mediante la sua ragione illuminata dalla
rivelazione divina e dalla fede, in forza della legge che Dio ha donato al
popolo eletto, a cominciare dai comandamenti del Sinai. Israele è stato
chiamato a ricevere e a vivere la legge di Dio come particolare dono
e segno dell'elezione e dell'Alleanza divina, ed insieme come garanzia
della benedizione di Dio. Così Mosè poteva rivolgersi ai figli di Israele e
chiedere loro: « Quale grande nazione ha la divinità così vicina a sé, come il
Signore nostro Dio è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo? E quale grande
nazione ha leggi e norme giuste, come è tutta questa legislazione che io oggi
vi espongo? » (Dt 4,7-8). È nei Salmi che incontriamo i
sentimenti di lode, gratitudine e venerazione che il popolo eletto è chiamato a
nutrire verso la legge di Dio, insieme all'esortazione a conoscerla, meditarla
e tradurla nella vita: « Beato l'uomo che non segue il consiglio degli empi,
non indugia nella via dei peccatori e non siede in compagnia degli stolti; ma
si compiace della legge del Signore, la sua legge medita giorno e notte » (Sal
1,1-2); « La legge del Signore è perfetta, rinfranca l'anima; la
testimonianza del Signore è verace, rende saggio il semplice. Gli ordini del
Signore sono giusti, fanno gioire il cuore; i comandi del Signore sono limpidi,
danno luce agli occhi » (Sal 181,8-9).
45. La Chiesa accoglie con riconoscenza e
custodisce con amore l'intero deposito della Rivelazione, trattandolo con
religioso rispetto e adempiendo alla sua missione di interpretare la legge di
Dio in modo autentico alla luce del Vangelo. La Chiesa, inoltre, riceve in dono
la Legge nuova, che è il « compimento » della legge di Dio in Gesù Cristo
e nel suo Spirito: è una legge « interiore » (cf Ger 31,31-33), «
scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di
pietra, ma sulle tavole di carne dei vostri cuori » (2 Cor 3,3); una
legge di perfezione e di libertà (cf 2 Cor 3,17); è « la legge dello
Spirito che dà vita in Cristo Gesù » (Rm 8,2). Di questa legge scrive
san Tommaso: « Questa può essere detta legge in un duplice senso. In un primo
senso, legge dello spirito è lo Spirito Santo... che, inabitante nell'anima, non
solo insegna che cosa è necessario compiere illuminando l'intelletto sulle cose
da farsi, ma anche inclina ad agire con rettitudine... In un secondo senso,
legge dello spirito può dirsi l'effetto proprio dello Spirito Santo, e cioè la
fede che opera per mezzo della carità (Gal 5,6), la quale pertanto
ammaestra interiormente circa le cose da farsi... e inclina l'affetto ad agire
».84
Anche se nella riflessione teologico-morale
si è soliti distinguere la legge di Dio positiva o rivelata da quella naturale,
e nell'economia della salvezza la legge « antica » da quella « nuova », non si
può dimenticare che queste e altre utili distinzioni si riferiscono sempre alla
legge il cui autore è lo stesso unico Dio, e il cui destinatario è l'uomo. I
diversi modi secondo cui nella storia Dio ha cura del mondo e dell'uomo, non
solo non si escludono tra loro, ma al contrario si sostengono e si compenetrano
a vicenda. Tutti scaturiscono e concludono all'eterno disegno sapiente e
amoroso con il quale Dio predestina gli uomini « ad essere conformi
all'immagine del Figlio suo » (Rm 8,29). In questo disegno non c'è
nessuna minaccia per la vera libertà dell'uomo; al contrario l'accoglienza di
questo disegno è l'unica via per l'affermazione della libertà.
« Quanto la legge esige è scritto nei
loro cuori » (Rm 2,15)
46. Il presunto conflitto tra la libertà e
la legge si ripropone oggi con una singolare forza in rapporto alla legge
naturale, e in particolare in rapporto alla natura. In realtà i dibattiti su
natura e libertà hanno sempre accompagnato la storia della riflessione
morale, assumendo toni accesi con il Rinascimento e la Riforma, come si può
rilevare dagli insegnamenti del Concilio di Trento.85 Di una tensione analoga
resta segnata, anche se in un senso differente, l'epoca contemporanea: il gusto
dell'osservazione empirica, i procedimenti dell'oggettivazione scientifica, il
progresso tecnico, alcune forme di liberalismo hanno portato a contrapporre i
due termini, come se la dialettica — se non addirittura il conflitto — tra libertà
e natura fosse caratteristica strutturale della storia umana. In altre epoche,
è sembrato che la « natura » sottomettesse totalmente l'uomo ai suoi dinamismi
e persino ai suoi determinismi. Ancor oggi le coordinate spazio-temporali del
mondo sensibile, le costanti fisico-chimiche, i dinamismi corporei, le pulsioni
psichiche, i condizionamenti sociali appaiono a molti come gli unici fattori
realmente decisivi delle realtà umane. In questo contesto, anche i fatti
morali, a dispetto della loro specificità, sono spesso trattati come se fossero
dati statisticamente accertabili, come comportamenti osservabili o spiegabili
solo con le categorie dei meccanismi psico-sociali. E così alcuni studiosi
di etica, tenuti per professione a esaminare i fatti e i gesti dell'uomo,
possono essere tentati di misurare il loro sapere, se non le loro prescrizioni,
sulla base di un riscontro statistico circa i comportamenti umani concreti e le
opinioni morali della maggioranza.
Altri moralisti, invece, preoccupati di educare ai valori, si
mantengono sensibili al prestigio della libertà, ma spesso la concepiscono in
opposizione, o in contrasto, con la natura materiale e biologica, sulla quale
dovrebbe progressivamente affermarsi. A questo proposito differenti concezioni
convergono nel dimenticare la dimensione creaturale della natura e nel
misconoscere la sua integralità. Per alcuni, la natura si trova ridotta
a materiale per l'agire umano e per il suo potere: essa dovrebbe essere
profondamente trasformata, anzi superata dalla libertà, dal momento che ne
costituirebbe un limite e una negazione. Per altri, è nella promozione
senza misura del potere dell'uomo, o della sua libertà, che si costituiscono i
valori economici, sociali, culturali ed anche morali: la natura starebbe a
significare tutto ciò che nell'uomo e nel mondo si colloca al di fuori della
libertà. Tale natura comprenderebbe in primo luogo il corpo umano, la sua
costituzione e i suoi dinamismi: a questo dato fisico si opporrebbe quanto è «
costruito » cioè la « cultura », quale opera e prodotto della libertà. La
natura umana, così intesa, potrebbe essere ridotta e trattata come materiale
biologico o sociale sempre disponibile. Ciò significa ultimamente definire la
libertà mediante se stessa e farne un'istanza creatrice di sé e dei suoi
valori. È così che al limite l'uomo non avrebbe neppure natura, e sarebbe per
se stesso il proprio progetto di esistenza. L'uomo non sarebbe nient'altro che
la sua libertà!
47. In questo contesto sono sorte le obiezioni
di fisicismo e naturalismo contro la concezione tradizionale della legge
naturale: questa presenterebbe come leggi morali quelle che in se stesse
sarebbero solo leggi biologiche. Così, troppo superficialmente, si sarebbe
attribuito ad alcuni comportamenti umani un carattere permanente ed immutabile
e, in base ad esso, si sarebbe preteso di formulare norme morali universalmente
valide. Secondo alcuni teologi, una simile « argomen- tazione biologista o
naturalista » sarebbe presente anche in taluni documenti del Magistero della
Chiesa, specialmente in quelli riguardanti l'ambito dell'etica sessuale e
matrimoniale. In base ad una concezione naturalistica dell'atto sessuale,
sarebbero state condannate come moralmente inammissibili la contraccezione, la
sterilizzazione diretta, l'autoerotismo, i rapporti prematrimoniali, le
relazioni omosessuali, nonché la fecondazione artificiale. Ora, secondo il
parere di questi teologi, la valutazione moralmente negativa di tali atti non
prenderebbe in adeguata considerazione il carattere razionale e libero
dell'uomo, né il condizionamento culturale di ogni norma morale. Essi dicono
che l'uomo, come essere razionale, non solo può, ma addirittura deve
decidere liberamente il senso dei suoi comportamenti. Questo « decidere il
senso » dovrà tener conto, ovviamente, dei molteplici limiti dell'essere umano,
che ha una condizione corporea e storica. Dovrà, inoltre, prendere in
considerazione i modelli comportamentali ed i significati che questi assumono
in una determinata cultura. E, soprattutto, dovrà rispettare il comandamento
fondamentale dell'amore di Dio e del prossimo. Dio però — asseriscono poi — ha
fatto l'uomo come essere razionalmente libero, lo ha lasciato « in mano al suo
consiglio » e da lui attende una propria, razionale formazione della sua vita.
L'amore del prossimo significherebbe soprattutto o esclusivamente rispetto per
il suo libero decidere di se stesso. I meccanismi dei comportamenti propri
dell'uomo, nonché le cosiddette « inclinazioni naturali », stabilirebbero al
massimo — come dicono — un orientamento generale del comportamento corretto, ma
non potrebbero determinare la valutazione morale dei singoli atti umani, tanto
complessi dal punto di vista delle situazioni.
48. Di fronte ad una tale interpretazione
occorre considerare con attenzione il retto rapporto che esiste tra la libertà
e la natura umana, e in particolare il posto che ha il corpo umano nelle
questioni della legge naturale.
Una libertà che pretende di essere assoluta
finisce per trattare il corpo umano come un dato bruto, sprovvisto di
significati e di valori morali finché essa non l'abbia investito del suo
progetto. Di conseguenza, la natura umana e il corpo appaiono come dei presupposti
o preliminari, materialmente necessari alla scelta della libertà, ma
estrinseci alla persona, al soggetto e all'atto umano. I loro dinamismi
non potrebbero costituire punti di riferimento per la scelta morale, dal
momento che le finalità di queste inclinazioni sarebbero solo beni «
fisici », detti da taluni « pre-morali ». Farvi riferimento, per cercarvi
indicazioni razionali circa l'ordine della moralità, dovrebbe essere tacciato
di fisicismo o di biologismo. In un simile contesto la tensione tra la libertà
e una natura concepita in senso riduttivo si risolve in una divisione nell'uomo
stesso.
Questa teoria morale non è conforme alla
verità sull'uomo e sulla sua libertà. Essa contraddice agli insegnamenti
della Chiesa sull'unità dell'essere umano, la cui anima razionale è per
se et essentialiter la forma del corpo.86 L'anima spirituale e immortale è
il principio di unità dell'essere umano, è ciò per cui esso esiste come un
tutto — « corpore et anima unus » 87 — in quanto persona. Queste
definizioni non indicano solo che anche il corpo, al quale è promessa la
risurrezione, sarà partecipe della gloria; esse ricordano altresì il legame
della ragione e della libera volontà con tutte le facoltà corporee e sensibili.
La persona, incluso il corpo, è affidata interamente a se stessa, ed è
nell'unità dell'anima e del corpo che essa è il soggetto dei propri atti
morali. La persona, mediante la luce della ragione e il sostegno della
virtù, scopre nel suo corpo i segni anticipatori, l'espressione e la promessa
del dono di sé, in conformità con il sapiente disegno del Creatore. È alla luce
della dignità della persona umana — da affermarsi per se stessa — che la
ragione coglie il valore morale specifico di alcuni beni, cui la persona è
naturalmente inclinata. E dal momento che la persona umana non è riducibile ad
una libertà che si autoprogetta, ma comporta una struttura spirituale e
corporea determinata, l'esigenza morale originaria di amare e rispettare la
persona come un fine e mai come un semplice mezzo, implica anche,
intrinsecamente, il rispetto di alcuni beni fondamentali, senza del quale si cade
nel relativismo e nell'arbitrio.
49. Una dottrina che dissoci l'atto
morale dalle dimensioni corporee del suo esercizio è contraria agli
insegnamenti della Sacra Scrittura e della Tradizione: tale dottrina fa
rivivere, sotto forme nuove, alcuni vecchi errori sempre combattuti dalla
Chiesa, in quanto riducono la persona umana a una libertà « spirituale »,
puramente formale. Questa riduzione misconosce il significato morale del corpo
e dei comportamenti che ad esso si riferiscono (cf 1 Cor 6,19).
L'apostolo Paolo dichiara esclusi dal Regno dei cieli « immorali, idolatri,
adulteri, effeminati, sodomiti, ladri, avari, ubriaconi, maldicenti e rapaci »
(cf 1 Cor 6,9-10). Tale condanna — fatta propria dal Concilio di Trento
88 — enumera come « peccati mortali », o « pratiche infami », alcuni
comportamenti specifici la cui volontaria accettazione impedisce ai credenti di
avere parte all'eredità promessa. Infatti, corpo e anima sono
indissociabili: nella persona, nell'agente volontario e nell'atto
deliberato, essi stanno o si perdono insieme.
50. Si può ora comprendere il vero
significato della legge naturale: essa si riferisce alla natura propria e
originale dell'uomo, alla « natura della persona umana »,89 che è la persona
stessa nell'unità di anima e di corpo, nell'unità delle sue inclinazioni di
ordine sia spirituale che biologico e di tutte le altre caratteristiche
specifiche necessarie al perseguimento del suo fine. « La legge morale naturale
esprime e prescrive le finalità, i diritti e i doveri che si fondano sulla
natura corporale e spirituale della persona umana. Pertanto essa non può essere
concepita come normatività semplicemente biologica, ma deve essere definita
come l'ordine razionale secondo il quale l'uomo è chiamato dal Creatore a
dirigere e a regolare la sua vita e i suoi atti e, in particolare, a usare e
disporre del proprio corpo ».90 Ad esempio, l'origine e il fondamento del
dovere di rispettare assolutamente la vita umana sono da trovare nella dignità
propria della persona e non semplicemente nell'inclinazione naturale a
conservare la propria vita fisica. Così la vita umana, pur essendo un bene
fondamentale dell'uomo, acquista un significato morale in riferimento al bene
della persona che deve essere sempre affermata per se stessa: mentre è sempre moralmente
illecito uccidere un essere umano innocente, può essere lecito, lodevole o
persino doveroso dare la propria vita (cf Gv 15, 13) per amore del
prossimo o per testimonianza verso la verità. In realtà solo in riferimento
alla persona umana nella sua « totalità unificata », cioè « anima che si
esprime nel corpo e corpo informato da uno spirito immortale »,91 si può
leggere il significato specificamente umano del corpo. In effetti le
inclinazioni naturali acquistano rilevanza morale solo in quanto esse si
riferiscono alla persona umana e alla sua realizzazione autentica, la quale
d'altra parte può verificarsi sempre e solo nella natura umana. Rifiutando le
manipolazioni della corporeità che ne alterano il significato umano, la Chiesa
serve l'uomo e gli indica la via del vero amore, sulla quale soltanto egli può
trovare il vero Dio.
La legge naturale così intesa non lascia
spazio alla divisione tra libertà e natura. Queste, infatti, sono armonicamente
collegate tra loro e intimamente alleate l'una con l'altra.
« Ma da principio non fu così » (Mt 19,8)
51. Il presunto conflitto tra la libertà e
la natura si ripercuote anche sull'interpretazione di alcuni aspetti specifici
della legge naturale, soprattutto sulla sua universalità e immutabilità. «
Dove dunque sono iscritte queste regole — si chiedeva sant'Agostino — se non
nel libro di quella luce che si chiama verità? Di qui, dunque, è dettata ogni
legge giusta e si trasferisce retta nel cuore dell'uomo che opera la giustizia,
non emigrando in lui, ma quasi imprimendosi in lui, come l'immagine passa
dall'anello nella cera, ma senza abbandonare l'anello ».92
Proprio grazie a questa « verità » la
legge naturale implica l'universalità. Essa, in quanto iscritta nella
natura razionale della persona, si impone ad ogni essere dotato di ragione e
vivente nella storia. Per perfezionarsi nel suo ordine specifico, la persona
deve compiere il bene ed evitare il male, vegliare alla trasmissione e alla
conservazione della vita, affinare e sviluppare le ricchezze del mondo sensibile,
coltivare la vita sociale, cercare il vero, praticare il bene, contemplare la
bellezza.93
La scissione posta da alcuni tra la libertà
degli individui e la natura comune a tutti, come emerge da alcune teorie
filosofiche di grande risonanza nella cultura contemporanea, oscura la
percezione dell'universalità della legge morale da parte della ragione. Ma, in
quanto esprime la dignità della persona umana e pone la base dei suoi diritti e
doveri fondamentali, la legge naturale è universale nei suoi precetti e la sua
autorità si estende a tutti gli uomini. Questa universalità non prescinde
dalla singolarità degli esseri umani, né si oppone all'unicità e
all'irripetibilità di ciascuna persona: al contrario, essa abbraccia in radice
ciascuno dei suoi atti liberi, che devono attestare l'universalità del vero
bene. Sottomettendosi alla legge comune, i nostri atti edificano la vera
comunione delle persone e, con la grazia di Dio, esercitano la carità, «
vincolo della perfezione » (Col 3,14). Quando invece misconoscono o
anche solo ignorano la legge, in maniera imputabile o no, i nostri atti
feriscono la comunione delle persone, con pregiudizio di ciascuno.
52. È giusto e buono, sempre e per tutti,
servire Dio, rendergli il culto dovuto ed onorare secondo verità i genitori.
Simili precetti positivi, che prescrivono di compiere talune azioni e di
coltivare certi atteggiamenti, obbligano universalmente; essi sono immutabili;
94 uniscono nel medesimo bene comune tutti gli uomini di ogni epoca della
storia, creati per « la stessa vocazione e lo stesso destino divino ».95 Queste
leggi universali e permanenti corrispondono a conoscenze della ragione pratica
e vengono applicate agli atti particolari mediante il giudizio della coscienza.
Il soggetto che agisce assimila personalmente la verità contenuta nella legge:
egli si appropria, fa sua questa verità del suo essere mediante gli atti e le
relative virtù. I precetti negativi della legge naturale sono
universalmente validi: essi obbligano tutti e ciascuno, sempre e in ogni
circostanza. Si tratta infatti di proibizioni che vietano una determinata
azione semper et pro semper, senza eccezioni, perché la scelta di un
tale comportamento non è in nessun caso compatibile con la bontà della volontà
della persona che agisce, con la sua vocazione alla vita con Dio e alla
comunione col prossimo. È proibito ad ognuno e sempre di infrangere precetti
che vincolano, tutti e a qualunque costo, a non offendere in alcuno e, prima di
tutto, in se stessi la dignità personale e comune a tutti.
D'altra parte, il fatto che solo i
comandamenti negativi obbligano sempre e in ogni circostanza, non significa che
nella vita morale le proibizioni siano più importanti dell'impegno a fare il
bene indicato dai comandamenti positivi. Il motivo è piuttosto il seguente: il
comandamento dell'amore di Dio e del prossimo non ha nella sua dinamica
positiva nessun limite superiore, bensì ha un limite inferiore, scendendo sotto
il quale si viola il comandamento. Inoltre, ciò che si deve fare in una
determinata situazione dipende dalle circostanze, che non si possono tutte
quante prevedere in anticipo; al contrario ci sono comportamenti che non
possono mai essere, in nessuna situazione, una risposta adeguata — ossia
conforme alla dignità della persona. Infine, è sempre possibile che l'uomo, in
seguito a costrizione o ad altre circostanze, sia impedito di portare a termine
determinate buone azioni; mai però può essere impedito di non fare determinate
azioni, soprattutto se egli è disposto a morire piuttosto che a fare il male.
