DEFINIZIONE FILOSOFICA

Nessuno vive senza amici

di Gregorio Piaia
(ordinario di Storia della filosofia, Università di Padova)
            

    Le condizioni che rendono l’amicizia un rapporto non esauribile nelle convenienze sociali sono la totale accettazione dell’altro in spirito di fraternità e la capacità di perdonare senza escludere la valutazione obiettiva del suo comportamento.

«Amicizia è...»: parrebbe il titolo di un tema per la scuola media, oppure l’inizio di una di quelle poesie in prosa che sui muri delle nostre periferie e sui vagoni dei treni regionali contendono lo spazio alle esibizioni pittoriche dei writers. Ma anche i filosofi di ogni epoca si sono cimentati in questo tentativo di definizione, e a buon diritto, dato che Socrate fu il primo ad avvertire l’esigenza di definire nella maniera più generale possibile i princìpi cui dovrebbe ispirarsi l’azione umana. Notava Immanuel Kant nelle sue Lezioni di etica che «l’amicizia è il cavallo di battaglia di tutti i moralisti e retori: è qui che essi cercano il nettare e l’ambrosia», e in effetti il quadro delle definizioni fornite dai filosofi appare ricco e variegato.

La trattazione più famosa è senza dubbio contenuta in un dialogo di Cicerone, il Laelius de amicitia, composto nell’ultimo periodo della sua vita, quand’era ormai tagliato fuori dall’attività politica e per di più colpito negli affetti familiari. «L’amicizia – scrive Cicerone – è nient’altro se non un perfetto accordo nelle cose divine e umane, unito con un sentimento di benevolenza e di affetto; e di essa certo non so se, eccettuata la sapienza, dagli dèi sia stata data all’uomo cosa migliore. Alcuni le antepongono la ricchezza, altri la buona salute, altri la potenza, altri gli onori, molti anche i piaceri. Quest’ultima cosa è propria delle bestie, le altre poi sono passeggere e incerte, perché non tanto dipendono dal nostro senno, quanto dal capriccio della fortuna. Quelli poi che pongono il bene supremo nella virtù, fanno sì benissimo, però questa virtù stessa genera e mantiene l’amicizia, né l’amicizia senza la virtù in alcun modo può esservi» (6, 20).

Nella sua trattazione Cicerone fa naturalmente tesoro di quanto i filosofi greci avevano detto e scritto sull’amicizia. Basti pensare a Epicuro, il quale aveva affermato: «Di tutti quei beni che la saggezza procura per la completa felicità della vita, il più grande di tutti è l’acquisto dell’amicizia», espressione del piacere più vero e antidoto a ogni specie di dolore. «La medesima persuasione – proclama Epicuro con forza – che ci rassicura che nessun male è eterno o durevole, ci fa anche persuasi che in questo breve periodo della vita esiste la sicurezza dell’amicizia».

La fama di cui godono queste massime di Epicuro non deve però farci dimenticare che anche i due maggiori filosofi greci, Platone e Aristotele, s’erano soffermati su questo tema. Il nesso virtù-amicizia, ad esempio, è fondamentale per Aristotele, che nell’Etica Nicomachea (VIII, 1155a) dichiara che l’amicizia «è una virtù o s’accompagna alla virtù», per poi sottolineare, con un’esemplificazione che si riferisce alle diverse condizioni umane, l’assoluta necessità dell’amicizia: «Infatti nessuno sceglierebbe di vivere senza amici, anche se avesse tutti gli altri beni (sembra proprio che i ricchi e coloro che posseggono cariche e poteri abbiano soprattutto bisogno di amici; infatti quale utilità v’è in questa prosperità, se è tolta la possibilità di beneficare, la quale sorge ed è lodata soprattutto verso gli amici? O come potrebbe essere salvaguardata e conservata senza amici? Infatti quanto più essa è grande, tanto più è malsicura)». Ma l’amicizia, insiste Aristotele, rappresenta anche «il solo rifugio nella povertà e nelle disgrazie», ed è d’aiuto sia ai giovani (per evitar loro di sbagliare) sia ai vecchi (per la loro debolezza) sia a quanti si trovano nella pienezza del loro vigore, giacché li rende «più capaci a pensare e ad agire».

All’interno di quest’ampia prospettiva Aristotele opera però una distinzione: l’amicizia può essere fondata sull’utile oppure sul piacere oppure sulla virtù; le prime due specie sono accidentali e caduche, mentre «l’amicizia perfetta è quella dei buoni e dei simili nella virtù».

