"NON SAPETE CHE IL VOSTRO CORPO E' TEMPIO DELLO SPIRITO SANTO?" (1 COR 6,19)
Don Mario Cascone
Siamo tempio dello Spirito Santo, dimora sacra dove Dio abita. Nel nostro
essere, costituito dalla totalità unificata del corpo e dello spirito,
realizziamo la nostra vocazione alla santità, mediante l’azione incessante
dello Spirito di Dio, che spinge tutte le nostre energie al bene, nel clima
della verità, che Egli comunica costantemente al nostro cuore.
Anche la vita
sessuale rientra in questa vocazione alla santità: nel “tempio” del nostro
corpo noi esprimiamo le meraviglie d’amore suscitate da Dio, ci relazioniamo
con i nostri fratelli in uno spirito di donazione reciproca, lodiamo il Signore
nella gioia dell’incontro d’amore e nella stupenda possibilità di
trasmettere la vita ad altri esseri umani.
In questi termini di esaltante bellezza dobbiamo intendere il dono di
Dio, che è la sessualità, avvertendo la chiamata a viverla come linguaggio
dell’amore e quale strada che conduce alla santità.
Ci avvaliamo di un
testo biblico tratto dall’epistolario paolino per vedere ora alcune
indicazioni concrete del nostro agire morale in questo delicato campo della
nostra vita.
La “vivace” comunità di
Corinto
Fondiamo tutta
questa riflessione su una bella espressione di S. Paolo, “Non
sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo?”, che si
trova in un brano importante della Prima Lettera ai Corinti e non può essere
estrapolata da esso. Il brano che vogliamo esaminare è 1 Cor 6, 12-20.
Esso va letto nel contesto più ampio dei cc. 5-6-7 della Prima Lettera
ai Corinti, nei quali si parla prima di un incestuoso, ossia di un cristiano che
convive con la sua matrigna (5, 1-13), poi di una serie di casi
riguardanti il celibato e la continenza sessuale (cap.7).
I casi affrontati
da Paolo in questi capitoli si situano in un preciso clima culturale in cui vive
la comunità cristiana di Corinto. Si tratta di un ambiente fortemente segnato
da uno spiritualismo gnostico, che esalta a tal punto l’eccellenza
della conoscenza spirituale da far ritenere del tutto ininfluente sull’uomo la
realtà mondana e materiale.
Questo clima
culturale è ancora più marcato dal fatto che la comunità ha sperimentato con
entusiasmo la bellezza dei carismi, giungendo ad un’esaltazione trionfalistica
e fanatica dei doni dello Spirito: un vero e proprio carismatismo,
che,
portato alle estreme conseguenze, faceva approdare a due conclusioni opposte nei
confronti della sessualità: da un lato il libertarismo più sfrenato,
espresso dallo slogan “Tutto mi è lecito” ( 6,12); dall’altro lato la posizione
ascetica radicale, che riteneva necessaria l’astinenza sessuale totale:
“E’ bene per l’uomo che non tocchi donna” (7,1).
San Paolo giudica
sbagliate entrambe queste posizioni, che si fondano su un’unica radice
ideologica: l’entusiasmo spiritualistico di chi ritiene di essere ormai un
cristiano perfetto e maturo, al punto tale da poter vivere indifferentemente una
pratica sessuale selvaggia o, all’estremo opposto, una totale continenza
sessuale. In questo secondo caso, che viene affrontato nel cap.7,
Paolo mette in evidenza la bellezza del celibato e della consacrazione
verginale al Signore, ma fa
comprendere che questa è una vocazione rivolta da Dio ad alcuni, ai quali viene
donato uno speciale carisma. San
Paolo dice: “Certo, io vorrei che tutti gli uomini fossero come me, ma ognuno
ha il proprio carisma da Dio” (7,3); e poi con sano realismo aggiunge:
“Ai non sposati e alle vedove io dico: è bene per loro se restano come me,
però se non riescono a contenersi si sposino: è meglio sposarsi che bruciare
di passione” (7,8-9).
