L'USO DEL DENARO E DELLA RICCHEZZA NELLA VITA DEL CRISTIANO

INDICAZIONI BIBLICHE E TEOLOGICO-MORALI

Don Mario Cascone

Possiamo introdurci nel tema partendo da un’icona biblica: Gesù nel deserto (Mt 4, 1-11). Prima di iniziare pubblicamente il suo ministero di salvezza Gesù sceglie di vivere in un clima di austerità volontaria, che possa facilitare in Lui la conquista della perfetta libertà umana nei confronti delle cose materiali. Al diavolo, che alla fine dei quaranta giorni trascorsi da Gesù nel deserto, lo tenta proprio su questo punto, Gesù risponde: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4, 4). Con queste parole Gesù si collega direttamente a Deut 8, 3 ss., in cui si riconosce che la prova subìta da Israele nel deserto è servita al popolo per maturare la sua fiducia nella Provvidenza di Dio e per non mettere al primo posto i beni materiali. Questi beni infatti non saziano il cuore dell’uomo, anzi possono diventare un idolo schiavizzante, capace di far commettere all’umanità i crimini più atroci. Di certo non esagera S. Paolo, quando afferma che “l’attaccamento al denaro è la radice di tutti i mali” (1Tim 6, 10).

            In questa luce dobbiamo cogliere l’invito di Gesù a chiedere al Padre celeste ogni giorno solo il pane quotidiano (Mt 6, 11) e a non affannarci di quello che mangeremo o indosseremo, dal momento che il Padre nostro conosce già le cose di cui abbiamo bisogno (Mt 6, 25-34).

            La fiducia nella Provvidenza di Dio, il desiderio di nutrirci di ogni Parola che esce dalla sua bocca, fanno scattare in noi il senso autentico della solidarietà e della comunione con tutti gli uomini, nostri fratelli. L’interdipendenza strutturale, che lega oggi in modo indissolubile i fattori dello sviluppo economico e i diversi elementi del sistema sociale, deve tradursi nel nome etico della solidarietà, comportando scelte di vita personale e comunitaria, che tengano conto del fatto che “siamo tutti responsabili di tutti”.[1]

            Dice giustamente il vescovo Attilio Nicora, in una sua lettera pastorale sulla sobrietà, che il cristianesimo è vita di comunione, e non di competizione.[2] La comunione esiste solo se si accettano dei limiti al proprio potere e al proprio avere; la competizione invece porta, nel migliore dei casi, ad un’aurea solitudine. In realtà in molti altri casi degenera nella violenza e nella guerra. La consapevolezza di dover vivere nella solidarietà e nella comunione deve generare in noi uno stile di vita più sobrio e più razionale, che ci conduce obbligatoriamente all’ombra della Croce, la quale è il necessario costo della “vita in abbondanza” per tutti (Gv 10, 10), ossia della festa di tutta l’umanità, radunata nella comunione dei figli di Dio.[3]

            Non possiamo tollerare che l’ 82,7% del reddito mondiale sia in mano al 20% della popolazione mondiale e che i 2/3 dell’umanità debbano accontentarsi di gestire il 2% del reddito mondiale. Tutto questo rappresenta non solo un compito morale, che riguarda tutti noi, ma una vera e propria minaccia per la sopravvivenza stessa dell’umanità. Un tale sbilanciamento della gestione delle ricchezze si ripercuote negativamente anche sui Paesi ricchi, generando disoccupazione, “nuove povertà” che riguardano l’essere più che l’avere, conflitti, immigrazioni di massa, nuove forme di schiavitù, di cui la prostituzione è un segno eclatante.

Certamente non siamo in grado da soli di risolvere questi problemi, che toccano il sistema stesso dell’economia mondiale. Ognuno di noi, però, a cominciare dalle sue scelte personali può e deve influire sul cambiamento di questo sistema iniquo. Noi non la pensiamo come A. Smith, il padre del capitalismo, il quale riteneva che in economia basta fare bene i propri interessi, senza porsi il problema degli altri, perché c’è come una “mano invisibile” che pensa a fare il bene comune! Noi non crediamo a questa “mano invisibile”, perché siamo certi che dalla coltivazione dell’egoismo individuale non potrà scaturire mai nulla di buono. Riteniamo invece che il bene comune si costruisce con l’impegno di ciascuno a vivere con sobrietà e ad esercitare in modo responsabile il proprio potere di scelta economica.

