DALL'UOMO
VECCHIO ALL'UOMO NUOVO
Padre Raniero
Cantalamessa
Da un insegnamento tenuto a Rimini il 26 aprile 1985, durante l'VIII Convocazione Nazionale del Rinnovamento nello Spirito Santo
Se
si confrontano i testi del Nuovo Testamento sul deporre l'uomo vecchio e sul
rivestire il nuovo, si nota una singolare oscillazione. Una volta l'Apostolo
dice: "Dovete deporre l'uomo vecchio con la condotta di prima, l'uomo che
si corrompe dietro le passioni ingannatrici e dovete rinnovarvi nello spirito
della vostra mente e rivestire l'uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia
e nella santità vera" (Ef 4,22-24). In questo testo, deporre l'uomo
vecchio e rivestire l'uomo nuovo è un imperativo, qualcosa che sta davanti a
noi e che bisogna realizzare nella vita. Se ora passiamo a un altro testo
dell'Apostolo, notiamo che tutto ciò è presentato, invece, come qualcosa che
è già avvenuto e che è dietro di noi: "Vi siete spogliati dell'uomo
vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova per una
piena conoscenza, ad immagine del suo creatore" (Col 3,9- 10).
La stessa oscillazione si ripete quando si tratta di "rivestirsi di
Cristo". A volte esso è un comando, una cosa da fare: "Rivestitevi
del Signore Gesù Cristo!" (Rm 13,14); altre volte esso è presentato come
una cosa già avvenuta nel battesimo: "Quanti siete stati battezzati in
Cristo vi siete rivestiti di Cristo" (Gai 3,27).
Cosa vuole dire l'esistenza di questa duplice serie di espressioni? La Parola di
Dio è forse in contraddizione con se stessa? Al contrario, proprio questo fatto
contiene l'insegnamento fondamentale intorno al nostro tema. Ci dice che il
passaggio dall'uomo vecchio all'uomo nuovo è, nello stesso tempo, opera nostra
e opera di Dio, opera da compiere e opera già compiuta.
Prima che una decisione, o un programma ascetico, la realizzazione dell'uomo
nuovo è un grandioso avvenimento accaduto nella storia e il cui effetto ci ha
raggiunto, singolarmente, nel battesimo. Prima che essere opera nostra, è stata
opera di Dio. Essa coincide, infatti, con il passaggio dalla vecchia alla nuova
alleanza, dalla lettera allo Spirito, dalla legge alla grazia. Noi dobbiamo
scoprire cosa siamo diventati nel battesimo, per sapere cosa dobbiamo fare nella
vita. Il nostro dovere scaturisce dal nostro essere: "Se viviamo dello
Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito" (Gal 5,25).
Il Rinnovamento nello Spirito trova proprio qui la sua maggiore novità e utilità,
cioè nell'aiutare i credenti a riscoprire ciò che sono, la realtà divina che
recano in sé, per poter compiere più facilmente ciò che il Vangelo chiede ad
essi, e compierlo non più per obbligo, ma per gratitudine, non per timore ma
per amore.
Questo mio discorso si indirizza in modo speciale ai giovani, anche se, vedremo,
tocca, nella sostanza, ognuno di noi. Il nostro incontro qui a Rimini -
nell'anno mondiale della gioventù e all'indomani dell'appassionato appello
rivolto dal Sommo Pontefice ai giovani, nella Domenica delle Palme - deve
servire a svelare quale potenziale di luce, di novità, di speranza, il
Rinnovamento nello Spirito racchiude per i giovani d'oggi; quali traguardi
spirituali esso può additare ai loro cuori generosi. Non, certo, il
Rinnovamento nello Spirito in se stesso, come insieme di persone, ma piuttosto
lo Spirito Santo che il Rinnovamento vuole aiutare a fare riscoprire.
Il Rinnovamento non si pone, in ciò, in alternativa né, tanto meno, in
opposizione o in competizione con altre forze ecclesiali che pure si rivolgono
ai giovani. Il suo compito non è quello di tracciare ai giovani dei programmi
sui modi di vivere la loro fede e di tradurla in scelte operative sul piano
culturale e politico, ma è quello di indicare dove trovare la forza per
realizzare tutti i programmi, e cioè nello Spirito Santo. Il suo contributo è
dunque umile, in un certo senso il più umile che ci sia, perché non ha nulla
di proprio da offrire, nulla che sia frutto di proprio discernimento, o
invenzione, o programmazione. Quello che propone è di tutti i cristiani allo
stesso modo; tutti lo posseggono. E' il dato cristiano originario, prima delle
sue diverse storicizzazioni e diversificazioni contingenti. Per questo, esso è
"utile a tutto", come si dice della pietà (cfr. 1 Tiri 4,8). Non è
neppure un movimento, nello stesso senso degli altri; non ha infatti né
fondatoti né teorici. Non dovrebbe averne. Il Rinnovamento perciò stima ed è
grato ai fratelli di fede che si assumono il peso non facile di fare il passo
successivo, additando modelli operativi per tradurre la fede nelle diverse
situazioni della vita.
L'apostolo S. Giovanni, nella prima lettera, dice: "Ho scritto a voi,
giovani, perché siete forti, e la parola di Dio dimora in voi e avete vinto il
maligno" (1 Gv 2,14). lo oso fare mie queste parole e dire: Parlo a voi,
giovani, per aiutarvi a prendere coscienza che siete forti, che "quello che
è in voi è più forte di quello che è nel mondo" (cfr. 1 Gv 4,4) e per
esortarvi a essere sempre più forti; per ricordarvi che siete uomini nuovi e
per esortarvi a divenirlo sempre di più.