“Tutto mi è lecito!”
Esaminiamo ora il
brano di 1 Cor 6,12-20, che riguarda la licenziosità sessuale (in greco:
pornèia). Fin dall’inizio si evince che il costume sessuale licenzioso
dei Corinti pretende di avere una giustificazione ideologica, che in parte è
quella di cui abbiamo parlato precedentemente. Paolo cita subito uno slogan, che
sicuramente circolava fra i cristiani di Corinto: “Tutto mi è lecito”.
Questo slogan si può definire come il manifesto dei boriosi spiritualisti di
Corinto, i quali ritenevano che la loro fede consolidata e la loro alta
spiritualità non poteva essere contaminata dal contatto con le cose materiali,
ivi compreso il rapporto sessuale con prostitute o l’uso licenzioso della
sessualità.
L’Apostolo si
oppone con vigore a quest’idea, affermando che non tutto ciò che si ritiene
lecito risulta essere poi utile e costruttivo per la persona. Tante volte, anzi,
può condurre l’individuo a vere e proprie forme di “schiavitù”: “Tutto
mi è lecito: sì, ma non tutto è vantaggioso. Tutto mi è lecito: sì, ma non
voglio lasciarmi schiavizzare da nulla” (6,12). La libertà come la
intendevano i Corinti era in realtà un libertarismo di tipo individualistico,
che non metteva in luce l’essenziale dimensione relazionale della persona
e, di conseguenza, sganciava la libertà dalla verità e dalla
responsabilità morale. Era una libertà ridotta a pura licenza, a
soggettivistico arbitrio individuale: non una libertà intesa come compito
morale, ma come potere illimitato dell’individuo.
È questa un’idea
molto presente anche nella nostra cultura attuale, la quale è fortemente
segnata da un individualismo libertaristico, che si colora facilmente di
sentimentalismo, facendo ritenere come vero, autentico e buono tutto ciò che
sgorga dalle scelte spontaneistiche dell’individuo. La libertà, staccata
dalla verità morale, si riduce a scelta provvisoria del singolo uomo, che la
pone senza interrogarsi più di tanto sul significato della sua decisione. Si
tratta quindi di una serie di scelte fatte nel qui ed ora del vivere quotidiano,
le quali vengono ritenute tutte valide e buone, a patto che scaturiscano dalla
spontanea decisione dell’individuo. Una tale impostazione è il rovesciamento
dell’insegnamento evangelico, in cui si afferma invece che senza verità non
c’è libertà, perché solo la verità ci può fare liberi (Gv 8,32).
Un pensatore contemporaneo, Uberto Scarpelli, afferma testualmente: “Nell’etica
non c’é verità. I valori di vero e falso convengono alle proposizioni del
discorso descrittivo-esplicativo, ma non a quelle del discorso
prescrittivo-valutativo. Nell’etica non ci sono principi autoevidenti, ma
principi che sono il frutto di processi culturali, sociali e personali. L’etica é dunque sempre e
radicalmente individuale”.
San Paolo rifiuta
quest’idea di libertà di un individuo che agisce solo per se stesso, chiuso
nel suo splendido isolamento, noncurante della verità morale. Una tale
concezione può degenerare facilmente in schiavitù verso questa o quella realtà, di cui
ci si vanta di poter disporre pienamente. Noi siamo certamente in grado di
dominare le cose del mondo, ma altrettanto certamente possiamo esserne dominati,
specialmente quando non prendiamo atto del fatto che la nostra libertà non è
qualcosa di assoluto, ma è un dono che ci è stato fatto per realizzare il bene
e vivere nell’amore.
Paolo non
concepisce la persona né in senso spiritualistico, né in senso dualistico;
egli ritiene che l’uomo sia una persona incarnata, una corporeità stabilmente
unita allo spirito. In quanto tale, l’uomo deve sempre disporre di se stesso
nell’ambito di una libertà segnata dai limiti dell’istinto, della carnalità,
del “ferimento” operato in lui dal peccato originale. Per questo motivo
Paolo avverte che non tutte le decisioni individuali sono utili per la
costruzione della persona, soprattutto se si discostano dalla verità del suo
essere e si fondano principalmente su un “sentire” spontaneistico.
