VIVERE LA VITA NUOVA  

Laura Casale

La gioia del perdono
Perdono: potenza di Dio per l'uomo
Perdono: cammino di conversione


La gioia del perdono

Spesso le ferite psicologiche, anche inconsapevolmente, rendono difficili i rapporti interpersonali sia all'interno che all'esterno della famiglia. Laura Casali, psicologa e coordinatrice dei gruppi di RnS della Lombardia, ci aiuta a comprendere le cause profonde che scatenano le nostre reazioni e come attraverso il perdono possiamo rinnovarci interiormente, rinsaldando i nostri rapporti, ricomporre l'armonia famigliare intraprendendo così un vero cammino di conversione.

Dice Giovanni Paolo II nella Bolla d’indizione del grande Giubileo: «L’Anno Santo è per sua natura un momento di chiamata alla conversione. […] Questa, peraltro, è in primo luogo, frutto della grazia. È lo Spirito che spinge ognuno a "rientrare in se stesso" e a percepire il bisogno di ritornare alla casa del Padre (cf Lc 15, 17—20). L’esame di coscienza, quindi, è uno dei momenti più qualificanti dell’esistenza personale. Con esso, infatti, ogni uomo è posto dinanzi alla verità della propria vita. Egli scopre, così, la distanza che separa le sue azioni dall’ideale che si è prefisso». […] Tutti hanno peccato e nessuno può dirsi giusto dinanzi a Dio (cf 1Re 8, 46). Si ripeta senza timore: "Abbiamo peccato" (Ger 3, 25), ma sia mantenuta viva la certezza che "laddove ha abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia" (Rm 5, 20). […] [Perciò] nessuno in questo anno giubilare voglia escludersi dall’abbraccio del Padre. […] La gioia del perdono sia più forte e più grande di ogni risentimento» (Incarnationis mysterium, 11).

In queste parole del Papa è contenuta tutta la ricchezza e la profondità del perdono, poiché ci vengono rivelate la sua natura, che è quella di essere un frutto della grazia divina, e la sua realtà, che è dinamica in quanto ha un inizio, uno svolgimento e una finalità. L’inizio consiste nel rientrare in se stessi e percepire il bisogno di ritornare alla casa del Padre. Lo svolgimento consiste nel ripetere senza timore: "Abbiamo peccato", accettando l’abbraccio del Padre. La finalità sta nella conversione, che significa amare sempre più come Gesù.

Siamo dunque invitati ad accogliere e godere della grazia del perdono che ci viene concessa gratuitamente affinché, donando a nostra volta il perdono, diventiamo operatori di pace e di riconciliazione.

Inoltre, siamo invitati a riflettere sulla necessità che ognuno di noi ha di perdonare. Perdonare significa riconciliarsi con Dio e con gli uomini, significa fare un cammino di guarigione interiore, quindi, un cammino di santità.

Il perdono è il segno distintivo del cristiano

Lo dice Gesù nel Vangelo: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13, 35). E ancora, il perdono è il vertice della vita cristiana: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15, 13).

Diciamo subito, però, che il perdono è opera di Dio e che non dipende dall’agire dell’uomo anche se, in tale cammino, vi sono delle tappe preliminari di perdono psicologico che non fanno esplicito riferimento a Dio. Tuttavia esse sono dei vissuti parziali di una realtà che non ha ancora trovato il suo senso, ma è una realtà divina. Sono tappe che corrispondono a un agire divino nell’uomo; perciò predisponendoci a ricevere e a dare il perdono, avviamo in noi un’opera di apertura alla dimensione spirituale. Scegliere di perdonare — nel suo duplice movimento di ricevere e donare il perdono — significa affermare la libertà di diventare ciò che siamo: esseri d’amore capaci di amare in maniera umana e divina. In noi c’è una capacità di perdono sia psicologico che divino.