Divido il mio insegnamento, in accordo con le premesse fatte sopra, in due
parti. Nella prima tratterò del passaggio dall'uomo vecchio all'uomo nuovo in
quanto opera di Dio già compiuta; nella seconda, del passaggio dall'uomo
vecchio all'uomo nuovo in quanto opera nostra, da compiere sempre di nuovo.
I.
DALL'UOMO VECCHIO ALL'UOMO NUOVO: UN PASSAGGIO COMPIUTO
Il tema del passaggio dall'uomo vecchio all'uomo nuovo, o - ciò che è lo
stesso - dal vivere secondo la carne al vivere secondo lo Spirito, è svolto da
S. Paolo soprattutto nel testo di Rm 8,1-13. Esso comincia così: "Non c'è
più dunque nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù. Poiché la
legge dello Spirito che dà vita in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del
peccato e della morte". Tutto il discorso sullo Spirito è svolto qui in
contrappunto al discorso sulla legge. Anzi, lo Spirito stesso è definito legge:
"la legge dello Spirito" significa infatti "la legge che è lo
Spirito".
Questo ci appare sorprendente, perché se ci sono due cose che, secondo
l'opinione comune, si escludono a vicenda, queste sono proprio lo spirito e la
legge e se si parla talvolta di uno l'spirito della legge", mai si parla
però di una 1egge dello spirito". Non è così per la Bibbia e per
convincercene basta che risaliamo all'avvenimento dello Spirito, che è la
Pentecoste.
Nell'Antico Testamento sono esistite due interpretazioni fondamentali della
festa di Pentecoste. All'inizio, la Pentecoste era "la festa delle sette
settimane" (cfr. Tb 2, 1 ), la festa del raccolto" (cfr. Nm 28,26ss),
quando si offriva a Dio la primizia del grano (cfr. Es 23,16; Di 16,9). Ma
successivamente, al tempo di Gesù, la festa si era arricchita di un nuovo
significato. Era la festa del conferimento della legge sul Sinai e
dell'alleanza; la festa che commemorava, insomma, gli eventi narrati in Esodo
19-20. Secondo calcoli interni alla Bibbia, la legge infatti fu data sul Sinai
cinquanta giorni dopo la celebrazione della Pasqua e l'uscita dall'Egitto. Sul
Sinai Dio diede a Mosè la legge, il decalogo, stabilendo, sulla base di essa,
un'alleanza con il popolo e facendo di esso "un regno di sacerdoti e una
gente santa" (cfr. Es 19,4-6). Sembra che Luca, negli Atti, abbia
volutamente descritto la venuta dello Spirito Santo sugli Apostoli con i tratti
che contrassegnarono la teofania del Sinai.
Cosa ci dice, della nostra Pentecoste, questo accostamento? Che significa, in
altre parole, il fatto che lo Spirito Santo scende sulla Chiesa proprio nel
giorno in cui in Israele si ricordava il dono della legge e dell'alleanza? A
questo punto la risposta è chiara: è per indicare che egli, lo Spirito Santo,
è la legge nuova, la legge spirituale, che suggella la nuova ed eterna alleanza
e che consacra il nuovo popolo regale e sacerdotale che è la Chiesa. Che
rivelazione grandiosa sul senso della Pentecoste e sullo stesso Spirito Santo!
Di colpo, si illuminano le profezie di Geremia e di Ezechiele sulla nuova
alleanza: "Questa sarà l'alleanza che io concluderò con la casa d'Israele
dopo quei giorni, dice il Signore: "Porrò la mia legge nel loro animo, la
scriverò sul loro cuore", (Ger 31,33). Non più dunque su tavole di
pietra, ma sui cuori; non più una legge esterna, ma una legge interiore.
Ezechiele precisa in che consiste questa legge interiore: "Vi darò un
cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo... Porrò il mio Spirito
dentro di voi" (Ez 36,26ss). La nuova legge è lo "spirito
nuovo", lo Spirito Santo.
S. Paolo allude chiaramente alla realizzazione di queste profezie, quando chiama
la comunità della nuova alleanza una "lettera di Cristo, composta non con
inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma sulle
tavole di carne dei cuori" (cfr. 2 Cor 3,3).
La
legge e la grazia
La grande differenza tra le due leggi, dice l'Apostolo, è che la legge nuova dà
la vita, mentre la legge vecchia no: "La legge dello Spirito che dà vita
in Cristo Gesù ti ha liberato dalla legge del peccato e della morte" (Rm
8,2). La legge mosaica - e, con essa, ogni legge positiva - essendo una nonna
esteriore all'uomo, non modifica la sua situazione interiore; non toglie il
peccato, ma lo rivela; non dà la vita, ma mette solo in luce il suo stato di
morte.
