Padre, mostraci il Tuo volto

In trepida attesa del compiersi dei duemila anni dall’incarnazione di Cristo, nel corso del prossimo anno siamo chiamati a riflettere particolarmente sulla prima Persona della Uni - Trinità santissima: Dio Padre onnipotente, Creatore e Signore del cielo e della terra.

Egli ha progettato da tutta l’eternità l’incarnazione del suo Figlio eterno "per noi uomini e per la nostra salvezza". Questo progetto eterno è stato portato a compimento nella pienezza del tempo, per opera dello Spirito Santo e grazie al "" generoso e convinto di Maria vergine.

Di tutto questo noi faremo solenne memoriale nel corso dell’anno giubilare sempre più vicino. A tutto questo ci stiamo riaccostando mediante una fervorosa "preparazione prossima", ormai al suo terzo anno di attività e di riflessione, dopo gli anni dedicati particolarmente al Figlio ed allo Spirito.

Il 1999: Alla scoperta del volto del Padre

Il terzo anno di avvicinamento all’evento giubilare sarà vissuto alla ricerca del volto del Padre la cui fisionomia il Figlio rivela e lo Spirito Santo imprime sul nostro volto.

Benché la Scrittura lo proclami nostro Creatore, Dio nessuno di noi lo ha mai visto con mezzi umani. Davvero è impossibile guardare con i soli occhi di carne Colui che per sua natura è invisibile, indicibile, assoluto, eterno, onnipotente, immenso, fascinoso, tremendo...

Dovremo, forse, rinunciare a percorre le strade che ci conducono al volto amoroso del Padre?

Dio, confermano i sapienti di questo mondo, è l’invisibile per definizione, è l’Altro rispetto alla nostra dimensione creaturale. Per poterlo guardare "a tutto tondo", bisognerebbe rompere i limiti della nostra finitudine e della nostra carnalità, cioè smettere di essere in stato di pellegrinaggio terrestre ed entrare già a far parte della vita senza fine.

Tommaso d’Aquino, il grande Dottore cattolico del secolo tredicesimo, sollecita a riconoscere un desiderio di Dio iscritto nel cuore dell’uomo ed a percorrere delle vie per approdare alla conoscenza di Dio. Egli ha messo a punto originalmente e sintetizzato mirabilmente le vie che, partendo dal mondo materiale e della persona umana, sono in grado di condurci razionalmente alla conoscenza dell’esistenza di Dio. Ha ribadito, inoltre, che vi è la possibilità di un parlare analogico circa l’Altissimo: esiste, insomma, un linguaggio umano vero e reale quanto ad indicazioni e significati circa Dio e la sua essenza.

Tuttavia, il medesimo Dottore Angelico non smette mai di insegnare che quello degli esseri umani resterà, in ogni caso, pur sempre un balbettio di fronte all’Immenso: "Balbettando, così come è in nostro potere, cerchiamo di far risuonare le cose eccelse di Dio"1.

Noi usiamo soltanto nozioni umane per dire e comunicare anche agli altri nostri simili qualcosa dell’Immenso e dell’Eterno. Parole umane evidentemente incomplete, che restano comunque molto al di qua dell’Infinita Realtà che pur vorrebbero designare.

In altri termini, il massimo di conoscenza che gli esseri umani possono avere dell’Immenso ed Eterno è quella di conoscerlo come l’Inconoscibile. Si tratta, di fronte a Dio, di confessare che non Lo conosciamo, nel senso di rendersi ben conto che ciò che Dio è eccede mirabilmente tutto quello che di Lui possiamo umanamente comprendere.

"Essendo la nostra conoscenza di Dio limitata", scrive il Catechismo della chiesa cattolica, "lo è anche il nostro linguaggio su Dio. Non possiamo parlare di Dio che a partire dalle creature e secondo il nostro modo umano, limitato, di conoscere e di pensare"2.

Non esistono, dunque, altre strade che ci possano condurre, in qualche modo, fino al volto del Dio Uno e Trino e, in Lui, farci contemplare il "volto" del Padre? Dovremo soltanto zittire e stupire?

Non si tratta tanto di ammutolire e fare silenzio, rinunciando ad ogni sforzo umano di giungere al volto di Dio, bensì di prendere atto della nostra limitatezza e della portata del nostro procedere

Ricercare il volto del Padre

Noi, esseri umani, possiamo dunque immaginare qualcosa circa il volto di Dio soltanto partendo dall’esperienza della realtà sensibile.

Noi, in particolare, abitanti di una incantevole zona del meridione d’Italia, possiamo meglio riscoprire quell’atteggiamento disinteressato, gratuito, incantato, che può nascere dallo stupore per l’essere e per la bellezza della natura. Difatti, "lo splendore della verità rifulge in tutte le opere del Creatore e, in modo particolare, nell’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio (cf Gn 1, 26).

Tuttavia, nel corso di questa vita terrestre e nella presente condizione di pellegrinaggio, se ci limitiamo soltanto ai nostri mezzi limitati, dovremo contentarci di vederlo solamente nell’enigma e come in uno specchio, cioè di sapere, al massimo, che c’è un Dio e di conoscere quello che Egli, nella sua essenza, non è.

