L'USO DEL DENARO E DELLA RICCHEZZA NELLA VITA DEL CRISTIANO
INDICAZIONI
BIBLICHE E TEOLOGICO-MORALI
Don Mario Cascone
Possiamo
introdurci nel tema partendo da un’icona biblica: Gesù nel deserto
(Mt 4, 1-11). Prima di iniziare pubblicamente il suo ministero di salvezza Gesù
sceglie di vivere in un clima di austerità volontaria, che possa facilitare in
Lui la conquista della perfetta libertà umana nei confronti delle cose
materiali. Al diavolo, che alla fine dei quaranta giorni trascorsi da Gesù nel
deserto, lo tenta proprio su questo punto, Gesù risponde: “Non di solo pane
vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4, 4). Con
queste parole Gesù si collega direttamente a Deut 8, 3 ss., in cui si riconosce
che la prova subìta da Israele nel deserto è servita al popolo per maturare la
sua fiducia nella Provvidenza di Dio e per non mettere al primo posto i beni
materiali. Questi beni infatti non saziano il cuore dell’uomo, anzi possono
diventare un idolo schiavizzante, capace di far commettere all’umanità i
crimini più atroci. Di certo non esagera S. Paolo, quando afferma che
“l’attaccamento al denaro è la radice di tutti i mali” (1Tim 6, 10).
In questa luce dobbiamo cogliere
l’invito di Gesù a chiedere al Padre celeste ogni giorno solo il pane
quotidiano (Mt 6, 11) e a non affannarci di quello che mangeremo o indosseremo,
dal momento che il Padre nostro conosce già le cose di cui abbiamo bisogno (Mt
6, 25-34).
La fiducia nella Provvidenza di Dio,
il desiderio di nutrirci di ogni Parola che esce dalla sua bocca, fanno scattare
in noi il senso autentico della solidarietà e della comunione con tutti gli
uomini, nostri fratelli. L’interdipendenza strutturale, che lega oggi in modo
indissolubile i fattori dello sviluppo economico e i diversi elementi del
sistema sociale, deve tradursi nel nome etico della solidarietà, comportando
scelte di vita personale e comunitaria, che tengano conto del fatto che “siamo
tutti responsabili di tutti”.[1]
Dice giustamente il vescovo Attilio
Nicora, in una sua lettera pastorale sulla sobrietà, che il cristianesimo è
vita di comunione, e non di competizione.[2]
La comunione esiste solo se si accettano dei limiti al proprio potere e al
proprio avere; la competizione invece porta, nel migliore dei casi, ad
un’aurea solitudine. In realtà in molti altri casi degenera nella violenza e
nella guerra. La consapevolezza di dover vivere nella solidarietà e nella
comunione deve generare in noi uno stile di vita più sobrio e più razionale,
che ci conduce obbligatoriamente all’ombra della Croce, la quale è il
necessario costo della “vita in abbondanza” per tutti (Gv 10, 10), ossia
della festa di tutta l’umanità, radunata nella comunione dei figli di Dio.[3]
Non possiamo tollerare che l’
82,7% del reddito mondiale sia in mano al 20% della popolazione mondiale e che i
2/3 dell’umanità debbano accontentarsi di gestire il 2% del reddito mondiale.
Tutto questo rappresenta non solo un compito morale, che riguarda tutti noi, ma
una vera e propria minaccia per la sopravvivenza stessa dell’umanità. Un tale
sbilanciamento della gestione delle ricchezze si ripercuote negativamente anche
sui Paesi ricchi, generando disoccupazione, “nuove povertà” che riguardano
l’essere più che l’avere, conflitti, immigrazioni di massa, nuove forme di
schiavitù, di cui la prostituzione è un segno eclatante.
Certamente
non siamo in grado da soli di risolvere questi problemi, che toccano il sistema
stesso dell’economia mondiale. Ognuno di noi, però, a cominciare dalle sue
scelte personali può e deve influire sul cambiamento di questo sistema iniquo.
Noi non la pensiamo come A. Smith, il padre del capitalismo, il quale riteneva
che in economia basta fare bene i propri interessi, senza porsi il problema
degli altri, perché c’è come una “mano invisibile” che pensa a fare il
bene comune! Noi non crediamo a questa “mano invisibile”, perché siamo
certi che dalla coltivazione dell’egoismo individuale non potrà scaturire mai
nulla di buono. Riteniamo invece che il bene comune si costruisce con
l’impegno di ciascuno a vivere con sobrietà e ad esercitare in modo
responsabile il proprio potere di scelta economica.
Questo
è il quadro generale nel quale poniamo la problematica che stiamo analizzando.