Il motivo di ciò è il seguente. Il peccato, a cominciare da quello di Adamo,
è consistito nell'aver voluto essere come Dio, nell'aver desiderato e pensato
di poter esistere senza di lui. Non è il peccato che deriva dalla trasgressione
della legge, ma è la trasgressione della legge che deriva dal peccato. Il
peccato originale si situa prima della stessa trasgressione del precetto divino;
è nell'essersi disamorati di Dio e nell'essersi messi interiormente in
contrasto con lui. La disobbedienza alla legge di non mangiare dall'albero è la
manifestazione e l'effetto di questo contrasto interiore, come, fino a quel
momento, l'osservanza della stessa legge era stata l'effetto, non la causa,
dell'interiore amicizia con Dio. La vita e la morte vengono prima della legge;
si tratta di qualcosa che avviene nel profondo del cuore umano e di cui la
legge, in un caso come nell'altro, cioè sia nell'osservanza come nella
trasgressione, non è che la manifestazione.
Ecco perché il peccato di fondo che è l'egoismo, l'amore di sé contro Dio,
non può essere tolto dalla legge, ma solo se verrà ristabilito quello stato di
amicizia che c'era all'origine e che il serpente, per invidia, ha indotto l'uomo
a distruggere. Ed è proprio questo ciò che è avvenuto con la redenzione
operata da Cristo: "Ciò che era impossibile alla legge... Dio lo ha reso
possibile, mandando il proprio Figlio" (Rm 8,3). Gesù, infatti, grazie
alla sua morte e risurrezione, a Pentecoste e, singolarmente, nel battesimo, ci
ha donato il suo Spirito che è lo stesso Spirito Santo che possedeva lui. Lo
Spirito, venendo nell'uomo, cambia il suo Stato interiore. Finché l'uomo vuole
essere come Dio e vive in regime di peccato, Dio gli appare inevitabilmente come
l'avversario, come l'ostacolo. C'è tra lui e Dio una sorda inimicizia che la
legge non fa che mettere in evidenza. L'uomo egoista "concupisce",
vuole determinate cose e Dio è colui che, attraverso i suoi comandamenti, gli
sbarra la strada, opponendosi a tali desideri con i suoi "Tu devi... Tu
non devi!". "I
desideri della carne sono in rivolta contro Dio, perhé non si sottomettono alla
sua legge " (Rm 8,7).
Nella grazia, Dio cessa di essere l'altro, l'ostacolo. Non perché l'uomo cambia
la sua tendenza innata (non per le opere!), ma perché Dio viene verso di lui e
annulla, di sua iniziativa, grazie al sangue di Cristo, l'inimicizia. Ecco
allora la novità recata dallo Spirito a Pentecoste: mentre prima l'uomo portava
conficcato nel fondo del cuore un sordo rancore contro Dio, ora lo Spirito Santo
viene in lui da parte di Dio, suscita in lui un altro uomo che ama Dio e fa
volentieri le cose che egli gli comanda. Lo Spirito infatti gli attesta che Dio
gli è favorevole, che è suo alleato, non nemico; gli mette sotto gli occhi
tutto ciò che Dio Padre è stato capace di fare per lui in Cristo; come non
abbia risparmiato per lui il proprio Figlio. Conquista, insomma, il suo cuore,
sicché faccia volentieri ciò che egli gli comanda.
Dio, del resto, non si limita più a comandargli di fare o di non fare, ma fa
egli stesso con lui e in lui le cose che gli comanda. La legge, che è lo
Spirito, è dunque ben più che una indicazione di volontà; è un'azione, un
principio vivo e attivo. La legge nuova è la vita nuova. Per questo molto più
spesso che legge nuova è detta semplicemente grazia: "Non siete più sotto
la legge, ma sotto la grazia" (Rm 6,14; cfr. Gv 1, 17). Se Gesù definisce
la sua legge, in confronto a quella mosaica, "un giogo dolce e un peso
leggero" (cfr. Mt 11,30), non è perché essa è meno esigente di quella
mosaica (lo è incomparabilmente di più!), ma perché non è un giogo e un peso
che l'uomo deve portare da solo.
Il
comandamento nuovo
Ma come agisce, in concreto, questa legge nuova dello Spirito? Agisce attraverso
l'amore! Potremmo dire che la legge nuova altro non è se non quello che Gesù
chiama il comandamento nuovo. Lo Spirito Santo ha scritto la legge nuova nei
nostri cuori infondendo in essi l'amore. E' scritto infatti che l'amore di Dio
è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è
stato donato " (Rm 5,5). Non si tratta qui solo dell'amore con cui Dio ama
noi, ma anche dell'amore con cui Dio fa sì che noi amiamo lui e il prossimo; è
una capacità nuova di amare. L'amore è il segno e il rivelatore della vita
nuova dello Spirito: "Noi sappiamo - scrive S. Giovanni - che siamo passati
dalla morte alla vita perché amiamo i fratelli" (1 Gv 3,14).
L'amore è detto da Gesù comandamento nuovo, nonostante che esistesse già
nell'Antico Testamento, perché esso esisteva prima come un comandamento tra gli
altri comandamenti; esisteva come legge vecchia. La novità consiste nel fatto
che ora esso non è più "un" comandamento, ma "il"
comandamento. Non è soltanto l'oggetto dell'amore che è cambiato (si è
dilatato, infatti, fino ad abbracciare ogni uomo, e non soltanto il connazionale
e l'amico), ma anche la sua natura. Non si tratta infatti di un amore acquisito
con i propri sforzi, ma di un amore infuso in noi da Dio gratuitamente. Non è
più lettera, ma Spirito.