Per una vicendevole comprensione completa, le persone devono avere identici principi morali e intellettuali, altrimenti, divergendo nei giudizi, non potranno mai essere profondamente uniti. Parola del famoso pensatore tedesco Kant.

Quest’ultimo tema era già stato dibattuto da Platone in uno dei dialoghi giovanili d’ispirazione socratica, il Lìside. In un primo tempo vi si afferma che solo «i buoni sono simiglianti fra loro e amici», e questo perché «i malvagi non sono nemmeno d’accordo con se stessi, furiosi sempre e senza possibilità d’un equilibrio» (214c). Però il buono, in quanto basta a se stesso, non avrebbe bisogno di alcunché, neppure di amici; ma è sostenibile che l’amicizia sussista solo fra contrari?... La discussione prosegue senza giungere a una definizione esaustiva di chi sia "amico"; tuttavia i problemi di fondo sollevati in questo dialogo socratico sarebbero stati ripresi anche in età moderna. 

«In cosa consiste allora il legame e l’adattarsi reciproco che sono propri dell’amicizia?», si chiede Immanuel Kant nelle citate Lezioni di etica, dopo aver pure lui distinto tre forme di amicizia, basate rispettivamente sul bisogno, sul "gusto" (ossia il piacere) e sull’«intenzione schietta e pura». E risponde: «Non certo nell’identità del modo di pensare, perché al contrario è piuttosto la diversità quel che contribuisce all’amicizia, compensando l’uno quanto difetta all’altro. Tuttavia in una cosa gli amici debbono poter andare d’accordo. I loro princìpi intellettuali e morali devono essere identici, se tra di essi vi deve essere una comprensione completa; altrimenti, divergendo essi nei loro giudizi, non potranno mai sentirsi uniti».

I filosofi qui citati, e altri ancora, concordano nel sottolineare l’elevatezza del sentimento di amicizia, preoccupandosi semmai di distinguere la "vera", disinteressata amicizia da quella ispirata a istanze utilitaristiche e quindi meno nobili. Da qui alcune celebri definizioni, come quella attribuita da Diogene Laerzio (5, 20) ad Aristotele (l’amico è «un’anima sola in due corpi») o quella contenuta negli Insegnamenti al figlio di Pietro Abelardo, il grande dialettico parigino morto nel 1142: «Un vero amico vale più di ogni dono di Dio».

L’ambivalenza del sentimento

Ma il rapporto di amicizia, come tutte le cose umane, è ambivalente e anche ambiguo, come già notò lo stesso Aristotele con una sentenza «Chi ha amici, non ha nessun amico», che sarebbe stata ripresa, fra gli altri, dal grande Montaigne nel suoi Essais (I, 28) e da Jacques Derrida. Furono in particolare i moralisti dell’età moderna a cogliere con spietata lucidità l’altra faccia dell’amicizia mettendo in luce quanto di egoistico e d’ipocrita si celi dietro questo sentimento così idealizzato.

Il richiamo alle Maximes (1665) di François de La Rochefoucauld è qui d’obbligo: «Quella che gli uomini hanno chiamato amicizia non è altro che un’alleanza, una reciproca cura d’interessi e uno scambio di servigi; insomma, una relazione in cui l’egoismo si prefigge sempre qualche utile» (Maximes 83). (Il che corrisponde a puntino con la definizione di amicizia che circolava un tempo nelle nostre campagne: «Una sporta che va e una che viene»...). Ma il duca di La Rochefoucauld va ben oltre nella sua impietosa radiografia: «L’egoismo aumenta o diminuisce ai nostri occhi le buone qualità dei nostri amici in rapporto alla soddisfazione che riceviamo da essi: giudichiamo i loro meriti sulla base del loro comportamento verso di noi» (Maximes 89); «Non sempre rimpiangiamo la perdita dei nostri amici in considerazione del loro merito, ma dei nostri bisogni e della buona opinione che essi avevano di noi» (Réflexions 70); «Perdoniamo facilmente agli amici i difetti che non ci riguardano» (Maximes 428); «Ci consoliamo facilmente delle disgrazie degli amici quando esse servono a mettere in luce la nostra sollecitudine per loro» (Maximes 235).

Alle "massime" di La Rochefoucauld si richiamano espressamente gli Aforismi sulla saggezza della vita di Arthur Schopenhauer, per il quale i legami "reali", basati cioè su un qualche interesse materiale, caratterizzano quasi tutti i rapporti umani, al punto che «la vera amicizia appartiene alle cose di cui, come dei colossali serpenti marini, non si sa se siano leggendarie, oppure esistano da qualche parte».