Una problematica che potrebbe tradursi in una domanda concreta: che cosa
significa vivere da cristiani nell’odierna società dell’opulenza e del
benessere (che forse sarebbe meglio chiamare “ben-avere”)?
Cercheremo
di rispondere a questa domanda analizzando anzitutto la S. Scrittura, dalla
quale potremo desumere alcune indicazioni di massima, che andranno poi applicate
in modo non fondamentalistico alla odierna situazione socio-economica.
1.
Indicazioni
bibliche
a)
Antico Testamento
Il
momento fondativo della fede biblica non è la creazione, ma la costituzione del
popolo di Dio, che è un popolo liberato dalla schiavitù.[4]
Solo alla luce dell’esperienza dell’esodo Israele comprende che il Dio
Salvatore è anche il Creatore dell’universo. La liberazione dalla schiavitù
d’Egitto è un’esperienza fondamentale nella costituzione del popolo di Dio,
perché fa comprendere agli ebrei che Dio volge il suo sguardo verso questo
popolo di oppressi e decide di liberarlo (Es 3, 7-8). Egli si china, si
“curva” sugli oppressi in terra d’Egitto, cominciando così a far vedere
quel processo di coinvolgimento nella vicenda storica dell’uomo, che culminerà
nella Incarnazione del suo Figlio unigenito.
Dopo la liberazione dalla schiavitù
d’Egitto c’è la peregrinazione del popolo nel deserto, sotto la guida di
Mosè. In questo periodo prevale un’organizzazione comunitaria dei beni
terreni, che fa da sfondo ad alcune disposizioni che saranno poi inserite nei
“codici di Alleanza” (Es 21-23; Deut 15, 1-11; 24, 10-22). L’idea di base
è che non si possa parlare di una vera e propria proprietà privata da parte
dell’uomo, in quanto il padrone di ogni cosa è Dio: “Del Signore è la
terra e quanto contiene” (Sal 24, 1). Il desiderio di possedere e di
arricchirsi stabilmente viene perciò considerato come un disconoscimento di
questa sovranità di Dio, il quale mette i beni della terra a disposizione di
tutti. Da qui le prescrizioni dell’anno sabbatico, che in genere, tuttavia,
furono largamente disattese: segno evidente della fatica dell’uomo a vivere in
questo campo il senso della sovranità di Dio. Rimane però il principio di
fondo, che è espresso non tanto nel settimo comandamento (“non rubare”),
quanto piuttosto nell’ultimo comandamento, dove il desiderio e la brama di
possesso sono visti come qualcosa di estremamente negativo.[5]
E’ in particolare un grave peccato il cercare di arricchirsi
a spese degli altri, soprattutto dei più poveri, che sono l’orfano, la
vedova, lo straniero (Deut 24, 17; Es 22, 20-22), i quali sono considerati, nei
testi del Pentateuco, come i primi da soccorrere e da aiutare. La difesa e
l’accoglienza del povero non sono perciò visti come una semplice azione
sociale, ma come la riproduzione del modo di agire di Dio nei confronti del
popolo. Israele, che ha
sperimentato l’amore di Dio e la liberazione dalla schiavitù, deve ora agire
in modo corrispondente nei confronti degli oppressi. Questo sistema di
“previdenza sociale” ante litteram trova perciò in Israele una coloritura
squisitamente religiosa e teologica.