Questo è il quadro generale nel quale poniamo la problematica che stiamo analizzando. Una problematica che potrebbe tradursi in una domanda concreta: che cosa significa vivere da cristiani nell’odierna società dell’opulenza e del benessere (che forse sarebbe meglio chiamare “ben-avere”)?

Cercheremo di rispondere a questa domanda analizzando anzitutto la S. Scrittura, dalla quale potremo desumere alcune indicazioni di massima, che andranno poi applicate in modo non fondamentalistico alla odierna situazione socio-economica.

 

1.                  Indicazioni bibliche

 

a)  Antico Testamento

 

Il momento fondativo della fede biblica non è la creazione, ma la costituzione del popolo di Dio, che è un popolo liberato dalla schiavitù.[4] Solo alla luce dell’esperienza dell’esodo Israele comprende che il Dio Salvatore è anche il Creatore dell’universo. La liberazione dalla schiavitù d’Egitto è un’esperienza fondamentale nella costituzione del popolo di Dio, perché fa comprendere agli ebrei che Dio volge il suo sguardo verso questo popolo di oppressi e decide di liberarlo (Es 3, 7-8). Egli si china, si “curva” sugli oppressi in terra d’Egitto, cominciando così a far vedere quel processo di coinvolgimento nella vicenda storica dell’uomo, che culminerà nella Incarnazione del suo Figlio unigenito.

            Dopo la liberazione dalla schiavitù d’Egitto c’è la peregrinazione del popolo nel deserto, sotto la guida di Mosè. In questo periodo prevale un’organizzazione comunitaria dei beni terreni, che fa da sfondo ad alcune disposizioni che saranno poi inserite nei “codici di Alleanza” (Es 21-23; Deut 15, 1-11; 24, 10-22). L’idea di base è che non si possa parlare di una vera e propria proprietà privata da parte dell’uomo, in quanto il padrone di ogni cosa è Dio: “Del Signore è la terra e quanto contiene” (Sal 24, 1). Il desiderio di possedere e di arricchirsi stabilmente viene perciò considerato come un disconoscimento di questa sovranità di Dio, il quale mette i beni della terra a disposizione di tutti. Da qui le prescrizioni dell’anno sabbatico, che in genere, tuttavia, furono largamente disattese: segno evidente della fatica dell’uomo a vivere in questo campo il senso della sovranità di Dio. Rimane però il principio di fondo, che è espresso non tanto nel settimo comandamento (“non rubare”), quanto piuttosto nell’ultimo comandamento, dove il desiderio e la brama di possesso sono visti come qualcosa di estremamente negativo.[5] E’ in particolare un grave peccato il cercare di arricchirsi  a spese degli altri, soprattutto dei più poveri, che sono l’orfano, la vedova, lo straniero (Deut 24, 17; Es 22, 20-22), i quali sono considerati, nei testi del Pentateuco, come i primi da soccorrere e da aiutare. La difesa e l’accoglienza del povero non sono perciò visti come una semplice azione sociale, ma come la riproduzione del modo di agire di Dio nei confronti del popolo.  Israele, che ha sperimentato l’amore di Dio e la liberazione dalla schiavitù, deve ora agire in modo corrispondente nei confronti degli oppressi. Questo sistema di “previdenza sociale” ante litteram trova perciò in Israele una coloritura squisitamente religiosa e teologica.

            Nel periodo della monarchia compaiono le prime notevoli differenziazioni sociali ed economiche. Si creano vasti strati di popolazione povera, formata da schiavi, stranieri, malati, vedove… I poveri sono i “curvati” (“anawim”), cioè quelli privi di potere, deboli, oppressi dal peso del potere esercitato dai ricchi.[6] E’ in questo contesto che i profeti fanno sentire la loro vibrante denuncia sociale. Amos, per esempio, denuncia il latifondismo, creato dal grave peso fiscale esercitato sui piccoli contadini e commercianti: “Hanno venduto il giusto per denaro ed il povero per un paio di sandali: essi calpestano come la polvere della terra la testa dei poveri” (Am 2, 6-7). Con parole di fuoco egli stigmatizza il comportamento gaudente delle matrone di Samaria, chiamate “vacche di Basan” (Am 4,1): ad esse il profeta rimprovera di schiacciare i poveri e di godere una vita dedita ai piaceri sulle spalle dei più diseredati. Amos fa vedere il legame tra questi peccati di ingiustizia sociale e il culto idolatrico a divinità straniere: opprimere il povero è la diretta conseguenza della prostrazione agli idoli. Quando al posto di Dio si mettono i dollari, allora è facile che si perdano di vista i poveri e si smarrisca il senso della giustizia…