La Chiesa ha sempre insegnato che non si
devono mai scegliere comportamenti proibiti dai comandamenti morali, espressi
in forma negativa nell'Antico e nel Nuovo Testamento. Come si è visto, Gesù
stesso ribadisce l'inderogabilità di queste proibizioni: « Se vuoi entrare
nella vita, osserva i comandamenti...: non uccidere, non commettere adulterio,
non rubare, non testimoniare il falso » (Mt 19,17-18).
53. La grande sensibilità che l'uomo
contemporaneo testimonia per la storicità e per la cultura conduce taluni a
dubitare dell'immutabilità della stessa legge naturale, e quindi
dell'esistenza di « norme oggettive di moralità » 96 valide per tutti gli
uomini del presente e del futuro, come già per quelli del passato: è mai
possibile affermare come valide universalmente per tutti e sempre permanenti
certe determinazioni razionali stabilite nel passato, quando si ignorava il
progresso che l'umanità avrebbe fatto successivamente?
Non si può negare che l'uomo si dà sempre in
una cultura particolare, ma pure non si può negare che l'uomo non si esaurisce
in questa stessa cultura. Del resto, il progresso stesso delle culture dimostra
che nell'uomo esiste qualcosa che trascende le culture. Questo « qualcosa » è
precisamente la natura dell'uomo: proprio questa natura è la misura
della cultura ed è la condizione perché l'uomo non sia prigioniero di nessuna
delle sue culture, ma affermi la sua dignità personale nel vivere conformemente
alla verità profonda del suo essere. Mettere in discussione gli elementi
strutturali permanenti dell'uomo, connessi anche con la stessa dimensione
corporea, non solo sarebbe in conflitto con l'esperienza comune, ma renderebbe
incomprensibile il riferimento che Gesù ha fatto al « principio », proprio
là dove il contesto sociale e culturale del tempo aveva deformato il senso
originario e il ruolo di alcune norme morali (cf Mt 19,1-9). In tal
senso « la Chiesa afferma che al di sotto di tutti i mutamenti ci sono molte
cose che non cambiano; esse trovano il loro ultimo fondamento in Cristo, che
è sempre lo stesso: ieri, oggi e nei secoli ».97 È lui il « Principio » che,
avendo assunto la natura umana, la illumina definitivamente nei suoi elementi
costitutivi e nel suo dinamismo di carità verso Dio e il prossimo.98
Certamente occorre cercare e trovare delle
norme morali universali e permanenti la formulazione più adeguata ai
diversi contesti culturali, più capace di esprimerne incessantemente
l'attualità storica, di farne comprendere e interpretare autenticamente la
verità. Questa verità della legge morale — come quella del « deposito della
fede » — si dispiega attraverso i secoli: le norme che la esprimono restano
valide nella loro sostanza, ma devono essere precisate e determinate « eodem
sensu eademque sententia » 99 secondo le circostanze storiche dal Magistero
della Chiesa, la cui decisione è preceduta e accompagnata dallo sforzo di
lettura e di formulazione proprio della ragione dei credenti e della
riflessione teologica.100
II. La coscienza e la verità
Il sacrario dell'uomo
54. Il rapporto che esiste tra la libertà
dell'uomo e la legge di Dio ha la sua sede viva nel « cuore » della persona,
ossia nella sua coscienza morale: « Nell'intimo della coscienza — scrive
il Concilio Vaticano II — l'uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla
quale invece deve obbedire e la cui voce che lo chiama sempre ad amare e a fare
il bene e a fuggire il male, quando occorre, chiaramente dice alle orecchie del
cuore: fa' questo, fuggi quest'altro. L'uomo ha in realtà una legge scritta da
Dio dentro il suo cuore: obbedire ad essa è la dignità stessa dell'uomo, e
secondo questa egli sarà giudicato (cf Rm 2, 14-16) ».101
Per questo il modo secondo cui si concepisce
il rapporto tra la libertà e la legge si collega intimamente con l'interpretazione
che viene riservata alla coscienza morale. In tal senso le tendenze culturali
sopra ricordate, che contrappongono e separano tra loro la libertà e la legge
ed esaltano in modo idolatrico la libertà, conducono ad un'interpretazione «
creativa » della coscienza morale, che si allontana dalla posizione della
tradizione della Chiesa e del suo Magistero.
55. Secondo l'opinione di diversi teologi la
funzione della coscienza sarebbe stata ricondotta, almeno in un certo passato,
ad una semplice applicazione di norme morali generali ai singoli casi di vita
della persona. Ma simili norme — dicono — non possono essere in grado di
accogliere e di rispettare l'intera irrepetibile specificità di tutti i singoli
atti concreti delle persone; possono anche, in qualche modo, aiutare a una
giustavalutazione della situazione, ma non possono sostituire le persone
nel prendere una decisione personale su come comportarsi nei determinati
casi particolari. Anzi, la predetta critica alla tradizionale interpretazione della
natura umana e della sua importanza per la vita morale induce alcuni autori ad
affermare che queste norme non sono tanto un criterio oggettivo vincolante per
i giudizi della coscienza, quanto piuttosto una prospettiva generale che
aiuta in prima approssimazione l'uomo nel dare un'ordinata sistemazione alla
sua vita personale e sociale. Essi, inoltre, rilevano la complessità tipica
del fenomeno della coscienza: questa si rapporta profondamente con tutta la
sfera psicologica ed affettiva e con i molteplici influssi dell'ambiente
sociale e culturale della persona. D'altra parte, viene esaltato al massimo il
valore della coscienza, che il Concilio stesso ha definito « il sacrario
dell'uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell'intimità
propria ».102 Tale voce — si dice — induce l'uomo non tanto a una meticolosa
osservanza delle norme universali, quanto a una creativa e responsabile
assunzione dei compiti personali che Dio gli affida.
Volendo mettere in risalto il carattere «
creativo » della coscienza, alcuni autori chiamano i suoi atti, non più con il
nome di « giudizi », ma con quello di « decisioni »: solo prendendo « auto-
nomamente » queste decisioni l'uomo potrebbe raggiungere la sua maturità
morale. Né manca chi ritiene che questo processo di maturazione sarebbe
ostacolato dalla posizione troppo categorica che, in molte questioni morali,
assume il Magistero della Chiesa, i cui interventi sarebbero causa, presso i
fedeli, dell'insorgere di inutili conflitti di coscienza.
56. Per giustificare simili posizioni,
alcuni hanno proposto una sorta di duplice statuto della verità morale. Oltre
al livello dottrinale e astratto, occorrerebbe riconoscere l'originalità di una
certa considerazione esistenziale più concreta. Questa, tenendo conto delle
circostanze e della situazione, potrebbe legittimamente fondare delle eccezioni
alla regola generale e permettere così di compiere praticamente, con buona
coscienza, ciò che è qualificato come intrinsecamente cattivo dalla legge
morale. In tal modo si instaura in alcuni casi una separazione, o anche
un'opposizione, tra la dottrina del precetto valido in generale e la norma
della singola coscienza, che deciderebbe di fatto, in ultima istanza, del bene
e del male. Su questa base si pretende di fondare la legittimità di soluzioni
cosiddette « pastorali » contrarie agli insegnamenti del Magistero e di
giustificare un'ermeneutica « creatrice », secondo la quale la coscienza morale
non sarebbe affatto obbligata, in tutti i casi, da un precetto negativo particolare.
Non vi è chi non colga che con queste
impostazioni si trova messa in questione l'identità stessa della coscienza
morale di fronte alla libertà dell'uomo e alla legge di Dio. Solo la
chiarificazione precedentemente fatta sul rapporto tra libertà e legge fondato
sulla verità rende possibile il discernimento circa questa
interpretazione « creativa » della coscienza.
Il giudizio della coscienza
57. Lo stesso testo della Lettera ai
Romani, che ci ha fatto cogliere l'essenza della legge naturale, indica anche
il senso biblico della coscienza, specialmente nel suo specifico
legame con la legge: « Quando i pagani, che non hanno la legge, per natura
agiscono secondo la legge, essi, pur non avendo legge, sono legge a se stessi;
essi dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori come risulta
dalla testimonianza della loro coscienza e dai loro stessi ragionamenti, che
ora li accusano ora li difendono » (Rm 2,14-15).
Secondo le parole di san Paolo, la
coscienza, in un certo senso, pone l'uomo di fronte alla legge, diventando essa
stessa « testimo- ne » per l'uomo: testimone della sua fedeltà o
infedeltà nei riguardi della legge, ossia della sua essenziale rettitudine o
malvagità morale. La coscienza è l'unico testimone: ciò che avviene
nell'intimo della persona è coperto agli occhi di chiunque dall'esterno. Essa
rivolge la sua testimonianza soltanto verso la persona stessa. E, a sua volta,
soltanto la persona conosce la propria risposta alla voce della coscienza.
58. Non si apprezzerà mai adeguatamente
l'importanza di questo intimo dialogo dell'uomo con se stesso. Ma, in
realtà, questo è il dialogo dell'uomo con Dio, autore della legge, primo
modello e fine ultimo dell'uomo. « La coscienza — scrive san Bonaventura — è
come l'araldo di Dio e il messaggero, e ciò che dice non lo comanda da se
stessa, ma lo comanda come proveniente da Dio, alla maniera di un araldo quando
proclama l'editto del re. E da ciò deriva il fatto che la coscienza ha la forza
di obbligare ».103
Si può dire, dunque, che la coscienza dà la
testimonianza della rettitudine o della malvagità dell'uomo all'uomo stesso, ma
insieme, anzi prima ancora, essa è testimonianza di Dio stesso, la cui
voce e il cui giudizio penetrano l'intimo dell'uomo fino alle radici della sua
anima, chiamandolo fortiter et suaviter all'obbedienza: « La coscienza
morale non chiude l'uomo dentro una invalicabile e impenetrabile solitudine, ma
lo apre alla chiamata, alla voce di Dio. In questo, non in altro, sta tutto il
mistero e la dignità della coscienza morale: nell'essere cioè il luogo, lo
spazio santo nel quale Dio parla all'uomo ».104
59. San Paolo non si limita a riconoscere
che la coscienza fa da « testimone », ma rivela anche il modo con cui essa
compie una simile funzione. Si tratta di « ragionamenti », che accusano o
difendono i pagani in rapporto ai loro comportamenti (cf Rm 2,15). Il
termine « ragionamenti » mette in luce il carattere proprio della coscienza,
quello di essere un giudizio morale sull'uomo e sui suoi atti: è un
giudizio di assoluzione o di condanna secondo che gli atti umani sono conformi
o difformi dalla legge di Dio scritta nel cuore. E proprio del giudizio degli
atti e, allo stesso tempo, del loro autore e del momento del suo definitivo
compimento parla l'apostolo Paolo nello stesso testo: « Così avverrà nel giorno
in cui Dio giudicherà i segreti degli uomini per mezzo di Gesù Cristo, secondo
il mio Vangelo » (Rm 2,16).
Il giudizio della coscienza è un giudizio
pratico, ossia un giudizio che intima che cosa l'uomo deve fare o non fare,
oppure che valuta un atto da lui ormai compiuto. È un giudizio che applica a
una situazione concreta la convinzione razionale che si deve amare e fare il
bene ed evitare il male. Questo primo principio della ragione pratica
appartiene alla legge naturale, anzi ne costituisce il fondamento stesso, in
quanto esprime quella luce originaria sul bene e sul male, riflesso della
sapienza creatrice di Dio, che, come una scintilla indistruttibile (scintilla
animae), brilla nel cuore di ogni uomo. Mentre però la legge naturale mette
in luce le esigenze oggettive e universali del bene morale, la coscienza è
l'applicazione della legge al caso particolare, la quale diventa così per
l'uomo un interiore dettame, una chiamata a compiere nella concretezza della
situazione il bene. La coscienza formula così l'obbligo morale alla luce
dalla legge naturale: è l'obbligo di fare ciò che l'uomo, mediante l'atto della
sua coscienza, conosce come un bene che gli è assegnato qui e ora. Il
carattere universale della legge e dell'obbligazione non è cancellato, ma
piuttosto riconosciuto, quando la ragione ne determina le applicazioni
nell'attualità concreta. Il giudizio della coscienza afferma « ultimamente » la
conformità di un certo comportamento concreto rispetto alla legge; esso formula
la norma prossima della moralità di un atto volontario, realizzando « l'appli-
cazione della legge oggettiva a un caso particolare ».105
60. Come la stessa legge naturale e ogni
conoscenza pratica, anche il giudizio della coscienza ha carattere imperativo:
l'uomo deve agire in conformità ad esso. Se l'uomo agisce contro tale
giudizio, oppure, anche in mancanza di certezza circa la correttezza e la bontà
di un determinato atto, lo compie, egli è condannato dalla sua stessa
coscienza, norma prossima della moralità personale. La dignità di questa
istanza razionale e l'autorità della sua voce e dei suoi giudizi derivano dalla
verità sul bene e sul male morale, che essa è chiamata ad ascoltare e ad
esprimere. Questa verità è indicata dalla « legge divina », norma universale
e oggettiva della moralità. Il giudizio della coscienza non stabilisce la
legge, ma attesta l'autorità della legge naturale e della ragione pratica in
riferimento al bene supremo, di cui la persona umana accetta l'attrattiva e
accoglie i comandamenti: « La coscienza non è una fonte autonoma ed esclusiva
per decidere ciò che è buono e ciò che è cattivo; invece, in essa è inscritto
profondamente un principio di obbedienza nei riguardi della norma oggettiva,
che fonda e condiziona la corrispondenza delle sue decisioni con i comandi e i
divieti che sono alla base del comportamento umano ».106
61. La verità circa il bene morale,
dichiarata nella legge della ragione, è riconosciuta praticamente e
concretamente dal giudizio della coscienza, il quale porta ad assumere la
responsabilità del bene compiuto e del male commesso: se l'uomo commette il
male, il giusto giudizio della sua coscienza rimane in lui testimone della
verità universale del bene, come della malizia della sua scelta particolare. Ma
il verdetto della coscienza permane in lui anche come un pegno di speranza e di
misericordia: mentre attesta il male commesso, ricorda anche il perdono da
chiedere, il bene da praticare e la virtù da coltivare sempre, con la grazia di
Dio.
Così nel giudizio pratico della
coscienza, che impone alla persona l'obbligo di compiere un determinato
atto, si rivela il vincolo della libertà con la verità. Proprio per
questo la coscienza si esprime con atti di « giudizio » che riflettono la
verità sul bene, e non come « decisioni » arbitrarie. E la maturità e la
responsabilità di questi giudizi — e, in definitiva, dell'uomo, che ne è il
soggetto — si misurano non con la liberazione della coscienza dalla verità
oggettiva, in favore di una presunta autonomia delle proprie decisioni, ma, al
contrario, con una pressante ricerca della verità e con il farsi guidare da
essa nell'agire.
Cercare la verità e il bene
62. La coscienza, come giudizio di un atto,
non è esente dalla possibilità di errore. « Succede non di rado — scrive il
Concilio — che la coscienza sia erronea per ignoranza invincibile, senza che
per questo essa perda la sua dignità. Ma ciò non si può dire quando l'uomo poco
si cura di cercare la verità e il bene, e quando la coscienza diventa quasi
cieca in seguito all'abitudine del peccato ».107 Con queste brevi parole il
Concilio offre una sintesi della dottrina che la Chiesa nel corso dei secoli ha
elaborato sulla coscienza erronea.
Certamente, per avere una « buona coscienza
» (1 Tm 1,5), l'uomo deve cercare la verità e deve giudicare secondo
questa stessa verità. Come dice l'apostolo Paolo, la coscienza deve essere
illuminata dallo Spirito Santo (cf Rm 9,1), deve essere « pura » (2
Tm 1,3), non deve con astuzia falsare la parola di Dio ma manifestare
chiaramente la verità (cf 2 Cor 4,2). D'altra parte, lo stesso Apostolo
ammonisce i cristiani dicendo: « Non conformatevi alla mentalità di questo
mondo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la
volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto » (Rm 12,2).
Il monito di Paolo ci sollecita alla
vigilanza, avvertendoci che nei giudizi della nostra coscienza si annida sempre
la possibilità dell'errore. Essa non è un giudice infallibile: può
errare. Nondimeno l'errore della coscienza può essere il frutto di una ignoranza
invincibile, cioè di un'ignoranza di cui il soggetto non è consapevole e da
cui non può uscire da solo.
Nel caso in cui tale ignoranza invincibile
non sia colpevole, ci ricorda il Concilio, la coscienza non perde la sua dignità,
perché essa, pur orientandoci di fatto in modo difforme dall'ordine morale
oggettivo, non cessa di parlare in nome di quella verità sul bene che il
soggetto è chiamato a ricercare sinceramente.
63. È comunque sempre dalla verità che
deriva la dignità della coscienza: nel caso della coscienza retta si tratta
della veritàoggettiva accolta dall'uomo; in quello della coscienza
erronea si tratta di ciò che l'uomo sbagliando ritiene soggettivamente
vero. Non è mai accettabile confondere un errore « soggettivo » sul bene
morale con la verità « oggettiva », razionalmente proposta all'uomo in virtù
del suo fine, né equiparare il valore morale dell'atto compiuto con coscienza
vera e retta con quello compiuto seguendo il giudizio di una coscienza
erronea.108 Il male commesso a causa di una ignoranza invincibile, o di un
errore di giudizio non colpevole, può non essere imputabile alla persona che lo
compie; ma anche in tal caso esso non cessa di essere un male, un disordine in
relazione alla verità sul bene. Inoltre, il bene non riconosciuto non
contribuisce alla crescita morale della persona che lo compie: esso non la
perfeziona e non giova a disporla al bene supremo. Così, prima di sentirci
facilmente giustificati in nome della nostra coscienza, dovremmo meditare sulla
parola del Salmo: « Le inavvertenze chi le discerne? Assolvimi dalle colpe che
non vedo » (Sal 181,13). Ci sono colpe che non riusciamo a vedere e che
nondimeno rimangono colpe, perché ci siamo rifiutati di andare verso la luce
(cf Gv 9,39-41).
La coscienza, come giudizio ultimo concreto,
compromette la sua dignità quando è colpevolmente erronea, ossia «
quando l'uomo non si cura di cercare la verità e il bene, e quando la coscienza
diventa quasi cieca in seguito all'abitudine al peccato ».109 Ai pericoli della
deformazione della coscienza allude Gesù, quando ammonisce: « La lucerna del
corpo è l'occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà
nella luce; ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se
dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tua tenebra! » (Mt
6,22-23).
64. Nelle parole di Gesù sopra riferite
troviamo anche l'appello a formare la coscienza, a renderla oggetto di
continua conversione alla verità e al bene. Analoga è l'esortazione dell'Apostolo
a non conformarsi alla mentalità di questo mondo, ma a trasformarsi rinnovando
la propria mente (cf Rm 12,2). È, in realtà, il « cuore » convertito al
Signore e all'amore del bene la sorgente dei giudizi veri della
coscienza. Infatti, « per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono,
a lui gradito e perfetto » (Rm 12,2) è sì necessaria la conoscenza della
legge di Dio in generale, ma questa non è sufficiente: è indispensabile una
sorta di « connaturalità » tra l'uomo e il vero bene.110 Una simile
connaturalità si radica e si sviluppa negli atteggiamenti virtuosi dell'uomo
stesso: la prudenza e le altre virtù cardinali, e prima ancora le virtù
teologali della fede, della speranza e della carità. In tal senso Gesù ha
detto: « Chi opera la verità viene alla luce » (Gv 3,21).