Se Gesù si fosse limitato a promulgare il comandamento nuovo, dicendo: "Vi
do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri" (Gv 13,34), esso
sarebbe rimasto, com'era prima, legge vecchia. L quando egli, a Pentecoste,
infonde, mediante lo Spirito, quell'amore nei cuori dei discepoli, che esso
diventa, a pieno titolo, legge nuova, legge dello Spirito che dà la vita. Ora
tale comandamento è doppiamente nuovo: non solo perché è nuovo, ma anche
perché fa nuovi; non solo in senso passivo, ma anche in senso attivo. "L
questo amore che ci rinnova - esclama S. Agostino - rendendoci uomini nuovi,
eredi del testamento nuovo, cari del cantico nuovo. Esso rinnova le genti,
raccoglie tutto il genere umano, sparso ovunque sulla terra, per farne un sol
popolo nuovo, il corpo della novella sposa dell'unigenito Figlio di Dio"
(In Ioh. 65, 1).
Chi si accosta al vangelo con la mentalità secolare trova strano che si faccia
dell'amore un "comandamento". Che amore è, si dice, se non è libero,
ma comandato? Per rispondere a questa obiezione dobbiamo sapere che vi sono due
modi secondo cui l'uomo può essere indotto a fare, o a non fare, una certa
cosa: o per costrizione, o per attrazione. La legge ve lo induce per
costrizione, con la minaccia del castigo; l'amore ve lo induce per attrazione.
Ciascuno è attratto da ciò che ama, senza che subisca alcuna costrizione.
L'amore è come un peso dell'anima che attira verso l'oggetto del proprio
desiderio, dove sa di trovare il proprio riposo.
In questo senso, l'amore è una legge, un comandamento: esso crea nel cristiano
un dinamismo che lo porta a fare tutto ciò che Dio vuole, spontaneamente, senza
neppure doverci pensare, perché ormai ha fatto sua la volontà di Dio e ama
tutto ciò che Dio ama. 1-:amore attinge la volontà di Dio alla sua stessa
sorgente, prima che venga codificata in leggi e prescrizioni scritte. Attinge,
nello Spirito, la vivente e santa volontà di Dio.
Essa, tuttavia, è anche la legge più impellente che ci sia, perché spinge a
fare cose così ardue quali nessuna legge scritta riuscirebbe a far compiere con
la minaccia del castigo. "Chi ama Vola, corre, giubila, è libero e nulla
potrà tenerlo... Spesso l'amore non conosce misura, ma divampa fuori misura.
L'amore non sente peso, non cura fatiche, vorrebbe fare più di quello che può;
non adduce a pretesto l'impossibilità, perché si crede lecito e possibile
tutto. L'amore si sente capace di qualsiasi cosa e molte cose fa e vi riesce,
mentre chi non ama viene meno e si arrende" (Imitazione di Cristo, 111,5).
Avviene cosi quando un giovane o una giovane sono afferrati dall'amore umano;
quanto più, dunque, se sono afferrati dall'amore divino?
Dall'uomo
vecchio all'uomo nuovo: un passaggio da compiere
A sentire descrivere questa nuova esistenza suscitata dallo Spirito e tutta
basata sull'amore, tanti, forse, si sono innamorati di essa. Proprio questo
voleva ottenere la Parola di Dio: suscitare in noi il desiderio ardente di
appartenere a questo nuovo mondo. Accanto al desiderio, però, può essere
affiorato anche un senso di scetticismo e di scoraggiamento: dov'è, qualcuno si
chiede, quella libertà, quella capacità di amare e di osservare i
comandamenti? Dov'è quella vita nuova? P dunque tutto solo una bella, ma
astratta teoria? E perché alcuni raggiungono tale vita nuova e tale libertà,
mentire altri no?
S. Paolo risponde con poche parole a tutte queste domande nel seguito del suo
testo: "Se con l'aiuto dello Spirito voi fate morire le opere della carne,
vivrete!" (Rm 8,13). E' stata pronunciata, così, la parola-chiave:
mortificazione. Dall'uomo vecchio all'uomo nuovo c'è un solo ponte e questo
ponte si chiama mortificazione. Ecco dove comincia la parte propriamente nostra.
Lo Spirito "dà la vita", ci ha detto l'Apostolo all'inizio del suo
testo, ma la dà "attraverso la mortificazione", ci dice ora al
termine di esso. Il battesimo ha fatto di noi degli uomini nuovi; ma questa
novità, per mantenersi, deve essa stessa rinnovarsi di giorno in giorno (cfr. 2
Cor 4,16). "Non pensare - scriveva Origene - che basti essere rinnovati una
volta sola; bisogna rinnovare la stessa novità: 'Ipsa novitas innovanda est`
(Origene, In Rom. 5,8; PG 14, 1042). La mortificazione dell'uomo vecchio è la
condizione perché ci sia questo continuo rinnovamento.
Lo Spirito dunque dà la vita, ma la dà attraverso la morte. Come per Gesù!
Egli fu "messo a morte nella carne" e per questo Dio lo rese
"vivo nello Spirito" (cfr. I Pt 3,18). Il vero uomo nuovo è Gesù;
non si può pervenire a essere uomini nuovi, se non "diventandogli conforme
nella morte" (cfr. Fil 3, 10). "Se con lui moriamo, con lui anche
vivremo" (2 Tm 2,11).