            Isaia,dal canto suo, denuncia vibrantemente i mali sociali della grande città. Egli, che è un cittadino di Gerusalemme colto e raffinato, conosce molto bene i traffici che fanno i grandi proprietari di case e di campi. Essi ingrandiscono le loro proprietà facendo ricorso ai mezzi più loschi, a spese dei poveri, e poi spendono i soldi accumulati per corrompere i magistrati e per divertirsi nei bagordi notturni: si dilettano nell’ascoltare musica, nel mangiare bene, nel bere bevande inebrianti (cfr Is 5, 8-24). In compenso però osservano le pratiche rituali del culto, suscitando ovviamente la denuncia del profeta: “ Voi alzate le mani che sono sporche di sangue…” (Is 1, 13-17).[7]

            L’esempio più evidente di oppressione del povero è quello che riguarda Nabot (1Re 21), il quale rifiuta di cedere la sua vigna al re Acab e per questo viene ucciso, con la complicità della perfida regina Gezabele. Nabot è il povero che viene schiacciato dall’avidità del potente. Egli è anche l’uomo tipicamente anti-economico, almeno secondo gli schemi dell’economia di oggi: rifiuta infatti uno scambio vantaggioso, perché non è interessato al denaro, ma ad altri valori economicamente non apprezzabili.[8]

In sintesi va ribadito che la denuncia sociale dei profeti si fonda su una base teologica: l’oppressione del povero, infatti, è vista come qualcosa che va contro l’Alleanza con Dio (cfr. Am 5, 11-12; Is 3, 14-24; Mic 2, 1-3).

            Il periodo di floridezza economica di cui gode Israele finisce tragicamente: nel 721 la popolazione del Nord viene deportata dagli Assiri, nel 587 il popolo del Sud subisce la deportazione da parte dei Babilonesi. Queste deportazioni vengono interpretate come un castigo di Dio, che colpisce il popolo per la sua infedeltà all’Alleanza.

            Nell’epoca post-esilica (secc. VI-I) il ritorno degli esuli è caratterizzato da una vera situazione di miseria, di cui si fanno portavoce ancora una volta i profeti (cfr. Ag 1, 6-9; Zacc 8, 10; Nee 5, 1-5). Nel raccogliere i “cocci” di una situazione di disfatta, emerge ancora una volta la fondametale importanza del rapporto con Dio. Non a caso la prima cosa da ricostruire è il Tempio: bisogna ripartire da Dio per fondare in modo giusto i rapporti tra gli uomini.

Durante la successiva dominazione ellenistica si gode un periodo di relativa prosperità, ma le tasse da pagare sono eccessive, per cui non mancano le rivolte e le crisi sociali. E’ in questo periodo che prende corpo la riflessione sapienziale, che richiama il popolo ad aspirare a quello che basta per vivere e a non considerare fonte di felicità l’accumulo di beni materiali. Ciò che conta è, infatti, possedere la sapienza, che vale più dell’oro e dell’argento.

 

b) Nuovo Testamento

           

Al tempo di Gesù la Palestina è sotto l’occupazione dei Romani, i quali esercitano una pesantepressione fiscale sulla popolazione, avvalendosi dell’aiuto dei pubblicani, i quali sono malvisti da tutta la popolazione, anche perché apertamente approfittano del loro mestiere per rubare alle spalle dei più deboli. Oltre alle tasse da versare nelle casse di Roma, gli ebrei dovevano pagare anche le tasse religiose, che servivano per il mantenimento del tempio e della classe sacerdotale.[9]

            Dal punto di vista sociale si erano delineate già tre classi: quella dei ricchi (latifondisti, grossi commercianti, funzionari laici e religiosi); quella dei poveri (schiavi, braccianti, salariati) e il ceto medio (piccoli commercianti, artigiani). Probabilmente Gesù, essendo figlio di un artigiano, apparteneva a quest’ultimo ceto.[10] Egli perciò non era certamente un ricco, ma non era neanche poverissimo. Si può dire quindi che Gesù sceglie liberamente di vivere da povero. Nella sua vita pubblica egli si adatta allo stile di vita dei “rabbi”, che vivevano dell’ospitalità delle persone simpatizzanti, come ci mostrano diversi passi evangelici (cfr. Lc 8,3; 10, 38).