Il primo è accessibile anche alle tecniche psicologiche e perciò si avvale degli sforzi umani. È il «non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te». È il deporre l’arma, il non vendicarsi, l’amare se l’altro mi ama… È stare nel "proprio angolo" per evitare conflitti. Tutti possiamo accedere a questo tipo di perdono, anzi ognuno di noi è invitato a esercitarlo quotidianamente in ogni situazione di vita, specialmente in quella familiare, affinché le relazioni umane possano svilupparsi in modo meno conflittuale e perciò più rispettoso, più ordinato e più decoroso.

Il secondo tipo di perdono è quello divino. Conseguente a quello psicologico (e non certo in alternativa ad esso), è un dono di Dio e come tale non acquistabile dall’uomo né per i suoi meriti né tantomeno attraverso tecniche psicologiche.

Le caratteristiche del perdono divino

Di quale perdono si tratta, se è solo Dio a potermelo dare?

È l’amore—agape, l’amore verso i nemici cioè quell’amore che va ben oltre il non vendicarsi. È l’amore che invita ad abbracciare il proprio nemico, a benedirlo, a fargli del bene e, infine, a dare la propria vita per lui come ha fatto Gesù.

È amare non solo quando l’altro non ti ama, ma anche quando l’altro risponde al tuo amore ferendoti. È passare dalla giustizia umana che all’offesa risponde con l’offesa, a quella divina che all’offesa risponde con l’offerta. È il nuovo comandamento di Gesù: «che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato» (Gv 13, 34). Gesù ci invita ad amare il nostro prossimo più di noi stessi, a preferire l’altro a noi stessi, come ha fatto lui, che ci ha amato fino a donare la propria vita. Ciò che Gesù ci propone è un amore—dono, un amore gratuito che dà senza attendere nulla in cambio. È il «dare tutto e poi dare se stessi» di Santa Teresa di Lisieux.

Amare e perdonare: perché questa equazione?

L’uomo è un essere d’amore e di relazione, in quanto plasmato ad immagine di Dio che è amore, ed ogni volta che non riceve amore viene ferito.

La ferita perciò è una mancanza d’amore alla quale l’uomo reagisce in modo naturale, vale a dire più o meno vendicativo: o interrompendo la relazione con l’altro, mantenendo però il ricordo doloroso e rancoroso dell’offesa subita oppure facendo pagare il debito della ferita all’offensore.

Dio, invece, ci invita a lasciare questa reazione naturale alla ferita, per accogliere la sua reazione divina, che è quella di perdonare. E proprio perché il suo invito è propositivo e non impositivo, egli attende la nostra risposta, il nostro "Sì", che si concretizza in una scelta: la decisione di lasciare la logica di una reazione naturale all’offesa, alla ferita subita, per accogliere la logica divina di reagire all’offesa continuando ad amare e rinunciando al debito che l’altro ha nei miei confronti.

Questo invito al perdono è destinato ad ogni uomo, poiché non esiste uomo che non sia ferito per mancanza d’amore. L’uomo è animato da un desiderio d’amore infinito che corrisponde alla pienezza dell’immagine divina iscritta in lui, aspira ad essere amato personalmente, senza limiti e incondizionatamente, e ad amare totalmente. Chi potrà soddisfare questa sete d’infinito? Solo Dio Padre, il Creatore! Ma poiché noi attendiamo tale pienezza dalla creatura, l’attesa sarà frustrata e nel nostro tessuto d’amore sperimenteremo un vuoto, una mancanza che sarà fonte di sofferenza.

La mancanza d’amore, dunque, ci ferisce e ci fa soffrire. La sofferenza a sua volta ci fa paura, ci angoscia, ci lacera dentro e ci spinge a ripiegarci su noi stessi, a diventare egocentrici e aggressivi. Così ci induriamo e guardiamo tutto e tutti, anche noi stessi, attraverso il filtro di questo indurimento, con la conseguenza che le nostre relazioni diventano sempre più difficili, sempre più ferenti.

L’aggressione di cui siamo fatti oggetto inizialmente diventa quindi la nostra modalità di reazione. Anzi, ci accorgiamo di non avere più bisogno che qualcuno ci aggredisca per scoprire che siamo capaci anche noi di aggredire per primi.