Un grande aiuto per la formazione della coscienza i cristiani l'hanno
nella Chiesa e nel suo Magistero, come afferma il Concilio: « I
cristiani... nella formazione della loro coscienza devono considerare
diligentemente la dottrina sacra e certa della Chiesa. Infatti per volontà di
Cristo la Chiesa cattolica è maestra di verità, e il suo compito è di
annunziare e di insegnare in modo autentico la verità che è Cristo, e nello
stesso tempo di dichiarare e di confermare con la sua autorità i principi
dell'ordine morale che scaturiscono dalla stessa natura umana ».111 Pertanto
l'autorità della Chiesa, che si pronuncia sulle questioni morali, non intacca
in nessun modo la libertà di coscienza dei cristiani: non solo perché la libertà
della coscienza non è mai libertà « dalla » verità, ma sempre e solo « nella »
verità; ma anche perché il Magistero non porta alla coscienza cristiana verità
ad essa estranee, bensì manifesta le verità che dovrebbe già possedere
sviluppandole a partire dall'atto originario della fede. La Chiesa si pone solo
e sempre al servizio della coscienza, aiutandola a non essere portata
qua e là da qualsiasi vento di dottrina secondo l'inganno degli uomini (cf Ef
4,14), a non sviarsi dalla verità circa il bene dell'uomo, ma, specialmente
nelle questioni più difficili, a raggiungere con sicurezza la verità e a
rimanere in essa.
III. La scelta fondamentale e i
componenti concreti
« Purché questa libertà non divenga
pretestoper vivere secondo la carne » (Gal 5,13)
65. L'interesse, oggi particolarmente acuto,
per la libertà induce molti cultori di scienze sia umane che teologiche a
sviluppare un'analisi più penetrante della sua natura e dei suoi dinamismi.
Giustamente si rileva che la libertà non è solo la scelta per questa o per
quest'altra azione particolare; ma è anche, dentro una simile scelta, decisione
su di sé e disposizione della propria vita pro o contro il Bene, pro o
contro la Verità, in ultima istanza pro o contro Dio. Giustamente si sottolinea
l'importanza eminente di alcune scelte, che danno « forma » a tutta la vita
morale di un uomo, configurandosi come l'alveo entro cui potranno trovare
spazio e sviluppo anche altre scelte quotidiane particolari.
Alcuni autori, tuttavia, propongono una
revisione ben più radicale del rapporto tra persona e atti. Essi parlano
di una « libertà fondamentale », più profonda e diversa dalla libertà di
scelta, senza la cui considerazione non si potrebbero né comprendere né
valutare correttamente gli atti umani. Secondo tali autori, il ruolo chiave
nella vita morale sarebbe da attribuire ad una « opzione fondamentale »,
attuata da quella libertà fondamentale mediante la quale la persona decide
globalmente di se stessa, non attraverso una scelta determinata e consapevole a
livello riflesso, ma in forma « trascen- dentale » e « atematica ». Gli atti
particolari derivanti da questa opzione costituirebbero soltanto dei
tentativi parziali e mai risolutivi per esprimerla, sarebbero solamente « segni
» o sintomi di essa. Oggetto immediato di questi atti — si dice — non è il Bene
assoluto (di fronte al quale si esprimerebbe a livello trascendentale la
libertà della persona), ma sono i beni particolari (detti anche « cate- goriali
»). Ora, secondo l'opinione di alcuni teologi, nessuno di questi beni, per loro
natura parziali, potrebbe determinare la libertà dell'uomo come persona nella
sua totalità, anche se solamente mediante la loro realizzazione o il loro
rifiuto l'uomo potrebbe esprimere la propria opzione fondamentale.
Si giunge così ad introdurre una distinzione
tra l'opzione fondamentale e le scelte deliberate di un comportamento concreto,
una distinzione che in alcuni autori assume la forma di una dissociazione, allorché
essi riservano espressamente il « bene » e il « male » morale alla dimensione
trascendentale propria dell'opzione fondamentale, qualificando come « giuste »
o « sbagliate » le scelte di particolari comportamenti « intramondani »,
riguardanti cioè le relazioni dell'uomo con se stesso, con gli altri e con il
mondo delle cose. Sembra così delinearsi all'interno dell'agire umano una
scissione tra due livelli di moralità: l'ordine del bene e del male, dipendente
dalla volontà, da una parte, e i comportamenti determinati, dall'altra, i quali
vengono giudicati come moralmente giusti o sbagliati solo in dipendenza da un
calcolo tecnico della proporzione tra beni e mali « premorali » o « fisici »,
che effettivamente seguono all'azione. E ciò fino al punto che un comportamento
concreto, anche liberamente scelto, viene considerato come un processo
semplicemente fisico, e non secondo i criteri propri di un atto umano. L'esito
al quale si giunge è di riservare la qualifica propriamente morale della
persona all'opzione fondamentale, sottraendola in tutto o in parte alla scelta
degli atti particolari, dei comportamenti concreti.
66. Non c'è dubbio che la dottrina morale
cristiana, nelle sue stesse radici bibliche, riconosce la specifica importanza
di una scelta fondamentale che qualifica la vita morale e che impegna la libertà
a livello radicale di fronte a Dio. Si tratta della scelta della fede, dell'obbedienza
della fede (cf Rm 16,26), « con la quale l'uomo si abbandona tutto a
Dio liberamente, prestando "il pieno ossequio dell'intelletto e della
volontà" ».112 Questa fede, che « opera mediante la carità » (Gal 5,6),
proviene dal centro dell'uomo, dal suo « cuore » (cf Rm 10,10), e da qui
è chiamata a fruttificare nelle opere (cf Mt 12,33-35; Lc 6,43-45;
Rm 8,5-8; Gal 5, 22). Nel Decalogo si trova, in capo ai diversi
comandamenti, la clausola fondamentale: « Io sono il Signore, tuo Dio... » (Es
20,2) che, imprimendo il senso originale alle molteplici e varie
prescrizioni particolari, assicura alla morale dell'Alleanza una fisionomia di
globalità, di unità e di profondità. La scelta fondamentale di Israele riguarda
allora il comandamento fondamentale (cf Gs 24,14-25; Es 19,3-8; Mic
6,8). Anche la morale della Nuova Alleanza è dominata dall'appello
fondamentale di Gesù alla sua « sequela » — così anche al giovane egli dice: «
Se vuoi essere perfetto... vieni e seguimi » (Mt 19,21) —: a tale
appello il discepolo risponde con una decisione e scelta radicale. Le parabole
evangeliche del tesoro e della perla preziosa, per la quale si vende tutto ciò
che si possiede, sono immagini eloquenti ed efficaci del carattere radicale e
incondizionato della scelta che il Regno di Dio esige. La radicalità della
scelta di seguire Gesù è meravigliosamente espressa nelle sue parole: « Chi
vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per
causa mia e del vangelo, la salverà » (Mc 8,35).
L'appello di Gesù « vieni e seguimi » segna
la massima esaltazione possibile della libertà dell'uomo e, nello stesso tempo,
attesta la verità e l'obbligazione di atti di fede e di decisioni che si
possono dire di opzione fondamentale. Analoga esaltazione della libertà umana
troviamo nelle parole di san Paolo: « Voi, fratelli, siete stati chiamati a
libertà » (Gal 5, 13). Ma l'Apostolo immediatamente aggiunge un grave
monito: « Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la
carne ». In questo monito riecheggiano le sue precedenti parole: « Cristo ci ha
liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre
di nuovo il giogo della schiavitù » (Gal 5,1). L'apostolo Paolo ci
invita alla vigilanza: la libertà è sempre insidiata dalla schiavitù. Ed è
proprio questo il caso di un atto di fede — nel senso di un'opzione
fondamentale — che viene dissociato dalla scelta degli atti particolari,
secondo le tendenze sopra ricordate.
67. Queste tendenze sono dunque contrarie
allo stesso insegnamento biblico che concepisce l'opzione fondamentale come una
vera e propria scelta della libertà e collega profondamente tale scelta con gli
atti particolari. Mediante la scelta fondamentale l'uomo è capace di orientare
la sua vita e di tendere, con l'aiuto della grazia, verso il suo fine, seguendo
l'appello divino. Ma questa capacità si esercita di fatto nelle scelte
particolari di atti determinati, mediante i quali l'uomo si conforma
deliberatamente alla volontà, alla sapienza e alla legge di Dio. Va pertanto
affermato che la cosiddetta opzione fondamentale, nella misura in cui si
differenzia da un'intenzione generica e quindi non ancora determinatasi in
una forma impegnativa della libertà, si attua sempre mediante scelte
consapevoli e libere. Proprio per questo, essa viene revocata quando
l'uomo impegna la sua libertà in scelte consapevoli di senso contrario,
relative a materia morale grave.
Separare l'opzione fondamentale dai
comportamenti concreti significa contraddire l'integrità sostanziale o l'unità
personale dell'agente morale nel suo corpo e nella sua anima. Un'opzione
fondamentale, intesa senza considerare esplicitamente le potenzialità che mette
in atto e le determinazioni che la esprimono, non rende giustizia alla finalità
razionale immanente all'agire dell'uomo e a ciascuna delle sue scelte
deliberate. In realtà, la moralità degli atti umani non si evince solo
dall'intenzione, dall'orientazione o opzione fondamentale, interpretata nel
senso di un'intenzione vuota di contenuti impegnativi ben determinati o di
un'intenzione alla quale non corrisponde uno sforzo fattivo nei diversi
obblighi della vita morale. La moralità non può essere giudicata se si
prescinde dalla conformità o dalla contrarietà della scelta deliberata di un
comportamento concreto rispetto alla dignità e alla vocazione integrale della
persona umana. Ogni scelta implica sempre un riferimento della volontà
deliberata ai beni e ai mali, indicati dalla legge naturale come beni da
perseguire e mali da evitare.
Nel caso dei precetti morali positivi, la
prudenza ha sempre il compito di verificarne la pertinenza in una determinata
situazione, per esempio tenendo conto di altri doveri forse più importanti o urgenti.
Ma i precetti morali negativi, cioè quelli che proibiscono alcuni atti o
comportamenti concreti come intrinsecamente cattivi, non ammettono alcuna
legittima eccezione; essi non lasciano alcuno spazio moralmente accettabile per
la « creatività » di una qualche determinazione contraria. Una volta
riconosciuta in concreto la specie morale di un'azione proibita da una regola
universale, il solo atto moralmente buono è quello di obbedire alla legge
morale e di astenersi dall'azione che essa proibisce.
68. Occorre aggiungere una importante
considerazione pastorale. Nella logica delle posizioni sopra accennate, l'uomo
potrebbe, in virtù di un'opzione fondamentale, restare fedele a Dio,
indipendentemente dalla conformità o meno di alcune sue scelte e dei suoi atti
determinati alle norme o regole morali specifiche. In ragione di un'opzione
originaria per la carità, l'uomo potrebbe mantenersi moralmente buono,
perseverare nella grazia di Dio, raggiungere la propria salvezza, anche se
alcuni dei suoi comportamenti concreti fossero deliberatamente e gravemente
contrari ai comandamenti di Dio, riproposti dalla Chiesa.
In realtà, l'uomo non si perde solo per
l'infedeltà a quella opzione fondamentale, mediante la quale si è consegnato «
tutto a Dio liberamente ».113 Egli, con ogni peccato mortale commesso
deliberatamente, offende Dio che ha donato la legge e pertanto si rende
colpevole verso tutta la legge (cf Gc 2,8-11); pur conservandosi nella fede,
egli perde la « grazia santificante », la « carità » e la « beatitudine eterna
».114 « La grazia della giustificazione — insegna il Concilio di Trento —, una
volta ricevuta, può essere perduta non solo per l'infedeltà, che fa perdere la
stessa fede, ma anche per qualsiasi altro peccato mortale ».115
Peccato mortale e veniale
69. Le considerazioni intorno all'opzione
fondamentale hanno indotto, come abbiamo ora notato, alcuni teologi a
sottoporre a profonda revisione anche la distinzione tradizionale tra i peccati
mortali e i peccati veniali. Essi sottolineano che l'opposizione
alla legge di Dio, che causa la perdita della grazia santificante — e, nel caso
di morte in un simile stato di peccato, l'eterna condanna —, può essere
soltanto il frutto di un atto che coinvolge la persona nella sua totalità, cioè
un atto di opzione fondamentale. Secondo questi teologi il peccato mortale, che
separa l'uomo da Dio, si verificherebbe soltanto nel rifiuto di Dio, compiuto
ad un livello della libertà non identificabile con un atto di scelta né
attingibile con consapevolezza riflessa. In questo senso — aggiungono — è
difficile, almeno psicologicamente, accettare il fatto che un cristiano, che
vuole rimanere unito a Gesù Cristo e alla sua Chiesa, possa così facilmente e
ripetutamente commettere peccati mortali, come indicherebbe, a volte, la «
materia » stessa dei suoi atti. Parimenti sarebbe difficile accettare che
l'uomo sia capace, in un breve lasso di tempo, di spezzare radicalmente il
legame di comunione con Dio e, successivamente, di convertirsi a lui mediante
la sincera penitenza. Occorre dunque — si dice — misurare la gravità del
peccato piuttosto dal grado di impegno della libertà della persona che compie
un atto che non dalla materia di tale atto.
70. L'Esortazione apostolica post-sinodale Reconciliatio
et paenitentia ha ribadito l'importanza e la permanente attualità della
distinzione tra peccati mortali e veniali, secondo la tradizione della Chiesa.
E il Sinodo dei Vescovi del 1983, da cui è scaturita tale Esortazione, « non
soltanto ha riaffermato quanto è stato proclamato dal Concilio Tridentino
sull'esistenza e la natura dei peccati mortali e veniali, ma ha
voluto ricordare che è peccato mortale quello che ha per oggetto una
materia grave e che, inoltre, viene commesso con piena consapevolezza e
deliberato consenso ».116
Il pronunciamento del Concilio di Trento non
considera soltanto la « materia grave » del peccato mortale, ma ricorda anche,
come sua necessaria condizione, « la piena avvertenza e il deliberato consenso
». Del resto, sia nella teologia morale che nella pratica pastorale, sono ben
conosciuti i casi nei quali un atto grave, a motivo della sua materia, non
costituisce peccato mortale a motivo della non piena avvertenza o del non
deliberato consenso di colui che lo compie. D'altra parte, « si dovrà evitare
di ridurre il peccato mortale ad un atto di "opzione fondamentale"
— come oggi si suol dire — contro Dio », concepito sia come esplicito e
formale disprezzo di Dio e del prossimo sia come implicito e non riflesso
rifiuto dell'amore. « Si ha, infatti, peccato mortale anche quando l'uomo,
sapendo e volendo, per qualsiasi ragione sceglie qualcosa di gravemente
disordinato. In effetti, in una tale scelta è già contenuto un disprezzo del
precetto divino, un rifiuto dell'amore di Dio verso l'umanità e tutta la
creazione: l'uomo allontana se stesso da Dio e perde la carità. L'orientamento
fondamentale, quindi, può essere radicalmente modificato da atti
particolari. Senza dubbio si possono dare situazioni molto complesse e
oscure sotto l'aspetto psicologico, che influiscono sulla imputabilità
soggettiva del peccatore. Ma dalla considerazione della sfera psicologica non
si può passare alla costituzione di una categoria teologica, quale appunto l'
"opzione fondamentale", intendendola in modo tale che, sul piano
oggettivo, cambi o metta in dubbio la concezione tradizionale di peccato
mortale ».117
In tal modo la dissociazione tra opzione
fondamentale e scelte deliberate di comportamenti determinati — disordinati in
se stessi o nelle circostanze — che non la metterebbero in causa, comporta il
misconoscimento della dottrina cattolica sul peccato mortale: « Con tutta la
tradizione della Chiesa noi chiamiamo peccato mortale questo atto, per
il quale un uomo, con libertà e consapevolezza, rifiuta Dio, la sua legge,
l'alleanza di amore che Dio gli propone, preferendo volgersi a se stesso, a
qualche realtà creata e finita, a qualcosa di contrario al volere divino (conversio
ad creaturam). Il che può avvenire in modo diretto e formale, come nei
peccati di idolatria, di apostasia, di ateismo; o in modo equivalente, come in
tutte le disubbidienze ai comandamenti di Dio in materia grave ».118
IV. L'atto morale
Teleologia e teleologismo
71. Il rapporto tra la libertà dell'uomo e
la legge di Dio, che trova la sua sede intima e viva nella coscienza morale, si
manifesta e si realizza negli atti umani. È proprio mediante i suoi atti
che l'uomo si perfeziona come uomo, come uomo chiamato a cercare spontaneamente
il suo Creatore e a giungere liberamente, con l'adesione a lui, alla piena e
beata perfezione.119
Gli atti umani sono atti morali, perché
esprimono e decidono della bontà o malizia dell'uomo stesso che compie quegli
atti.120 Essi non producono solo un mutamento dello stato di cose esterne
all'uomo, ma, in quanto scelte deliberate, qualificano moralmente la persona
stessa che li compie e ne determinano la fisionomia spirituale profonda, come
rileva suggestivamente san Gregorio Nisseno: « Tutti gli esseri soggetti al
divenire non restano mai identici a se stessi, ma passano continuamente da uno
stato ad un altro mediante un cambiamento che opera sempre, in bene o in
male... Ora, essere soggetto a cambiamento è nascere continuamente... Ma qui la
nascita non avviene per un intervento estraneo, com'è il caso degli esseri
corporei... Essa è il risultato di una scelta libera e noi siamo così,
in certo modo, i nostri stessi genitori, creandoci come vogliamo, e con
la nostra scelta dandoci la forma che vogliamo ».121
72. La moralità degli atti è definita
dal rapporto della libertà dell'uomo col bene autentico. Tale bene è stabilito,
come legge eterna, dalla Sapienza di Dio che ordina ogni essere al suo fine:
questa legge eterna è conosciuta tanto attraverso la ragione naturale dell'uomo
(e così è « legge naturale »), quanto — in modo integrale e perfetto —
attraverso la rivelazione soprannaturale di Dio (e così è chiamata « legge
divina »). L'agire è moralmente buono quando le scelte della libertà sono
conformi al vero bene dell'uomo ed esprimono così l'ordinazione volontaria
della persona verso il suo fine ultimo, cioè Dio stesso: il bene supremo nel
quale l'uomo trova la sua piena e perfetta felicità. La domanda iniziale del
colloquio del giovane con Gesù: « Che cosa devo fare di buono per ottenere la
vita eterna? » (Mt 19,16) mette immediatamente in luce l'essenziale
legame tra il valore morale di un atto e il fine ultimo dell'uomo. Gesù,
nella sua risposta, conferma la convinzione del suo interlocutore: il
compimento di atti buoni, comandati da Colui che « solo è buono », costituisce
la condizione indispensabile e la via per la beatitudine eterna: « Se vuoi
entrare nella vita, osserva i comandamenti » (Mt 19,17). La risposta di
Gesù e il rimando ai comandamenti manifestano anche che la via al fine è
segnata dal rispetto delle leggi divine che tutelano il bene umano. Solo
l'atto conforme al bene può essere via che conduce alla vita.