Su questa linea "negativa" potremmo collocare anche Nietzsche, che in Al di là del bene e del male (aforisma 41) invita a non legarsi con nessuno, giacché «ogni persona è una prigione», salvo prefigurare in Così parlò Zarathustra un tipo di amicizia radicalmente nuovo nella prospettiva del Superuomo, che è rifiuto di quell’amore cristiano per il prossimo che aveva a sua volta soppiantato il concetto classico e pagano di amicizia.

Atteggiamento di tutto l’uomo

Sarebbe anche troppo facile, a questo punto del discorso, riproporre quella linea intermedia che già s’intravede chiaramente in Epicuro, quando osserva che «non è amico né chi sempre cerca l’utile, né chi mai lo congiunge all’amicizia: l’uno fa traffico dei favori col sentimento della riconoscenza, l’altro uccide la speranza per il futuro».

Ci appare invece più adeguato un approccio globale al tema dell’amicizia, che, lasciato sullo sfondo la tradizionale contrapposizione egoismovirtù, troppo intellettualistica, scavi a fondo nell’integralità e complessità della persona umana. Da questo punto di vista l’amicizia è un atteggiamento che investe tutto l’uomo e non solo una sua dimensione in alternativa a un’altra, per cui è necessario ricorrere ad altri elementi per chiarirne la struttura e il "funzionamento".

Uno spunto prezioso in tale senso ci è offerto da Gabriel Marcel quando, nell’approfondire il tema della dignità umana, distingue la prospettiva dell’uguaglianza da quella della fraternità. La prima «è essenzialmente rivendicativa» ed «egocentrica», e reca in sé le stigmate del «risentimento», così ben analizzato da Nietzsche e poi da Max Scheler. La seconda è «eterocentrica» ed è estranea alle istanze di competizione o di rivendicazione egualitaria: «Sei mio fratello, e perché sei mio fratello godo non soltanto di ciò che ti capita di bello, ma anche di constatare la tua superiorità. Perché dovrei provare il bisogno di essere uguale a te? Siamo fratelli con tutte le nostre diversità, e perché queste diversità non dovrebbero comportare delle diseguaglianze in tuo favore, non dirò certo a mio detrimento? Perché dal momento che siamo fratelli, lo splendore che emana dai tuoi doni, dai tuoi gesti, o dalle tue opere si riverbera anche su di me...».

Si dirà che è una prospettiva troppo ideale, addirittura patetica se riferita alla società odierna, che sembra retta sulla competitività più sfrenata e sull’esclusiva ricerca dell’utile. V’è però da chiedersi se la riscoperta del senso della fraternità, con la conseguente accettazione e valorizzazione delle diversità dell’altro, vissuta come un dono anziché una limitazione, non possa essere la via per giungere a un rapporto amicale adulto, al di là delle amicizie "ordinarie e abituali", che – citiamo ancora Montaigne – «sono soltanto dimestichezze e familiarità annodate per qualche circostanza o vantaggio».

Con lo sguardo pulito

Amicizia "adulta", dunque. Eppure, se leggiamo le pagine che il filosofo e saggista francese Alain ha dedicato alle "amicizie" in Les idées et les âges (1927), cogliamo alcuni spunti che inducono a una riflessione ulteriore. V’è differenza fra l’amore e l’amicizia – osserva Alain – dal momento che «non si vede affatto invecchiare chi si ama; ma si vede invecchiare il proprio amico». Anche nell’amicizia, come nell’amore, vige comunque una sorta di giuramento, che però «non impedisce affatto di vedere e giudicare, ma fa sì che si dimentichi di aver visto e giudicato».

E ancora: «Perdonare, dice il proverbio, non è dimenticare. Se è così, nell’amicizia vi è qualcosa in più del perdono. L’amicizia cancella. È uno sguardo nuovo che l’amico trova. Uno sguardo pulito. Uno sguardo bambino (...). La disposizione all’amicizia riguarda così l’infanzia, e in ogni epoca essa è segno d’infanzia».

Sì, forse Alain aveva paradossalmente ragione: perché il nostro rapporto d’amicizia sia veramente adulto, dobbiamo guardare all’altro con gli occhi e l’animo di un bambino.

