I FONDAMENTI DEL PERDONO
INTRAFAMILIARE Innocenti o riconciliati? di Mariateresa
Zattoni e Gilberto Gillini | |||
Il
bisogno di perdonarsi innesta un processo che modifica l’esperienza delle
relazioni familiari. Richiede coraggio, determinazione, fatica. Ma crea
solidarietà, intimità, libertà. E va ben oltre la cancellazione del
debito.
Vorremmo portare avanti l’esigenza (e perfino la necessità) del perdono in famiglia non tanto come esigenza morale, né come semplice "convenienza" esistenziale, bensì dal nostro angolo visuale come esigenza fondante il ben-essere familiare. Vogliamo mostrare, infatti, che il perdono è un processo (e perciò implica uno sviluppo) che modifica i "normali" modi di vedere la realtà intrafamiliare e che perciò genera apprendimento, cioè modifica l’esperienza che abbiamo gli uni degli altri. Contigua (e confondente) è la pura e semplice amnistia assolutoria, la modalità cioè del mettere «una pietra sopra» alle offese ricevute, quasi a cancellarle; quest’ultima nozione ha a che fare, in fondo, con il giudizio e con la spinta volontaristica. Ma – ed è il punto convergente della nostra riflessione – il perdono cristiano, che può aver luogo nelle nostre famiglie a partire dalla parola di Gesù, è la pura e semplice amnistia assolutoria? Oppure è un perdono che genera cambiamento e sviluppo? Il comune sentire ci rende plausibile un fatto: negli affari umani l’innocenza di uno poggia sulla colpevolezza degli altri; i rapporti – specie quelli più prossimi – funzionano in modo tale che, quando si rende evidente una colpa, ci si divide in colpevoli e innocenti. Innocente è colui che si scagiona: hai rubato tu, non io; sei tu che hai tradito, non io; hai cominciato tu a offendermi, io ho solo subito. In altre parole, cercare la propria innocenza significa trovare altri colpevoli, anzi tanto più gli altri appaiono colpevoli, tanto più risalta la propria innocenza. In questo quadro, appare chiaro che, quando nel mio mondo emerge un fallimento, uno scacco, un errore, la posta in gioco primaria non è tanto ritrovare l’allegria per riparare e rimediare, ma mostrare anzitutto a me stesso (e a chi mi è prossimo) che i colpevoli sono gli altri, perché ciò vede me innocente, cioè privo di quella colpa di cui altri sono carichi. Un simile gioco interattivo in famiglia lascia intatto il malessere, anche quando l’innocente intende perdonare chi gli ha fatto del male; nulla cambia infatti anche quando il perdono è dato in buona fede: poiché in tal caso l’uno è costretto a stare di fronte all’altro come a colui che ha ricevuto una condanna, senza che venga colto quel tanto o quel poco di innocenza che egli ha pur sempre nei confronti del primo. Si faccia attenzione al linguaggio comune, che ha già da tempo elaborato frasi fatte per impedire realmente a colui che risulta innocente di scendere dal proprio ingenuo piedistallo. Espressioni come: «Il torto non è mai da una sola parte», «Ognuno ha i suoi difetti», «Bisogna sopportarci per quello che siamo», sono veli dietro cui nascondere le proprie ragioni. Se chiedete a un coniuge, che lamenta offese subite dall’altro, se i torti sono solo dall’altra parte, si affretterà a rispondervi: «Avrò anch’io i miei torti». Provate allora a chiedere che ve ne elenchi qualcuno, in concreto. Di solito, non ne trova nemmeno uno reale, poiché non li conosce; oppure arriva all’arroganza (inconsapevole) di presentare come torti i suoi crediti non esigiti: «Sono stato troppo buono». «Non mi sono fatto valere a suo tempo». Quando uno è ben sicuro di essere innocente, può arrivare a quel mimo del perdono nei rapporti intrafamiliari che è l’amnistia assolutoria, nel senso di cui abbiamo detto sopra: «Va’ là, ti perdono! Non pensiamoci più. Ricominciamo da capo. Non è successo niente». Al di là delle buone intenzioni, ciò non cambia il malessere, il disagio che ha prodotto la corrosione dei rapporti. Anzi, una tale amnistia pare, in termini interattivi, offrire punti a chi la dà e sottrarne a chi la riceve; un po’ come se uno collezionasse "bollini" meritori, in attesa del premio-fedeltà, proprio come succede in un supermercato che si rispetti. Abbiamo presente due casi di tradimento coniugale, conosciuti nel nostro lungo lavoro di consulenza. Nel primo lui aveva "perdonato" una relazione di lei con un collega d’ufficio; il tutto era finito in una bolla di sapone e lui, saggiamente, aveva detto: «Ricominciamo da capo». Ma come mai lei gli era grata solo a parole? Come mai lui era così inquieto e, aldilà delle sue stesse intenzioni, sempre più sospettoso, nonostante tutto il tempo che era passato e il fatto che lei «aveva messo la testa a posto?».