L'ordinazione razionale dell'atto umano al
bene nella sua verità e il perseguimento volontario di questo bene, conosciuto
dalla ragione, costituiscono la moralità. Pertanto, l'agire umano non può
essere valutato moralmente buono solo perché funzionale a raggiungere questo o
quello scopo, che persegue, o semplicemente perché l'intenzione del soggetto è
buona.122 L'agire è moralmente buono quando attesta ed esprime l'ordinazione
volontaria della persona al fine ultimo e la conformità dell'azione concreta
con il bene umano come viene riconosciuto nella sua verità dalla ragione. Se
l'oggetto dell'azione concreta non è in sintonia con il bene vero della
persona, la scelta di tale azione rende la nostra volontà e noi stessi
moralmente cattivi e, quindi, ci mette in contrasto con il nostro fine ultimo,
il bene supremo, cioè Dio stesso.
73. Il cristiano, grazie alla rivelazione di
Dio e alla fede, conosce la « novità » da cui è segnata la moralità dei suoi
atti; questi sono chiamati ad esprimere la coerenza o meno con quella dignità e
vocazione che gli sono state donate dalla grazia: in Gesù Cristo e nel suo
Spirito, il cristiano è « creatura nuova », figlio di Dio, e mediante i suoi
atti manifesta la sua conformità o difformità con l'immagine del Figlio che è
il primogenito tra molti fratelli (cf Rm 8,29), vive la sua fedeltà o
infedeltà al dono dello Spirito e si apre o si chiude alla vita eterna, alla
comunione di visione, di amore e di beatitudine con Dio Padre, Figlio e Spirito
Santo.123 Cristo « ci forma secondo la sua immagine — scrive san Cirillo
Alessandrino —, in modo che i lineamenti della sua divina natura risplendano in
noi attraverso la santificazione e la giustizia e la vita buona e conforme a
virtù... La bellezza di questa immagine risplende in noi che siamo in Cristo,
quando ci mostriamo uomini buoni nelle opere ».124
In questo senso la vita morale possiede un
essenziale carattere « teleologico », perché consiste nella deliberata
ordinazione degli atti umani a Dio, sommo bene e fine (telos) ultimo
dell'uomo. Lo attesta, ancora una volta, la domanda del giovane a Gesù: « Che
cosa devo fare di buono per ottenere la vita eterna? ». Ma questa ordinazione
al fine ultimo non è una dimensione soggettivistica che dipende solo
dall'intenzione. Essa presuppone che tali atti siano in se stessi ordinabili a
questo fine, in quanto conformi all'autentico bene morale dell'uomo, tutelato
dai comandamenti. È ciò che ricorda Gesù stesso nella risposta al giovane: « Se
vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti » (Mt 19,17).
Evidentemente dev'essere un'ordinazione
razionale e libera, cosciente e deliberata, in forza della quale l'uomo è «
responsabile » dei suoi atti ed è soggetto al giudizio di Dio, giudice giusto e
buono che premia il bene e castiga il male, come ci ricorda l'apostolo Paolo: «
Tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, ciascuno per
ricevere la ricompensa delle opere compiute finché era nel corpo, sia in bene
che in male » (2 Cor 5,10).
74. Ma da che cosa dipende la qualificazione
morale dell'agire libero dell'uomo? Da che cosa è assicurata questa ordinazione
a Dio degli atti umani? Dall'intenzione del soggetto che agisce,
dalle circostanze — e in particolare dalle conseguenze — del suo agire,
dall'oggetto stesso del suo atto?
È questo il problema tradizionalmente
chiamato delle « fonti della moralità ». Proprio a riguardo di tale problema,
in questi decenni si sono manifestate nuove — o ripristinate — tendenze
culturali e teologiche che esigono un accurato discernimento da parte del
Magistero della Chiesa.
Alcune teorie etiche, denominate «
teleologiche », si presentano attente alla conformità degli atti umani con
i fini perseguiti dall'agente e con i valori da lui intesi. I criteri per
valutare la giustezza morale di un'azione sono ricavati dalla ponderazione
dei beni non-morali o pre-morali da conseguire e dei rispettivi valori
non-morali o pre-morali da rispettare. Per taluni il comportamento concreto
sarebbe giusto, o sbagliato, a seconda che possa, o non possa, produrre uno
stato di cose migliore per tutte le persone interessate: sarebbe giusto il
comportamento in grado di « massimizzare » i beni e di « minimizzare » i mali.
Molti dei moralisti cattolici, che seguono
questo orientamento, intendono prendere le distanze dall'utilitarismo e dal
pragmatismo, per cui la moralità degli atti umani sarebbe giudicata senza far
riferimento al vero fine ultimo dell'uomo. Essi giustamente si rendono conto
della necessità di trovare argomentazioni razionali, sempre più consistenti,
per giustificare le esigenze e fondare le norme della vita morale. E tale
ricerca è legittima e necessaria, dal momento che l'ordine morale, stabilito
dalla legge naturale, è in linea di principio accessibile alla ragione umana. È
ricerca, del resto, che corrisponde alle esigenze del dialogo e della
collaborazione con i non-cattolici e i non-credenti, particolarmente nelle società
pluralistiche.
75. Ma all'interno dello sforzo di elaborare
una simile morale razionale — talvolta chiamata a questo titolo « morale
autonoma » —, esistono false soluzioni, legate in particolare ad una
inadeguata comprensione dell'oggetto dell'agire morale. Alcuni non tengono
in sufficiente considerazione il fatto che la volontà è coinvolta nelle scelte
concrete che essa opera: queste sono condizione della sua bontà morale e della
sua ordinazione al fine ultimo della persona. Altri poi si ispirano ad una
concezione della libertà che prescinde dalle condizioni effettive del suo
esercizio, dal suo riferimento oggettivo alla verità sul bene, dalla sua
determinazione mediante scelte di comportamenti concreti. Così, secondo queste
teorie, la volontà libera non sarebbe né moralmente sottomessa a obbligazioni
determinate, né informata dalle sue scelte, pur rimanendo responsabile dei
propri atti e delle loro conseguenze. Questo « teleologismo », come
metodo di rinvenimento della norma morale, può allora — secondo terminologie e
approcci mutuati da differenti correnti di pensiero — chiamarsi «
consequenzialismo » o « proporzionalismo ». Il primo pretende di
ricavare i criteri della giustezza di un determinato agire solo dal calcolo
delle conseguenze che si prevedono derivare dall'esecuzione di una scelta. Il
secondo, ponderando tra loro valori e beni perseguiti, si focalizza piuttosto
sulla proporzione riconosciuta tra gli effetti buoni e cattivi, in vista del «
più grande bene » o del « minor male » effettivamente possibili in una
situazione particolare.
Le teorie etiche teleologiche
(proporzionalismo, consequenzialismo), pur riconoscendo che i valori morali sono indicati dalla ragione e dalla
Rivelazione, ritengono che non si possa mai formulare una proibizione assoluta
di determinati comportamenti, che sarebbero contrastanti, in ogni circostanza e
in ogni cultura, con quei valori. Il soggetto che agisce sarebbe sì
responsabile del raggiungimento dei valori perseguiti, ma secondo un duplice
aspetto: infatti, i valori o beni coinvolti in un atto umano sarebbero, per un
aspetto, di ordine morale (in rapporto a valori propriamente morali,
come l'amore di Dio, la benevolenza verso il prossimo, la giustizia, ecc.) e,
per un altro aspetto, di ordine pre-morale, detto anche non-morale o
fisico o ontico (in rapporto ai vantaggi e svantaggi recati sia a colui che
agisce che ad altre persone, prima o poi coinvolte, come, ad esempio, la salute
o la sua lesione, l'integrità fisica, la vita, la morte, la perdita di beni
materiali, ecc.). In un mondo in cui il bene sarebbe sempre mescolato al male
ed ogni effetto buono legato ad altri effetti cattivi, la moralità dell'atto si
giudicherebbe in modo differenziato: la sua « bontà » morale sulla base
dell'intenzione del soggetto riferita ai beni morali e la sua « giustezza »
sulla base della considerazione degli effetti o conseguenze prevedibili e della
loro proporzione. Di conseguenza, i comportamenti concreti sarebbero da
qualificarsi come « giusti » o « sbagliati », senza che per questo sia
possibile valutare come moralmente « buona » o « cattiva » la volontà della
persona che li sceglie. In questo modo, un atto, che ponendosi in
contraddizione con una norma universale negativa viola direttamente beni
considerati come pre-morali, potrebbe essere qualificato come moralmente
ammissibile, se l'intenzione del soggetto si concentra, secondo una «
responsabile » ponderazione dei beni coinvolti nell'azione concreta, sul valore
morale giudicato decisivo nella circostanza.
La valutazione delle conseguenze
dell'azione, in base alla proporzione dell'atto con i suoi effetti e degli
effetti tra di loro, riguarderebbe l'ordine solo pre-morale. Sulla specificità
morale degli atti, ossia sulla loro bontà o malizia, deciderebbe esclusivamente
la fedeltà della persona ai valori più alti della carità e della prudenza,
senza che questa fedeltà sia necessariamente incompatibile con scelte contrarie
a certi precetti morali particolari. Anche in materia grave, questi ultimi
dovrebbero essere considerati come norme operative sempre relative e
suscettibili di eccezioni.
In questa prospettiva il consenso deliberato
a certi comportamenti dichiarati illeciti dalla morale tradizionale non
implicherebbe una malizia morale oggettiva.
L'oggetto dell'atto deliberato
76. Queste teorie possono acquistare una
certa forza persuasiva dalla loro affinità con la mentalità scientifica,
giustamente preoccupata di ordinare le attività tecniche ed economiche in base
al calcolo delle risorse e dei profitti, dei procedimenti e degli effetti. Esse
vogliono liberare dalle costrizioni di una morale dell'obbligazione,
volontarista e arbitraria, che si rivelerebbe disumana.
Siffatte teorie non sono però fedeli alla
dottrina della Chiesa, allorché credono di poter giustificare, come moralmente
buone, scelte deliberate di comportamenti contrari ai comandamenti della legge
divina e naturale. Queste teorie non possono richiamarsi alla tradizione morale
cattolica: se è vero che in quest'ultima si è sviluppata una casistica attenta
a ponderare in alcune situazioni concrete le possibilità maggiori di bene, è
altrettanto vero che ciò riguardava solo i casi in cui la legge era incerta e,
pertanto, non metteva in discussione la validità assoluta dei precetti morali negativi
che obbliga senza eccezione. I fedeli sono tenuti a riconoscere e a rispettare
i precetti morali specifici, dichiarati e insegnati dalla Chiesa in nome di
Dio, Creatore e Signore.125 Quando l'apostolo Paolo ricapitola nel precetto di
amare il prossimo come se stessi il compimento della legge (cf Rm 13,8-10),
non attenua i comandamenti, ma piuttosto li conferma, dal momento che ne rivela
le esigenze e la gravità. L'amore di Dio e l'amore del prossimo sono
inseparabili dall'osservanza dei comandamenti dell'Alleanza, rinnovata nel
sangue di Gesù Cristo e nel dono dello Spirito. È onore proprio dei cristiani
obbedire a Dio piuttosto che agli uomini (cf At 4,19; 5,29) ed accettare
per questo anche il martirio, come hanno fatto i santi e le sante dell'Antico e
del Nuovo Testamento, riconosciuti tali per aver dato la loro vita piuttosto
che compiere questo o quel gesto particolare contrario alla fede o alla virtù.
77. Per offrire i criteri razionali di una
giusta decisione morale, le accennate teorie tengono conto dell'intenzione e
delle conseguenze dell'azione umana. Sono certamente da prendere in
grande considerazione sia l'intenzione — come insiste con una forza particolare
Gesù in aperta contrapposizione agli scribi e farisei, che minuziosamente
prescrivevano certe opere esteriori senza badare al cuore (cf Mc 7,20-21;
Mt 15,19) —, sia i beni ottenuti e i mali evitati, a seguito di un atto
particolare. Si tratta di un'esigenza di responsabilità. Ma la considerazione
di queste conseguenze — nonché delle intenzioni — non è sufficiente a valutare
la qualità morale di una scelta concreta. La ponderazione dei beni e dei mali,
prevedibili in conseguenza di un'azione, non è un metodo adeguato per
determinare se la scelta di quel comportamento concreto è « secondo la sua
specie », o « in se stessa », moralmente buona o cattiva, lecita o illecita. Le
conseguenze prevedibili appartengono a quelle circostanze dell'atto, che, se
possono modificare la gravità di un atto cattivo, non possono però cambiarne la
specie morale.
Ciascuno, del resto, conosce le difficoltà —
o meglio l'impossibilità — di valutare tutte le conseguenze e tutti gli effetti
buoni o cattivi — definiti pre-morali — dei propri atti: un calcolo razionale
esaustivo non è possibile. Come fare allora per stabilire delle proporzioni che
dipendono da una valutazione, i cui criteri restano oscuri? In che modo
potrebbe giustificarsi un obbligo assoluto su calcoli tanto discutibili?
78. La moralità dell'atto umano dipende
anzitutto e fondamentalmente dall'oggetto ragionevolmente scelto dalla volontà
deliberata, come prova anche la penetrante analisi, tuttora valida, di san
Tommaso.126 Per poter cogliere l'oggetto di un atto che lo specifica moralmente
occorre quindi collocarsi nella prospettiva della persona che agisce. Infatti,
l'oggetto dell'atto del volere è un comportamento liberamente scelto. In quanto
conforme all'ordine della ragione, esso è causa della bontà della volontà, ci
perfeziona moralmente e ci dispone a riconoscere il nostro fine ultimo nel bene
perfetto, l'amore originario. Per oggetto di un determinato atto morale non si
può, dunque, intendere un processo o un evento di ordine solamente fisico, da
valutare in quanto provoca un determinato stato di cose nel mondo esteriore.
Esso è il fine prossimo di una scelta deliberata, che determina l'atto del
volere della persona che agisce. In tal senso, come insegna il Catechismo
della Chiesa Cattolica, « vi sono comportamenti concreti che è sempre
sbagliato scegliere, perché la loro scelta comporta un disordine della volontà,
cioè un male morale ».127 « Spesso infatti — scrive l'Aquinate — qualcuno
agisce con buona intenzione, ma inutilmente, in quanto manca la buona volontà:
come nel caso di uno che rubi per nutrire un povero, c'è sì la retta
intenzione, manca tuttavia la rettitudine della debita volontà. Di conseguenza,
nessun male compiuto con buona intenzione può essere scusato: "Come coloro
che dicono: Facciamo il male perché venga il bene; la condanna dei quali è
giusta" (Rm 3,8) ».128
La ragione per cui non basta la buona
intenzione ma occorre anche la retta scelta delle opere, sta nel fatto che
l'atto umano dipende dal suo oggetto, ossia se questo è ordinabile o
meno a Dio, a Colui che « solo è buono », e così realizza la perfezione della
persona. L'atto è buono, quindi, se il suo oggetto è conforme al bene della
persona nel rispetto dei beni per essa moralmente rilevanti. L'etica cristiana,
che privilegia l'attenzione all'oggetto morale, non rifiuta di considerare
l'interiore « teleologia » dell'agire, in quanto volto a promuovere il vero
bene della persona, ma riconosce che esso viene realmente perseguito solo
quando si rispettano gli elementi essenziali della natura umana. L'atto umano,
buono secondo il suo oggetto, è anche ordinabile al fine ultimo. Lo stesso
atto raggiunge poi la sua perfezione ultima e decisiva quando la volontà lo ordina
effettivamente a Dio mediante la carità. In tal senso, il Patrono dei
moralisti e dei confessori insegna: « Non basta fare opere buone, ma bisogna
farle bene. Acciocché le opere nostre siano buone e perfette, è necessario
farle col puro fine di piacere a Dio ».129
Il « male intrinseco »: non è lecito
fare il male a scopo di bene
(cf Rm 3,8)
79. È da respingere quindi la tesi, propria
delle teorie teleologiche e proporzionaliste, secondo cui sarebbe
impossibile qualificare come moralmente cattiva secondo la sua specie — il
suo « oggetto » — la scelta deliberata di alcuni comportamenti o atti
determinati prescindendo dall'intenzione per cui la scelta viene fatta o dalla
totalità delle conseguenze prevedibili di quell'atto per tutte le persone
interessate.
L'elemento primario e decisivo per il
giudizio morale è l'oggetto dell'atto umano, il quale decide sulla sua ordinabilità
al bene e al fine ultimo, che è Dio. Tale ordinabilità viene colta dalla
ragione nell'essere stesso dell'uomo, considerato nella sua verità integrale,
dunque nelle sue inclinazioni naturali, nei suoi dinamismi e nelle sue finalità
che hanno sempre anche una dimensione spirituale: sono esattamente questi i
contenuti della legge naturale, e quindi il complesso ordinato dei « beni per
la persona » che si pongono al servizio del « bene della persona », di quel
bene che è essa stessa e la sua perfezione. Sono questi i beni tutelati dai
comandamenti, i quali, secondo san Tommaso, contengono tutta la legge
naturale.130
80. Ora la ragione attesta che si danno
degli oggetti dell'atto umano che si configurano come « non-ordinabili » a Dio,
perché contraddicono radicalmente il bene della persona, fatta a sua immagine.
Sono gli atti che, nella tradizione morale della Chiesa, sono stati denominati
« intrinsecamente cattivi » (intrinsece malum): lo sono sempre e per sé,
ossia per il loro stesso oggetto, indipendentemente dalle ulteriori intenzioni
di chi agisce e dalle circostanze. Per questo, senza minimamente negare
l'influsso che sulla moralità hanno le circostanze e soprattutto le intenzioni,
la Chiesa insegna che « esistono atti che, per se stessi e in se stessi,
indipendentemente dalle circostanze, sono sempre gravemente illeciti, in
ragione del loro oggetto ».131 Lo stesso Concilio Vaticano II, nel contesto del
dovuto rispetto della persona umana, offre un'ampia esemplificazione di tali
atti: « Tutto ciò che è contro la vita stessa, come ogni specie di omicidio, il
genocidio, l'aborto, l'eutanasia e lo stesso suicidio volontario; tutto ciò che
viola l'integrità della persona umana, come le mutilazioni, le torture inflitte
al corpo e alla mente, gli sforzi per violentare l'intimo dello spirito; tutto
ciò che offende la dignità umana, come le condizioni infraumane di vita, le
incarcerazioni arbitrarie, le deportazioni, la schiavitù, la prostituzione, il
mercato delle donne e dei giovani, o ancora le ignominiose condizioni del
lavoro con le quali i lavoratori sono trattati come semplici strumenti di
guadagno, e non come persone libere e responsabili; tutte queste cose, e altre
simili, sono certamente vergognose e, mentre guastano la civiltà umana, ancor
più inquinano coloro che così si comportano, che non quelli che le subiscono, e
ledono grandemente l'onore del Creatore ».132
Sugli atti intrinsecamente cattivi, e in
riferimento alle pratiche contraccettive mediante le quali l'atto coniugale è
reso intenzionalmente infecondo, Paolo VI insegna: « In verità, se è lecito, talvolta,
tollerare un minor male morale al fine di evitare un male maggiore o di
promuovere un bene più grande, non è lecito, neppure per ragioni gravissime,
fare il male, affinché ne venga il bene (cf Rm 3,8), cioè fare oggetto
di un atto positivo di volontà ciò che è intrinsecamente disordine e quindi
indegno della persona umana, anche se nell'intento di salvaguardare o
promuovere beni individuali, familiari o sociali ».133
81. Insegnando l'esistenza di atti
intrinsecamente cattivi, la Chiesa accoglie la dottrina della Sacra Scrittura.