“Il cibo è per il ventre e il
ventre per il cibo”
Anche questa è una
concezione oggi largamente diffusa: l’idea che il sesso sia una “cosa” da
consumare, una realtà puramente materiale che non coinvolge la totalità della
persona, circola abbondantemente nella nostra attuale cultura. Molti messaggi
vengono indirizzati alle persone per considerare l’attività sessuale un fatto
meramente fisiologico, che si colloca nel clima generalmente consumistico
dell’ “usa e getta”…
Paolo
si oppone energicamente a quest’idea, negando con decisione l’equiparazione
tra consumazione di alimenti e atto sessuale. Dove si fonda la differenza tra il
prendere cibo e il vivere un
rapporto sessuale? Nel fatto che nel secondo caso è impegnato il corpo , inteso non come semplice apparato
biochimico, ma come dimensione totale della persona, considerata nella sua
capacità di proiettarsi all’esterno da sé e di relazionarsi con gli altri.
“Corpo” nel linguaggio biblico non esprime solo una parte della persona, ma
l’intero uomo, visto come essere dialogico, capace di manifestarsi
all’esterno e di entrare in relazione con le altre persone e col mondo;
“corpo” non esprime la persona come “io interiore e cosciente”, ma
indica soprattutto il soggetto visto nella sua visibilità esterna, capace di
manifestare al di fuori di sé ciò che coltiva nell’intimità del suo cuore e
della sua mente.
San Paolo spiega
che nel rapporto sessuale l’uomo si trova impegnato con tutta la sua persona.
L’atto sessuale, perciò, non è come consumare un pasto, ma è un incontro
interpersonale di donazione reciproca. Per questo motivo esso non è
indifferente alla costruzione della persona, la quale è da intendersi sempre
come uno “spirito incarnato” e come un “corpo animato dallo spirito”. Di
conseguenza la sessualità non può essere ridotta a “cosa”, a bene di
consumo...
“Il corpo è per il Signore e
il Signore e per il corpo”
A questo punto
l’Apostolo esprime un bellissimo concetto di appartenenza tra noi e il
Signore: “Il corpo non è per l’immoralità, ma per il Signore e il Signore
è per il corpo” (6,13). Noi come persone incarnate (= corpo),
apparteniamo a Cristo: siamo totalmente suoi! (cfr. anche 1 Cor. 3,22-23).
E Cristo è per noi, dal momento che si è donato totalmente a noi per la nostra
salvezza! Egli non ha salvato solo la nostra anima, ma tutto il nostro essere,
tant’è vero che il nostro corpo è destinato alla resurrezione! La nostra
corporeità non è destinata a scomparire, ma è segnata per l’eternità. Di
conseguenza “il corpo non è fatto per l’immoralità”, cioè per la “porneia”,
ma per la santità! Vivere la sessualità in modo licenzioso non è un fatto
indifferente, ma compromette
l’intera nostra persona, che appartiene a Cristo e partecipa della sua
risurrezione.
Proseguendo in
questa interessantissima descrizione del rapporto tra Cristo e il nostro corpo,
San Paolo riprende un tema a lui caro, affermando che noi siamo membra
del corpo di Cristo : “Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?
Strapperò dunque le membra di Cristo per farne membra di una prostituta?” (6,15).
Per avvalorare ancora di più quest’affermazione l’Apostolo cita Gen.2,24:
“I due diventeranno una sola carne”, cioè un solo essere. La sessualità
non è qualcosa di esterno alla persona, ma una dimensione fondamentale,
mediante la quale la persona mette in gioco se stessa ed entra in relazione
profonda con un’altra persona. Non si può vivere la sessualità solo come una
passione istintiva, un cedimento egoistico alla “carnalità” della propria
esistenza.