            Il giudizio di Gesù sui beni economici proviene perciò da un uomo che è libero dal bisogno economico. Per questo è un giudizio equilibrato, non dettato dalla rabbia di una forzata vita condotta nella miseria. Si può dire che in lui convergono  sia la linea di pensiero sapienziale che quella profetica dell’Antico Testamento.

            Sul piano sapienziale Gesù predica che i beni materiali sono effimeri, danno sicurezze illusorie, possono impossessarsi del cuore dell’uomo (Mt 6, 24; 13, 22; Lc 12, 15-21).

            Sul piano profetico Gesù pronuncia richiami molto forti ai benestanti: “Guai a voi, ricchi… (Lc 6, 24-26).[11] In questa linea si comprenderanno, in seguito, le invettive di Giacomo contro i ricchi latifondisti (Giac 5, 1-6) e tutte le prese di posizione dell’apostolo Paolo nei confronti del valore effimero dei beni di questo mondo (1 Cor 7,30).

            In sintesi si può dire che in Gesù non c’è una condanna della ricchezza in se stessa e un’esaltazione della povertà economica, la quale non può essere certo considerata in sé come un bene. Gesù però dice chiaramente che la ricchezza fine a se stessa è idolatria; la ricchezza serve solo per il giusto sostentamento e per essere condivisa. Ecco perché al giovane ricco chiede di vendere tutto quello che ha e di darlo ai poveri, prima di porsi alla sua sequela (Mt 19, 21). Non si tratta della semplice rinuncia ai beni di questo mondo. Questa la fanno anche i filosofi stoici o i maestri spirituali delle religioni orientali: essi rinunciano ai beni per non essere infastiditi dalle cose materiali. Il Vangelo non disprezza la ricchezza in se stessa, ma la ricchezza fine a stessa, ossia la pura accumulazione di beni, che non ha altra giustificazione se non quella dell’accumulazione stessa. Per questo il Vangelo propone di usare i beni terreni come segno di amore gratuito, come strumento di condivisione. I beni materiali, infatti, possono occupare il cuore dell’uomo e diventare “mammona”, l’idolo che prende il posto di Dio (Mt 6, 24). Per seguire Gesù, bisogna imitare Lui, l'unico “buono”, che condivide i suoi beni con tutti, a partire dai bisognosi. Gesù riconosce come figli di Dio e suoi fratelli coloro che hanno compiuto anche un semplice gesto di condivisione e di accoglienza: dar da mangiare, dar da bere, visitare il malato, accogliere il pellegrino. Sono gesti di amore ordinario, feriale, che non hanno nulla di eroico. Sono però gesti che ci permettono di incontrare e amare Gesù in persona, il quale si identifica col povero: “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, le avete fatte a me” (Mt 25, 40).[12]

            Queste indicazioni del Vangelo furono attuate nella Chiesa apostolica, come ci viene testimoniato dagli Atti degli Apostoli: “Chi aveva proprietà e sostanze, le vendeva e ne faceva parte a tutti secondo il bisogno di ciascuno” (At 2, 45); “Nessuno infatti tra loro era bisognoso perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli: e poi veniva distribuito secondo il bisogno di ciascuno” (At 4, 34-35). Non mancarono certo i problemi, anche nella Chiesa apostolica, come dimostra l’episodio di Anania e Saffira (At 5, 1-11). Ma in generale ci fu la presa di coscienza che i beni terreni vanno dati e condivisi. Si chiede infatti S. Giovanni: “Se uno ha ricchezze in questo mondo e, vedendo il suo fratello in necessità, gli chiude il proprio cuore, come dimorerà in lui l’amore di Dio?” (1 Gv 3, 16-17).

Le esperienze di comunione dei beni della prima Chiesa di Gerusalemme dimostrano chiaramente la contrarietà ad una concezione di proprietà privata, come è stata elaborata successivamente da alcune teorie economiche. Sono anche lontane da certe indicazioni della teologia morale classica, che insegnavano a dare ai poveri solo il superfluo. La Parola di Dio ci dice che l’obiettivo non è di avere i poveri per potere fare opere buone, ma di aiutarli a non essere più poveri. E per fare questo bisogna mettersi dalla parte dei poveri: come ha fatto il Signore, che si è fatto povero per noi per arricchirci mediante la sua povertà (cfr. 2 Cor 8, 9).