Nel periodo della monarchia
compaiono le prime notevoli differenziazioni sociali ed economiche. Si creano
vasti strati di popolazione povera, formata da schiavi, stranieri, malati,
vedove… I poveri sono i “curvati” (“anawim”), cioè quelli privi di
potere, deboli, oppressi dal peso del potere esercitato dai ricchi.[6]
E’ in questo contesto che i profeti fanno sentire la loro vibrante
denuncia sociale. Amos, per esempio, denuncia il latifondismo,
creato dal grave peso fiscale esercitato sui piccoli contadini e commercianti:
“Hanno venduto il giusto per denaro ed il povero per un paio di sandali: essi
calpestano come la polvere della terra la testa dei poveri” (Am 2, 6-7). Con
parole di fuoco egli stigmatizza il comportamento gaudente delle matrone di
Samaria, chiamate “vacche di Basan” (Am 4,1): ad esse il profeta rimprovera
di schiacciare i poveri e di godere una vita dedita ai piaceri sulle spalle dei
più diseredati. Amos fa vedere il legame tra questi peccati di ingiustizia
sociale e il culto idolatrico a divinità straniere: opprimere il povero è la
diretta conseguenza della prostrazione agli idoli. Quando al posto di Dio si
mettono i dollari, allora è facile che si perdano di vista i poveri e si
smarrisca il senso della giustizia…
Isaia,dal canto suo, denuncia
vibrantemente i mali sociali della grande città. Egli, che è un cittadino di
Gerusalemme colto e raffinato, conosce molto bene i traffici che fanno i grandi
proprietari di case e di campi. Essi ingrandiscono le loro proprietà facendo
ricorso ai mezzi più loschi, a spese dei poveri, e poi spendono i soldi
accumulati per corrompere i magistrati e per divertirsi nei bagordi notturni: si
dilettano nell’ascoltare musica, nel mangiare bene, nel bere bevande
inebrianti (cfr Is 5, 8-24). In compenso però osservano le pratiche rituali del
culto, suscitando ovviamente la denuncia del profeta: “ Voi alzate le mani che
sono sporche di sangue…” (Is 1, 13-17).[7]
L’esempio più evidente di
oppressione del povero è quello che riguarda Nabot (1Re 21), il quale
rifiuta di cedere la sua vigna al re Acab e per questo viene ucciso, con la
complicità della perfida regina Gezabele. Nabot è il povero che viene
schiacciato dall’avidità del potente. Egli è anche l’uomo tipicamente
anti-economico, almeno secondo gli schemi dell’economia di oggi: rifiuta
infatti uno scambio vantaggioso, perché non è interessato al denaro, ma ad
altri valori economicamente non apprezzabili.[8]
In
sintesi va ribadito che la denuncia sociale dei profeti si fonda su una base
teologica: l’oppressione del povero, infatti, è vista come qualcosa che va
contro l’Alleanza con Dio (cfr. Am 5, 11-12; Is 3, 14-24; Mic 2, 1-3).
Il periodo di floridezza economica di cui gode Israele finisce tragicamente: nel 721 la popolazione del Nord viene deportata dagli Assiri, nel 587 il popolo del Sud subisce la deportazione da parte dei Babilonesi. Queste deportazioni vengono interpretate come un castigo di Dio, che colpisce il popolo per la sua infedeltà all’Alleanza.
Nell’epoca post-esilica (secc.
VI-I) il ritorno degli esuli è caratterizzato da una vera situazione di
miseria, di cui si fanno portavoce ancora una volta i profeti (cfr. Ag 1, 6-9;
Zacc 8, 10; Nee 5, 1-5). Nel raccogliere i “cocci” di una situazione di
disfatta, emerge ancora una volta la fondametale importanza del rapporto con
Dio. Non a caso la prima cosa da ricostruire è il Tempio: bisogna ripartire da
Dio per fondare in modo giusto i rapporti tra gli uomini.
Durante
la successiva dominazione ellenistica si gode un periodo di relativa prosperità,
ma le tasse da pagare sono eccessive, per cui non mancano le rivolte e le crisi
sociali. E’ in questo periodo che prende corpo la riflessione sapienziale,
che richiama il popolo ad aspirare a quello che basta per vivere e a non
considerare fonte di felicità l’accumulo di beni materiali. Ciò che conta è,
infatti, possedere la sapienza, che vale più dell’oro e dell’argento.
b) Nuovo Testamento
Al
tempo di Gesù la Palestina è sotto l’occupazione dei Romani, i quali
esercitano una pesantepressione fiscale sulla popolazione, avvalendosi
dell’aiuto dei pubblicani, i quali sono malvisti da tutta la popolazione,
anche perché apertamente approfittano del loro mestiere per rubare alle spalle
dei più deboli. Oltre alle tasse da versare nelle casse di Roma, gli ebrei
dovevano pagare anche le tasse religiose, che servivano per il mantenimento del
tempio e della classe sacerdotale.[9]
Dal punto di vista sociale si erano
delineate già tre classi: quella dei ricchi (latifondisti, grossi
commercianti, funzionari laici e religiosi); quella dei poveri (schiavi,
braccianti, salariati) e il ceto medio (piccoli commercianti, artigiani).
Probabilmente Gesù, essendo figlio di un artigiano, apparteneva a
quest’ultimo ceto.[10]
Egli perciò non era certamente un ricco, ma non era neanche poverissimo. Si può
dire quindi che Gesù sceglie liberamente di vivere da povero. Nella sua vita
pubblica egli si adatta allo stile di vita dei “rabbi”, che vivevano
dell’ospitalità delle persone simpatizzanti, come ci mostrano diversi passi
evangelici (cfr. Lc 8,3; 10, 38).
Il giudizio di Gesù sui beni
economici proviene perciò da un uomo che è libero dal bisogno economico. Per
questo è un giudizio equilibrato, non dettato dalla rabbia di una forzata vita
condotta nella miseria. Si può dire che in lui convergono
sia la linea di pensiero sapienziale che quella profetica dell’Antico
Testamento.