Nel secondo caso, lei – diceva – non riusciva più a perdonare lui per una relazione extraconiugale: da due anni lui era costretto a dormire sul divano; non poteva ormai più fidarsi di lui – diceva –, era più forte di lei. Non doveva farlo. Ormai, era tradita. Lei, prima, si fidava completamente di lui. Lui l’aveva ferita a morte, poiché aveva approfittato proprio della sua fiducia totale. E l’amnistia che guidava i suoi comportamenti diveniva sempre meno plausibile, quanto più lei non trovava giustificazioni per essere stata ferita così gratuitamente. In effetti ci assale un po’ di tristezza: che sia in atto o no, un simile perdono lascia in fondo le cose come stanno. A discolpa dell’altro Occorre, proprio nelle relazioni che più ci stanno a cuore, assumere un punto di vista diverso che non sia quello della divisione, tra noi, in colpevoli e innocenti. Fino a che la discolpa dell’uno passa attraverso la colpevolezza dell’altro, nessuno rinnoverà i rapporti familiari. Al massimo ci trasformeremo in contabili più o meno efficienti. Il punto di vista diverso attiene a un’altra trama che non è (semplicemente) il rovesciamento della posizione precedente. Occorre che io scopra che l’operazione più sana e più intelligente è la discolpa dell’altro, ma non per ritrovarmi colpevole: questo sarebbe infatti il puro rovesciamento che mi fa dire: «è tutta colpa mia», «sono io il colpevole». Perché ancora una volta con ciò – lo sappiamo bene – nulla cambia: o perché il: «è tutta colpa mia» è solo una mossa (a cui, in fondo, non credo) per rendere innocuo l’altro o perché (se lo credo) mi paralizza, non mi dice in quale direzione muovermi (è ben altro il senso del peccato davanti a Dio). La nuova trama consiste nello sperimentare che la mia discolpa passa attraverso la discolpa dell’altro: in altre parole, posso "fare il tifo" per il coniuge, il figlio, il fratello, il genitore, il nonno che mi ha offeso per "discolparlo" e cioè trovare come mai lui è arrivato fin lì, per quali strade impervie, ferite non trattate, colpi della vita. Quando l’ho discolpato ai miei occhi, quando ho sentito il suo dolore, le sue paure, le sue antiche difese (che prima me lo rendevano ridicolo o arrogante!), quando – finalmente! – mi pare che non possa non essere arrivato lì e gli sono perfino un po’ grato, allora l’ho perdonato. Allora lo guardo in modo diverso. Allora traspare nel mio sguardo – anche se non ne sono consapevole – qualcosa dello "sguardo" che fa nuove tutte le cose. Non per questo mi sono caricato di colpe, anzi mi accorgo – strano! – che tutto questo ha operato a favore della mia discolpa. Non soltanto posso guardare lui (il coniuge, il figlio, il fratello, il genitore) con occhi nuovi, ma anche me stesso! Ma tutto questo costituisce un processo. Prima di considerare il perdono come un processo di discolpa dell’altro, prendiamo a cuore due possibili obiezioni. La prima potrebbe essere formulata così: «E se veramente io non c’entro? Se del tutto gratuitamente l’altro mi ha fatto del male?». È qui che il processo della discolpa dell’altro vale. Anzi, quanto più mi appare gratuita, inaspettata e perfino mostruosa l’offesa, tanto più il processo di cui parliamo lavora a favore della libertà della relazione, che altrimenti rimarrebbe come legata a punti oscuri, ciechi, invischiata e immobile. Narriamo: una giovane donna, Barbara, già sposata e lontana dal fratello maggiore, si accaniva a mostrarci quanto il fratello l’avesse offesa e umiliata al punto che ne fremeva ancora e riversava nelle attuali relazioni con gli uomini la sua volontà di risarcimento. Ci pare di udirla: «Mia madre gliele faceva passare tutte lisce e lui diventava sempre più prepotente. Io, due anni di meno, non solo dovevo pulirgli le scarpe, mettere in