In questa luce
comprendiamo anche la frase seguente, che risulta piuttosto sorprendente:
“Invece chi si unisce al Signore forma con lui un solo spirito” (6,17).
Noi ci aspetteremmo che Paolo, in coerenza con quanto aveva detto prima, avesse
ora concluso “chi si unisce al Signore forma con lui un solo
corpo”. Egli invece utilizza l’espressione “un solo spirito”, facendo capire così che l’unione col Signore non viene
vissuta nella carnalità, ma “nello spirito”, cioè nella donazione
d’amore tipica di chi si lascia guidare dallo Spirito di Dio e non vive le sue
relazioni con gli altri a livello puramente materiale e carnale.
Di questo San Paolo
parla in Efesini 5, descrivendo il rapporto tra Cristo e la Chiesa quale
fondamento della sacramentalità del matrimonio. C’è fra noi e il Signore un
rapporto di reciproca appartenenza: noi siamo per il Signore e il Signore è per
noi; noi siamo le sue membra e non possiamo staccarci da Lui, dissacrando il
tempio del nostro corpo con una maniera immorale di vivere la sessualità.
Questa relazione di reciproca appartenenza tra l’uomo e Cristo trova una
splendida manifestazione sacramentale nel rapporto sponsale tra il marito e la
moglie, chiamati ad essere “una sola carne” nella relazione d’amore che li
lega l’uno all’altra “nel Signore”.
Il testo si chiude
con lo sviluppo di questo tema pneumatologico: i cristiani sono “tempio
dello Spirito Santo!” (6,19). Nel loro essere corporeo essi sono
abitazione santa e consacrata a Dio. Di conseguenza vivono in una costante
relazione d’amore col Signore, la quale non può prescindere dalla loro
corporeità, ma anzi trova proprio in essa la struttura su cui fondare , anche
con gesti concreti e visibili, il proprio rapporto con Dio. Il corpo ci è dato
per esprimere all’esterno la nostra appartenenza al Signore e la
glorificazione del suo nome. La relazione sessuale è una modalità sublime di
questa manifestazione, che per volere di Dio acquista anche forza sacramentale,
ossia esprime il legame di Cristo con la sua Chiesa e ne diffonde efficacemente
la grazia santificante su tutto il Corpo mistico del Signore!
Poggiando su questa
base concettuale, il brano si chiude con una meravigliosa esortazione liturgica:
“Glorificate dunque Dio con il vostro corpo” (6,20). Questo corpo,
che “è stato riscattato dalla schiavitù a caro prezzo”, deve esprimere la
lode al Signore, Salvatore e Redentore dell’uomo. La liturgia non viene intesa
così come qualcosa di vuoto e
formale, ma come una celebrazione che si incarna in tutta la nostra esistenza.
Il culto cristiano non ci distoglie dal mondo e dai rapporti con gli altri, ma
anzi si esprime in un’esistenza donata agli altri e animata costantemente
dall’amore del Signore.
Sessualità:
linguaggio d’amore o fonte di schiavitù?
E’ in questa luce
che noi dobbiamo considerare la nostra identità sessuale, in qualunque stato di
vita e in qualunque età ci troviamo a viverla. La sessualità non è un bene
dell’individuo, ma della persona intesa nella sua
unitotalità, ossia nella ricchezza globale del suo essere, nel quale il corpo
non può mai essere scisso dallo spirito. Una persona che si autoriconosce come
dono di Dio e che, proprio per questo, non può chiudersi in una orgogliosa
autosufficienza. Dire persona significa dire relazione con Dio e con i fratelli,
una relazione che viviamo non a prescindere dalla nostra corporeità, ma proprio
grazie ad essa. Il corpo infatti dice la nostra identità sessuale e rende
visibili all’esterno i moti del nostro cuore, le interiorità più nascoste
del nostro io. Il corpo agisce così in modo quasi “sacramentale”, perché
rende visibile ciò che per sua natura è misterioso ed invisibile: l’amore!
