CONSULENZA GENITORIALE  - PARLARE E RACCONTARSI INSIEME

Privilegiare la riflessione

di Emanuela Confalonieri
(psicologa)
    

    A un adolescente in crisi, non è dato modo di essere protagonista della sua vita. La condivisione di scelte, valori e regole sta alla base della storia di ogni famiglia. Solo sentendosi parte di un’unica narrazione i diversi membri saranno in grado di assumersi responsabilità, riconoscendo errori e mancanze.

Paolo è un ragazzo di 16 anni e vive con i genitori e un fratello di 22 anni in una grande città del nord. Fino alla terza media, Paolo non ha mai avuto problemi né in famiglia né a scuola: andava d’accordo con i genitori e con il fratello, aveva dei buoni risultati a scuola, stava volentieri con i compagni e aveva parecchi amici. Quando si è trattato di scegliere la scuola superiore, Paolo voleva iscriversi assolutamente a un liceo scientifico fuori zona per non perdere contatto con il suo miglior amico che, avendo cambiato casa, sarebbe andato in quella scuola. La questione, dopo una veloce discussione in famiglia, non è stata considerata possibile per problemi logistici e di accompagnamento: inoltre il liceo scientifico di zona ha un’ottima reputazione e Paolo vi viene iscritto senza ulteriori ripensamenti. Il primo anno il ragazzo è bocciato: il secondo anno, a seguito anche di un consistente numero di assenze non sempre giustificate, viene nuovamente bocciato. Alle numerose richieste di colloqui fatte dagli insegnanti durante l’anno, i genitori hanno partecipato sempre in coppia raccontando un Paolo («...educato, diligente, forse un po’ chiuso, ma che non ha problemi particolari...») molto diverso da quello che quotidianamente gli insegnanti incontrano. Il Paolo alunno si presenta infatti come un ragazzino scostante, spesso sgarbato, non interessato allo studio. I genitori di ritorno da questi colloqui non rendono Paolo partecipe del loro contenuto: spesso non gli dicono neppure di aver parlato con i suoi insegnanti, preferendo che sia il figlio maggiore a indagare per capire cosa abbia Paolo. Intanto il ragazzo esce sempre più spesso di casa senza avvertire nessuno, rientrando molto tardi e, a dire di alcuni vicini di casa amici dei genitori, facendosi vedere in giro con ragazzi molto più grandi di lui e con facce «...non certo da bravi ragazzi». Il fratello maggiore, a questo punto, e senza consultare i genitori, prende in mano la situazione e, trascorsa l’estate, trova a Paolo un lavoro come fattorino in una libreria della zona. Dopo circa due mesi, il ragazzo litiga violentemente venendo alle mani con il proprietario del negozio che non gli aveva concesso di uscire per l’ennesima volta in anticipo rispetto all’orario concordato. I genitori, dopo aver contestato violentemente la scelta operata "troppo di testa sua" due mesi prima dal figlio maggiore, decidono, su suggerimento di un conoscente psicologo, di allontanare Paolo per un po’ di tempo da casa, mandandolo a vivere da alcuni loro amici che vivono in un’altra città.

Un evento complesso

Forse l’aspetto, fra i tanti possibili, che maggiormente colpisce nella storia della famiglia appena presentata è quello relativo alla comunicazione, ovvero ai processi e ai problemi comunicativi che sembrano fortemente caratterizzare e vincolare le vicende quotidiane dei nostri protagonisti.

L’evento comunicativo in genere si presenta sempre come evento complesso, proponendosi contemporaneamente come possibilità e occasione di condivisione, di comunione reciproca, di effettivo ascolto, ma anche come esperienza di "difesa" dall’altro, di chiusura e negazione di quanto l’altro cerca di dirci e farci comprendere. Il comunicare come attività congiunta, come attività che crea interdipendenza e intersoggettività, risulta allora particolarmente legata a dimensioni quali quella dell’intenzionalità (ovvero del voler davvero, comunicando, rendere comune qualcosa di sé, far partecipe l’altro di qualcosa per noi importante) e quella della consapevolezza (di ciò che si dice all’altro, del come lo si dice e del perché si vuole comunicare con lui).

Il valorizzare, avendole sempre ben presenti, dimensioni quali quelle appena citate può contribuire a rendere nel quotidiano più efficaci e funzionali gli scambi comunicativi in ogni contesto (da quello familiare a quello amicale, a quello lavorativo) e, come cercheremo di vedere, può certamente contribuire a rendere più comprensibili situazioni confuse e complicate.