Sul piano sapienziale Gesù
predica che i beni materiali sono effimeri, danno sicurezze illusorie, possono
impossessarsi del cuore dell’uomo (Mt 6, 24; 13, 22; Lc 12, 15-21).
Sul piano profetico Gesù
pronuncia richiami molto forti ai benestanti: “Guai a voi, ricchi… (Lc 6,
24-26).[11]
In questa linea si comprenderanno, in seguito, le invettive di Giacomo contro i
ricchi latifondisti (Giac 5, 1-6) e tutte le prese di posizione dell’apostolo
Paolo nei confronti del valore effimero dei beni di questo mondo (1 Cor 7,30).
In sintesi si può dire che in Gesù
non c’è una condanna della ricchezza in se stessa e un’esaltazione della
povertà economica, la quale non può essere certo considerata in sé come un
bene. Gesù però dice chiaramente che la ricchezza fine a se stessa è
idolatria; la ricchezza serve solo per il giusto sostentamento e per essere
condivisa. Ecco perché al giovane ricco chiede di vendere tutto quello che ha e
di darlo ai poveri, prima di porsi alla sua sequela (Mt 19, 21). Non si tratta
della semplice rinuncia ai beni di questo mondo. Questa la fanno anche i
filosofi stoici o i maestri spirituali delle religioni orientali: essi
rinunciano ai beni per non essere infastiditi dalle cose materiali. Il Vangelo
non disprezza la ricchezza in se stessa, ma la ricchezza fine a stessa,
ossia la pura accumulazione di beni, che non ha altra giustificazione se non
quella dell’accumulazione stessa. Per questo il Vangelo propone di usare i
beni terreni come segno di amore gratuito, come strumento di condivisione. I
beni materiali, infatti, possono occupare il cuore dell’uomo e diventare
“mammona”, l’idolo che prende il posto di Dio (Mt 6, 24). Per seguire Gesù,
bisogna imitare Lui, l'unico “buono”, che condivide i suoi beni con tutti, a
partire dai bisognosi. Gesù riconosce come figli di Dio e suoi fratelli coloro
che hanno compiuto anche un semplice gesto di condivisione e di accoglienza: dar
da mangiare, dar da bere, visitare il malato, accogliere il pellegrino. Sono
gesti di amore ordinario, feriale, che non hanno nulla di eroico. Sono però
gesti che ci permettono di incontrare e amare Gesù in persona, il quale si
identifica col povero: “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di
questi miei fratelli più piccoli, le avete fatte a me” (Mt 25, 40).[12]
Queste indicazioni del Vangelo
furono attuate nella Chiesa apostolica, come ci viene testimoniato dagli
Atti degli Apostoli: “Chi aveva proprietà e sostanze, le vendeva e ne faceva
parte a tutti secondo il bisogno di ciascuno” (At 2, 45); “Nessuno infatti
tra loro era bisognoso perché quanti possedevano campi o case li vendevano,
portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi
degli apostoli: e poi veniva distribuito secondo il bisogno di ciascuno” (At
4, 34-35). Non mancarono certo i problemi, anche nella Chiesa apostolica, come
dimostra l’episodio di Anania e Saffira (At 5, 1-11). Ma in generale ci fu la
presa di coscienza che i beni terreni vanno dati e condivisi. Si chiede infatti
S. Giovanni: “Se uno ha ricchezze in questo mondo e, vedendo il suo fratello
in necessità, gli chiude il proprio cuore, come dimorerà in lui l’amore di
Dio?” (1 Gv 3, 16-17).
Le
esperienze di comunione dei beni della prima Chiesa di Gerusalemme dimostrano
chiaramente la contrarietà ad una concezione di proprietà privata, come è
stata elaborata successivamente da alcune teorie economiche. Sono anche lontane
da certe indicazioni della teologia morale classica, che insegnavano a dare ai
poveri solo il superfluo. La Parola di Dio ci dice che l’obiettivo non è di
avere i poveri per potere fare opere buone, ma di aiutarli a non essere più
poveri. E per fare questo bisogna mettersi dalla parte dei poveri: come ha fatto
il Signore, che si è fatto povero per noi per arricchirci mediante la sua
povertà (cfr. 2 Cor 8, 9).
2.