La corporeità e
l’identità sessuale ci vengono dati da Dio come linguaggio d’amore: per
questo non si può né banalizzare, né cosificare il sesso; non lo si può
vivere a…buon mercato, in modo consumistico; né lo si può interpretare come
semplice ricerca del piacere, in un rapporto passeggero, non impegnativo, di
natura privatistica, pensando che tutto questo non abbia ripercussioni sulla
maturazione della nostra persona e sul nostro impegno a camminare nella fede.
Le “ ferite”
lasciate dentro di noi da una sessualità vissuta nel peccato sono in genere
profonde, sia perché la sessualità è una dimensione fondamentale del nostro
io personale, sia perché il maligno opera spesso a questo livello “carnale”
della nostra esistenza, scompaginando il nostro equilibrio interiore e rendendo
disarmonico il nostro essere, creato ad immagine e somiglianza di Dio.
Siamo
oggi tentati da più parti a vivere la sessualità in modo edonistico e
consumistico. Ciò che abbiamo visto verificarsi nella comunità di Corinto
risulta nel nostro tempo mille volte amplificato da una cultura, che induce a
comportamenti sessuali licenziosi, in cui lo stesso concetto di “porneia”
viene esaltato quale conquista di un uomo talmente emancipato da potersi porre
al di sopra di ogni regola. Le conseguenze di una simile concezione sono sotto
gli occhi di tutti: il presunto uomo “maggiorenne” del nostro tempo risulta
molte volte minacciato da schiavitù che si annidano nel suo stesso cuore,
conducendolo ad abitudini e a scelte che sono libere solo in apparenza, mentre
in realtà lo rendono “omologato”, costruito sui modelli standardizzati che
vengono manovrati da ingenti interessi economici e sono fatti diabolicamente
apposta per spegnere la felicità nel suo cuore.
Sessualità redenta
Siamo però
persuasi che Gesù ha redento anche
la nostra corporeità e la nostra sessualità, e ci dona la grazia di viverla
nel quadro dell’amore, riversato nei nostri cuori dallo Spirito Santo (Rom
5,5). Lo Spirito di Gesù risorto ci rende capaci di vivere anche la
sessualità secondo il progetto di Dio, quale ci viene indicato nella Sacra
Scrittura e nel Magistero della Chiesa.
Guardiamo perciò a
Gesù e agli insegnamenti della Chiesa per conoscere la verità anche in questo
campo così prezioso e delicato. Gesù infatti conosce meglio di chiunque
l’altro il cuore dell’uomo e può istruirci in maniera autentica. Quando i
farisei si rivolgono a lui per chiedergli cosa ne pensa del divorzio (Mt
19,1-9), Gesù fa comprendere che la concessione di Mosè in questo campo è
stata solo un “adattamento” della legge di Dio, dovuto alla “durezza di
cuore” (“sklerokardìa”) dei suoi connazionali, ma “al
principio” non fu così: il progetto originario di Dio era ed è quello
dell’unione indissolubile dell’uomo e della donna. A questo riguardo Gesù
cita testualmente i testi del libro della Genesi, che si riferiscono a questo
progetto del Creatore.
Solo Gesù conosce
l’uomo fin dallo “inizio”, ossia fin dal “principio senza principio”,
che affonda le sue radici nell’eternità di Dio. A Lui, Divino Maestro, noi
guardiamo per conoscere la verità sull’uomo, poiché Egli è l’uomo
perfetto, il primogenito dell’umanità rinnovata, Colui che svela pienamente
l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione (G.S. 22).
Dinanzi a Lui, Via Verità e Vita dell’uomo, crollano tutti i pretesti per non
vivere secondo il progetto di Dio e tutti i tentativi di “adattare” la sua
legge alla debolezza dell’uomo. Egli ha redento tutto il nostro essere,
donandoci la grazia di vivere in pienezza il suo disegno d’amore, senza
bisogno di fare “sconti” alla verità, ivi compresa la verità che riguarda
la vita sessuale.