ordine le sue cose, fare tutto quello che lui si rifiutava di fare, ma perfino non andare a giocare, se lui si era beccato un castigo dalla maestra e ricattava mia madre, dicendole che, se io andavo fuori, ci sarebbe andato anche lui. Crescendo, mio fratello diventava sempre più ostile e ingiurioso: «Chi vuoi che sposi te – diceva a me adolescente già piena di complessi –, non sai vestirti, non sai farti valere, non sei bella... Rimarrai zitella!». «Ma tu come reagivi?», le chiedemmo. «A me toccava star zitta per amor di mia mamma, che già era preoccupata per lui... Io ero buona...». E così Barbara aveva costruito la sua discolpa sulle colpe del fratello e ancora soffriva per le ferite gratuitamente inferte da lui, cui naturalmente aveva già "perdonato"... Fu un lungo cammino per Barbara quello di "raggiungere" il fratello privilegiato e prevaricatore e di poter finalmente "sentire" ciò che lui sentiva. Come mai Franco aveva bisogno di offenderla in tal modo? E perfino di ferirla nel suo punto debole, nella sua paura profonda di non piacere agli uomini? Come mai arpionava con tanta acrimonia la sua femminilità? «Perché era cattivo», lo sappiamo, non è una risposta, è solo una difesa. «Franco come vedeva la sorellina Barbara? Com’era, secondo lui?», questa domanda spiazzò l’onestissima Barbara. La questione non se l’era mai posta in questi termini. Ci volle coraggio e speranza per "diventare" il fratello: «Sì, io per lui ero la sorella perfetta. Mamma non perdeva occasione per dirgli di fare come me, di guardare i miei quaderni, di studiare come me. Ricordo quando un mio tema venne letto dalla maestra anche nella sua classe. A me sembrava normale perché i miei temi erano proprio belli. Non mi sognavo di pensare come la potesse vedere lui e non facevo collegamenti tra questi miei successi e il suo impormi di fargli da serva. Alle medie, poiché ero anche un genietto in matematica, gli risolsi un problema che lui non riusciva a fare». Alla lunga di un simile processo, Barbara cominciò a provare un’empatia e una tenerezza che non aveva mai provate per il fratello: «Povero Franco! Devo essere stata insopportabile! Perfino alle scuole superiori gli insegnanti dicevano, a lui che era una frana, con ironia: "Ma tu non sei il fratello di Barbara? Sfido io che mi colpiva dove mi percepiva debole!». E rideva sollevata pensando all’incredibile: un fratello che invidiava lei che aveva creduto di invidiarlo-odiarlo con tutto il cuore! Così Franco si trovò perdonato, poiché la discolpa di lui appariva palese, quasi naturale. Con un’aggiunta, come vedremo: il perdono unisce alla discolpa il rispetto e la gratitudine. «In fondo mi ha sopportato!», diceva Barbara con allegria. Ma era divenuta colpevole lei? No di certo: «Io mi rifugiavo a far la brava poiché non avevo altre strade! E non potevo certamente accorgermi, da sola, di come stava lui dentro!». Sentirsi tutti alleati La seconda obiezione riguarda proprio questo: non è che le discolpe ci facciano entrare in un mondo fittizio da paradiso terrestre dove è azzerato il male? A noi pare di no, poiché qui innocenti vuol dire "riconciliati", ritrovati, accolti nell’interdipendenza e nella reciprocità. Allora può emergere il senso vero del peccato che non paralizza, ma che anzi sollecita ad alzarsi e andare verso la casa del padre (Lc 15,11-32), nonostante che la prepotenza si chiami "prepotenza" e la prevaricazione, "prevaricazione". Se Franco non deve più mostrare a se stesso quanto ha ragione lui e quanto insopportabile sia la sorella, allora può (nella sua libertà) cogliere quanto abbia offeso la relazione fraterna, quanto poco rispetto abbia portato alla sorella. Ma questo, come dice il salmista, è visto alla luce di Dio: «Contro di te, contro te solo ho peccato» (Sal 