L'apostolo Paolo afferma in modo categorico: « Non illudetevi: né immorali, né
idolatri, né adulteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né ubriaconi, né
maldicenti, né rapaci erediteranno il Regno di Dio » (1 Cor 6,9-10).
Se gli atti sono intrinsecamente cattivi,
un'intenzione buona o circostanze particolari possono attenuarne la malizia, ma
non possono sopprimerla: sono atti « irrimediabilmente » cattivi, per se stessi
e in se stessi non sono ordinabili a Dio e al bene della persona: « Quanto agli
atti che sono per se stessi dei peccati (cum iam opera ipsa peccata sunt)
— scrive sant'Agostino —, come il furto, la fornicazione, la bestemmia, o altri
atti simili, chi oserebbe affermare che, compiendoli per buoni motivi (causis
bonis), non sarebbero più peccati o, conclusione ancora più assurda, che
sarebbero peccati giustificati? ».134
Per questo, le circostanze o le intenzioni
non potranno mai trasformare un atto intrinsecamente disonesto per il suo
oggetto in un atto « soggettivamente » onesto o difendibile come scelta.
82. Del resto, l'intenzione è buona quando
mira al vero bene della persona in vista del suo fine ultimo. Ma gli atti, il
cui oggetto è « non-ordinabile » a Dio e « indegno della persona umana », si
oppongono sempre e in ogni caso a questo bene. In tal senso il rispetto delle
norme che proibiscono tali atti e che obbligano semper et pro semper, ossia
senza alcuna eccezione, non solo non limita la buona intenzione, ma costituisce
addirittura la sua espressione fondamentale.
La dottrina dell'oggetto, quale fonte della
moralità, costituisce un'esplicitazione autentica della morale biblica
dell'Alleanza e dei comandamenti, della carità e delle virtù. La qualità morale
dell'agire umano dipende da questa fedeltà ai comandamenti, espressione di
obbedienza e di amore. È per questo — lo ripetiamo — che è da respingere come
erronea l'opinione che ritiene impossibile qualificare moralmente come cattiva
secondo la sua specie la scelta deliberata di alcuni comportamenti o atti
determinati, prescindendo dall'intenzione per cui la scelta viene fatta o dalla
totalità delle conseguenze prevedibili di quell'atto per tutte le persone
interessate. Senza questa determinazione razionale della moralità dell'agire
umano, sarebbe impossibile affermare un « ordine morale oggettivo » 135 e
stabilire una qualsiasi norma determinata dal punto di vista del contenuto, che
obblighi senza eccezioni; e ciò a scapito della fraternità umana e della verità
sul bene, e a detrimento altresì della comunione ecclesiale.
83. Come si vede, nella questione della
moralità degli atti umani, e in particolare in quella dell'esistenza degli atti
intrinsecamente cattivi, si concentra in un certo senso la questione stessa
dell'uomo, della sua verità e delle conseguenze morali che ne
derivano. Riconoscendo e insegnando l'esistenza del male intrinseco in
determinati atti umani, la Chiesa rimane fedele alla verità integrale
dell'uomo, e quindi lo rispetta e lo promuove nella sua dignità e vocazione.
Essa, di conseguenza, deve respingere le teorie sopra esposte che si pongono in
contrasto con questa verità.
Bisogna però che noi, Fratelli
nell'Episcopato, non ci fermiamo solo ad ammonire i fedeli circa gli errori e i
pericoli di alcune teorie etiche. Dobbiamo, prima di tutto, mostrare
l'affascinante splendore di quella verità che è Gesù Cristo stesso. In Lui, che
è la Verità (cf Gv 14,6), l'uomo può comprendere pienamente e vivere
perfettamente, mediante gli atti buoni, la sua vocazione alla libertà
nell'obbedienza alla legge divina, che si compendia nel comandamento dell'amore
di Dio e del prossimo. Ed è quanto avviene con il dono dello Spirito Santo,
Spirito di verità, di libertà e di amore: in Lui ci è dato di interiorizzare la
legge e di percepirla e viverla come il dinamismo della vera libertà personale:
« la legge perfetta, la legge della libertà » (Gc 1,25).
CAPITOLO III
«
PERCHÉ NON VENGA RESA VANA
LA CROCE DI CRISTO »
(1 Cor 1,17)
Il
bene morale per la vita della chiesa e del mondo
« Cristo ci ha liberati perché restassimo
liberi » (Gal 5,1)
84. La questione fondamentale che le
teorie morali sopra ricordate pongono con particolare forza è quella del
rapporto tra la libertà dell'uomo e la legge di Dio, ultimamente è la questione
del rapporto tra la libertà e la verità.
Secondo la fede cristiana e la dottrina
della Chiesa, « solamente la libertà che si sottomette alla Verità conduce la
persona umana al suo vero bene. Il bene della persona è di essere nella Verità
e di fare la Verità ».136
Il confronto tra la posizione della Chiesa e
la situazione sociale e culturale d'oggi mette immediatamente in luce l'urgenza
che proprio su tale questione fondamentale si sviluppi un'intensa
opera pastorale da parte della Chiesa stessa: « Questo essenziale legame di
Verità-Bene-Libertà è stato smarrito in larga parte dalla cultura contemporanea
e, pertanto, ricondurre l'uomo a riscoprirlo è oggi una delle esigenze proprie
della missione della Chiesa, per la salvezza del mondo. La domanda di Pilato:
"Che cosa è la verità?" emerge anche dalla sconsolata perplessità di
un uomo che spesso non sa più chi è, donde viene e dove va. E
così assistiamo non di rado al pauroso precipitare della persona umana in
situazioni di autodistruzione progressiva. A voler ascoltare certe voci, sembra
di non doversi più riconoscere l'indistruttibile assolutezza di alcun valore
morale. Sono sotto gli occhi di tutti il disprezzo della vita umana già
concepita e non ancora nata; la violazione permanente di fondamentali diritti
della persona; l'iniqua distruzione dei beni necessari per una vita
semplicemente umana. Anzi, qualcosa di più grave è accaduto: l'uomo non è più
convinto che solo nella verità può trovare la salvezza. La forza salvifica del
vero è contestata, affidando alla sola libertà, sradicata da ogni obiettività,
il compito di decidere autonomamente ciò che è bene e ciò che è male. Questo
relativismo diviene, nel campo teologico, sfiducia nella sapienza di Dio, che
guida l'uomo con la legge morale. A ciò che la legge morale prescrive si
contrappongono le cosiddette situazioni concrete, non ritenendo più, in fondo,
che la legge di Dio sia sempre l'unico vero bene dell'uomo ».137
85. L'opera di discernimento di queste
teorie etiche da parte della Chiesa non si restringe alla loro denuncia e al
loro rifiuto, ma mira positivamente a sostenere con grande amore tutti i fedeli
nella formazione d'una coscienza morale che giudichi e conduca a decisioni
secondo verità, come esorta l'apostolo Paolo: « Non conformatevi alla mentalità
di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter
discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto » (Rm
12, 2). Quest'opera della Chiesa trova il suo punto di forza — il suo «
segreto » formativo — non tanto negli enunciati dottrinali e negli appelli
pastorali alla vigilanza, quanto nel tenere lo sguardo fisso sul Signore
Gesù. La Chiesa ogni giorno guarda con instancabile amore a Cristo,
pienamente consapevole che solo in lui sta la risposta vera e definitiva al problema
morale.
In particolare, in Gesù crocifisso essa
trova la risposta alla questione che tormenta oggi tanti uomini: come
può l'obbedienza alle norme morali universali e immutabili rispettare l'unicità
e l'irripetibilità della persona e non attentare alla sua libertà e dignità? La
Chiesa fa sua la coscienza che l'apostolo Paolo aveva della missione ricevuta:
« Cristo... mi ha mandato... a predicare il vangelo; non però con un discorso
sapiente, perché non venga resa vana la croce di Cristo... Noi predichiamo
Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro
che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e
sapienza di Dio » (1 Cor 1,17.23-24).Cristo crocifisso rivela il
senso autentico della libertà, lo vive in pienezza nel dono totale di sé e
chiama i discepoli a prendere parte alla sua stessa libertà.
86. La riflessione razionale e l'esperienza
quotidiana dimostrano la debolezza, da cui è segnata la libertà dell'uomo. È libertà
reale, ma finita: non ha il suo punto di partenza assoluto e incondizionato in
se stessa, ma nell'esistenza dentro cui si trova e che rappresenta per essa,
nello stesso tempo, un limite e una possibilità. È la libertà di una creatura,
ossia una libertà donata, da accogliere come un germe e da far maturare con
responsabilità. È parte costitutiva di quell'immagine creaturale, che fonda la
dignità della persona: in essa risuona la vocazione originaria con cui il
Creatore chiama l'uomo al vero Bene, e ancora di più, con la rivelazione di
Cristo, a entrare in amicizia con lui, partecipando alla stessa vita divina. È
insieme inalienabile autopossesso e apertura universale ad ogni esistente,
nell'uscita da sé verso la conoscenza e l'amore dell'altro.138 La libertà si
radica dunque nella verità dell'uomo ed è finalizzata alla comunione.
Ragione ed esperienza dicono non solo la
debolezza della libertà umana, ma anche il suo dramma. L'uomo scopre che la sua
libertà è misteriosamente inclinata a tradire questa apertura al Vero e al Bene
e che troppo spesso, di fatto, egli preferisce scegliere beni finiti, limitati
ed effimeri. Ancor più, dentro gli errori e le scelte negative, l'uomo avverte
l'origine di una ribellione radicale, che lo porta a rifiutare la Verità e il
Bene per erigersi a principio assoluto di se stesso: « Voi diventerete come Dio
» (Gn 3,5). La libertà, quindi, ha bisogno di essere liberata.
Cristo ne è il liberatore: egli « ci ha liberati perché restassimo liberi »
(Gal 5,1).
87. Cristo rivela, anzitutto, che il
riconoscimento onesto e aperto della verità è condizione di autentica
libertà: « Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi » (Gv 8,32).139
È la verità che rende liberi davanti al potere e dà la forza del martirio. Così
è di Gesù davanti a Pilato: « Per questo io sono nato e per questo sono venuto
nel mondo: per rendere testimonianza alla verità » (Gv 18,37). Così i
veri adoratori di Dio devono adorarlo « in spirito e verità » (Gv 4,23):
in questa adorazione diventano liberi. Il legame con la verità e l'adorazione
di Dio si manifestano in Gesù Cristo come la più intima radice della libertà.
Gesù rivela, inoltre, con la sua stessa
esistenza e non solo con le parole, che la libertà si realizza nell'amore, cioè
neldono di sé. Lui che dice: « Nessuno ha un amore più grande di questo:
dare la vita per i propri amici » (Gv 15,13), va incontro liberamente
alla Passione (cf Mt 26,46) e nella sua obbedienza al Padre sulla Croce
dà la vita per tutti gli uomini (cf Fil 2, 6-11). In tal modo la contemplazione
di Gesù crocifisso è la via maestra sulla quale la Chiesa deve camminare ogni
giorno se vuole comprendere l'intero senso della libertà: il dono di sé nel
servizio a Dio e ai fratelli. La comunione poi con il Signore crocifisso e
risorto è la sorgente inesauribile alla quale la Chiesa attinge senza sosta per
vivere nella libertà, donarsi e servire. Commentando il versetto del Salmo 99
(100) « Servite il Signore nella gioia », sant'Agostino dice: « Nella casa del
Signore libera è la schiavitù. Libera, poiché il servizio non l'impone la
necessità, ma la carità... La carità ti renda servo, come la verità ti ha fatto
libero... Allo stesso tempo tu sei servo e libero: servo, perché ci diventasti;
libero, perché sei amato da Dio, tuo creatore; anzi, libero anche perché ti è
dato di amare il tuo creatore... Sei servo del Signore e sei libero del
Signore. Non cercare una liberazione che ti porti lontano dalla casa del tuo
liberatore! ».140
In tal modo la Chiesa, e ciascun cristiano
in essa, è chiamata a partecipare al munus regale di Cristo in croce (cf
Gv 12,32), alla grazia e alla responsabilità del Figlio dell'uomo, che «
non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto
per molti » (Mt 20,28).141
Gesù, dunque, è la sintesi viva e personale
della perfetta libertà nell'obbedienza totale alla volontà di Dio. La sua carne
crocifissa è la piena Rivelazione del vincolo indissolubile tra libertà e
verità, così come la sua risurrezione da morte è l'esaltazione suprema della
fecondità e della forza salvifica di una libertà vissuta nella verità.
Camminare nella luce (cf 1 Gv 1,7)
88. La contrapposizione, anzi la radicale
dissociazione tra libertà e verità è conseguenza, manifestazione e compimento
di un'altra più grave e deleteria dicotomia, quella che separa la fede dalla
morale.
Questa separazione costituisce una delle più
acute preoccupazioni pastorali della Chiesa nell'attuale processo di
secolarismo, nel quale tanti, troppi uomini pensano e vivono « come se Dio non
esistesse ». Siamo di fronte ad una mentalità che coinvolge, spesso in modo
profondo, vasto e capillare, gli atteggiamenti e i comportamenti degli stessi
cristiani, la cui fede viene svigorita e perde la propria originalità di nuovo
criterio interpretativo e operativo per l'esistenza personale, familiare e
sociale. In realtà, i criteri di giudizio e di scelta assunti dagli stessi
credenti si presentano spesso, nel contesto di una cultura ampiamente
scristianizzata, estranei o persino contrapposti a quelli del Vangelo.
Urge allora che i cristiani riscoprano la
novità della loro fede e la sua forza di giudizio di fronte alla cultura
dominante e invadente: « Se un tempo eravate tenebra — ci ammonisce l'apostolo
Paolo —, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come i figli della
luce; il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. Cercate
ciò che è gradito al Signore, e non partecipate alle opere infruttuose delle
tenebre, ma piuttosto condannatele apertamente... Vigilate dunque attentamente
sulla vostra condotta, comportandovi non da stolti, ma da uomini saggi;
profittando del tempo presente, perché i giorni sono cattivi » (Ef 5,
8-11.15-16; cf 1 Ts 5,4-8).
Urge ricuperare e riproporre il vero volto
della fede cristiana, che non è semplicemente un insieme di proposizioni da
accogliere e ratificare con la mente. È invece una conoscenza vissuta di
Cristo, una memoria vivente dei suoi comandamenti, una verità da vivere. Del
resto, una parola non è veramente accolta se non quando passa negli atti, se
non quando viene messa in pratica. La fede è una decisione che impegna tutta
l'esistenza. È incontro, dialogo, comunione di amore e di vita del credente con
Gesù Cristo, Via, Verità e Vita (cf Gv 14,6). Comporta un atto di
confidenza e di abbandono a Cristo, e ci dona di vivere come lui ha vissuto (cf
Gal 2,20), ossia nel più grande amore a Dio e ai fratelli.
89. La fede possiede anche un contenuto
morale: origina ed esige un impegno coerente di vita, comporta e perfeziona
l'accoglienza e l'osservanza dei comandamenti divini. Come scrive l'evangelista
Giovanni, « Dio è luce e in lui non ci sono tenebre. Se diciamo che siamo in
comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, mentiamo e non mettiamo in
pratica la verità... Da questo sappiamo d'averlo conosciuto: se osserviamo i
suoi comandamenti. Chi dice: "Lo conosco" e non osserva i suoi
comandamenti, è bugiardo e la verità non è in lui; ma chi osserva la sua
parola, in lui l'amore di Dio è veramente perfetto. Da questo conosciamo di
essere in lui. Chi dice di dimorare in Cristo, deve comportarsi come lui si è
comportato » (1 Gv 1,5-6; 2,3-6).
Mediante la vita morale la fede diventa «
confessione », non solo davanti a Dio, ma anche davanti agli uomini: si fa
testimonianza. « Voi siete la luce del mondo — ha detto Gesù —; non può
restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende una lucerna
per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti
quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini,
perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei
cieli » (Mt 5,14-16). Queste opere sono soprattutto quelle della carità
(cf Mt 25,31-46) e dell'autentica libertà che si manifesta e vive nel
dono di sé. Sino al dono totale di sé, come ha fatto Gesù che sulla
croce « ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei » (Ef 5,25). La
testimonianza di Cristo è fonte, paradigma e risorsa per la testimonianza del
discepolo, chiamato a porsi sulla stessa strada: « Se qualcuno vuole venire
dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua » (Lc
9,23). La carità, secondo le esigenze del radicalismo evangelico, può
portare il credente alla testimonianza suprema del martirio. Sempre
sull'esempio di Gesù che muore in croce: « Fatevi dunque imitatori di Dio,
quali figli carissimi, — scrive Paolo ai cristiani di Efeso — e camminate nella
carità, nel modo che anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi,
offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore » (Ef 5,1-2).
Il martirio, esaltazione della santità
inviolabile della legge di Dio
90. Il rapporto tra fede e morale splende in
tutto il suo fulgore nel rispetto incondizionato che si deve alle esigenze
insopprimibili della dignità personale di ogni uomo, a quelle esigenze
difese dalle norme morali che proibiscono senza eccezioni gli atti
intrinsecamente cattivi. L'universalità e l'immutabilità della norma morale
manifestano e, nello stesso tempo, si pongono a tutela della dignità personale,
ossia dell'inviolabilità dell'uomo, sul cui volto brilla lo splendore di Dio
(cf Gn 9,5-6).
L'inaccettabilità delle teorie etiche «
teleologiche », « consequenzia- liste » e « proporzionaliste », che negano
l'esistenza di norme morali negative riguardanti comportamenti determinati e
valide senza eccezioni, trova una conferma particolarmente eloquente nel fatto
del martirio cristiano, che ha sempre accompagnato e accompagna tuttora la vita
della Chiesa.
91. Già nell'Antica Alleanza incontriamo
ammirevoli testimonianze di una fedeltà alla legge santa di Dio spinta fino
alla volontaria accettazione della morte. Emblematica è la storia di Susanna:
ai due giudici ingiusti, che minacciavano di farla morire se si fosse
rifiutata di cedere alla loro passione impura, così rispose: « Sono alle
strette da ogni parte. Se cedo, è la morte per me, se rifiuto, non potrò
scampare dalle vostre mani. Meglio però per me cadere innocente nelle vostre
mani che peccare davanti al Signore! » (Dn 13,22-23). Susanna,
preferendo « cadere innocente » nelle mani dei giudici, testimonia non solo la
sua fede e fiducia in Dio, ma anche la sua obbedienza alla verità e
all'assolutezza dell'ordine morale: con la sua disponibilità al martirio,
proclama che non è giusto fare ciò che la legge di Dio qualifica come male per
trarre da esso un qualche bene. Essa sceglie per sé la « parte migliore »: una
limpidissima testimonianza, senza nessun compromesso, alla verità circa il bene
e al Dio di Israele; manifesta così, nei suoi atti, la santità di Dio.