Quante ferite d’amore date e ricevute! Quanti perdoni da ricevere e da dare!

Ecco perché l’invito al perdono è rivolto ad ogni uomo, ed ecco perché il perdono è il fondamento di ogni cammino di guarigione di tutto l’uomo e quindi del cammino di conversione e di santità.

Perdono: potenza di Dio per l'uomo

Quali sono le ferite che impediscono il perdono? Quali dinamiche bisogna adottare per superarle? Sono interrogativi ai quali risponde Laura Casali, psicologa e coordinatrice della Lombardia, nella conclusione della sua catechesi sul perdono.

Nel Vangelo troviamo un comando di Gesù che senza dubbio è difficile da osservare e che più di altri mette a nudo la nostra debolezza: «amate i vostri nemici ...» (Mt 5, 44). In un altro passo sta scritto anche che «nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15, 13). Riflettiamo allora sugli effetti che questa proposta produce nella nostra vita.
Ci chiediamo innanzitutto: chi sono i «nemici» che Gesù mi chiede di amare e per i quali mi chiede addirittura di dare la vita? Essi sono i miei amici, i miei intimi: mio padre, mia madre, i miei fratelli, il mio partner, i miei figli... Sono loro che più mi fanno soffrire per ogni mancanza di amore, perché da loro attendo molto di più che da altri. Infatti la ferita che mi fa soffrire è tanto più profonda e intensa quanto più forte è il legame affettivo. È una legge antropologica molto importante, questa, che cercheremo di spiegare.
Più amo una persona, più attendo da lei l’amore e più ogni mancanza d’amore mi fa soffrire; più amo una persona, più sono davanti a lei in un’attitudine di vulnerabilità, senza maschere e senza difese; e quindi la mancanza d’amore da parte sua mi ferirà in modo molto doloroso. La spiegazione è semplice. Nelle nostre relazioni quotidiane, quelle “sociali”, il nostro modo di comportarci si veste di un “mantello delle apparenze” con cui cerchiamo di presentare all’altro la facciata migliore di noi stessi; ma quando entriamo in una relazione più profonda, deponiamo questo mantello difensivo, ci spogliamo e ci conosciamo nelle nostre qualità ma anche nei nostri difetti.
Questo avviene soprattutto nella vita coniugale; infatti, al termine di qualche anno la coppia raggiunge una tale intimità relazionale, fatta di una profonda conoscenza delle reciproche ricchezze e deficienze, da non potersi più nascondere agli occhi l’uno dell’altro. C’è un’intimità di relazione e un legame affettivo così forte che le vicendevoli mancanze d’amore saranno estremamente ferenti. È qui, dunque, che l’amore è più ferito ed è qui che il perdono è chiamato a diventare più forte e più profondo. Le ferite d’amore sono particolarmente intense nella relazione del bambino con i propri genitori, in quanto il piccolo è in una relazione di estrema vulnerabilità con i suoi genitori. Questo fa sì che le ferite più profonde siano quelle della primissima infanzia. A fianco di queste ci sono poi le ferite della relazione coniugale e quelle che provengono da relazioni di amicizia molto forte.
Abbiamo perciò bisogno di capire bene il comando di Gesù: «Amate i vostri nemici». Quando Gesù ci chiede di amare i nostri nemici, noi pensiamo che si tratti di amare coloro che non ci amano, dimenticando che colui che ci ferisce di più è proprio «l’amico in cui confidavo, colui che mangia il mio pane»... e che nonostante questa intimità «alza contro di me il suo calcagno» (Sal 41, 10). Dice ancora il salmista:
«Se mi avesse insultato un nemico,
l’avrei sopportato;
se fosse insorto contro di me un avversario,
da lui mi sarei nascosto.
Ma sei tu, mio compagno,
mio amico e confidente;
ci legava una dolce amicizia,
verso la casa di Dio
camminavamo in festa»
(Sal 55, 13-15).
È evidente che Giuda ha ferito Gesù molto più profondamente di qualsiasi fariseo, perché era suo amico, suo intimo. Così Pietro, che lo ha rinnegato, e i discepoli, che sono fuggiti al momento della passione, hanno ferito profondamente Gesù, tanto che questa deve essere stata una delle sue sofferenze più grandi. Perciò, quando Gesù ci dice di amare i nostri nemici, non abbiamo bisogno di andare tanto lontano a cercarli, perché i nostri nemici sono quelli “della nostra casa”, quelli che noi amiamo e che dicono di amarci! Se io accetto di fare verità in me, scoprirò che verso coloro che amo sperimento dei risentimenti, delle rivolte, delle aggressività interiori come reazione al mio dolore di constatare che colui/colei che amo mi ferisce. Così, non solo l’altro è il mio nemico, ma l’inimicizia che porto in me mi fa diventare il suo nemico.
Spesso evitiamo di prendere coscienza di queste emozioni e di questi sentimenti che ci abitano e siamo tentati di rimuovere tutto con un colpo di spugna, negando la verità. Così facendo, ci difendiamo per evitare di soffrire, ma nello stesso tempo accumuliamo sempre più ferite, finché, col passare degli anni, tutto finisce per riemergere e allora il cammino del perdono si fa indispensabile.