50,6). Cioè Franco potrebbe concludere: ho fatto attentati al come Tu ci hai pensato come fratelli e sorelle. Ma anche Barbara è restituita alla circolarità della relazione e non può più mantenere la "superbia" del sentirsi senza peccato. Il perdono è dunque un processo che genera apprendimento, cioè, modifica l’esperienza che abbiamo gli uni degli altri. In famiglia, non c’è più la "raccolta di punti". Questo permette a poco a poco la solidarietà, il sentirsi alleati, il sentirsi presenti gli uni gli altri in modo assolutamente nuovo. E questa è anche la premessa per l’intimità che noi umani cerchiamo appassionatamente, come un bene prezioso. Intimità è abitare presso l’altro, rimanendo integri nella propria identità, cioè guardando in faccia i propri peccati senza più bisogno di difendersi. E questo è – tra l’altro – un risparmio enorme di risorse e una fonte di sanità mentale. In altre parole, la discolpa dell’altro apre al cambiamento e quindi non è mai solo discolpa nel senso di amnistia e cancellazione del debito. È molto di più: è come se il fratello, il coniuge, il figlio, il genitore acquisissero la terza dimensione, la profondità. Prima era come schiacciato a due dimensioni nel gioco delle colpe; ora acquista i colori e il movimento della vita. La novità cristiana Come ogni processo, anche il perdono richiede coraggio, determinazione e soprattutto fatica: poiché avventurarsi a raggiungere l’altro, a immaginare il mondo con i suoi occhi, è come una sorta di opera creativa; che ha bisogno delle proprie verità per scoprire un nuovo mondo. Come ogni processo, anche il perdono ha i suoi momenti di stasi, quasi di regressione, di paura. E soprattutto non ha garantito il risultato esterno, mentre porta con sé la sua ragione di pace. Le sorprese di questo processo sono molte: soltanto usando misericordia e compassione verso l’altro, imparo a usarle verso me stesso. Discolparmi non è più autodifesa, accanimento e accumulo di prove: è imparare a trattare se stessi con la stessa misura con cui misuro l’altro. Ma è questo il perdono cristiano? È questo il perdono che in famiglia siamo chiamati a scambiarci in nome di Gesù? A noi pare di sì. Il: «rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori», indica che non sta a noi trasformare gli altri in debitori, ma – proprio perché ci perdoniamo – sta a noi riconoscere che non c’è tra noi chi sia solo debitore e chi sia solo creditore; tutti siamo debitori verso quell’Unico che ha fatto del suo infinito credito la logica per cui ci ama. C’è un passo in Matteo che non può essere interpretato con la logica del perdono-amnistia; è un loghion di Gesù (secondo molti esegeti risalente agli ipsissima verba di Gesù) che produce interrogativi insolubili, a leggerlo con quegli occhiali. Ascoltiamolo: «Se dunque presenti la tua offerta sull’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare e va prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono» (Mt 5,23-24). Ecco, uno potrebbe dire: «E perché mai devo andare io a riconciliarmi con uno che ce l’ha con me? E perché interrompere un atto religioso? Dio non ha diritto alla precedenza? Non sarà che, se vado a offrire il mio perdono, verrò preso a pesci in faccia; e in più non ho fatto il mio dovere all’altare?». Nella sua sapienza, Gesù lascia indecisa la questione su chi ha torto e chi ha ragione; su chi deve fare il primo passo; su chi deve andare a portare il perdono perché è buono e religioso. Il fatto è che non si tratta di amnistia assolutoria, bensì di riconciliazione. Non è che Dio vuole al suo altare solo gli innocenti, quelli che sono a posto, quelli che hanno tanti punti. La richiesta è molto più alta e radicale, nel senso di incondizionata; non sta scritto: «se tuo fratello è disponibile, se