Gregorio Piaia
   

GLI "ANTA" RISPONDONO

Otto italiani su 10, oltre la soglia degli "anta", non credono più nell’amicizia, mentre è quasi impossibile costruire rapporti sinceri sul lavoro. È quanto emerge da un’indagine della rivista diretta da Raffaele Morelli, Riza psicosomatica, su un campione di 887 uomini e donne tra i 21 e i 65 anni. Per il 31% degli intervistati, l’inevitabile competizione azzera di fatto ogni possibilità di far durare nel tempo il legame tra due uomini. Seguono i malintesi, motivo di rottura per il 21%, le maldicenze (17%), l’invidia (16%) e il graduale disinteresse reciproco (11%). Le amicizie tra donne, invece, vanno a rotoli soprattutto per l’insorgere di equivoci (62%), per la gelosia nei confronti di una terza amica (19%), per il poco tempo a disposizione (11%) e, immancabile, a causa del litigio per un uomo (7%).

Con l’avanzare dell’età diminuiscono coloro che credono nell’amicizia: se fino a 25 anni il 75% degli intervistati afferma d’avere un amico/a del cuore, attorno ai 35 la percentuale scende al 50%, per precipitare al 18% dopo i 45 anni. In crisi anche il mito: «una donna per amico». Solo un uomo su 3 (33%) crede nell’amicizia con una donna e ben il 67% dice no alla "donna per amico", anche se avere una donna-amico porta qualche vantaggio: meno competizione (61%), diffidenza (23%), e poi le donne «vedono i problemi da un’angolazione diversa» (14%). Gli uomini che ancora credono nell’amicizia cercano prima di tutto unità di intenti (51%), condivisione di scelte esistenziali (24%) o semplicemente approvazione alle proprie idee (22%). I valori più ricercati dalle donne sono invece tenerezza (36%), complicità (27%), il sentirsi accettate (21%) e giudizi assennati (8%).

Le amicizie nascono facendo sport, (31%), oppure in vacanza (27%) e praticando hobbies (21%). Per il 16% quelle che durano risalgono ai banchi di scuola e solo il 3% trova un vero amico sul posto di lavoro. Contro la carenza degli amici, il 53% ripiega sul piccolo gruppo o la mega compagnia (32%).

    

FUGA A PRAGA

Nella vita familiare sono possibili numerose "fughe" dalle situazioni difficili. Ma fuggire da un figlio e non farsi più viva per 29 anni sembra inverosimile.

Vittorio, il protagonista, vive a Milano; è felicemente sposato e padre di un’adorabile figlia. È un chirurgo affermato, molto stimato non soltanto nell’ambiente ospedaliero, ricco. Aveva 16 anni quando una mattina sua madre sparì e non si fece più viva. Ora, però, come un fulmine a ciel sereno, può rivederla e forse... (non sa prevedere la reazione che avrà) riabbracciarla, ma in una città lontana: Praga.

Come giustificherà, sua madre, quella partenza inspiegabile? Che cosa gli dirà? E, lui, comprenderà i motivi dell’allontanamento materno? Suspense e ammissione di colpe si mescolano nella vicenda accattivante raccontata in Fuga a Praga da Giorgio Conconi (Paoline, lire 18.000). Il risveglio della città, che fa da sfondo a questo romanzo, assurge a simbolo della scoperta che Vittorio fa della personalità e dei segreti della madre. Capisce d’essere stato pensato e spiato, amato e apprezzato, cercato, trovato ma non incontrato per mancanza di coraggio. A volte, "guardare" un figlio è più duro che guardare il coniuge, lasciato senza dargli spiegazioni.

L’autore narra con stile ogni risvolto dell’anima, anche il più problematico.

Cristina Beffa

BIBLIOGRAFIA

Per la maggior parte dei testi qui citati si fa riferimento all’antologia L’amicizia secondo i filosofi, a cura di M. Baldini, Roma, Città Nuova, 1998, con ampia introduzione. Si veda inoltre: F. de La Rochefoucauld, Massime. Riflessioni varie e autoritratto, tr. di G. Bogliolo, Milano, BUR, 1978 (Sant’Arcangelo di Romagna (RN), Opportunity Books, 1996); G. Marcel, La dignità umana e le sue matrici esistenziali, tr. it., Leumann (Torino), Elle Di Ci, 1983, pp. 131-135; Alain (pseud. di Émile-Auguste Chartier), Les Passions et la Sagesse, Parigi, Gallimard, 1960, pp. 181-184; L. Pizzolato, L’idea di amicizia nel mondo antico classico e cristiano, Torino, Einaudi, 1993; J. Derrida, Politiche dell’amicizia, tr. it., Milano, Cortina, 1995.