Quando noi parliamo della vita nuova nello Spirito, corriamo sempre il rischio
di intendere tale espressione alla maniera umana, come un potenziamento e un
accrescimento della precedente vita, come una risposta al nostro naturale
bisogno e istinto di vivere, come una nuova ondata di vitalità che ci pervade
piacevolmente corpo e anima. Invece vita nuova indica qualcosa di completamente
diverso e più radicale; indica, alla lettera, una nuova vita, una vita che
comincia daccapo, dopo l'intervento di una morte, Un viandante può dire di
avere imboccato una via "nuova" in due sensi: o perché la via che
percorreva prima è stata rinnovata, asfaltata, raddrizzata, o perché la via
che percorreva prima è arrivata a una svolta e si è affacciata su un'altra
strada. La vita nuova nello Spirito è nuova in questo secondo senso.
Accostiamoci
dunque e guardiamo con atteggiamento nuovo questo volto della mortificazione che
ci fa tanta paura. Gesù, una volta, disse: "Io sono la vera vite e il
Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e
ogni tralcio che porta frutto lo pota, perché porti più frutto" (Gv
15,1-2). La mortificazione ha la stessa funzione che ha la potatura. In noi è
stato innestato, nel battesimo, un germe di vita nuova. Guardiamo cosa avviene
in agricoltura, quando si pratica un innesto. Per un po' di tempo, si lascia
sussistere il resto dell'albero, perché non muoia il vecchio e il nuovo. Ma una
volta che l'innesto ha attecchito e ha messo le prime gemme, il contadino
taglia, pota, uno ad uno, tutti i rami dell'albero vecchio, altrimenti tutta la
forza dell'albero sarà assorbita da essi e servirà a produrre solo i frutti
selvatici che produceva prima.
Anche in noi permane, dopo il battesimo, il vecchio albero che è l'uomo
vecchio. I suoi rami sono le diverse passioni e i suoi frutti selvatici sono le
opere della carne. Di essi l'Apostolo ci dà, altrove, un elenco, dicendo che i
frutti della carne sono: fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria,
stregonerie, inimicizie, discordie, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni,
invidie, ubriachezze, orge e cose del genere (cfr. Gal 5,19-21).
La santità, come la scultura, si ottiene, "per arte di levare", cioè
eliminando le parti inutili. Si racconta che un giorno Michelangelo,
passeggiando in un cortile di Firenze, vide un blocco di marmo grezzo ricoperto
di polvere e fango. Si fermò di scatto a guardarlo, poi, come rischiarato da un
improvviso lampo, disse ai presenti: "In questo masso di pietra è nascosto
un angelo: voglio tirarlo fuori!". E si mise a lavorare di scalpello per
dare forma all'angelo che aveva intravisto.
Così è anche di noi. Noi siamo ancora dei massi
di pietra grezza, con addosso tanta "terra" e tanti pezzi inutili. Dio
Padre ci guarda e dice: 1n questo pezzo di pietra è nascosta l'immagine del mio
Figlio; voglio tirarla fuori, perché brilli in eterno accanto a me in
cielo!". Se d'ora in poi sentiamo dei colpi di scalpello e vediamo dei
pezzi di noi cadere a terra, cerchiamo di non ingannarci più. Non continuiamo a
dire: "Che ho fatto di male? Perché Dio mi castiga così".
Sforziamoci, piuttosto, di dire a noi stessi: "E' Dio che mi ama e vuole
formare in me l'immagine del suo Gesù. Resisti, anima mia!". La croce è
lo scalpello con cui Dio sci
plasma i suoi eletti. E stato sempre così.
I più generosi, non solo sopportano i colpi di scalpello che vengono
dall'esterno, ma collaborano anch'essi, per quanto è loro concesso, imponendosi
delle piccole, o grandi, mortificazioni volontarie e spezzando la loro volontà
vecchia. "Se vogliamo essere completamente liberati - diceva un Padre del
deserto - impariamo a spezzare la nostra volontà, e cosi, poco a poco, con
l'aiuto di Dio, avanzeremo e arriveremo alla piena liberazione dalle passioni.
E' possibile spezzare dieci volte la propria volontà in un tempo brevissimo e
vi dico come. Uno sta passeggiando e vede qualcosa; il suo pensiero gli dice:
'Guarda là!', ma lui risponde al suo pensiero: 'No, non guardo!', e spezza la
sua velontà' (Doroteo di Gaza, Insegnamenti 1,20; SCh 92, p. 177).
Questo Padre porta esempi tratti dalla vita monastica che però è facile
adattare ad altri stati di vita, per esempio a quello dei giovani. C'è uno
spettacolo malsano alla televisione, un manifesto provocante sul muro, una
rivista pornografica a portata di mano: l'uomo vecchio ti dice:
"Guarda!" e ti fornisce contemporaneamente cento pretesti e scuse per
farlo. Ma tu rispondi: "No!" e spezzi la tua volontà. C'è una
discussione frivola tra amici; si sta parlando male di qualcuno: il tuo uomo
vecchio ti dice: "Partecipa anche tu; di' quello che sai. Ma tu rispondi:
"No!". E mortifichi l'uomo vecchio. Passi accanto a un compagno, a una
compagna che non ami o che non ti ama e che ti è antipatico; il tuo orgoglio ti
dice: "Stai sulle tue, e non rivolgergli la parola!". E tu invece fai
un sorriso, dai un saluto, e vinci te stesso, spezzando il tuo orgoglio.
Incontri un povero, magari un forestiero, che sai ti chiederà qualcosa;
vorresti tirare diritto o cambiare strada, invece gli vai incontro per amore di
Gesù: hai fatto vincere l'uomo nuovo.