riconosce il suo torto, se se lo merita». Andata e ritorno Dio vuole al suo altare una comunità di riconciliati. Come non pensare che ciò non venga chiesto in famiglia? L’esegeta Gerhard Lohfink (ndr, vedi bibliografia) osserva che se poniamo l’atto di culto a Gerusalemme e pensiamo gli offerenti come pellegrini che vengono da lontano, allora il tornare a riconciliarsi non è un’interruzione breve (né tanto meno un pro forma): richiede un nuovo viaggio, un ripensamento, un vero "andata-ritorno". Un processo, appunto. E tutto questo in un contesto culturale che aveva anche una funzione sociale. Ma non illudiamoci che tutto ciò possa avvenire in un titanico isolamento, in cui ciascuno compie il processo del perdono: questo è possibile in una comunità di credenti dove ciascuno si senta chiamato a portare i pesi degli altri. In questo, la famiglia non può e non dev’essere sola. Ma il discorso ci porterebbe lontano. Erano passati ben sette anni da quando il giovane marito era andato a cercare un appuntamento da un ginecologo "sicuro" e cioè abortista. Il secondo figlio non aveva restituito la pace alla coppia; e il bambino non-nato era lì a sonnecchiare nel mutismo di lui e a fare dell’ironia negli entusiasmi di lei. Si erano "convertiti", ma niente era cambiato. Alle irruenze e agli ideali di lei, lui rispondeva con tiepidezza, incassava le accuse di non volere ingaggiarsi, uscire allo scoperto, compromettersi. Davanti a tutti, lui faceva il quasi-santo che sopporta una donna "sopra le righe". Ma più lui si difendeva rintanandosi, più lei con testarda generosità lo interpellava e lo disprezzava a un tempo. Solo dopo, quando iniziò il doloroso processo del perdono, si raccontarono. Lui: «Di quell’aborto io mi ritenevo assolutamente innocente – pensava lui –, con un’altra moglie non l’avrei fatto. Era stata lei a mostrarmi quanto fosse isterica, quanto le fosse impossibile sostenere una gravidanza imprevista; era lei che mi tirava matto e non mi lasciava vivere. La colpa è sua; io sono innocente». Lei: «Con questa mezza calzetta di uomo mi sentivo spaventosamente sola; che appoggio mi dava? Che delusione di uomo! L’unico appoggio che mi ha dato è stato quello di andare a cercare il ginecologo. È lui che è inaffidabile; io sono perdonabile». Fino a che l’innocenza dell’uno poggiava sulla colpevolezza dell’altro, la lotta tra loro permaneva sorda e collusiva. Lei aveva bisogno che lui fosse una "mezza calzetta" e lui aveva bisogno che lei fosse una "pazza isterica". E naturalmente ciascuno si procurava le prove che le cose stessero realmente così. Cosa non difficile tra umani, come sappiamo. Ma quando, in un lungo cammino, ciascuno cominciò a esplorare il mondo dell’altro, allora avanzarono "cieli nuovi e terre nuove". Noi, con gratitudine, conserviamo le tracce di questo cammino. Scrive lui: «Mara, perdonami! Quante volte non ti ho sostenuta, difesa, valorizzata, perché nel mio cuore eri una cenerentola!». Lei: «Sento che posso cominciare a collocarti sul "trono" che ti ho sottratto e che è il tuo». Ancora lui: «...nel mio cammino ho imparato a procurarmi "il gusto per la verità" e a tale gusto mi sono abituato e lo apprezzo molto. Ora vedo un po’ più chiaro in me. Non mi abbatto e non mi dispero. Mi rendo conto che lavorare per il mio amore e per te è la stessa cosa che lavorare su di me». Ancora lei: «Mi sembra che sia tu che io fossimo preda di agguati, tenuti in ostaggio. Ora ho semplicemente fiducia nella luce che vedo». Mara e Antonio sono divenuti testimoni e abbracciano la comunità che li ha "portati in grembo", rendendo loro possibile di «lasciare l’offerta all’altare» e di riconciliarsi. Mariateresa Zattoni e Gilberto
Gillini
BIBLIOGRAFIA
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