Alle soglie del Nuovo Testamento Giovanni
Battista, rifiutandosi di tacere la legge del Signore e di venire a
compromesso col male, « immolò la sua vita per la verità e la giustizia » 142 e
fu così precursore del Messia anche nel martirio (cf Mc 6,17-29). Per questo,
« fu rinchiuso nell'oscurità del carcere colui che venne a rendere
testimonianza alla luce e che dalla stessa luce, che è Cristo, meritò di essere
chiamato lampada che arde e illumina... E fu battezzato nel proprio sangue
colui al quale era stato concesso di battezzare il Redentore del mondo ».143
Nella Nuova Alleanza si incontrano numerose
testimonianze di seguaci di Cristo — a cominciare dal diacono Stefano
(cf At 6,8–7,60) e dall'apostolo Giacomo (cf At 12,1-2) — che
sono morti martiri per confessare la loro fede e il loro amore al Maestro e per
non rinnegarlo. In ciò essi hanno seguito il Signore Gesù, che davanti a Caifa
e a Pilato « ha dato la sua bella testimonianza » (1 Tm 6,13),
confermando la verità del suo messaggio con il dono della vita. Innumerevoli
altri martiri accettarono le persecuzioni e la morte piuttosto che porre il
gesto idolatrico di bruciare l'incenso davanti alla statua dell'Imperatore (cf Ap
13, 7-10). Rifiutarono persino di simulare un simile culto, dando così
l'esempio del dovere di astenersi anche da un solo comportamento concreto
contrario all'amore di Dio e alla testimonianza della fede. Nell'obbedienza,
essi affidarono e consegnarono, come Cristo stesso, la loro vita al Padre, a
colui che poteva liberarli dalla morte (cf Eb 5,7).
La Chiesa propone l'esempio di numerosi santi
e sante, che hanno testimoniato e difeso la verità morale fino al martirio
o hanno preferito la morte ad un solo peccato mortale. Elevandoli all'onore
degli altari, la Chiesa ha canonizzato la loro testimonianza e dichiarato vero
il loro giudizio, secondo cui l'amore di Dio implica obbligatoriamente il
rispetto dei suoi comandamenti, anche nelle circostanze più gravi, e il rifiuto
di tradirli, anche con l'intenzione di salvare la propria vita.
92. Nel martirio come affermazione
dell'inviolabilità dell'ordine morale risplendono la santità della legge di Dio
e insieme l'intangibilità della dignità personale dell'uomo, creato a immagine
e somiglianza di Dio: è una dignità che non è mai permesso di svilire o di
contrastare, sia pure con buone intenzioni, qualunque siano le difficoltà. Gesù
ci ammonisce con la massima severità: « Che giova all'uomo guadagnare il mondo
intero, se poi perde la propria anima? » (Mc 8,36).
Il martirio sconfessa come illusorio e falso
ogni « significato umano » che si pretendesse di attribuire, pur in condizioni
« eccezionali », all'atto in se stesso moralmente cattivo; ancor più ne rivela
apertamente il vero volto: quello di una violazione dell'« umanità »
dell'uomo, prima ancora in chi lo compie che non in chi lo subisce.144 Il
martirio è quindi anche esaltazione della perfetta « umanità » e della vera «
vita » della persona, come testimonia sant'Ignazio di Antiochia rivolgendosi ai
cristiani di Roma, luogo del suo martirio: « Abbiate compassione di me,
fratelli: non impeditemi di vivere, non vogliate che io muoia... Lasciate che
io raggiunga la pura luce; giunto là, sarò veramente uomo. Lasciate che
io imiti la passione del mio Dio ».145
93. Il martirio è infine un segno
preclaro della santità della Chiesa: la fedeltà alla legge santa di Dio,
testimoniata con la morte, è annuncio solenne e impegno missionario usque ad
sanguinem perché lo splendore della verità morale non sia offuscato nel
costume e nella mentalità delle persone e della società. Una simile
testimonianza offre un contributo di straordinario valore perché, non solo
nella società civile ma anche all'interno delle stesse comunità ecclesiali, non
si precipiti nella crisi più pericolosa che può affliggere l'uomo: la confusione
del bene e del male, che rende impossibile costruire e conservare l'ordine
morale dei singoli e delle comunità. I martiri, e più ampiamente tutti i santi
nella Chiesa, con l'esempio eloquente e affascinante di una vita totalmente
trasfigurata dallo splendore della verità morale, illuminano ogni epoca della
storia risvegliandone il senso morale. Dando piena testimonianza al bene, essi
sono un vivente rimprovero a quanti trasgrediscono la legge (cf Sap 2,
12) e fanno risuonare con permanente attualità le parole del profeta: « Guai a
coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in
luce e la luce in tenebre, che cambiano l'amaro in dolce e il dolce in amaro »
(Is 5,20).
Se il martirio rappresenta il vertice della
testimonianza alla verità morale, a cui relativamente pochi possono essere
chiamati, vi è nondimento una coerente testimonianza che tutti i cristiani
devono esser pronti a dare ogni giorno anche a costo di sofferenze e di gravi
sacrifici. Infatti di fronte alle molteplici difficoltà che anche nelle
circostanze più ordinarie la fedeltà all'ordine morale può esigere, il
cristiano è chiamato, con la grazia di Dio invocata nella preghiera, ad un
impegno talvolta eroico, sostenuto dalla virtù della fortezza, mediante la
quale — come insegna san Gregorio Magno — egli può perfino « amare le
difficoltà di questo mondo in vista del premio eterno ».146
94. In questa testimonianza all'assolutezza
del bene morale i cristiani non sono soli: essi trovano conferme nel
senso morale dei popoli e nelle grandi tradizioni religiose e sapienziali
dell'Occidente e dell'Oriente, non senza un'interiore e misteriosa azione dello
Spirito di Dio. Valga per tutti l'espressione del poeta latino Giovenale: «
Considera il più grande dei crimini preferire la sopravvivenza all'onore e, per
amore della vita fisica, perdere le ragioni del vivere ».147 La voce della
coscienza ha sempre richiamato senza ambiguità che ci sono verità e valori
morali per i quali si deve essere disposti anche a dare la vita. Nella parola e
soprattutto nel sacrificio della vita per il valore morale la Chiesa riconosce
la medesima testimonianza a quella verità che, già presente nella creazione,
risplende pienamente sul volto di Cristo: « Sappiamo — scrive san Giustino —
che i seguaci delle dottrine degli stoici sono stati odiati ed uccisi quando
hanno dato prova di saggezza nel loro discorso morale ... a motivo del seme del
Verbo insito in tutto il genere umano ».148
Le norme morali universali e
immutabili al servizio della persona e della società
95. La dottrina della Chiesa e in
particolare la sua fermezza nel difendere la validità universale e permanente
dei precetti che proibiscono gli atti intrinsecamente cattivi è giudicata non
poche volte come il segno di un'intransigenza intollerabile, soprattutto nelle
situazioni enormemente complesse e conflittuali della vita morale dell'uomo e
della società d'oggi: un'intransigenza che contrasterebbe col senso materno
della Chiesa. Questa, si dice, manca di comprensione e di compassione. Ma, in
realtà, la maternità della Chiesa non può mai essere separata dalla sua
missione di insegnamento, che essa deve compiere sempre come Sposa fedele di
Cristo, la Verità in persona: « Come Maestra, essa non si stanca di proclamare
la norma morale... Di tale norma la Chiesa non è affatto né l'autrice né
l'arbitra. In obbedienza alla verità, che è Cristo, la cui immagine si riflette
nella natura e nella dignità della persona umana, la Chiesa interpreta la norma
morale e la propone a tutti gli uomini di buona volontà, senza nasconderne le
esigenze di radicalità e di perfezione ».149
In realtà, la vera comprensione e la genuina
compassione devono significare amore alla persona, al suo vero bene, alla sua
libertà autentica. E questo non avviene, certo, nascondendo o indebolendo la
verità morale, bensì proponendola nel suo intimo significato di irradiazione
della Sapienza eterna di Dio, giunta a noi in Cristo, e di servizio all'uomo,
alla crescita della sua libertà e al perseguimento della sua felicità.150
Nello stesso tempo la presentazione limpida
e vigorosa della verità morale non può mai prescindere da un profondo e sincero
rispetto, animato da amore paziente e fiducioso, di cui ha sempre bisogno
l'uomo nel suo cammino morale, spesso reso faticoso da difficoltà, debolezze e
situazioni dolorose. La Chiesa che non può mai rinunciare al « principio della
verità e della coerenza, per cui non accetta di chiamare bene il male e male il
bene »,151 deve essere sempre attenta a non spezzare la canna incrinata e a non
spegnere il lucignolo che fumiga ancora (cf Is 42,3). Paolo VI ha
scritto: « Non sminuire in nulla la salutare dottrina di Cristo è eminente
forma di carità verso le anime. Ma ciò deve sempre accompagnarsi con la
pazienza e la bontà di cui il Signore stesso ha dato l'esempio nel trattare con
gli uomini. Venuto non per giudicare ma per salvare (cf Gv 3,17), Egli
fu certo intransigente con il male, ma misericordioso verso le persone ».152
96. La fermezza della Chiesa, nel difendere le
norme morali universali e immutabili, non ha nulla di mortificante. È solo al
servizio della vera libertà dell'uomo: dal momento che non c'è libertà al di
fuori o contro la verità, la difesa categorica, ossia senza cedimenti e
compromessi, delle esigenze assolutamente irrinunciabili della dignità
personale dell'uomo, deve dirsi via e condizione per l'esistere stesso della
libertà.
Questo servizio è rivolto a ogni uomo, considerato
nell'unicità e nell'irripetibilità del suo essere ed esistere: solo nell'obbedienza
alle norme morali universali l'uomo trova piena conferma della sua unicità di
persona e possibilità di vera crescita morale. E, proprio per questo, tale
servizio è rivolto a tutti gli uomini: non solo ai singoli, ma anche
alla comunità, alla società come tale. Queste norme costituiscono, infatti, il
fondamento incrollabile e la solida garanzia di una giusta e pacifica
convivenza umana, e quindi di una vera democrazia, che può nascere e crescere
solo sull'uguaglianza di tutti i suoi membri, accomunati nei diritti e doveri. Di
fronte alle norme morali che proibiscono il male intrinseco non ci sono
privilegi né eccezioni per nessuno. Essere il padrone del mondo o l'ultimo
« miserabile » sulla faccia della terra non fa alcuna differenza: davanti alle
esigenze morali siamo tutti assolutamente uguali.
97. Così le norme morali, e in primo luogo
quelle negative che proibiscono il male, manifestano il loro significato e
la loro forza insieme personale e sociale: proteggendo l'inviolabile
dignità personale di ogni uomo, esse servono alla conservazione stessa del
tessuto sociale umano e al suo retto e fecondo sviluppo. In particolare, i
comandamenti della seconda tavola del Decalogo, ricordati anche da Gesù al
giovane del Vangelo (cf Mt 19,18), costituiscono le regole primordiali
di ogni vita sociale.
Questi comandamenti sono formulati in
termini generali. Ma, il fatto che « principio, soggetto e fine di tutte le
istituzioni sociali è e deve essere la persona umana »,153 permette di
precisarli e di esplicitarli in un codice di comportamento più dettagliato. In
tal senso le regole morali fondamentali della vita sociale comportano delle esigenze
determinate alle quali devono attenersi sia i poteri pubblici sia i
cittadini. Al di là delle intenzioni, talvolta buone, e delle circostanze,
spesso difficili, le autorità civili e i soggetti particolari non sono mai
autorizzati a trasgredire i diritti fondamentali e inalienabili della persona
umana. Così, solo una morale che riconosce delle norme valide sempre e per tutti,
senza alcuna eccezione, può garantire il fondamento etico della convivenza
sociale, sia nazionale che internazionale.
La morale e il rinnovamento della vita
sociale e politica
98. Di fronte alle gravi forme di
ingiustizia sociale ed economica e di corruzione politica di cui sono investiti
interi popoli e nazioni, cresce l'indignata reazione di moltissime persone
calpestate e umiliate nei loro fondamentali diritti umani e si fa sempre più
diffuso e acuto il bisogno di un radicale rinnovamento personale e sociale
capace di assicurare giustizia, solidarietà, onestà, trasparenza.
Certamente lunga e faticosa è la strada da
percorrere; numerosi e ingenti sono gli sforzi da compiere perché si possa
attuare un simile rinnovamento, anche per la molteplicità e la gravità delle
cause che generano e alimentano le situazioni di ingiustizia oggi presenti nel
mondo. Ma, come la storia e l'esperienza di ciascuno insegnano, non è difficile
ritrovare alla base di queste situazioni cause propriamente « culturali »,
collegate cioè con determinate visioni dell'uomo, della società e del mondo. In
realtà, al cuore della questione culturale sta il senso morale,
che a sua volta si fonda e si compie nel senso religioso.154
99. Solo Dio, il Bene supremo, costituisce
la base irremovibile e la condizione insostituibile della moralità, dunque dei
comandamenti, in particolare di quelli negativi che proibiscono sempre e in
ogni caso il comportamento e gli atti incompatibili con la dignità personale di
ogni uomo. Così il Bene supremo e il bene morale si incontrano nella verità:
la verità di Dio Creatore e Redentore e la verità dell'uomo da Lui creato e
redento. Solo su questa verità è possibile costruire una società rinnovata e
risolvere i complessi e pesanti problemi che la scuotono, primo fra tutti
quello di vincere le più diverse forme di totalitarismo per aprire la
via all'autentica libertà della persona. « Il totalitarismo nasce dalla
negazione della verità in senso oggettivo: se non esiste una verità
trascendente, obbedendo alla quale l'uomo acquista la sua piena identità,
allora non esiste nessun principio sicuro che garantisca giusti rapporti tra
gli uomini. Il loro interesse di classe, di gruppo, di Nazione li oppone
inevitabilmente gli uni agli altri. Se non si riconosce la verità trascendente,
allora trionfa la forza del potere, e ciascuno tende a realizzare fino in fondo
i mezzi di cui dispone per imporre il proprio interesse o la propria opinione,
senza riguardo ai diritti dell'altro... La radice del moderno totalitarismo,
dunque, è da individuare nella negazione della trascendente dignità della
persona umana, immagine visibile del Dio invisibile e, proprio per questo, per
sua natura stessa, soggetto di diritti che nessuno può violare: né l'individuo,
né il gruppo, né la classe, né la Nazione o lo Stato. Non può farlo nemmeno la
maggioranza di un corpo sociale, ponendosi contro la minoranza, emarginandola,
opprimendola, sfruttandola o tentando di annientarla ».155
Per questo la connessione inscindibile tra
verità e libertà — che esprime il vincolo essenziale tra la sapienza e la
volontà di Dio — possiede un significato d'estrema importanza per la vita delle
persone nell'ambito socio-economico e socio-politico, come emerge dalla
dottrina sociale della Chiesa — la quale « appartiene... al campo della
teologia e, specialmente, della teologia morale »,156 — e dalla sua
presentazione di comandamenti che regolano, in riferimento non solo ad
atteggiamenti generali ma anche a precisi e determinati comportamenti e atti
concreti, la vita sociale, economica e politica.
100. Così il Catechismo della Chiesa
Cattolica, dopo aver affermato che « in materia economica, il rispetto
della dignità umana esige la pratica della virtù della temperanza, per
moderare l'attaccamento ai beni di questo mondo; della virtù della
giustizia, per rispettare i diritti del prossimo e dargli ciò che gli è
dovuto; e della solidarietà, seguendo la regola aurea e secondo la
liberalità del Signore, il quale "da ricco che era, si è fatto
povero" per noi, perché noi diventassimo "ricchi per mezzo della sua
povertà" (2 Cor 8,9) »,157 presenta una serie di comportamenti e di
atti che contrastano la dignità umana: il furto, il tenere deliberatamente cose
avute in prestito o oggetti smarriti, la frode nel commercio (cf Dt 25,
13-16), i salari ingiusti (cf Dt 24,14-15; Gc 5,4), il rialzo dei
prezzi speculando sull'ignoranza e sul bisogno altrui (cf Am 8,4-6),
l'appropriazione e l'uso privato dei beni sociali di un'impresa, i lavori
eseguiti male, la frode fiscale, la contraffazione di assegni e di fatture, le
spese eccessive, lo sperpero, ecc.158 Ed ancora: « Il settimo comandamento
proibisce gli atti o le iniziative che, per qualsiasi ragione, egoistica o
ideologica, mercantile o totalitaria, portano all'asservimento di esseri
umani, a misconoscere la loro dignità personale, ad acquistarli, a venderli
e a scambiarli come fossero merci. Ridurre le persone, con la violenza, ad un
valore d'uso oppure ad una fonte di guadagno, è un peccato contro la loro
dignità e i loro diritti fondamentali. San Paolo ordinava ad un padrone
cristiano di trattare il suo schiavo cristiano "non più come uno schiavo,
ma... come un fratello... come uomo..., nel Signore" (Fm 16) ».159
101. Nell'ambito politico si deve rilevare
che la veridicità nei rapporti tra governanti e governati, la trasparenza nella
pubblica amministrazione, l'imparzialità nel servizio della cosa pubblica, il
rispetto dei diritti degli avversari politici, la tutela dei diritti degli
accusati contro processi e condanne sommarie, l'uso giusto e onesto del
pubblico denaro, il rifiuto di mezzi equivoci o illeciti per conquistare,
mantenere e aumentare ad ogni costo il potere, sono principi che trovano la
loro radice prima — come pure la loro singolare urgenza — nel valore
trascendente della persona e nelle esigenze morali oggettive di funzionamento
degli Stati.160 Quando essi non vengono osservati, viene meno il fondamento
stesso della convivenza politica e tutta la vita sociale ne risulta
progressivamente compromessa, minacciata e votata alla sua dissoluzione (cf Sal
131, 3-4; Ap 18,2-3.9-24). Dopo la caduta, in molti Paesi, delle
ideologie che legavano la politica ad una concezione totalitaria del mondo — e
prima fra esse il marxismo —, si profila oggi un rischio non meno grave per la
negazione dei fondamentali diritti della persona umana e per il riassorbimento
nella politica della stessa domanda religiosa che abita nel cuore di ogni
essere umano: è il rischio dell'alleanza fra democrazia e relativismo etico,
che toglie alla convivenza civile ogni sicuro punto di riferimento morale e
la priva, più radicalmente, del riconoscimento della verità. Infatti, « se non
esiste nessuna verità ultima la quale guida e orienta l'azione politica, allora
le idee e le convinzioni possono esser facilmente strumentalizzate per fini di
potere. Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo
aperto oppure subdolo, come dimostra la storia ».161
Così in ogni campo della vita personale,
familiare, sociale e politica, la morale — che si fonda sulla verità e che
nella verità si apre all'autentica libertà — rende un servizio originale,
insostituibile e di enorme valore non solo per la singola persona e per la sua
crescita nel bene, ma anche per la società e per il suo vero sviluppo.
Grazia e obbedienza alla legge di Dio
102. Anche nelle situazioni più difficili
l'uomo deve osservare la norma morale per essere obbediente al santo
comandamento di Dio e coerente con la propria dignità personale. Certamente
l'armonia tra libertà e verità domanda, alcune volte, sacrifici non comuni e va
conquistata ad alto prezzo: può comportare anche il martirio. Ma, come
l'esperienza universale e quotidiana mostra, l'uomo è tentato di rompere tale
armonia: « Non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto... Io non compio
il bene che voglio, ma il male che non voglio » (Rm 7, 15.19).
Donde deriva, ultimamente, questa scissione
interiore dell'uomo? Egli incomincia la sua storia di peccato quando non
riconosce più il Signore come suo Creatore, e vuole essere lui stesso a decidere,
in totale indipendenza, ciò che è bene e ciò che è male. « Voi diventerete come
Dio, conoscendo il bene e il male » (Gn 3,5): questa è la prima
tentazione, a cui fanno eco tutte le altre tentazioni, alle quali l'uomo è più
facilmente inclinato a cedere per le ferite della caduta originale.