 

2.                  Indicazioni patristiche e storiche

 

Le indicazioni del Vangelo e della Chiesa apostolica si riflettono con evidenza negli scritti dei Padri della Chiesa.[13] Senza la pretesa di addentrarci in un'analisi approfondita di questa tematica, mi limiterò a leggere alcuni testi, dai quali si evince questa continuità tra la Chiesa apostolica e quella dei primi secoli:

            La Didaché: "Non respingerai l'indigente e farai partecipe di ogni cosa il tuo fratello; e non dire che ci sono cose private: se avete in comune le cose immortali, quanto più logicamente non dovete avere quelle mortali?".

            Tertulliano: "Da noi tutto è comune, tranne le mogli. Sono i pagani che, gelosi custodi della proprietà, iniziano la comunanza là dove i cristiani la terminano".

            Giovanni Crisostomo: "Il tuo e il mio, questa fredda parola: qui scoppia il contrasto, qui sorgono le inimicizie. Dove invece codesta distinzione non esiste, non si vedono sorgere né conflitti né rivolte. Di modo che la comunanza è nostro retaggio, più che la proprietà".

            Su queste basi sorsero nella Chiesa dei primi secoli numerose esperienze di monachesimo e di servizio ai poveri. Esperienze che, per grazia di Dio, sono continuate fino ai nostri giorni, assumendo coloriture diverse e "adattandosi" alle diverse forme di povertà, che storicamente sono emerse. Lo Spirito, infatti, ha condotto questa storia di carità e di condivisione, manifestando tutta la sua “fantasia” creativa e chiamando continuamente uomini e donne, di ogni condizione sociale, ad incarnare generosamente il servizio ai poveri e l’amore autenticamente gratuito.

            Il concetto-chiave, su cui bisogna maggiormente far leva nella riflessione teologico-morale, è sicuramente  quello della proprietà privata.

            Abbiamo già considerato su questo punto le preziose indicazioni della Bibbia e dei Padri. In sede teologica  S. Tommaso d’Aquino insegna che l'uomo può legittimamente usare dei beni di questo mondo, che Dio ha messo a sua disposizione. Egli però "non deve avere le cose esterne (cioè i beni) come proprie, ma come comuni, cosicché uno possa parteciparne agli altri con una certa facilità nel caso di bisogno".[14] Qui si dice chiaramente che tutto quello che uno possiede, lo ha per darlo e condividerlo, non per accumularlo. E lo deve dare largamente: "con una certa facilità". S. Tommaso perciò si colloca perfettamente nella logica evangelica e patristica.[15] Egli non nega all’uomo il diritto a possedere; nega piuttosto che si possa utilizzare la proprietà privata in chiave egoistica, in quanto sottolinea la funzione sociale di tutto ciò che i singoli possiedono. Secondo una felice formulazione dell’Aquinate la proprietà privata è una soluzione della ragione umana in vista del bene comune.[16] Per questo motivo S.Tommaso non considera il diritto di proprietà privata come supremo diritto naturale, ma lo ritiene piuttosto un diritto secondario, inseparabile dal dovere primario di porsi al servizio del bene comune.[17]

            La scoperta delle Americhe, l'incremento dei commerci con le terre d' Oriente, le ricchezze provenienti dalle nuove terre fecero progressivamente modificare queste concezioni. Anche nell'ambito teologico e nella vita della Chiesa non mancarono concettualizzazioni teoriche e stili di vita, che si allontanarono non poco dallo spirito evangelico. Mai mancò comunque la presenza dello Spirito di Dio, che assicurò anche in questi secoli la testimonianza profetica di figure come Francesco e Chiara di Assisi, oltre che di veri e propri movimenti di spiritualità e di carità, come quello degli Ordini mendicanti.

            Dal punto di vista teorico la frattura più evidente con le elaborazioni del cristianesimo si ha però in campo "laico", e precisamente con J. Locke. Secondo questo pensatore della età moderna la proprietà privata è un diritto naturale prima che positivo, ossia è un diritto legato all'essere della persona[18]. Una persona che Locke concepisce essenzialmente come "individuo", che vive in una società intesa come "somma di individui", i quali si mettono insieme per una convenienza utilitaristica e ai quali lo Stato, "il minor Stato possibile", deve garantire il massimo esercizio delle libertà individuali.[19] Questa è la formulazione teorica che apre le porte al capitalismo più spietato, nel quale, come afferma A. Smith, non ci devono essere preoccupazioni morali di sorta, essendo quella economica una “scienza pura”, ossia che non pronuncia giudizi di valore su ciò che è bene e ciò che è male.[20]

            Dopo la tenace reazione del marxismo a questa concezione quasi "sacrale" della proprietà privata, comincia, con la "Rerum novarum" di Leone XIII, un'evoluzione del concetto di proprietà privata anche nell'ambito del Magistero della Chiesa. L'enciclica leonina, in reazione al socialismo marxista, difende la proprietà privata come "diritto naturale", anche se non lo fa ovviamente secondo le indicazioni di Locke. La "Rerum novarum", infatti, difende anche gli interessi della classe operaia ed utilizza parole piuttosto dure contro il sistema capitalistico.