Il lavoro identitario

L’evento comunicativo si traduce in famiglia in termini di educazione, formazione, confronto, dialogo, elementi particolarmente evidenti e critici durante il periodo adolescenziale dei figli.

L’adolescente cerca in questa fase di vita il proprio benessere psicologico, affettivo, sociale; è teso alla costruzione della propria identità e impegnato su fronti e luoghi di vita diversi (famiglia, pari, scuola). Questo suo lavoro identitario mette a dura prova il sistema familiare e le sue modalità comunicative che, se sembravano funzionali fino a qualche mese prima, improvvisamente si possono rivelare inefficaci se non controproducenti rispetto al rapporto genitori-figlio adolescente, rendendo spesso difficile il clima familiare.

Un’interessante questione può allora essere quella di cercare di meglio comprendere che tipo di rapporto esista fra una buona comunicazione in famiglia e un conseguente potenziale star bene della stessa e dei suoi membri. Innanzitutto preme sottolineare come non si tratti di un rapporto causa-effetto, di tipo sequenziale, ovvero l’aver sempre ben comunicato in famiglia non significa "naturalmente" riuscire a garantire una situazione di benessere psicologico e affettivo alla stessa. E questo soprattutto perché i vertici relazionali in gioco sono tanti e diversi (la coppia marito-moglie, la coppia padre-madre, il gruppo padre-madre-figlio/i) e complessificano il quadro comunicativo rendendo impossibili o poco esaustive spiegazioni unilaterali.

Un buon funzionamento comunicativo in famiglia può "proteggere" in situazioni conflittuali, degenerative, di disagio, di cambiamento, nel senso di: prevenirle (accorgersene in tempo e provare a evitare che una situazione al momento solo potenzialmente critica lo diventi di fatto); affrontarle (facilitare il riconoscimento dell’esistenza di una situazione di effettivo disagio e individuare quali potrebbero essere gli interventi possibili), non impedendo comunque il loro verificarsi, né garantendo un esito positivo delle stesse.

In adolescenza ciò è particolarmente vero e scottante: il figlio deve e vuole separarsi psicologicamente dai genitori e chiede/pretende modalità comunicative (di scambio, di ascolto, di risoluzione di conflitti) diverse, più adulte, ma comunque "calde" e contenitive. I genitori devono provarsi e sperimentarsi in un ruolo che è sempre "generativo", ma che deve aiutare il figlio ad allontanarsi per una sua individuazione autonoma, per una costruzione adulta ed emancipata della sua identità.

La funzione educativa del genitore deve quindi mutare e trovare registri comunicativi di ascolto e di comprensione più che di spiegazione: l’obiettivo non è quello di fornire al figlio modelli di lettura della vita alla ricerca di un’unica "verità", ma modalità di lettura e di interpretazione della vita modificabili e ricodificabili da parte del figlio in termini personali e autonomi.

Anche se nelle diverse e quotidiane situazioni, la scelta migliore può apparire una sola (nella nostra storia, il liceo da frequentare, il lavoro di fattorino, l’allontanamento di Paolo), in realtà è sempre possibile scegliere all’interno di un ventaglio di possibilità, più o meno onerose e funzionali, ma tutte comunque potenzialmente disponibili e soprattutto cariche di significati affettivi e di investimenti emotivi non sempre esplicitati (la scelta di una certa scuola per stare con i propri amici), ma che devono essere accolti e ascoltati dalla famiglia.

Non solo azioni

Quanto più la propria storia familiare, di genitori e di figli, è stata da subito narrata insieme (condivisa, resa comune, partecipata in termini di scelte educative, di valori, di regole e norme, di bisogni e desideri) nel rispetto delle identità e dei ruoli, tanto più in situazioni critiche (di cambiamento, di transizione, sia canoniche che eccezionali), l’intreccio narrativo della famiglia consentirà una lettura comune e potrà fare da supporto per "parlare" di ciò che sta accadendo ed evitare che ogni membro racconti la propria storia senza tener conto degli altri protagonisti e dei loro desideri e bisogni. La narrazione diventa allora attività congiunta familiare, spazio mentale dove è possibile anche il silenzio e non solo la presenza di rumori e azioni.