Indicazioni
patristiche e storiche
Le
indicazioni del Vangelo e della Chiesa apostolica si riflettono con evidenza
negli scritti dei Padri della Chiesa.[13] Senza la pretesa di
addentrarci in un'analisi approfondita di questa tematica, mi limiterò a
leggere alcuni testi, dai quali si evince questa continuità tra la Chiesa
apostolica e quella dei primi secoli:
La Didaché: "Non
respingerai l'indigente e farai partecipe di ogni cosa il tuo fratello; e non
dire che ci sono cose private: se avete in comune le cose immortali, quanto più
logicamente non dovete avere quelle mortali?".
Tertulliano: "Da noi
tutto è comune, tranne le mogli. Sono i pagani che, gelosi custodi della
proprietà, iniziano la comunanza là dove i cristiani la terminano".
Giovanni Crisostomo: "Il
tuo e il mio, questa fredda parola: qui scoppia il contrasto, qui sorgono le
inimicizie. Dove invece codesta distinzione non esiste, non si vedono sorgere né
conflitti né rivolte. Di modo che la comunanza è nostro retaggio, più che la
proprietà".
Su queste basi sorsero nella Chiesa
dei primi secoli numerose esperienze di monachesimo e di servizio ai poveri.
Esperienze che, per grazia di Dio, sono continuate fino ai nostri giorni,
assumendo coloriture diverse e "adattandosi" alle diverse forme di
povertà, che storicamente sono emerse. Lo Spirito, infatti, ha condotto questa
storia di carità e di condivisione, manifestando tutta la sua “fantasia”
creativa e chiamando continuamente uomini e donne, di ogni condizione sociale,
ad incarnare generosamente il servizio ai poveri e l’amore autenticamente
gratuito.
Il concetto-chiave, su cui bisogna
maggiormente far leva nella riflessione teologico-morale, è sicuramente
quello della proprietà privata.
Abbiamo già considerato su questo
punto le preziose indicazioni della Bibbia e dei Padri. In sede teologica S.
Tommaso d’Aquino insegna che l'uomo può legittimamente usare dei beni di
questo mondo, che Dio ha messo a sua disposizione. Egli però "non deve
avere le cose esterne (cioè i beni) come proprie, ma come comuni, cosicché uno
possa parteciparne agli altri con una certa facilità nel caso di bisogno".[14]
Qui si dice chiaramente che tutto quello che uno possiede, lo ha per darlo e
condividerlo, non per accumularlo. E lo deve dare largamente: "con una
certa facilità". S. Tommaso perciò si colloca perfettamente nella logica
evangelica e patristica.[15]
Egli non nega all’uomo il diritto a possedere; nega piuttosto che si possa
utilizzare la proprietà privata in chiave egoistica, in quanto sottolinea la
funzione sociale di tutto ciò che i singoli possiedono. Secondo una felice
formulazione dell’Aquinate la proprietà privata è una soluzione della
ragione umana in vista del bene comune.[16]
Per questo motivo S.Tommaso non considera il diritto di proprietà privata come
supremo diritto naturale, ma lo ritiene piuttosto un diritto secondario,
inseparabile dal dovere primario di porsi al servizio del bene comune.[17]
La scoperta delle Americhe,
l'incremento dei commerci con le terre d' Oriente, le ricchezze provenienti
dalle nuove terre fecero progressivamente modificare queste concezioni. Anche
nell'ambito teologico e nella vita della Chiesa non mancarono
concettualizzazioni teoriche e stili di vita, che si allontanarono non poco
dallo spirito evangelico. Mai mancò comunque la presenza dello Spirito di Dio,
che assicurò anche in questi secoli la testimonianza profetica di figure come
Francesco e Chiara di Assisi, oltre che di veri e propri movimenti di
spiritualità e di carità, come quello degli Ordini mendicanti.
Dal punto di vista teorico la
frattura più evidente con le elaborazioni del cristianesimo si ha però in
campo "laico", e precisamente con J. Locke. Secondo questo
pensatore della età moderna la proprietà privata è un diritto naturale prima
che positivo, ossia è un diritto legato all'essere della persona[18].
Una persona che Locke concepisce essenzialmente come "individuo", che
vive in una società intesa come "somma di individui", i quali si
mettono insieme per una convenienza utilitaristica e ai quali lo Stato, "il
minor Stato possibile", deve garantire il massimo esercizio delle libertà
individuali.[19]
Questa è la formulazione teorica che apre le porte al capitalismo più
spietato, nel quale, come afferma A. Smith, non ci devono essere preoccupazioni
morali di sorta, essendo quella economica una “scienza pura”, ossia che non
pronuncia giudizi di valore su ciò che è bene e ciò che è male.[20]
Dopo la tenace reazione del marxismo
a questa concezione quasi "sacrale" della proprietà privata,
comincia, con la "Rerum novarum" di Leone XIII, un'evoluzione del
concetto di proprietà privata anche nell'ambito del Magistero della Chiesa.