            La "Quadragesimo anno" di Pio XI, nel 1931, continua a difendere il diritto di proprietà privata, ma introduce in modo chiaro i principi di sussidiarietà e di solidarietà nell'ambito del perseguimento del bene comune. In forza del principio di sussidiarietà i singoli, intesi come persone o come gruppi, devono essere messi in condizione di esercitare la propria creatività, in modo da contribuire attivamente al perseguimento del bene comune. In forza del principio di solidarietà tutti sono chiamati a contribuire al bene comune.

            Arriviamo così al Concilio Vaticano II, nel quale emerge con chiarezza la funzione sociale della proprietà privata. Mi limito a citare a questo riguardo Gaudium et spes 63:

"Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene all'uso di tutti gli uomini e di tutti i popoli, e pertanto i beni creati debbono essere partecipati equamente a tutti, secondo la regola della giustizia, inseparabile dalla carità. Pertanto, quali che siano le forme della proprietà, adattate alle legittime istituzioni dei popoli secondo circostanze diverse e mutevoli, si deve sempre tener conto di questa destinazione universale dei beni. L'uomo, usando di questi beni, deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che possano giovare non unicamente a lui ma anche agli altri. Del resto, a tutti gli uomini spetta il diritto di avere una parte di beni sufficienti a sé e alla propria famiglia. Questo ritenevano giusto i Padri e dottori della Chiesa, i quali insegnavano che tutti gli uomini hanno l'obbligo di aiutare i poveri, e non soltanto con il loro superfluo". C’è nelle parole del Concilio un chiaro riferimento all’autentica dottrina evangelica sull’uso dei beni economici e alla prassi della Chiesa delle origini. Non si nega, ovviamente, il diritto alla proprietà privata, che va esercitato secondo le “forme mutevoli” della storia dei popoli. Si dice però con chiarezza che ognuno deve considerare come “comuni” le cose che possiede, sentendosi interpellato in coscienza dal fatto che tutti gli uomini hanno il diritto, di natura divina, di avere il necessario per vivere!

 

3.                  La situazione economica attuale.

 

Le preziose indicazioni del Vangelo, dei Padri della Chiesa e del Magistero si scontrano oggi con un tipo di economia, che mette a dura prova non solo l'esistenza personale del cristiano, ma la sopravvivenza di tanta parte dell'umanità.

            La vita economica non è più regolata dal desiderio di soddisfare certi bisogni esdsenziali, ma primariamente dal bisogno dei possessori di ricchezza di moltiplicare i beni posseduti. In altri termini non ci troviamo più di fronte ad un'economia di sussistenza, ma ad un'economia di mercato, regolata unicamente dal principio del profitto. Un'economia spietatamente capitalistica che, attraverso diverse vicende, si è rinnovata al suo interno, fino ad arrivare alle attuali forme, che sono sotto gli occhi di tutti.[21]

Anche in questo caso sarebbe improponibile, in questa sede, tentare un'analisi complessiva della nuova economia. Mi limiterò pertanto a segnalarne solo alcune componenti, che più direttamente hanno a che fare con la morale:

a)         Nella nuova forma economica capitalistica si è creata una separazione tra i detentori del capitale e gli imprenditori. I primi, col sistema dell’azionariato, sono diventati molti e anonimi, e non hanno in genere possibilità di intervenire sulle decisioni di produzione. Sono infatti gli imprenditori che decidono cosa, dove e come produrre, lasciandosi guidare unicamente dalla legge del massimo profitto. I detentori del capitale, che possono essere anche piccoli risparmiatori, non sanno che fine faranno i loro soldi, ossia come verranno investiti.[22]

b)         In questo contesto il denaro non serve per acquistare merce, ma per acquistare altro denaro. Si compra e si vende denaro, ovviamente con altro denaro, attraverso il sistema degli interessi e, in molti casi, dell'usura. Non è per niente facile stabilire, moralmente, quale dovrebbe essere il giusto interesse, né quale dovrebbe essere il giusto prezzo di un prodotto. S. Tommaso sosteneva che il commerciante può aumentare il prezzo solo per provvedere alle sue necessità e al sostentamento della famiglia. Il guadagno non è cercato "quasi finem, sed quasi stipendium laboris".[23] Non ci vuole molto a capire che siamo abbastanza lontani da questa prospettiva. La tradizionale questione morale del “giusto prezzo” va oggi affrontata nei termini complessi della nuova economia planetaria, che è sostanzialmente diversa da quella dei secoli precedenti. [24]