La “scelta” del perdono
Il nostro vissuto e la nostra esperienza quotidiana ci confermano questo stretto legame di amore e perdono. Infatti scopriamo che, se vogliamo amare, ci incontriamo con la necessità di perdonare; e, se vogliamo perdonare, non possiamo farlo senza prendere la decisione di amare. È importante, perciò, diventare consapevoli che abbiamo bisogno di ricevere e di dare il perdono. Questa è una prima presa di coscienza necessaria perché ci permette di fare delle scelte. Infatti decidere di amare e di perdonare significa attivare la nostra volontà nello scegliere non di “sentire” rassicuranti sentimenti dolciastri di amore, ma di compiere autentici gesti di perdono e amore. Spesso si sente dire: «vorrei perdonare ma non ne sono capace...». Fortunatamente! Dio sa che non sei capace ed è per questo che non ti chiede se puoi, ma se vuoi, perché il potere appartiene a lui, mentre la decisione volontaria è tua.
Eccoci allora confrontati non più con il “non posso”, ma con il “non voglio”. Ed ecco allora la grande scoperta: perdonare è accogliere un dono di Dio, dono gratuito, grazia che si chiede e si accoglie quotidianamente in un movimento dinamico che ci fa comprendere come il perdono non sia uno stato ma un cammino di conversione. L’importante per tutti è intraprenderlo!

Un percorso spirituale per crescere nella capacità di perdonare
Poiché nel perdono da ricevere e da dare sono coinvolte tre persone (l’altro, Dio e me stesso), da chi cominciare? La risposta è questa: da me. È impossibile, infatti, amare Dio senza amare il prossimo ed è impossibile amare il prossimo senza amare se stessi. Ma come amare se stessi? Di seguito suggerisco quattro tappe per un cammino di crescita nella capacità di amare se stessi:

prima tappa: lasciarsi amare da Dio.
Questo significa entrare nello sguardo che Dio porta su di me, cosa possibile attraverso la preghiera, la meditazione della Parola, la ricezione dei sacramenti.
Seconda tappa: perdonare Dio.
Chiaramente, questa è una realtà psicologica senza alcun fondamento teologico. Tuttavia è molto importante prendere coscienza delle accuse che noi muoviamo a Dio rendendolo responsabile delle nostre sofferenze. Ciò avviene perché abbiamo delle false immagini di lui, che sono legate al nostro vissuto parentale; ad esse perciò dovremmo rinunciare, per scoprire attraverso la fede la verità di un Dio di amore e di misericordia.
Terza tappa: chiedere perdono a Dio.
Nel farlo, scopriamo che siamo noi che lo crocifiggiamo e che lui reagisce perdonandoci ed amandoci. Chiedere perdono sarà allora rinunciare a tenerlo fuori dalla nostra vita e accettare la sua Paternità su di noi.
Quarta tappa: perdonare noi stessi e accettarsi così come siamo.
Significa riconciliarsi interiormente, vale a dire far pace dentro di noi tra il figlio maggiore e quello minore. Ognuno di noi, infatti, porta in sé la presenza dei due figli:
- il maggiore è il virtuoso, il forte, quello che ha doni, qualità, zelo, che moltiplica le opere per Dio ma giudica e condanna, quello che tira verso l’alto e tende all’esaltazione;
- il minore è il debole, il miserabile, quello che è pieno di sensi di colpa, triste e pauroso. Pur avendo una certa sensibilità e compassione per i piccoli, si reputa un incapace, tira verso il basso e tende alla depressione.
La riconciliazione dei due figli significa l’accettazione da parte di ciascuno di essi dell’esistenza dell’altro e la rinuncia a voler occupare tutto lo spazio vitale. Amarmi significherà allora vedermi come Dio mi vede: una meraviglia e una miseria. Una meraviglia perché rivestita della bellezza della sua Immagine; una miseria per il peccato che mi defigura. Eppure proprio questo peccato che mi separa da Dio attira verso di me la Sua divina misericordia! Perciò, se gusterò di questa misericordia, diventerò anch’io capace di fare misericordia nelle relazioni quotidiane con gli altri, poiché è possibile dare solo ciò che si è ricevuto.

Ecco infine alcuni piccoli mezzi per perdonare l’altro:

1°: domandare il desiderio di perdonare; 
2°: pregare per lui; 
3°: scusarlo; 
4°: offrire la propria ferita per lui; 
5°: fare un gesto concreto (lettera, telefonata, compleanno ...); 
6°: aprirsi alla misericordia,
perché il perdono sarà effettivo quando avrò compassione e misericordia per la persona che mi ha ferito. 
Perdonando, scopriamo dunque in noi stessi la potenza di Dio e l’opera della grazia che è in lui. Questo costituisce l’esperienza della vita nello Spirito e la rivelazione che Dio “ci abita”.

Perdono: cammino di conversione

Nelle catechesi già pubblicate abbiamo preso coscienza che ogni sofferenza porta in sé una ferita di relazione d'amore che può essere curata solo con l'amore; abbiamo chiamato questo amore “perdono”. Ora analizziamo le tappe dell'itinerario che dobbiamo percorrere per giungere alla scelta di perdonare e riconciliarci con il prossimo, ma anche con noi stessi.

Il perdono è la medicina più importante per guarire la relazione con se stessi, con gli altri e con Dio. È una medicina “salvavita” e, come tale, va assunta quotidianamente. Ogni giorno noi tutti ci confrontiamo con la necessità di perdonare: o i genitori, o il coniuge, o i figli, o i fratelli e le sorelle della comunità, o i colleghi di lavoro... Il perdono modifica i nostri rapporti perché cambia il nostro atteggiamento verso l'offensore e ci rende consapevoli di quanto desideriamo e siamo disponibili a ricostruire la relazione incrinata. Il desiderio e la disponibilità a perdonare sono, perciò, alla base di ogni perdono ma diventano effettivi solo con l’“atto del far pace”.
Questo atto non è automatico né si esaurisce in una buona intenzione, ma esige alcune rinunce spesso dolorose che implicano un travaglio di lutto di cui è necessario conoscere le tappe. Prenderemo in considerazione le tappe usate dalla dottoressa Elisabeth Kubler-Ross nell'accompagnamento dei malati terminali. Perché? Per l'analogia esistente fra il cammino necessario ad affrontare la nostra morte corporale e quello dell'affrontare la rinuncia, la morte a se stessi contenuta nel perdono; infatti morte corporale e morte a se stessi hanno bisogno entrambi di un lavoro di riconciliazione che si attua attraverso rinunce e accettazioni, vale a dire attraverso un movimento pasquale di morte-risurrezione.
Una tale analogia ci spinge ad affermare che la pace e la serenità con cui affronteremo la nostra morte corporale dipenderanno molto da come avremo vissuto quotidianamente le nostre riconciliazioni attraverso il morire a se stessi. Perché, allora non osare suggerire un'altra funzione del perdono, quella di essere un'eccellente preparazione alla morte? Per questo sono necessari accompagnatori che siano formati nella compassione (molta ed essenziale) e nella conoscenza dell'uomo (necessaria, anche se poca) per guidare e sostenere i fratelli in questo difficile cammino di riconciliazione. La conoscenza di queste tappe rientra in quella “competenza” di cui dovrebbero avvalersi soprattutto gli accompagnatori. Tali tappe non hanno i contorni ben definiti, come in uno schema rigido perciò, anche se noi le prenderemo in considerazione in maniera successiva, tuttavia esse, vanno sempre ritenute un tutto armonico da custodire evitando tagli arbitrari.
Per ogni tappa diremo:
- la definizione;
- la speranza;
- i sentimenti espressi;
- la rinuncia da farsi;
- le scelte di aiuto.
Lo diremo in modo sintetico e, speriamo, comprensibile tanto da suscitare in noi tutti il desiderio di approfondire un argomento con il quale ciascuno di noi è più o meno profondamente confrontato.