Molte nobili battaglie vengono additate, oggigiorno, da molte parti, ai giovani:
guerra alla droga, alla fame, alle ingiustizie, all'inquinamento, guerra alla
guerra... Gesù ne addita ad essi una che è diversa da tutte le altre, senza la
quale tutte le altre non sono che dei palliativi: la guerra al proprio
"io", all'uomo vecchio. La guerra contro se stessi.
Nel battesimo e nella cresima (e poi nell'effusione dello Spirito che ha
rinnovato, in molti di noi, questi sacramenti), noi siamo stati consacrati
soldati di Cristo. Ma non dobbiamo ingannarci. t questa anzitutto la guerra per
la quale siamo stati fatti soldati: "Prendi anche tu la tua parte di
sofferenza come un buon soldato di Cristo", scriveva S. Paolo al suo
giovane discepolo Timoteo (2 Tiri 2,3).
Dobbiamo fare il possibile, nel Rinnovamento nello Spirito, per riscattare la
parola "mortificazione" dal sospetto che grava su di essa. L'uomo
d'oggi, cedendo senza accorgersene ai richiami dell'uomO vecchio, si è creato
una filosofia speciale, per giustificare e anzi esaltare il soddisfacimento dei
propri istinti o, come si dice, delle proprie pulsioni naturali, vedendo in ciò
la via all'autorealizzazione della persona umana. Come se, in questo campo,
occorresse incoraggiare l'uomo con una apposita filosofia e non bastassero già,
da soli, la natura corrotta e l'egoismo umano!
La mortificazione è vana ed è anch'essa "opera della carne", se
fatta per se stessa, senza libertà, o, peggio, se fatta per accampare diritti
davanti a Dio o trarne vanto dinanzi agli uomini. ~ così, purtroppo, che molti
cristiani hanno conosciuto la mortificazione e ora hanno paura di ricadervi,
avendo gustato la libertà dello Spirito. Ma c'è un diverso modo di considerare
la mortificazione che la Parola di Dio ci ha additato, un modo tutto spirituale
e carismatico, perché discende dallo Spirito: "Se, con l'aiuto dello
Spirito, fate morire le opere della carne, vivrete!" (Rm 8,13). Questa
mortificazione è frutto dello Spirito ed è per la vita.
S. Francesco d'Assisi riconciliò gli uomini del suo tempo con la povertà che
tutti aborrivano, presentandola amorevolmente al mondo come una grande signora,
come "Madonna Povertà". lo vorrei fare lo stesso con la
mortificazione: presentarla a me stesso prima e poi a voi, come la sposa dello
Spirito, come colei che si unisce allo Spirito per darci la vita. Come
"Madonna Mortificazione"!
La mortificazione custodisce l'amore. "Se un uomo - scrive Kierkegaard -
dice veramente e con sincerità: 'Dio è amore', costui non ha, per ciò stesso,
che un unico desiderio: quello di amare Dio che è amore, con tutto il suo
cuore, con tutte le sue forze. Quando Dio scopre un uomo che abbia un tale
desiderio, subito gli dice: 'Sì, mio caro bambino, io ti sarò di aiuto, ti
aiuterò a mortificarti perché senza questo tu non mi puoi amare'. Considera
una situazione puramente umana. Se un amante non può parlare la lingua
dell'amata, allora o lui o lei deve imparare la lingua dell'altro per difficile
che sia, poiché altrimenti il loro rapporto non potrebbe diventare un rapporto
felice, essi non potrebbero mai conversare insieme. E così anche con il
mortificarsi per amore di Dio. Dio è Spirito; solo chi è mortificato, può, in
qualche modo, parlare il suo linguaggio. Se non ti vuoi mortificare, allora non
puoi neppure amare Dio; tu parli infatti di tutt'altre cose da lui"
(Diario, a cura di C. Fabro, Brescia 1963, n. 2709).
"Prendete
il mio giogo su di voi! "
Ora vorrei raccogliere l'appello che scaturisce da tutto ciò che abbiamo
ascoltato. E Gesù stesso che ci rivolge, dal vangelo, tale appello, dicendo:
"Prendete il mio giogo sopra di voi!" (Mi 11,29). L'immagine del giogo
è usata spesso nella Bibbia per indicare la legge. Anche la legge nuova di
Cristo, la legge dello Spirito, è un giogo, qualcosa che costa sacrificio
all'umanità decaduta, che "pesa" all'uomo vecchio, perché richiede
mortificazione, rinnegamento di sé. Ma è un giogo "dolce", un peso
1eggero". Che cos'è che rende questo giogo dolce, amabile e desiderabile?
Che cos'è che ha sempre infiammato i santi e le anime generose ad accettare
questo giogo della mortificazione, a ricercarlo anzi, fino a non potere più
vivere senza di esso? E' che quel giogo è il giogo dell'amore, il giogo che
unisce all'amato. In un'opera del II secolo d.C., scritta nello stile dei Salmi,
si leggono queste parole stupende messe sulla bocca di Cristo:
"Io posi su di loro il giogo dei mio amore, poiché come il braccio
dello sposo sulla sposa, così è il mio giogo su coloro che riti
conoscono" (Le Odi di Salomone, 42,8).
Sì, la mortificazione è il giogo che tiene uniti a Dio. Gesù si è messo per
primo sotto il giogo della croce ed è tuttora lì, anche se risorto, ad
aspettare chi vuole affiancarsi a lui, prendendo su di sé l'altro capo del
giogo; chi accetta sulla propria spalla il suo braccio di sposo.