L'enciclica leonina, in reazione al socialismo marxista, difende la proprietà
privata come "diritto naturale", anche se non lo fa ovviamente secondo
le indicazioni di Locke. La "Rerum novarum", infatti, difende anche
gli interessi della classe operaia ed utilizza parole piuttosto dure contro il
sistema capitalistico.
La "Quadragesimo anno" di
Pio XI, nel 1931, continua a difendere il diritto di proprietà privata, ma
introduce in modo chiaro i principi di sussidiarietà e di solidarietà
nell'ambito del perseguimento del bene comune. In forza del principio di
sussidiarietà i singoli, intesi come persone o come gruppi, devono essere messi
in condizione di esercitare la propria creatività, in modo da contribuire
attivamente al perseguimento del bene comune. In forza del principio di
solidarietà tutti sono chiamati a contribuire al bene comune.
Arriviamo così al Concilio Vaticano
II, nel quale emerge con chiarezza la funzione sociale della proprietà privata.
Mi limito a citare a questo riguardo Gaudium et spes 63:
"Dio ha destinato
la terra e tutto quello che essa contiene all'uso di tutti gli uomini e di tutti
i popoli, e pertanto i beni creati debbono essere partecipati equamente a tutti,
secondo la regola della giustizia, inseparabile dalla carità. Pertanto, quali
che siano le forme della proprietà, adattate alle legittime istituzioni dei
popoli secondo circostanze diverse e mutevoli, si deve sempre tener conto di
questa destinazione universale dei beni. L'uomo, usando di questi beni, deve
considerare le cose esteriori che legittimamente possiede non solo come proprie,
ma anche come comuni, nel senso che possano giovare non unicamente a lui ma
anche agli altri. Del resto, a tutti gli uomini spetta il diritto di avere una
parte di beni sufficienti a sé e alla propria famiglia. Questo ritenevano
giusto i Padri e dottori della Chiesa, i quali insegnavano che tutti gli uomini
hanno l'obbligo di aiutare i poveri, e non soltanto con il loro superfluo".
C’è nelle parole del Concilio un chiaro riferimento all’autentica dottrina
evangelica sull’uso dei beni economici e alla prassi della Chiesa delle
origini. Non si nega, ovviamente, il diritto alla proprietà privata, che va
esercitato secondo le “forme mutevoli” della storia dei popoli. Si dice però
con chiarezza che ognuno deve considerare come “comuni” le cose che
possiede, sentendosi interpellato in coscienza dal fatto che tutti gli uomini
hanno il diritto, di natura divina, di avere il necessario per vivere!
3.
La
situazione economica attuale.
Le
preziose indicazioni del Vangelo, dei Padri della Chiesa e del Magistero si
scontrano oggi con un tipo di economia, che mette a dura prova non solo
l'esistenza personale del cristiano, ma la sopravvivenza di tanta parte
dell'umanità.
La vita economica non è più
regolata dal desiderio di soddisfare certi bisogni esdsenziali, ma primariamente
dal bisogno dei possessori di ricchezza di moltiplicare i beni posseduti. In
altri termini non ci troviamo più di fronte ad un'economia di sussistenza, ma
ad un'economia di mercato, regolata unicamente dal principio del profitto.
Un'economia spietatamente capitalistica che, attraverso diverse vicende, si è
rinnovata al suo interno, fino ad arrivare alle attuali forme, che sono sotto
gli occhi di tutti.[21]
Anche
in questo caso sarebbe improponibile, in questa sede, tentare un'analisi
complessiva della nuova economia. Mi limiterò pertanto a segnalarne solo alcune
componenti, che più direttamente hanno a che fare con la morale:
a)
Nella nuova forma economica capitalistica si è creata una separazione
tra i detentori del capitale e gli imprenditori. I primi, col sistema
dell’azionariato, sono diventati molti e anonimi, e non hanno in genere
possibilità di intervenire sulle decisioni di produzione. Sono infatti gli
imprenditori che decidono cosa, dove e come produrre, lasciandosi guidare
unicamente dalla legge del massimo profitto. I detentori del capitale, che
possono essere anche piccoli risparmiatori, non sanno che fine faranno i loro
soldi, ossia come verranno investiti.[22]
b)
In questo contesto il denaro non serve per acquistare merce, ma per
acquistare altro denaro. Si compra e si vende denaro, ovviamente con altro
denaro, attraverso il sistema degli interessi e, in molti casi, dell'usura. Non
è per niente facile stabilire, moralmente, quale dovrebbe essere il giusto
interesse, né quale dovrebbe essere il giusto prezzo di un prodotto. S. Tommaso
sosteneva che il commerciante può aumentare il prezzo solo per provvedere alle
sue necessità e al sostentamento della famiglia. Il guadagno non è cercato
"quasi finem, sed quasi stipendium laboris".[23]
Non ci vuole molto a capire che siamo abbastanza lontani da questa prospettiva.