I tappa: è la rivelazione, cioè la presa di coscienza, a volte scioccante, della propria parte di responsabilità nel conflitto relazionale e, quindi, della necessità di dare il perdono, ma anche di chiederlo; la speranza non è ancora espressa; i sentimenti sono di smarrimento e ancora poco espressi; la rinuncia è teorica, in quanto si sa che per perdonare bisogna morire a se stessi; l’aiuto da dare è quello di accompagnare la persona nel rispetto e nella preghiera.
A questa prima tappa succede, quasi simultaneamente, la seguente.

II tappa: è la negazione, ovvero il rifiuto di guardare in faccia la realtà; sopravvengono sentimenti di paura e di ansia che provocano sofferenza che si cerca di fuggire attraverso compensazioni di vario genere quali, per esempio, la bulimia, l'alcool, la droga, il sesso, i viaggi, il lavoro eccessivo ecc.; è una reazione arcaica di difesa verso una realtà troppo dura da affrontare in quel momento. La speranza è che non sia vero, che non sia necessario chiedere perdono; ci si aspetta una soluzione miracolosa del problema. La rinuncia è quella di rifiutarsi di attraversare la sofferenza implicita nel morire a se stessi. L'aiuto da dare è quello di un ascolto rispettoso del ritmo di marcia della persona, rispetto che si esplicita sia nell'evitare di far crollare precipitosamente il suddetto sistema difensivo, sia nell'evitare di mantenere la persona in questa tappa di negazione poiché le si toglierebbe la possibilità di fare il necessario travaglio di lutto.

III tappa: è la rivolta; essa è distinta dalla collera. Di quest'ultima, infatti, prendiamo coscienza ogni volta che c'è una ferita, un'ingiustizia subita, una situazione dolorosa impostami contro la mia volontà ecc.; questa collera è il grido della sofferenza e, come tale, persisterà finché vivremo sulla terra. La rivolta, invece, è la reazione, spesso inconscia, di risentimento e di odio verso la/le persone che ci hanno ferito; la presa di coscienza della mia parte di responsabilità nel conflitto provoca una rivolta esplicita attraverso l'esprimersi di sentimenti quali la rabbia, l'aggressività, la regressione, la violenza, il rifiuto di chiedere perdono... La speranza accarezzata è quella di trovare una nuova e diversa soluzione. La rinuncia si esprime attraverso il rifiuto di rinunciare alla propria rivolta che si reputa giusta. L'aiuto da dare è quello di non impedire l'espressione di questi sentimenti, che possono essere considerati come l'espressione aggressiva di una grande angoscia, perciò ascoltare con compassione senza interventi moraleggianti; c'è, infatti, in questo momento - come in tutto il cammino un bisogno profondo di sentirsi amati e accettati per ciò che si è. Questa fase è, molto spesso, mescolata con la quarta tappa.