La mortificazione non ci tiene uniti solo a Cristo, ma anche tra di noi; è la
via per poter fare unità con i fratelli. Tanto si dà ai fratelli, quanto si è
disposti a togliere a se stessi; per compiacere il prossimo, bisogna rinunciare
a voler costantemente compiacere noi stessi (cfr. Rm 15,1-2). Perciò, più si
mortifica il proprio "io", più fiorisce, nei gruppi, nelle
parrocchie, nella Chiesa, l'unità.
La mortificazione tiene uniti anzitutto l'uomo e la donna nel matrimonio.Toglie
di mezzo infatti l'egoismo e l'affermazione tenace di sé che è il principale
nemico. Nel matrimonio, la mortificazione custodisce l'amore. Essa insegna a
trattenere le parole cattive che amareggiano e raffreddano, e insegna a dire
solo parole buone, che servono alla mutua carità ed edificazione (cfr. Ef
4,29).
Gli sposi sono detti "coniugi" o "coniugati" che, stando
all'etimologia, significa "uniti sotto lo stesso giogo". Se questo
giogo è il giogo della carne, del piacere, o anche del solo dovere, esso
diventa ben presto pesante e insopportabile. Gesù offre agli sposi cristiani
che vivono nello Spirito la possibilità di diventare "coniugi" in un
senso tutto diverso: coniugi, perché posti sotto lo stesso giogo, quello di
Cristo, che è il giogo del suo amore. Ad essi egli ripete, in un modo tutto
particolare: "Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono
mite ed umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime" (Mi
11,28).
Troverete ristoro! Ecco perché S. Paolo esorta chi si sposa a sposarsi
"nel Signore" (1 Cor 7,39). Sposarsi nel Signore implica molto di più
che il semplice sposarsi in Chiesa; significa mettere il proprio matrimonio
sotto la signoria di Cristo, affidando così la propria decisione nel tempo a
qualcosa che appartiene realmente all'eternità. Se uno si sposa facendo
affidamento soltanto sul proprio sentimento o sull'entusiasmo di un amore allo
"stato nascente", quando questo verrà meno, si ritroverà solo
davanti all'obbligo di dover amare per sempre, e l'obbligo, da solo, non basterà
a sorreggerlo. Ma se, al contrario, hai messo
la natura al riparo della grazia, se hai costruito sulla roccia che non muta,
allora potrai tornare sempre di nuovo ad attingere ad essa; ogni volta,
scavando, ritroverai il fondamento dell'unità. Vale anche, per chi si sposa, la
parola che si legge nel profeta Zaccaria: "Non con la potenza, né con la
forza, ma con il mio Spirito, dice il Signore degli eserciti" (Zc 4,6).
Dagli uomini nuovi nascono, dunque, spontaneamente, delle famiglie nuove. Ma
nascono anche dei sacerdoti nuovi ed è questo l'ultimo appello che vi prego di
ascoltare, l'appello vocazionale. S. Paolo parla di un servizio dello Spirito (diakonia
Pneúmatos) che è proprio dei ministri del Nuovo Testamento (cfr. 2 Cor 3,8).
Questo servizio si esplica, normalmente, attraverso il sacerdozio e la vita
consacrata. La Chiesa non tralascia occasione per far giungere ai giovani il suo
"Venite! C'è bisogno di voi. La messe è molta, gli operai sono pochi,
sempre più pochi...".
Non è questa una chiamata, una "vocazione"? Troppo spesso ci si
affanna a cercare per anni dentro di sé chissà quali segni per riconoscere la
propria vocazione; ma non è questo, da solo, un segno? Dio chiama oggi
attraverso la Chiesa; è anch'essa voce di Dio. "Oggi, se ascoltate questa
voce, non indurite il vostro cuore". t bello formarsi una propria famiglia,
ma è ancora più bello impegnarsi per riunire e servire la famiglia di Dio.
Salvate la vostra vita, o giovani, perdendola. Non lasciatevi scoraggiare dalla
nostra mediocrità; voi potete essere - e sarete - sacerdoti migliori di noi:
sacerdoti nuovi di una Chiesa nuova.
Le due vocazioni - matrimonio e vita consacrata - vengono dallo stesso Spirito;
sono l'una e l'altra un carisma (cfr. 1 Cor 7,7). Come ogni carisma, ognuna non
serve solo a se stessa, ma è "per l'utilità comune". Sta nascendo,
in mezzo al popolo di Dio, una nuova unità e una mutua integrazione tra sposati
e consacrati, per l'edificazione reciproca. Gli sposati sono un segno e un dono
per i sacerdoti e i religiosi e questi lo sono per gli sposati. Gli uni sentono
il bisogno degli altri.
Ci sono paesi e culture nel mondo non cristiano (ma talvolta, purtroppo, anche
nel mondo cristiano), dove il rapporto tra sacerdote e popolo è basato ancora
su una rigida spartizione tra lo spirituale e il temporale: il sacerdote prega,
compie riti e sacrifici per il popolo, dà ad esso le cose di Dio; il popolo
mantiene il sacerdote e dà a lui le cose del mondo. Ho osservato questa cosa di
recente, nel corso di un viaggio in Oriente e ne sono rimasto molto colpito.
Tutta la religiosità del popolo del villaggio, si esauriva nel riempire, al
mattino, la ciotola dei bonzo che poi avrebbe pregato e meditato anche per lui.