La tradizionale questione morale del “giusto prezzo” va oggi affrontata nei
termini complessi della nuova economia planetaria, che è sostanzialmente
diversa da quella dei secoli precedenti. [24]
c)
In quest'impostazione economica è mutato il significato del possesso
del denaro, perché la vita economica è regolata dal desiderio, da parte di
chi possiede, di voler possedere sempre di più. Per fare questo vengono
pilotati i bisogni, molti dei quali sono chiaramente artificiali ed alimentano
il circolo vizioso, già denunciato dagli autori della "Scuola di
Francoforte" (Adorno, Marcuse, Horckheimer): si produce per consumare, si
consuma per produrre.[25]
L'influsso sui bisogni da parte del potere economico è spiegabile oggi
in questi termini: non si cerca di prevedere che cosa chiederà il
mercato fra un anno, come si faceva nella vecchia economia, ma di fare in modo
che il mercato chieda quello che per gli imprenditori è conveniente produrre.
d)
Un'ulteriore conseguenza di questo sistema è che la ricchezza si
concentra nelle mani di pochissime persone, le quali, a loro volta, si
concentrano in gruppi tendenti al monopolio. A fronte di questo si creano enormi
masse di poveri, con tutte le conseguenze sociali e politiche che sono oggi
sotto gli occhi di tutti.
I
mali di questo tipo di economia mi pare che siano sintetizzati bene sulla tomba
di Gandhi, dove sono scritti i sette peccati sociali descritti dal
Mahatma:
politica senza princìpi
ricchezza senza lavoro
piacere senza coscienza
sapienza senza carattere
commercio senza moralità
scienza senza umanità
culto senza sacrificio.
4.
La
virtù della povertà evangelica oggi
Si
può reagire a questo stato di cose? La risposta deve essere certamente positiva
e non può non passare attraverso la testimonianza di povertà evangelica dei
cristiani e di tutti gli uomini di buona volontà. Una testimonianza che generi
uno stile di vita rinnovato, una cultura che sia capace di incidere sugli
attuali sistemi politici ed economici.
Il padre del monachesimo
occidentale, S. Benedetto, nella sua Regola scrive: "Nel monastero il
vizio della proprietà deve essere assolutamente estirpato fin dalle radici.
Tutto sia in comune a tutti, come dice la Scrittura, e nessuno dica o consideri
sua proprietà qualsiasi cosa".[26] Certo, non si tratta di
trasformare il mondo in un grande monastero… E’ utile però sapere che la
proprietà può diventare un pericoloso "vizio". C'è una povertà
subìta, che spesso è generata dalle ingiustizie degli uomini e va lottata,
perché non rende felice nessuno. E c'è una povertà liberamente scelta,
che rende beati e costituisce la maniera migliore per combattere la prima forma
di povertà. Questa è la virtù della povertà evangelica, praticata da Gesù e
rimasta nella Chiesa come un segno eloquente della sua presenza in mezzo a noi.
S. Francesco d' Assisi l'ha vissuta, anzi l'ha "sposata", come fonte
di liberazione, di pace, di perfetta letizia e di fraternità. S. Teresina di
Lisieux l'ha considerata nell'ottica della "infanzia spirituale",
che ha caratterizzato tutto il suo cammino di perfezione. Così ella scrive al
riguardo: "La santità non consiste in tale o tal'altra pratica, bensì
consiste in una disposizione del cuore che ci rende umili e piccoli nelle
braccia di Dio, consci della nostra debolezza e fiduciosi fino all'impudenza
nella sua bontà di Padre… Quello che piace al buon Dio nella mia anima è il
vedermi amare la mia piccolezza e povertà, è la cieca speranza che ho nella
sua misericordia… Non temere: più sarai povero, e più sarai amato da Gesù!".
Questa è la base spirituale per
coltivare la virtù della povertà evangelica, che oggi, ad onor del vero, sta
trovando anche tanti segni di speranza, che hanno il sapore forte della
profezia. Il grande teologo domenicano Y. Congar scriveva a questo
proposito già alcuni anni fa che la virtù della povertà evangelica è legata
a quella della carità, che ci impegna a non vivere solo per noi stessi. E poi
testualmente scriveva: "Essere perduti al mondo del mondo e rinascere al
mondo di Dio vuol dire impegnarsi in una vita di libertà spirituale e di
servizio, della quale è condizione una certa povertà".[27]
Mi sembra che questa antitesi sia poderosa: la povertà evangelica che può
lottare le tante forme di povertà e di ingiustizia oggi presenti consiste, in
ultima analisi, in questo "essere perduti al mondo del mondo e rinascere al
mondo di Dio".