A Paolo non sembra sia data la possibilità di scrivere il proprio pezzo di storia: prima i genitori e poi il fratello decidono quale deve essere il suo intreccio, la sua trama e lo rendono protagonista inconsapevole di una storia che egli non sente sua e che fa quindi fatica a vivere.

Solo sentendosi davvero parte integrante della storia che la propria famiglia, pur fra fatiche e rinunce, sta raccontando, i diversi membri saranno anche in grado con tempi e modalità diverse, di assumersi responsabilità, di riconoscere eventuali errori o mancanze, di riconciliarsi e riavviare un racconto di cui sono tutti ugualmente protagonisti.

Se non è mai stato coltivato all’interno della famiglia uno spazio mentale e psicologico per il racconto e la comunicazione della propria storia personale e familiare, si rischia, di fronte alle difficoltà, di scegliere comunque di agire: si agisce per colmare un vuoto che spaventa e che non troverà peraltro in una dimensione solo operativa la sua soluzione e che quindi rimarrà tale finché quella che si persegue è comunque l’azione (scegliere, decidere cosa fare, muoversi...).

La nostra famiglia sembra privilegiare allo spazio del pensiero, della riflessione e della comprensione reciproca quello dell’azione: è una famiglia al cui interno si parla poco, si tende a delegare (al figlio maggiore quello che invece competerebbe per ruolo ai genitori), si tende, per scarso ascolto o intenzione comunicativa, a non cogliere i segnali che altri inviano se non quando questi segnali diventano preoccupanti (le compagnie frequentate, l’aggressione fisica): e anche allora la modalità di intervento utilizzata non è quella del fermarsi per comprendere, dell’ascoltare, del comunicare davvero su cosa sta accadendo, ma piuttosto è quella dell’agire, allontanando il problema (mandare via Paolo a vivere da amici).

Se lo spazio per il racconto e per la narrazione come attività congiunta e condivisa esiste all’interno del proprio sistema familiare, si ha a disposizione una risorsa in più che non evita il rischio dell’avverarsi di situazioni critiche, ma ne può consentire una diversa lettura e un conseguente diverso approccio risolutivo.

Emanuela Confalonieri
   

BAMBINI IN PROVETTA: SAPERE LA VERITÀ

La scelta di concepire in provetta e da seme di un donatore esterno pone i genitori di fronte al dilemma di rivelarlo, poi, ai propri figli. La maggior parte delle coppie decide di nascondere la verità. Uno studio condotto in Gran Bretagna dagli psicologi dell’Università del Surrey e pubblicato sulla rivista Human Reproduction (il mensile della Società europea di riproduzione umana ed embriologia) denuncia per la prima volta i danni provocati da queste bugie attraverso le testimonianze degli stessi figli della fecondazione artificiale, ormai ventenni. È la prima volta che si affronta a livello scientifico la questione del diritto dei nati in provetta a essere informati sulle loro origini. Lo studio è stato condotto intervistando 16 giovani che hanno saputo solo nella tarda adolescenza di essere nati in provetta e con il seme di un donatore diverso dal loro padre. La maggior parte ha detto di avere vissuto la rivelazione come uno shock, un tradimento e hanno, inoltre, dichiarato di essersi sempre sentiti estranei in famiglia. Non appena saputa la verità, tutti sono andati in cerca del padre biologico. In nessun caso, a causa dei divieti previsti dalla legge, la ricerca ha avuto esito positivo, aggiungendo, così, la frustrazione alla delusione per le bugie.

Simile la situazione nel nostro Paese dove, secondo i primissimi dati raccolti in un’indagine esplorativa condotta dall’Università di Roma "La Sapienza" (basata su interviste a un campione di coppie di Catania in attesa di "ottenere" la gravidanza), il 10% dei genitori ha intenzione di non rivelarlo mai e circa l’80%, forse, comunicherà la verità ai figli grandi. Solo il 10% è disposto a raccontare fin da subito come è avvenuto il concepimento. Nei questionari è emersa, inoltre, qualche perplessità ad affrontare l’argomento con parenti e amici. Tutte le coppie ne avevano parlato con il medico, preferendo però lo specialista (ginecologo, urologo e andrologo) al medico di famiglia. Il 60% aveva messo al corrente anche un familiare (almeno uno dei genitori o un fratello) e nel 30-40% dei casi erano stati informati anche gli amici più intimi.

o.v.