I suoi dialoghi con
le donne, in particolare, manifestano questa dimensione verginale del suo cuore
e ce lo fanno conoscere come lo Sposo purissimo dell’umanità rinnovata nella
potenza del suo amore. I dialoghi con la Samaritana, la peccatrice in casa di
Simone il fariseo, la Maddalena, l’adultera anche quando toccano tasti
delicati ed intimi della vita di queste donne, mettono in evidenza una capacità
grande di amore puro, che nasce da un cuore in grado di donarsi a tutti senza
nulla pretendere e di valorizzare la ricchezza di essere che c’è in ogni
persona. La delicatezza del tratto e la maniera singolare con cui Gesù si pone
nei confronti di queste donne, non gli impediscono di insegnare la verità nel
campo del comportamento sessuale e di stigmatizzare i comportamenti peccaminosi
di queste donne. In maniera davvero sublime, Gesù è capace di distinguere il
peccato dal peccatore, bollando in modo fermo i comportamenti peccaminosi, ma
esercitando grande misericordia nei confronti delle persone che sono cadute nel
peccato. In questo modo egli riesce a recuperare la dignità di queste donne e
ad imprimere nella loro vita un radicale cambiamento di rotta.
Dal Signore Gesù, Sposo verginale dell’umanità, impariamo a coltivare
il valore della purezza, che rende autentici i nostri rapporti con gli altri,
sottraendoli alla bramosia di possesso e all’egoismo sempre incombente.
Impariamo il valore della castità, intesa positivamente come
l’energia spirituale capace di liberare l’amore dalla mera ricerca del
piacere e di condurre al pieno dominio di sé per amare l’altro in modo
autentico. Quando non si esercita la virtù della castità è facile che
l’altro venga ridotto ad “oggetto”, a strumento da utilizzare per il
proprio egoistico godimento; è facile anche che noi stessi ci dimostriamo
incapaci di agire da soggetti ragionevoli e precipitiamo nel disordine dei sensi
e dell’istinto.
Tutti chiamati alla castità
In questa luce i
giovani e i fidanzati imparano la castità pre-matrimoniale, intesa come
proposito di riservare al sacramento del matrimonio la pienezza di donazione,
quale avviene nel rapporto sessuale completo, e di vivere gli altri gesti di
affettuosità nel quadro della verità dell’amore: gesti, dunque, che
esprimano con sincerità l’amore per l’altro, più che il desiderio di
utilizzarlo per il proprio piacere; gesti che conoscano la legge della gradualità e si pongano nel
cammino di crescita della coppia: un cammino che non fa crescere l’amore, se
si ferma solo ai gesti fisici e non si sforza di far crescere anche l’affetto,
la sintonia spirituale, il dialogo, la capacità di costruire insieme qualcosa
di bello non solo per sé, ma anche per gli altri. In una società che spinge al
sesso in chiave consumistica e fa sentire quasi anormali i giovani che vivono la
castità, diventa un’autentica provocazione profetica la scelta di
arrivare vergini al matrimonio e di interpretare il fidanzamento come tempo di
grazia per crescere nell’amore reciproco e attrezzarsi a vivere in modo
autentico il prezioso dono della sessualità.
Imitando Cristo,
Sposo verginale dell’umanità, anche gli uomini
e le donne chiamati alla verginità consacrata apprendono il
significato e lo stile della loro presenza nel mondo: una presenza che si pone
non come disprezzo del matrimonio e della sessualità, bensì come loro
sublimazione nel quadro di un amore che si riversa su tutti, proprio perché non
appartiene a nessuno in particolare; un amore esercitato con cuore indiviso,
capace di spendersi con instancabile generosità per il bene dei fratelli e di
amare semplicemente tutti, ivi compresi quelli che nessuno ama o di cui non è
facile innamorarsi; un amore che, sull’esempio di quello testimoniato da Gesù,
si traduce in anticipazione profetica dell’amore che noi tutti potremo
sperimentare nel Regno di Dio, dove non ci saranno più moglie e marito, ma
“saremo tutti come angeli nel cielo” (Mt 22,30; Mc 12,25).