Tra noi non ci si può accontentare di questo rapporto che riduce i laici a soli
servitori della materia e del mondo. Anch'essi vivono "nello Spirito",
hanno i loro doni spirituali, con i quali, dice un testo del Vaticano II,
santificano il popolo di Dio (cfr. Lumen gentium, 12). Tra noi lo Spirito
insegna dunque un ben diverso rapporto. Sì, i laici contribuiscono talvolta al
mantenimento del clero (e ora, dopo il Concordato, saranno chiamati a farlo
ancora più direttamente, avendo smesso di farlo lo Stato), ma il loro apporto
al Regno e agli stessi sacerdoti non si esaurisce certo qui. Il Signore chiama
oggi in numero sempre maggiore i fedeli a pregare, a offrire anch'essi
sacrifici, per avere sacerdoti santi. Quella dei sacerdoti santi è un'ansia e
una passione che si diffonde, come segno dei tempi, nella Chiesa di oggi. Madre
Teresa di Calcutta non fa che ripetere questo. Lei, che raccoglie il grido dei
poveri del mondo, quando si trova a dover parlare ai sacerdoti e deve
trasmettere ad essi il grido di questi poveri (come fece una volta davanti al
Sinodo dei vescovi), dice: "Essi mi mandano a dirvi che hanno bisogno di
sacerdoti santi!".
Il sacerdozio regale o universale dei fedeli ha trovato, così, un nuovo modo di
esprimersi: quello di contribuire alla santificazione del sacerdozio
ministeriale. Dai monasteri di clausura, dove tale vocazione era finora
coltivata segretamente, essa si sta diffondendo sempre più anche in mezzo ai
semplici fedeli. Nel Rinnovamento nello Spirito è una realtà assai diffusa, è
una chiamata che Dio rivolge a molti. Con la preghiera essi sostengono
l'annuncio della Parola e ne aumentano l'efficacia e la fecondità. lo stesso
che vi sto parlando, so che in questo momento, di mio, ci metto il tempo, lo
studio, la conoscenza che ho potuto acquisire dei tesori della Chiesa; ma altri,
non conosciuti, ci mettono la cosa più preziosa: la preghiera e la sofferenza.
Non posso perciò vantarmi e, se lo faccio, sono un ladro e un usurpatore.
Alcune anime Dio le chiama a un compito ancora più alto: espiare per i
sacerdoti. A una di esse - una straordinaria madre di famiglia messicana morta
nel 1937 e di cui è avviato il processo di canonizzazione - Gesù disse un
giorno queste parole: "Questo sarà il vero sollievo del mio cuore: darmi
sacerdoti santi; dimmi che accetti, che apparterrai con me ai sacerdoti, per
sempre, perché la tua missione in loro favore continuerà in cielo. Ma ecco un
altro martirio: ciò che i sacerdoti faranno contro di me, tu lo sentirai, perché
è in questo che consiste in fondo l'associarsi al mio sacerdozio in loro: nel
fatto che tu senta e soffra a causa delle loro infedeltà e miserie. In tal modo
renderai gloria alla Trinità. Avremo gli stessi motivi di sofferenza" (cfr.
Conchita. Diario spirituale di una madre di famiglia, a cura di M.M. Philipon,
Città Nuova 1979, p. 396).
"Solo l'uomo può essere sacerdote - ha scritto P. Claudel ma non è
precluso alla donna di essere vittima". Solo gli uomini possono essere
sacerdoti, ma la sapienza di Dio ha riservato alle donne un compito, in un certo
senso, ancora più alto, che il mondo non comprende e anzi rifiuta con sdegno:
quello di formare i sacerdoti, di contribuire ad elevare, non la quantità, ma
la qualità del sacerdozio cattolico.
Termino ora con queste vibranti parole di S. Agostino che sono il miglior
commento al nostro terna: "0 fratelli, o figli, o popolo cristiano, o santa
e celeste stirpe, o rigenerati in Cristo, o creature di un mondo nuovo, 'cantate
al Signore un canto nuovo (Sal 33.3). Spogliatevi di quanto in voi è vecchio;
avete conosciuto il cantico nuovo. Nuovo uomo, nuovo Testamento, nuovo cantico.
Il cantico nuovo non compete a uomini vecchi, lo apprendono solo gli uomini
nuovi, rinnovati dalla vecchiaia per mezzo della grazia. Lo canti, però, non
con le labbra, ma con la vita... Canta nel giubilo. Che significa giubilare?
Intendere, senza potere spiegare a parole ciò che con il cuore si canta.
Infatti, coloro che cantano, sia mentre mietono, sia mentre vendemmiano, sia
quando sono occupati con ardore in qualche altra attività, incominciano per le
parole dei canti ad esultare di gioia, ma poi, quasi pervasi di tanta letizia da
non poterla più esprimere a parole, lasciar cadere le sillabe delle parole e si
abbandonano al suono del giubilo. Il giubilo è un certo suono che sta a
indicare che il cuore vuol dare alla luce ciò che non può essere detto. E a
chi conviene questo giubilo se non al Dio ineffabile? ineffabile infatti è ciò
che non può essere detto; e se non puoi dirlo, ma neppure puoi tacerlo, che ti
resta se non giubilare?' (S. Agostino, Sermo 34,6; Enar. Ps. 32,8;).
Che ci resta, cioè, se non cantare in lingue?