Ma le tentazioni si possono vincere, i
peccati si possono evitare, perché con i comandamenti il Signore ci dona la
possibilità di osservarli: « I suoi occhi su coloro che lo temono, egli conosce
ogni azione degli uomini. Egli non ha comandato a nessuno di essere empio e non
ha dato a nessuno il permesso di peccare » (Sir 15,19-20). L'osservanza
della legge di Dio, in determinate situazioni, può essere difficile,
difficilissima: non è mai però impossibile. È questo un insegnamento costante
della tradizione della Chiesa, così espresso dal Concilio di Trento: « Nessuno
poi, benché giustificato, deve ritenersi libero dall'osservanza dei
comandamenti; nessuno deve far propria quell'espressione temeraria e condannata
con la scomunica dei Padri, secondo la quale è impossibile all'uomo
giustificato osservare i comandamenti di Dio. Dio infatti non comanda ciò che è
impossibile, ma nel comandare ti esorta a fare tutto quello che puoi, a
chiedere ciò che non puoi e ti aiuta perché tu possa; infatti "i
comandamenti di Dio non sono gravosi" (cf 1 Gv 5,3) e "il suo
giogo è soave e il suo peso è leggero" (cf Mt 11,30) ».162
103. All'uomo è sempre aperto lo spazio
spirituale della speranza, con l'aiuto della grazia divina e con la collaborazione
della libertà umana.
È nella Croce salvifica di Gesù, nel dono
dello Spirito Santo, nei Sacramenti che scaturiscono dal costato trafitto del
Redentore (cf Gv 19, 34), che il credente trova la grazia e la forza per
osservare sempre la legge santa di Dio, anche in mezzo alle difficoltà più
gravi. Come dice sant'Andrea di Creta, la legge stessa « fu vivificata dalla
grazia e fu posta al suo servizio in una composizione armonica e feconda.
Ognuna delle due conservò le sue caratteristiche senza alterazioni e
confusioni. Tuttavia la legge, che prima costituiva un onere gravoso e una
tirannia, diventò per opera di Dio peso leggero e fonte di libertà ».163
Solo nel mistero della Redenzione di
Cristo stanno le « concrete » possibilità dell'uomo. « Sarebbe un errore gravissimo concludere... che la
norma insegnata dalla Chiesa è in se stessa solo un "ideale" che deve
poi essere adattato, proporzionato, graduato alle, si dice, concrete
possibilità dell'uomo: secondo un "bilanciamento dei vari beni in questione".
Ma quali sono le "concrete possibilità dell'uomo"? E di quale uomo
si parla? Dell'uomo dominato dalla concupiscenza o dell'uomo redento
da Cristo? Poiché è di questo che si tratta: della realtà della
redenzione di Cristo. Cristo ci ha redenti! Ciò significa: Egli ci ha
donato la possibilità di realizzare l'intera verità del nostro
essere; Egli ha liberato la nostra libertà dal dominio della
concupiscenza. E se l'uomo redento ancora pecca, ciò non è dovuto
all'imperfezione dell'atto redentore di Cristo, ma alla volontà dell'uomo
di sottrarsi alla grazia che sgorga da quell'atto. Il comandamento di Dio è
certamente proporzionato alle capacità dell'uomo: ma alle capacità dell'uomo a
cui è donato lo Spirito Santo; dell'uomo che, se caduto nel peccato, può sempre
ottenere il perdono e godere della presenza dello Spirito ».164
104. In questo contesto si apre il giusto
spazio alla misericordia di Dio per il peccato dell'uomo che si converte
e alla comprensione per l'umana debolezza. Questa comprensione non significa
mai compromettere e falsificare la misura del bene e del male per adattarla
alle circostanze. Mentre è umano che l'uomo, avendo peccato, riconosca la sua
debolezza e chieda misericordia per la propria colpa, è invece inaccettabile
l'atteggiamento di chi fa della propria debolezza il criterio della verità sul
bene, in modo da potersi sentire giustificato da solo, anche senza bisogno di
ricorrere a Dio e alla sua misericordia. Un simile atteggiamento corrompe la
moralità dell'intera società, perché insegna a dubitare dell'oggettività della
legge morale in generale e a rifiutare l'assolutezza dei divieti morali circa
determinati atti umani, e finisce con il confondere tutti i giudizi di valore.
Dobbiamo, invece, raccogliere il messaggio
che ci viene dalla parabola evangelica del fariseo e del pubblicano (cf Lc
18,9-14). Il pubblicano poteva forse avere qualche giustificazione per i
peccati commessi, tale da diminuire la sua responsabilità. Non è però su queste
giustificazioni che si sofferma la sua preghiera, ma sulla propria indegnità
davanti all'infinita santità di Dio: « O Dio, abbi pietà di me peccatore » (Lc
18,13). Il fariseo, invece, si è giustificato da solo, trovando forse per
ognuna delle sue mancanze una scusa. Siamo così messi a confronto con due
diversi atteggiamenti della coscienza morale dell'uomo di tutti i tempi. Il
pubblicano ci presenta una coscienza « penitente », che è pienamente
consapevole della fragilità della propria natura e che vede nelle proprie
mancanze, quali che ne siano le giustificazioni soggettive, una conferma del
proprio essere bisognoso di redenzione. Il fariseo ci presenta una coscienza «
soddisfatta di se stessa », che si illude di poter osservare la legge senza
l'aiuto della grazia ed è convinta di non aver bisogno della misericordia.
105. A tutti è chiesta grande vigilanza per
non lasciarsi contagiare dall'atteggiamento farisaico, che pretende di
eliminare la coscienza del proprio limite e del proprio peccato, e che oggi si
esprime in particolare nel tentativo di adattare la norma morale alle proprie
capacità e ai propri interessi e persino nel rifiuto del concetto stesso di
norma. Al contrario, accettare la « sproporzione » tra la legge e la capacità
umana, ossia la capacità delle sole forze morali dell'uomo lasciato a se
stesso, accende il desiderio della grazia e predispone a riceverla. « Chi mi
libererà da questo corpo votato alla morte? », si domanda l'apostolo Paolo. E
con una confessione gioiosa e riconoscente risponde: « Siano rese grazie a Dio
per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore! » (Rm 7,24-25).
La stessa coscienza troviamo in questa
preghiera di sant'Ambrogio di Milano: « Che cos'è, infatti, l'uomo se tu non lo
visiti? Non dimenticare pertanto il debole. Ricordati, o Signore, che mi hai
fatto debole, che mi hai plasmato di polvere. Come potrò stare ritto, se tu non
ti volgi continuamente per rendere salda questa argilla, di modo che la mia
solidità promani dal tuo volto? "Appena nascondi il viso, tutte le cose
vengono meno" (Sal 1032,29): se ti volgi, guai a me! Non hai da
guardare in me nient'altro che contagi di delitti: non è utile né essere
abbandonati, né esser visti perché, mentre siam visti, provochiamo disgusto.
Possiamo tuttavia pensare che non respinge quelli che vede, perché purifica
quelli che guarda. Lo divora un fuoco, capace di bruciare la colpa (cf Gl 2,3)
».165
Morale e nuova evangelizzazione
106. L'evangelizzazione è la sfida più forte
ed esaltante che la Chiesa è chiamata ad affrontare sin dalla sua origine. In
realtà, a porre questa sfida non sono tanto le situazioni sociali e culturali
che essa incontra lungo la storia, quanto il mandato di Gesù Cristo risorto,
che definisce la ragione stessa dell'esistenza della Chiesa: « Andate in tutto
il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura » (Mc 16,15).
Il momento però che stiamo vivendo, almeno
presso numerose popolazioni, è piuttosto quello di una formidabile provocazione
alla « nuova evangelizzazione », ossia all'annuncio del Vangelo sempre nuovo e
sempre portatore di novità, una evangelizzazione che dev'essere « nuova nel suo
ardore, nei suoi metodi e nella sua espressione ».166 La scristianizzazione,
che pesa su interi popoli e comunità un tempo già ricchi di fede e di vita
cristiana, comporta non solo la perdita della fede o comunque la sua
insignificanza per la vita, ma anche, e necessariamente, un declino o un
oscuramento del senso morale: e questo sia per il dissolversi della
consapevolezza dell'originalità della morale evangelica, sia per l'eclissi
degli stessi principi e valori etici fondamentali. Le tendenze soggettiviste,
relativiste e utilitariste, oggi ampiamente diffuse, si presentano non
semplicemente come posizioni pragmatiche, come dati di costume, ma come
concezioni consolidate dal punto di vista teoretico che rivendicano una loro
piena legittimità culturale e sociale.
107. L'evangelizzazione — e pertanto
la « nuova evangelizzazione » — comporta anche l'annuncio e la proposta
morale. Gesù stesso, proprio predicando il Regno di Dio e il suo amore
salvifico, ha rivolto l'appello alla fede e alla conversione (cf Mc 1,15).
E Pietro, con gli altri Apostoli, annunciando la risurrezione di Gesù di
Nazaret dai morti, propone una vita nuova da vivere, una « via » da seguire per
essere discepoli del Risorto (cf At 2,37- 41; 3,17-20).
Come e ancor più che per le verità di fede,
la nuova evangelizzazione che propone i fondamenti e i contenuti della morale
cristiana manifesta la sua autenticità, e nello stesso tempo sprigiona tutta la
sua forza missionaria, quando si compie attraverso il dono non solo della
parola annunciata, ma anche di quella vissuta. In particolare è la
vita di santità, che risplende in tanti membri del Popolo di Dio, umili e
spesso nascosti agli occhi degli uomini, a costituire la via più semplice e
affascinante sulla quale è dato di percepire immediatamente la bellezza della
verità, la forza liberante dell'amore di Dio, il valore della fedeltà
incondizionata a tutte le esigenze della legge del Signore, anche nelle
circostanze più difficili. Per questo la Chiesa, nella sua sapiente pedagogia
morale, ha sempre invitato i credenti a cercare e a trovare nei santi e nelle
sante, e in primo luogo nella Vergine Madre di Dio « piena di grazia » e «
tutta santa », il modello, la forza e la gioia per vivere una vita secondo i
comandamenti di Dio e le Beatitudini del Vangelo.
La vita dei santi, riflesso della bontà di
Dio — di Colui che « solo è buono » —, costituisce non solo una vera
confessione di fede e un impulso alla sua comunicazione agli altri, ma anche
una glorificazione di Dio e della sua infinita santità. La vita santa porta
così a pienezza di espressione e di attuazione il triplice e unitario munus
propheticum, sacerdotale et regale che ogni cristiano riceve in dono nella
rinascita battesimale « da acqua e da Spirito » (Gv 3,5). La sua vita
morale possiede il valore di un « culto spirituale » (Rm 12,1; cf Fil
3,3), attinto e alimentato da quella inesauribile sorgente di santità e di
glorificazione di Dio che sono i Sacramenti, in specie l'Eucaristia: infatti,
partecipando al sacrificio della Croce, il cristiano comunica con l'amore di
donazione di Cristo ed è abilitato e impegnato a vivere questa stessa carità in
tutti i suoi atteggiamenti e comportamenti di vita. Nell'esistenza morale si
rivela e si attua anche il servizio regale del cristiano: quanto più, con
l'aiuto della grazia, egli obbedisce alla legge nuova dello Spirito Santo,
tanto più cresce nella libertà alla quale è chiamato mediante il servizio della
verità, della carità e della giustizia.
108. Alla radice della nuova
evangelizzazione e della vita morale nuova, che essa propone e suscita nei suoi
frutti di santità e di missionarietà, sta lo Spirito di Cristo, principio
e forza della fecondità della santa Madre Chiesa, come ci ricorda Paolo VI: «
L'evangelizzazione non sarà mai possibile senza l'azione dello Spirito Santo
».167 Allo Spirito di Gesù, accolto dal cuore umile e docile del credente, si
devono dunque il fiorire della vita morale cristiana e la testimonianza della
santità nella grande varietà delle vocazioni, dei doni, delle responsabilità e
delle condizioni e situazioni di vita: è lo Spirito Santo — rilevava già
Novaziano, in questo esprimendo l'autentica fede della Chiesa — « Colui che ha
dato fermezza agli animi ed alle menti dei discepoli, che ha dischiuso i
misteri evangelici, che ha illuminato in loro le cose divine; da Lui
rinvigoriti, essi non ebbero timore né delle carceri né delle catene per il
nome del Signore; anzi calpestarono gli stessi poteri e i tormenti del mondo,
armati ormai e rafforzati per mezzo suo, avendo in sé i doni che questo stesso
Spirito elargisce ed invia come gioielli alla Chiesa sposa di Cristo. È Lui,
infatti, che nella Chiesa suscita i profeti, istruisce i maestri, guida le
lingue, compie prodigi e guarigioni, produce opere mirabili, concede il
discernimento degli spiriti, assegna i compiti di governo, suggerisce i
consigli, ripartisce ed armonizza ogni altro dono carismatico, e perciò rende
dappertutto ed in tutto compiutamente perfetta la Chiesa del Signore ».168
Nel contesto vivo di questa nuova
evangelizzazione, destinata a generare e a nutrire « la fede che opera per
mezzo della carità » (Gal 5,6) e in rapporto all'opera dello Spirito
Santo possiamo ora comprendere il posto che nella Chiesa, comunità dei credenti,
spetta alla riflessione che la teologia deve sviluppare sulla vita morale, così
come possiamo presentare la missione e la responsabilità propria dei teologi
moralisti.
Il servizio dei teologi moralisti
109. Chiamata all'evangelizzazione e alla
testimonianza di una vita di fede è tutta la Chiesa, resa partecipe del munus
propheticum del Signore Gesù mediante il dono del suo Spirito. Grazie alla
presenza permanente in essa dello Spirito di verità (cf Gv 14,16-17) «
la totalità dei fedeli che hanno ricevuto l'unzione dello Spirito Santo (cf 1
Gv 2,20. 27) non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa sua
proprietà peculiare mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il
popolo, quando "dai Vescovi fino agli ultimi fedeli laici" esprime
l'universale suo consenso in materia di fede e di costumi ».169
Per compiere la sua missione profetica, la
Chiesa deve continuamente risvegliare o « ravvivare » la propria vita di fede
(cf 2 Tm 1,6), in particolare mediante una riflessione sempre più
approfondita, sotto la guida dello Spirito Santo, sul contenuto della fede
stessa. È al servizio di questa « ricerca credente dell'intelligenza della fede
» che si pone, in modo specifico, la « vocazione » del teologo nella Chiesa:
« Fra le vocazioni suscitate dallo Spirito nella Chiesa — leggiamo
nell'Istruzione Donum veritatis — si distingue quella del teologo, che
in modo particolare ha la funzione di acquisire, in comunione con il Magistero,
un'intelligenza sempre più profonda della Parola di Dio contenuta nella Scrittura
ispirata e trasmessa dalla Tradizione viva della Chiesa. Di sua natura la fede
fa appello all'intelligenza, perché svela all'uomo la verità sul suo destino e
la via per raggiungerlo. Anche se la verità rivelata è superiore ad ogni nostro
dire ed i nostri concetti sono imperfetti di fronte alla sua grandezza
ultimamente insondabile (cf Ef 3,19), essa invita tuttavia la ragione —
dono di Dio fatto per cogliere la verità — ad entrare nella sua luce,
diventando così capace di comprendere in una certa misura quanto ha creduto. La
scienza teologica, che, rispondendo all'invito della voce della verità, cerca
l'intelligenza della fede, aiuta il Popolo di Dio, secondo il comandamento
dell'Apostolo (cf 1 Pt 3,15), a rendere conto della sua speranza a
coloro che lo richiedono ».170
È fondamentale per definire l'identità
stessa e, di conseguenza, per attuare la missione propria della teologia
riconoscerne l'intimo e vivo nesso con la Chiesa, il suo mistero, la sua
vita e missione: « La teologia è scienza ecclesiale, perché cresce nella
Chiesa e agisce sulla Chiesa... Essa è a servizio della Chiesa e deve quindi
sentirsi dinamicamente inserita nella missione della Chiesa, particolarmente
nella sua missione profetica ».171 Per sua natura e dinamismo la teologia autentica
può fiorire e svilupparsi solo mediante una convinta e responsabile
partecipazione e « appartenenza » alla Chiesa quale « comunità di fede », così
come a questa stessa Chiesa e alla sua vita di fede torna il frutto della
ricerca e dell'approfondimento teologico.
110. Quanto si è detto circa la teologia in
genere può e dev'essere riproposto per la teologia morale, colta nella
sua specificità di riflessione scientifica sul Vangelo come dono e
comandamento di vita nuova, sulla vita « secondo la verità nella carità » (Ef
4,15), sulla vita di santità della Chiesa, nella quale risplende la verità
del bene portato sino alla sua perfezione. Non solo nell'ambito della fede, ma
anche e in modo indivisibile nell'ambito della morale, interviene il Magistero
della Chiesa, il cui compito è « di discernere, mediante giudizi normativi
per la coscienza dei fedeli, gli atti che sono in se stessi conformi alle
esigenze della fede e ne promuovono l'espressione nella vita, e quelli che al
contrario, per la loro malizia intrinseca, sono incompatibili con queste
esigenze ».172 Predicando i comandamenti di Dio e la carità di Cristo, il
Magistero della Chiesa insegna ai fedeli anche i precetti particolari e
determinati e chiede loro di considerarli in coscienza come moralmente obbligatori.
Svolge, inoltre, un importante compito di vigilanza, avvertendo i fedeli della
presenza di eventuali errori, anche solo impliciti, quando la loro coscienza
non giunge a riconoscere la giustezza e la verità delle regole morali che il
Magistero insegna.
S'inserisce qui il compito specifico di
quanti per mandato dei legittimi Pastori insegnano teologia morale nei Seminari
e nelle Facoltà Teologiche. Essi hanno il grave dovere di istruire i fedeli —
specialmente i futuri Pastori — su tutti i comandamenti e le norme pratiche che
la Chiesa dichiara con autorità.173 Nonostante gli eventuali limiti delle
argomentazioni umane presentate dal Magistero, i teologi moralisti sono
chiamati ad approfondire le ragioni dei suoi insegnamenti, ad illustrare la fondatezza
dei suoi precetti e la loro obbligatorietà, mostrandone la mutua connessione e
il rapporto con il fine ultimo dell'uomo.174 Spetta ai teologi moralisti
esporre la dottrina della Chiesa e dare, nell'esercizio del loro ministero,
l'esempio di un assenso leale, interno ed esterno, all'insegnamento del
Magistero sia nel campo del dogma che in quello della morale.175 Unendo le loro
forze per collaborare col Magistero gerarchico, i teologi avranno a cuore di
mettere sempre meglio in luce i fondamenti biblici, le significazioni etiche e
le motivazioni antropologiche che sostengono la dottrina morale e la visione
dell'uomo proposte dalla Chiesa.
111. Il servizio che nell'ora attuale i
teologi moralisti sono chiamati a dare è di primaria importanza, non solo per
la vita e la missione della Chiesa, ma anche per la società e la cultura umana.
Tocca a loro, in intima e vitale connessione con la teologia biblica e
dogmatica, sottolineare nella riflessione scientifica « l'aspetto dinamico che
fa risaltare la risposta, che l'uomo deve dare all'appello divino nel processo
della sua crescita nell'amore, nell'ambito di una comunità salvifica. In tal
modo la teologia morale acquisterà una dimensione spirituale interna,
rispondendo alle esigenze di sviluppo pieno della imago Dei, che è
nell'uomo, e alle leggi del processo spirituale descritto nell'ascetica e
mistica cristiane ».176
Certamente oggi la teologia morale e il suo
insegnamento si trovano di fronte a una particolare difficoltà. Poiché la
morale della Chiesa implica necessariamente una dimensione normativa, la
teologia morale non può ridursi a un sapere elaborato solo nel contesto delle
cosiddette scienze umane. Mentre queste si occupano del fenomeno della
moralità come fatto storico e sociale, la teologia morale, che pur deve
servirsi delle scienze dell'uomo e della natura, non è però subordinata ai
risultati dell'osservazione empirico-formale o della comprensione
fenomenologica. In realtà, la pertinenza delle scienze umane in teologia morale
è sempre da commisurare alla domanda originaria: Che cosa è il bene o il
male? Che cosa fare per ottenere la vita eterna?