IV tappa: è la depressione reattiva; essa è rivolta al passato e traduce il pensiero di non aver capito nulla e di avere sempre sbagliato nella vita. I sentimenti sono di paura, di tristezza, a volte persino disperazione... La speranza è che la scadenza della riconciliazione sia ancora lontana. La rinuncia che si impone, e che provoca questo primo stato di abbattimento, è quella di abbandonare certi meccanismi difensivi. L'aiuto da dare sarà quello di accettare questa tristezza attraverso un ascolto paziente, una sicura e fedele presenza, spesso silenziosa, e un sostegno spirituale. È il momento in cui è possibile fare una nuova rilettura dell'evento e, quindi, della propria vita scoprendone i tanti elementi positivi. Ci introduciamo, allora, nella quinta tappa.

V tappa: è il mercanteggiamento, il "sì-ma", il "d'accordo-però", vale a dire: metto davanti un'infinità di motivazioni che mi permettono di dire che forse non sono io a dover fare il primo passo o che, se anche lo facessi, non è sicuro che esso avrà un esito positivo. Questo mi permette di rimanere in una situazione dove non si muove nulla. È un tentativo di fuga che mi spinge a cercare una soluzione diversa da quella che si rende realisticamente necessaria. I sentimenti espressi sono agitazione, inquietudine, ricatto, aumento di attitudini magiche il cui scopo è quello di esorcizzare la realtà da affrontare. La speranza è quella di un cambiamento improvviso della situazione. La rinuncia necessaria - e che non si vuol fare - è quella di lasciare questi tentativi di fuga irreali e illusori. L'aiuto da dare è sempre quello dell'ascolto che non impedisce l'espressione di questo travaglio e che, perciò, rassicura ma che, tuttavia, non rinforza. Questa è una fase che si trova spesso mescolata con le altre e, in modo particolare, con la rivolta. La sua risoluzione apre la persona alla sesta tappa.

VI tappa: è la depressione per anticipazione, essa è una reazione riguardante il futuro. I sentimenti espressi sono: paura di diventare vulnerabili, di essere respinti, dubbio, angoscia... La speranza è quella di essere capiti, accolti, amati. La rinuncia alla mia “giusta ragione”, che era il mio punto forte di riferimento, si fa sempre più angosciante. L'aiuto da dare è il dialogo con una presenza più serrata e con un aiuto nel trovare nuovi punti di riferimento per poter creare legami più spirituali. È una fase molto importante, perché apre alla dimensione spirituale che è quella non più di fare ma di “lasciar fare”, di accogliere il dono di Dio. Questa tappa esprime l'abbandono dei sistemi difensivi, perciò è segnata dall'angoscia.
I tentativi di fuggire questa dura realtà del morire a se stessi si fanno più frequenti fra le due depressioni - quella reattiva e quella anticipatoria -, per cui vediamo spesso risorgere vecchie modalità di compensazione o di consolazioni egocentriche. Il superamento di questa tappa porta alla settima tappa.

VII tappa: è l'accettazione, cioè il riconoscimento dei propri errori e l'accettazione di riconciliarci. I sentimenti espressi sono la pace, la gioia e, soprattutto, la serenità. E il momento in cui mi apro al perdono, all'offerta e il perdono diventa effettivo.
Infatti la rinuncia alla mia rivolta è così reale da portare, come logica conseguenza, l' accettazione della mia vulnerabilità, l’accettazione dell'altro e la gioiosa scoperta che ciò che vivo non solo ha un senso, ma vi trovo un considerevole guadagno umano e spirituale. Capisco, attraverso questa dolorosa e felice esperienza la parola di Gesù: «Colui che vuole salvare la propria vita la perderà, ma colui che perderà la sua vita per me la troverà» (cf Gv 12, 25). Scopro che il travaglio di lutto ha prodotto il frutto di un amore più grande e più libero perché non più nascosto da veli difensivi.
La speranza sarà quella di incontrare l'altro e di amarlo sempre di più. L'aiuto da dare sarà quello di aiutare la persona a discernere ciò che conviene fare e come agire nella nuova situazione.
L'accettazione ha, ormai, preparato il terreno per una irruzione dello Spirito Santo recante in dono l'amore stesso di Gesù vale a dire l'amore-agape, l'amore dei nemici. La persona sperimenta questo agire divino in lei, tanto che desidera circondarsi di coloro che l'hanno maggiormente ferita e desidera ardentemente una riconciliazione profonda. È il momento di aiutarla nel favorire incontri di riconciliazione. Più la riconciliazione diventa un atto effettivo, più la persona viene introdotta dallo Spirito Santo stesso nella dimensione dell'offerta, ben espressa da: «è bene che lui cresca e io diminuisca» (cf Gv 3, 30), e “non c'è amore più grande di quello che dà la vita...» (cf Gv 15, 13).