c)         In quest'impostazione economica è mutato il significato del possesso del denaro, perché la vita economica è regolata dal desiderio, da parte di chi possiede, di voler possedere sempre di più. Per fare questo vengono pilotati i bisogni, molti dei quali sono chiaramente artificiali ed alimentano il circolo vizioso, già denunciato dagli autori della "Scuola di Francoforte" (Adorno, Marcuse, Horckheimer): si produce per consumare, si consuma per produrre.[25] L'influsso sui bisogni da parte del potere economico è spiegabile oggi  in questi termini: non si cerca di prevedere che cosa chiederà il mercato fra un anno, come si faceva nella vecchia economia, ma di fare in modo che il mercato chieda quello che per gli imprenditori è conveniente produrre.

d)            Un'ulteriore conseguenza di questo sistema è che la ricchezza si concentra nelle mani di pochissime persone, le quali, a loro volta, si concentrano in gruppi tendenti al monopolio. A fronte di questo si creano enormi masse di poveri, con tutte le conseguenze sociali e politiche che sono oggi sotto gli occhi di tutti.

           

I mali di questo tipo di economia mi pare che siano sintetizzati bene sulla tomba di Gandhi, dove sono scritti i sette peccati sociali descritti dal Mahatma:

            politica senza princìpi

            ricchezza senza lavoro

            piacere senza coscienza

            sapienza senza carattere

            commercio senza moralità

            scienza senza umanità

            culto senza sacrificio.

 

4.                  La virtù della povertà evangelica oggi

 

Si può reagire a questo stato di cose? La risposta deve essere certamente positiva e non può non passare attraverso la testimonianza di povertà evangelica dei cristiani e di tutti gli uomini di buona volontà. Una testimonianza che generi uno stile di vita rinnovato, una cultura che sia capace di incidere sugli attuali sistemi politici ed economici.

            Il padre del monachesimo occidentale, S. Benedetto, nella sua Regola scrive: "Nel monastero il vizio della proprietà deve essere assolutamente estirpato fin dalle radici. Tutto sia in comune a tutti, come dice la Scrittura, e nessuno dica o consideri sua proprietà qualsiasi cosa".[26] Certo, non si tratta di trasformare il mondo in un grande monastero… E’ utile però sapere che la proprietà può diventare un pericoloso "vizio". C'è una povertà subìta, che spesso è generata dalle ingiustizie degli uomini e va lottata, perché non rende felice nessuno. E c'è una povertà liberamente scelta, che rende beati e costituisce la maniera migliore per combattere la prima forma di povertà. Questa è la virtù della povertà evangelica, praticata da Gesù e rimasta nella Chiesa come un segno eloquente della sua presenza in mezzo a noi. S. Francesco d' Assisi l'ha vissuta, anzi l'ha "sposata", come fonte di liberazione, di pace, di perfetta letizia e di fraternità. S. Teresina di Lisieux l'ha considerata nell'ottica della "infanzia spirituale", che ha caratterizzato tutto il suo cammino di perfezione. Così ella scrive al riguardo: "La santità non consiste in tale o tal'altra pratica, bensì consiste in una disposizione del cuore che ci rende umili e piccoli nelle braccia di Dio, consci della nostra debolezza e fiduciosi fino all'impudenza nella sua bontà di Padre… Quello che piace al buon Dio nella mia anima è il vedermi amare la mia piccolezza e povertà, è la cieca speranza che ho nella sua misericordia… Non temere: più sarai povero, e più sarai amato da Gesù!".

            Questa è la base spirituale per coltivare la virtù della povertà evangelica, che oggi, ad onor del vero, sta trovando anche tanti segni di speranza, che hanno il sapore forte della profezia. Il grande teologo domenicano Y. Congar scriveva a questo proposito già alcuni anni fa che la virtù della povertà evangelica è legata a quella della carità, che ci impegna a non vivere solo per noi stessi. E poi testualmente scriveva: "Essere perduti al mondo del mondo e rinascere al mondo di Dio vuol dire impegnarsi in una vita di libertà spirituale e di servizio, della quale è condizione una certa povertà".[27] Mi sembra che questa antitesi sia poderosa: la povertà evangelica che può lottare le tante forme di povertà e di ingiustizia oggi presenti consiste, in ultima analisi, in questo "essere perduti al mondo del mondo e rinascere al mondo di Dio".