112. Il teologo moralista deve pertanto
esercitare un accurato discernimento nel contesto dell'odierna cultura
prevalentemente scientifica e tecnica, esposta ai pericoli del relativismo, del
pragmatismo e del positivismo. Dal punto di vista teologico, i principi morali
non sono dipendenti dal momento storico nel quale sono scoperti. Il fatto poi
che taluni credenti agiscano senza seguire gli insegnamenti del Magistero o
considerino a torto come moralmente giusta una condotta dichiarata dai loro
Pastori come contraria alla legge di Dio, non può costituire argomento valido
per rifiutare la verità delle norme morali insegnate dalla Chiesa.
L'affermazione dei principi morali non è di competenza dei metodi
empirico-formali. Senza negare la validità di tali metodi, ma anche senza
restringere ad essi la sua prospettiva, la teologia morale, fedele al senso
soprannaturale della fede, prende in considerazione soprattutto la
dimensione spirituale del cuore umano e la sua vocazione all'amore divino.
Infatti, mentre le scienze umane, come tutte
le scienze sperimentali, sviluppano un concetto empirico e statistico di «
normalità », la fede insegna che una simile normalità porta in sé le tracce di
una caduta dell'uomo dalla sua situazione originaria, ossia è intaccata dal
peccato. Solo la fede cristiana indica all'uomo la via del ritorno al «
principio » (cf Mt 19,8), una via che spesso è ben diversa da quella
della normalità empirica. In tal senso le scienze umane, nonostante il grande
valore delle conoscenze che offrono, non possono essere assunte come indicatori
decisivi delle norme morali. È il Vangelo che svela la verità integrale
sull'uomo e sul suo cammino morale, e così illumina e ammonisce i peccatori
annunciando loro la misericordia di Dio, il quale incessantemente opera per
preservarli tanto dalla disperazione di non poter conoscere ed osservare la
legge divina quanto dalla presunzione di potersi salvare senza merito. Egli
inoltre ricorda loro la gioia del perdono, che solo concede la forza di
riconoscere nella legge morale una verità liberatrice, una grazia di speranza,
un cammino di vita.
113. L'insegnamento della dottrina morale
implica l'assunzione consapevole di queste responsabilità intellettuali,
spirituali e pastorali. Perciò, i teologi moralisti, che accettano l'incarico
di insegnare la dottrina della Chiesa, hanno il grave dovere di educare i
fedeli a questo discernimento morale, all'impegno per il vero bene e al ricorso
fiducioso alla grazia divina.
Se gli incontri e i conflitti di opinione
possono costituire espressioni normali della vita pubblica nel contesto di una
democrazia rappresentativa, la dottrina morale non può certo dipendere dal
semplice rispetto di una procedura; essa infatti non viene minimamente
stabilita seguendo le regole e le forme di una deliberazione di tipo
democratico. Il dissenso, fatto di calcolate contestazioni e di
polemiche attraverso i mezzi della comunicazione sociale, è contrario alla
comunione ecclesiale e alla retta comprensione della costituzione gerarchica
del Popolo di Dio. Nell'opposizione all'insegnamento dei Pastori non si può
riconoscere una legittima espressione né della libertà cristiana né delle
diversità dei doni dello Spirito. In questo caso, i Pastori hanno il dovere di
agire in conformità con la loro missione apostolica, esigendo che sia sempre
rispettato il diritto dei fedeli a ricevere la dottrina cattolica nella
sua purezza e integrità: « Il teologo, non dimenticando mai di essere anch'egli
membro del Popolo di Dio, deve nutrire rispetto nei suoi confronti e impegnarsi
nel dispensargli un insegnamento che non leda in alcun modo la dottrina della
fede ».177
Le nostre responsabilità di Pastori
114. La responsabilità verso la fede e la
vita di fede del Popolo di Dio grava in una forma peculiare e propria sui
Pastori, come ci ricorda il Concilio Vaticano II: « Tra le funzioni principali
dei Vescovi eccelle la predicazione del Vangelo. I Vescovi, infatti, sono gli
araldi della fede, che portano a Cristo nuovi discepoli, sono i Dottori
autentici, cioè rivestiti dell'autorità di Cristo, che predicano al popolo loro
affidato la fede da credere e da applicare nella pratica della vita, che
illustrano questa fede alla luce dello Spirito Santo, traendo fuori dal tesoro
della Rivelazione cose nuove e vecchie (cf Mt 13,52), la fanno
fruttificare e vegliano per tener lontano dal loro gregge gli errori che lo
minacciano (cf 2 Tm 4,1-4) ».178
È nostro comune dovere, e prima ancora
nostra comune grazia, insegnare ai fedeli come Pastori e Vescovi della Chiesa,
ciò che li conduce sulla via di Dio, così come fece un giorno il Signore Gesù
con il giovane del Vangelo. Rispondendo alla sua domanda: « Che cosa devo fare
di buono per ottenere la vita eterna? », Gesù ha rimandato a Dio, Signore della
creazione e dell'Alleanza; ha ricordato i comandamenti morali, già rivelati
nell'Antico Testamento; ne ha indicato lo spirito e la radicalità invitando
alla sua sequela nella povertà, nell'umiltà e nell'amore: « Vieni e seguimi! ».
La verità di questa dottrina ha avuto il suo sigillo sulla Croce nel sangue di
Cristo: essa è divenuta, nello Spirito Santo, la legge nuova della Chiesa e di
ogni cristiano.
Questa « risposta » alla domanda morale è
affidata da Gesù Cristo in un modo particolare a noi Pastori della Chiesa,
chiamati a renderla oggetto del nostro insegnamento, nell'adempimento dunque
del nostro munus propheticum. Nello stesso tempo la nostra
responsabilità di Pastori, nei riguardi della dottrina morale cristiana, deve
attuarsi anche nella forma del munus sacerdotale: ciò avviene quando
dispensiamo ai fedeli i doni di grazia e di santificazione come risorsa per
obbedire alla legge santa di Dio, e quando con la nostra costante e fiduciosa
preghiera sosteniamo i credenti perché siano fedeli alle esigenze della fede e
vivano secondo il Vangelo (cf Col 1,9-12). La dottrina morale cristiana
deve costituire, oggi soprattutto, uno degli ambiti privilegiati della nostra
vigilanza pastorale, dell'esercizio del nostro munus regale.
115. È la prima volta, infatti, che il
Magistero della Chiesa espone con una certa ampiezza gli elementi fondamentali
di tale dottrina, e presenta le ragioni del discernimento pastorale necessario
in situazioni pratiche e culturali complesse e talvolta critiche.
Alla luce della Rivelazione e
dell'insegnamento costante della Chiesa e specialmente del Concilio Vaticano
II, ho brevemente richiamato i tratti essenziali della libertà, i valori
fondamentali connessi con la dignità della persona e con la verità dei suoi
atti, così da poter riconoscere, nell'obbedienza alla legge morale, una grazia
e un segno della nostra adozione nel Figlio unico (cf Ef 1,4-6). In
particolare, con questa Enciclica, vengono proposte valutazioni su alcune tendenze
attuali nella teologia morale. Le comunico ora, in obbedienza alla parola del
Signore che a Pietro ha affidato l'incarico di confermare i suoi fratelli (cf Lc
22,32), per illuminare e aiutare il nostro comune discernimento.
Ciascuno di noi conosce l'importanza della
dottrina che rappresenta il nucleo dell'insegnamento di questa Enciclica e che
oggi viene richiamata con l'autorità del successore di Pietro. Ciascuno di noi
può avvertire la gravità di quanto è in causa, non solo per le singole persone
ma anche per l'intera società, con la riaffermazione dell'universalità e
della immutabilità dei comandamenti morali, e in particolare di quelli che
proibiscono sempre e senza eccezioni gli atti intrinsecamente cattivi.
Nel riconoscere tali comandamenti il cuore
cristiano e la nostra carità pastorale ascoltano l'appello di Colui che « ci ha
amati per primo » (1 Gv 4,19). Dio ci chiede di essere santi come egli è
santo (cf Lv 19,2), di essere — in Cristo — perfetti come egli è
perfetto (cf Mt 5,48): l'esigente fermezza del comandamento si fonda
sull'inesauribile amore misericordioso di Dio (cf Lc 6, 36), e il fine
del comandamento è di condurci, con la grazia di Cristo, sulla via della
pienezza della vita propria dei figli di Dio.
116. Abbiamo il dovere, come Vescovi, di vigilare
perché la Parola di Dio sia fedelmente insegnata. Miei Confratelli
nell'Episcopato, fa parte del nostro ministero pastorale vegliare sulla
trasmissione fedele di questo insegnamento morale e ricorrere alle misure
opportune perché i fedeli siano custoditi da ogni dottrina e teoria ad esso
contraria. In questo compito siamo tutti aiutati dai teologi; tuttavia, le
opinioni teologiche non costituiscono né la regola né la norma del nostro
insegnamento. La sua autorità deriva, con l'assistenza dello Spirito Santo e
nella comunione cum Petro et sub Petro, dalla nostra fedeltà alla fede
cattolica ricevuta dagli Apostoli. Come Vescovi, abbiamo l'obbligo grave di
vigilare personalmente perché la « sana dottrina » (1 Tm 1,10)
della fede e della morale sia insegnata nelle nostre diocesi.
Una particolare responsabilità si impone ai
Vescovi per quanto riguarda le istituzioni cattoliche. Si tratti di
organismi per la pastorale familiare o sociale, oppure di istituzioni dedicate
all'insegnamento o alle cure sanitarie, i Vescovi possono erigere e riconoscere
queste strutture e delegare loro alcune responsabilità; tuttavia non sono mai
esonerati dai loro propri obblighi. Spetta a loro, in comunione con la Santa
Sede, il compito di riconoscere, o di ritirare in casi di grave incoerenza,
l'appellativo di « cattolico » a scuole,179 università,180 cliniche e servizi
socio-sanitari, che si richiamano alla Chiesa.
117. Nel cuore del cristiano, nel nucleo più
segreto del- l'uomo, risuona sempre la domanda che un giorno il giovane del
Vangelo rivolse a Gesù: « Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la
vita eterna? » (Mt 19,16). Occorre però che ciascuno la rivolga al
Maestro « buono », perché è l'unico che possa rispondere nella pienezza della
verità, in ogni situazione, nelle più diverse circostanze. E quando i cristiani
gli rivolgono la domanda che sale dalla loro coscienza, il Signore risponde con
le parole dell'Alleanza Nuova affidate alla sua Chiesa. Ora, come dice di sé l'Apostolo,
noi siamo mandati « a predicare il vangelo; non però con un discorso sapiente,
perché non sia resa vana la croce di Cristo » (1 Cor 1,17). Per questo
la risposta della Chiesa alla domanda dell'uomo ha la saggezza e la potenza di
Cristo crocifisso, la Verità che si dona.
Quando gli uomini pongono alla Chiesa le
domande della loro coscienza, quando
nella Chiesa i fedeli si rivolgono ai Vescovi e ai Pastori, nella risposta
della Chiesa c'è la voce di Gesù Cristo, la voce della verità circa il bene e il
male. Nella parola pronunciata dalla Chiesa risuona, nell'intimo delle
persone, la voce di Dio, che « solo è buono » (Mt 19,17), che solo « è
amore » (1 Gv 4,8.16).
Nell'unzione dello Spirito questa
parola dolce ed esigente si fa luce e vita per l'uomo. È ancora l'apostolo
Paolo ad invitarci alla fiducia, perché « la nostra capacità viene da Dio, che
ci ha resi ministri adatti di una Nuova Alleanza, non della lettera ma dello
Spirito... Il Signore è lo Spirito e dove c'è lo Spirito del Signore c'è libertà.
E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del
Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria,
secondo l'azione dello Spirito del Signore » (2 Cor 3,5-6.17-18).
CONCLUSIONE
Maria Madre di misericordia
118. Affidiamo, al termine di queste
considerazioni, noi stessi, le sofferenze e le gioie della nostra esistenza, la
vita morale dei credenti e degli uomini di buona volontà, le ricerche degli studiosi
di morale a Maria, Madre di Dio e Madre di misericordia.
Maria è Madre di misericordia perché Gesù
Cristo, suo Figlio, è mandato dal Padre come Rivelazione della misericordia di
Dio (cf Gv 3, 16-18). Egli è venuto non per condannare ma per perdonare,
per usare misericordia (cf Mt 9,13). E la misericordia più grande sta
nel suo essere in mezzo a noi e nella chiamata che ci è rivolta ad incontrare
Lui e a confessarlo, insieme con Pietro, come « il Figlio del Dio vivente » (Mt
16,16). Nessun peccato dell'uomo può cancellare la misericordia di Dio, può
impedirle di sprigionare tutta la sua forza vittoriosa, se appena la
invochiamo. Anzi, lo stesso peccato fa risplendere ancora di più l'amore del
Padre che, per riscattare lo schiavo, ha sacrificato il suo Figlio: 181 la sua
misericordia per noi è redenzione. Questa misericordia giunge a pienezza con il
dono dello Spirito, che genera ed esige la vita nuova. Per quanto numerosi e
grandi siano gli ostacoli opposti dalla fragilità e dal peccato dell'uomo, lo Spirito,
che rinnova la faccia della terra (cf Sal 1031,30), rende possibile il
miracolo del compimento perfetto del bene. Questo rinnovamento, che dà la
capacità di fare ciò che è buono, nobile, bello, gradito a Dio e conforme alla
sua volontà, è in un certo senso la fioritura del dono della misericordia, che
libera dalla schiavitù del male e dà la forza di non peccare più. Attraverso il
dono della vita nuova Gesù ci rende partecipi del suo amore e ci conduce al
Padre nello Spirito.
119. È questa la consolante certezza della
fede cristiana, alla quale essa deve la sua profonda umanità e la sua straordinaria
semplicità. Talvolta, nelle discussioni sui nuovi complessi problemi
morali, può sembrare che la morale cristiana sia in se stessa troppo difficile,
ardua da comprendere e quasi impossibile da praticare. Ciò è falso, perché essa
consiste, in termini di semplicità evangelica, nel seguire Gesù Cristo, nell'abbandonarsi
a Lui, nel lasciarsi trasformare dalla sua grazia e rinnovare dalla sua
misericordia, che ci raggiungono nella vita di comunione della sua Chiesa. «
Chi vuole vivere — ci ricorda sant'Agostino —, ha dove vivere, ha donde vivere.
Si avvicini, creda, si lasci incorporare per essere vivificato. Non rifugga
dalla compagine delle membra ».182 Può capire dunque l'essenza vitale della
morale cristiana, con la luce dello Spirito, ogni uomo, anche il meno dotto,
anzi soprattutto chi sa conservare un « cuore semplice » (Sal 852,11).
D'altra parte, questa semplicità evangelica non esime dall'affrontare la
complessità del reale, ma può introdurre alla sua più vera comprensione, perché
la sequela di Cristo metterà progressivamente in luce i caratteri
dell'autentica moralità cristiana e darà, al tempo stesso, l'energia di vita
per la sua realizzazione. È compito del Magistero della Chiesa vegliare perché
il dinamismo della sequela di Cristo si sviluppi in modo organico, senza che ne
vengano falsate o occultate le esigenze morali, con tutte le loro conseguenze.
Chi ama Cristo osserva i suoi comandamenti (cf Gv 14,15).
120. Maria è Madre di misericordia anche
perché a lei Gesù affida la sua Chiesa e l'intera umanità. Ai piedi della
Croce, quando accetta Giovanni come figlio, quando chiede, insieme con Cristo,
il perdono al Padre per coloro che non sanno quello che fanno (cf Lc 23,34),
Maria in perfetta docilità allo Spirito sperimenta la ricchezza e
l'universalità dell'amore di Dio, che le dilata il cuore e la fa capace di
abbracciare l'intero genere umano. È resa, in tal modo, Madre di tutti noi, e
di ciascuno di noi, Madre che ci ottiene la misericordia divina.
Maria è segno luminoso ed esempio
affascinante di vita morale: « la vita di lei sola è insegnamento per tutti »,
scrive sant'Ambrogio,183 che rivolgendosi in particolare alle vergini ma in un
orizzonte aperto a tutti così afferma: « Il primo ardente desiderio di imparare
lo dà la nobiltà del maestro. E chi è più nobile della Madre di Dio? o più
splendida di Colei che fu eletta dallo stesso Splendore? ».184 Maria vive e
realizza la propria libertà donando se stessa a Dio ed accogliendo in sé il
dono di Dio. Custodisce nel suo grembo verginale il Figlio di Dio fatto uomo
fino al tempo della nascita, lo alleva, lo fa crescere e lo accompagna in quel
gesto supremo di libertà, che è il sacrificio totale della propria vita. Con il
dono di se stessa, Maria entra pienamente nel disegno di Dio, che si dona al
mondo. Accogliendo e meditando nel suo cuore avvenimenti che non sempre
comprende (cf Lc 2,19), diventa il modello di tutti coloro che ascoltano
la parola di Dio e la osservano (cf Lc 11, 28) e merita il titolo di «
Sede della Sapienza ». Questa Sapienza è Gesù Cristo stesso, il Verbo eterno di
Dio, che rivela e compie perfettamente la volontà del Padre (cf Eb 10,5-10).
Maria invita ogni uomo ad accogliere questa Sapienza. Anche a noi rivolge
l'ordine dato ai servi, a Cana in Galilea durante il banchetto di nozze: « Fate
quello che egli vi dirà » (Gv 2,5).
Maria condivide la nostra condizione umana,
ma in una totale trasparenza alla grazia di Dio. Non avendo conosciuto il
peccato, ella è in grado di compatire ogni debolezza. Comprende l'uomo
peccatore e lo ama con amore di Madre. Proprio per questo sta dalla parte della
verità e condivide il peso della Chiesa nel richiamare a tutti e sempre le
esigenze morali. Per lo stesso motivo non accetta che l'uomo peccatore venga
ingannato da chi pretenderebbe di amarlo giustificandone il peccato, perché sa
che in tal modo sarebbe reso vano il sacrificio di Cristo, suo Figlio. Nessuna
assoluzione, offerta da compiacenti dottrine anche filosofiche o teologiche,
può rendere l'uomo veramente felice: solo la Croce e la gloria di Cristo
risorto possono donare pace alla sua coscienza e salvezza alla sua vita.
O Maria,
Madre di misericordia,
veglia su tutti
perché non venga resa vana la croce di Cristo,
perché l'uomo non smarrisca la via del bene,perché l'uomo non smarrisca la via
del bene,
non perda la coscienza del peccato,non perda la coscienza del peccato,
cresca nella speranza in Dio
« ricco di misericordia » (Ef 2,4),
compia liberamente le opere buone
da Lui predisposte (cf Ef 2,10)
e sia così con tutta la vita
« a lode della sua gloria » (Ef 1,12).
Dato a Roma, presso San Pietro, il 6
agosto, festa della Trasfigurazione del Signore, dell'anno 1993, decimoquinto
del mio Pontificato.