A conclusione di questa veloce presentazione ecco alcune considerazioni importanti per tutti, ma essenziali per coloro che accompagnano i fratelli/sorelle in questo cammino di perdono:

- il tempo: infatti il travaglio di lutto implica la necessità del tempo, poiché ogni rinuncia può essere “digerita” solo lentamente;

- sentire e aver perdonato sono due dimensioni diverse; infatti possiamo essere in un serio cammino di perdono senza, tuttavia, sentire di avere perdonato;

- rimettersi in cammino: si può restare bloccati anche a lungo su una delle suddette tappe, ma ciò che importa è non arrendersi e chiedere a Dio il desiderio di voler continuare il cammino pur nella sofferenza, e chiedere ai fratelli l'aiuto spirituale e umano necessario al “viaggio”;

- ridare speranza: se è vero che ogni tappa esige di essere espressa, tuttavia essa non è la meta e, quindi, può e deve essere superata;

- cammino di conversione personale a cui il Signore ci chiama a lavorare ogni giorno.

- distinguere la riconciliazione dal perdono: il perdono non sempre porta alla riconciliazione. Infatti quest'ultima presuppone la partecipazione di due persone, l'offensore e l'offeso; essa si attua quando l'offensore non solo chiede perdono ma cambia concretamente il suo atteggiamento verso l'offeso. Il cammino dell'offensore è, perciò, un cammino di pentimento e di conversione mente il cammino dell'offeso è quello della misericordia che non solo rinuncia a vendicarsi per l'ingiustizia subita ma apre le braccia all'offensore. È sempre possibile riconciliarsi con Dio perché lui è sempre pronto al perdono, ma questo è molto più difficile con i fratelli. Infatti io posso essere disposto a chiedere o a dare il perdono nel mio cuore senza, però, trovare la stessa disponibilità nell'altro; diciamo, perciò che se io sono padrone del mio perdono non sono altrettanto padrone del perdono dell'altro.
Questo ci rende realistici facendoci comprendere che molti perdoni non sfoceranno mai in riconciliazioni. Ciò che noi possiamo fare è preoccuparci del nostro cammino di conversione attraverso il nostro perdono e portare nella preghiera la persona e che rifiutano la loro parte di partecipazione nella riconciliazione. Ricordiamoci sempre che non siamo noi a convertire i nostri fratelli ma solo il Signore, perciò il nostro compito è amarli e pregare per loro.
Questo e tutto il “resto” è nelle mani misericordiose, fedeli, giuste, sane e potenti di Gesù, nostro unico salvatore e Signore.

PER UNA VERIFICA PERSONALE E COMUNITARIA

• Ti consideri più vittima o più persecutore? Pensi, perciò, di avere più perdono da dare o da ricevere?

• Chi ti ha aiutato o chi ti aiuta a fare un giusto discernimento sui torti fatti o subiti?

• Cosa è cambiato in te e nelle tue relazioni dopo un'esperienza di perdono?

• Diceva Antonio Bello, vescovo di Molfetta: “La pace sia il traguardo dei nostri impegni quotidiani”. Lo è anche per te? Se non lo è, cosa ti impedisce che lo sia?

• La vita di gruppo con la preghiera, l'ascolto della Parola e la comunione fraterna ti aiutano a realizzare tale programma di pace? Come?

Tratto da "Rinnovamento nello Spirito Santo" marzo/aprile/luglio 2000

                                      

               TORNA A CATECHESI