[1] GIOVANNI PAOLO II, Sollicitudo rei socialis, n. 38.
[2] A. NICORA, Sobrietà e castità, virtù del cristiano, Piemme, Casale Monferrato 1997, pp. 9-11.
[3] Ibidem p. 12.
[4] Cfr. R. FABRIS, La comunità cristiana e i beni dell’uomo, Cittadella, Assisi 1974
[5] Cfr. E. CHIAVACCI, Teologia Morale, vol. 3/1: Teologia morale e vita economica, Cittadella, Assisi 1985, pp. 35-37.
[6] Cfr. S.A. PANIMOLLE, Povertà, in P.ROSSANO, G.RAVASI, A.GIRLANDA (a cura di), Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo, 1988, pp. 1202-1216.
[7] Cfr. R. FABRIS, La scelta preferenziale per i poveri nella Bibbia, pagina web in www.spin.it/accri (associazione di cooperazione cristiana internazionale), 2000.
[8] Cfr. E. CHIAVACCI, op. cit., p.37; S. AMBROGIO, De Nabuthae historia, PL 14, col. 731.
[9] Cfr. J. JEREMIAS, Gerusalemme al tempo di Gesù. Ricerca di storia economica e sociale per il periodo neotestamentario, Dehoniane, Roma 1989.
[10] Cfr. R. SCHNACKENBURG, Messaggio morale del Nuovo testamento, Paideia, brescia 1990; W. SCHRAGE, Etica del Nuovo Testamento; R. FABRIS, La scelta preferenziale per i poveri…, op.cit..
[11] Cfr. E. CHIAVACCI, op. cit., pp. 38-40.
[12] Cfr. H. FITTE, Teologia e società. Elementi di teologia morale sociale, Apollinare Studi, Roma 2000, pp. 195-202.
[13] Cfr. M.G. MARA, Ricchezza e povertà nel cristianesimo primitivo, Città Nuova, Roma 1991
[14]
S. TOMMASO, S. Th. II-II, 66, 2
[15] Cfr. E.CHIAVACCI, op. cit.. pp.40-44; H. FITTE, op. cit., pp. 208-211.
[16] “Proprietas possessionum non est contra ius naturale, sed iuri naturali superadditur per adinventionem rationis humanae” (S.TOMMASO, S. Th, II.II, q.66, a. 2, ad 1).
[17] H. FITTE, op.cit., p. 211; cfr. anche A. UTZ, Il concetto del diritto di proprietà nella dottrina sociale della Chiesa e il suo rapporto con l’ordine economico, in AA.VV.,“Dottrina sociale della Chiesa e ordine economico”, EDB, Bologna 1992, pp.41-46.
[18] J.LOCKE, The Second Treatise on Government, 1690. L’edizione più accurata di quest’opera è quella a cura di J.W.GOUGH, ed. Blackwell, Oxford 1956.
[19] Su questa base concettuale, che è anche quella contrattualistica di pensatori come Hobbes, si fondano le attuali correnti di pensiero post-moderne, di stampo liberal-radicale-nichilista.
[20] A. SMITH, An Inquiry into the Nature ad Causes of the Wealth of the Nations, 1776; tr.it.: Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, Milano, 1977, vo. II p.442.
[21] Cfr. S. MOSSO, Il problema della giustizia e il messaggio cristiano, Ed. Pietro Marietti, Roma 1982, pp. 29-40.
[22] Cfr. G. GATTI, Morale
sociale e della vita fisica, LDC. Leumann
(TO), 1990, pp. 121-128.
[23]
S. TOMMASO, S. Th. II-II, q. 77, a. 1, ad 1
[24] Cfr. E. CHIAVACCI, op.cit.,
pp. 74-120.
[25] Sulla “Scuola di Francoforte” cfr. U. GALEAZZI, La Scuola di Francoforte. “Teoria critica” in nome dell’uomo, Città Nuova, Roma, 1975; A.BONDOLFI, Teoria critica ed etica cristiana, EDB, Bologna, 1979.
[26] Regola di S. Benedetto, cap. XXXIII
[27]
Y. CONGAR, Il posto della povertà nella vita cristiana in una civiltà
del benessere, in: Concilium, anno II, fasc. 3
(1966), p. 24.