 


[1] GIOVANNI PAOLO II, Sollicitudo rei socialis, n. 38.

[2] A. NICORA, Sobrietà e castità, virtù del cristiano, Piemme, Casale Monferrato 1997, pp. 9-11.

[3] Ibidem p. 12.

[4] Cfr. R. FABRIS, La comunità cristiana e i beni dell’uomo, Cittadella, Assisi 1974

[5] Cfr. E. CHIAVACCI, Teologia Morale, vol. 3/1: Teologia morale e vita economica, Cittadella, Assisi 1985, pp. 35-37.

[6] Cfr. S.A. PANIMOLLE, Povertà, in P.ROSSANO, G.RAVASI, A.GIRLANDA (a cura di), Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo, 1988, pp. 1202-1216.

[7] Cfr. R. FABRIS, La scelta preferenziale per i poveri nella Bibbia, pagina web in www.spin.it/accri (associazione di cooperazione cristiana internazionale), 2000.

[8] Cfr. E. CHIAVACCI, op. cit., p.37; S. AMBROGIO, De Nabuthae historia, PL 14, col.  731.

[9] Cfr. J. JEREMIAS, Gerusalemme al tempo di Gesù. Ricerca di storia economica e sociale per il periodo neotestamentario, Dehoniane, Roma 1989.

[10] Cfr. R. SCHNACKENBURG, Messaggio morale del Nuovo testamento, Paideia, brescia 1990; W. SCHRAGE, Etica del Nuovo Testamento; R. FABRIS, La scelta preferenziale per i poveri…, op.cit..

[11] Cfr. E. CHIAVACCI, op. cit., pp. 38-40.

[12] Cfr. H. FITTE, Teologia e società. Elementi di teologia morale sociale, Apollinare Studi, Roma 2000, pp. 195-202.

[13] Cfr. M.G. MARA, Ricchezza e povertà nel cristianesimo primitivo, Città Nuova, Roma 1991

[14] S. TOMMASO, S. Th. II-II, 66, 2

[15] Cfr. E.CHIAVACCI, op. cit.. pp.40-44; H. FITTE, op. cit., pp. 208-211.

[16] “Proprietas possessionum non est contra ius naturale, sed iuri naturali superadditur per adinventionem rationis humanae” (S.TOMMASO, S. Th, II.II, q.66, a. 2, ad 1).

[17] H. FITTE, op.cit., p. 211; cfr. anche A. UTZ, Il concetto del diritto di proprietà nella dottrina sociale della Chiesa e il suo rapporto con l’ordine economico, in AA.VV.,“Dottrina sociale della Chiesa e ordine economico”, EDB, Bologna 1992, pp.41-46.

[18] J.LOCKE, The Second Treatise on Government, 1690. L’edizione più accurata di quest’opera è quella a cura di J.W.GOUGH, ed. Blackwell, Oxford 1956.

[19] Su questa base concettuale, che è anche quella contrattualistica di pensatori come Hobbes, si fondano le attuali correnti di pensiero post-moderne, di stampo liberal-radicale-nichilista.

[20] A. SMITH, An Inquiry into the Nature ad Causes of the Wealth of the Nations, 1776; tr.it.: Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Milano, 1977, vo. II p.442.

[21] Cfr. S. MOSSO, Il problema della giustizia e il messaggio cristiano, Ed. Pietro Marietti, Roma 1982, pp. 29-40.

[22] Cfr. G. GATTI, Morale sociale e della vita fisica, LDC. Leumann (TO), 1990, pp. 121-128.

[23] S. TOMMASO, S. Th. II-II, q. 77, a. 1, ad 1

[24] Cfr. E. CHIAVACCI, op.cit., pp. 74-120.

[25] Sulla “Scuola di Francoforte” cfr. U. GALEAZZI, La Scuola di Francoforte. “Teoria critica” in nome dell’uomo, Città Nuova, Roma, 1975; A.BONDOLFI, Teoria critica ed etica cristiana, EDB, Bologna, 1979.

[26] Regola di S. Benedetto, cap. XXXIII

[27] Y. CONGAR, Il posto della povertà nella vita cristiana in una civiltà  del benessere, in: Concilium, anno II, fasc. 3 (1966), p. 24.

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