Certo, nei beni della terra e nelle persone umane dobbiamo e possiamo trovare comunque qualche segno, qualche orma delle realtà celesti. In questo senso, il volto del Padre celeste dovrebbe, per esempio, poter almeno brillare nelle bellezze dei nostri mari e della nostra costa, ma soprattutto nel modo di porsi e di fare dei padri e delle madri della terra, soprattutto se sono dei genitori che si professano cristiani.

In ogni caso, però, l’iniziativa che parte da noi non approda mai a qualcosa di stabile e definitivo, anzi può rischiare di snaturare il corretto rapporto nostro con la natura e con gli altri.

Ma tutto ciò non impedisce che Dio stesso non possa prendere l’iniziativa, manifestarsi, rivelarsi, muovere Egli stesso la propria mano e metterci nelle condizioni di intuirne, in qualche modo, i lineamenti del volto:

Occorre, dunque, invocare continuamente il passaggio di Dio, pregare perché Egli stesso si comunichi e, venendo incontro al desiderio ed agli sforzi preparatori dell’uomo, ci ponga nelle condizioni di vedere i tratti del suo volto di Padre: "Cercate il Signore e la sua forza, ricercate sempre il suo volto. Ricordate i prodigi che egli ha compiuti, i suoi miracoli e i giudizi della sua bocca"

Soprattutto, occorre invocare lo Spirito santo che è Signore e dà la vita. Egli, che procede dal Padre e dal Figlio, è in grado di insegnarci, infatti, le parole più adatte per elevare verso l’alto l’adorazione, il ringraziamento e l’invocazione. Egli ci dona la sapienza del cuore e ci mette in grado di fissare i nostri occhi nel volto del Figlio, per vedere il Padre.

Il Padre divino non potrà lasciare senza esiti le nostre ricerche e le nostre preghiere, gridate in noi dallo Spirito. Difatti, anche se un padre o una madre di questa terra potessero giungere, in certi casi, ad abbandonare il proprio figlio, il nostro Padre celeste non ci può mai lasciare da soli, non può mai chiudere le orecchie ai gemiti inesprimibili suscitati in noi dallo Spirito. Anzi è Lui stesso a raccoglierci, aiutarci, mostrarci la via, guidarci sul giusto cammino, per condurci nella terra dei viventi.

Per meglio disporci dunque a vivere il prossimo anno liturgico come pellegrinaggio verso la Casa del Padre, verso un rinnovato incontro con il suo volto a cui tutta la nostra vita cristiana deve tendere ed a cui tutta la creazione deve ritornare, intendo proporvi alcune riflessioni in chiave pastorale, sperando che possano accompagnarvi durante quest’anno e sostenere la vostra esistenza nella preghiera, nell’attività, nel sacrificio.

A tal fine, eleviamo fin d’ora con fiducia la nostre invocazioni di preghiera verso il cielo: Padre, "non nasconderci il tuo volto"4.

Il rapporto tra l’uomo e Dio alle soglie del terzo millennio

Oggi all’uomo Dio pare non interessi. Agli uomini del nostro tempo, nel crepuscolo del Secondo Millennio dell’Era Cristiana, interessa ancora il mistero di Dio?

Ciò che per tanti secoli nella riflessione di pensatori e nella vita dei popoli è stato il fulcro di imprese grandiose, il motivo di lotte e di rabbiose contrapposizioni - il mistero di Dio appunto: la sua esistenza e la sua identità - oggi sembra non interessare più nessuno.

C’è sì grande desiderio di religiosità, di sacro, ricerca dell’occulto che affascina, ma un Dio - persona, con il quale porsi in atteggiamento di relazione, sembra piuttosto irraggiungibile o almeno un essere la cui conoscenza e la cui esperienza appaiono problematiche alla struttura dell’uomo contemporaneo. Per molta gente sembra che, se Dio esiste non è partecipe dei problemi dell’uomo, né è coinvolto nelle vicende dell’umanità, che in questo passaggio epocale, si dibatte più stanca che mai tra perenni e inaudite contraddizioni. Ma il problema di Dio rimane.

Tutte le religioni tradiscono il desiderio di avvicinarsi a Dio ma anche la convinzione che Egli è tutt’altro da noi, infinitamente trascendente dalla nostra condizione, diverso da noi!

Questa distanza infinita potrà essere mai colmata?

La condizione dell’uomo: pellegrino e viandante.

"L’uomo appare nella sua storia secolare come viandante assetato di nuovi orizzonti, affamato di pace di giustizia, indagatore di verità, desideroso di amore, aperto all’assoluto e all’infinito". Sono le belle espressioni del Documento Pontificio sul Pellegrinaggio (Cf Pontificio Consiglio per il Grande Giubileo, Il pellegrinaggio nel Grande Giubileo del 2000, San Paolo, Cinisello Balsamo 1998, 24); che dice come l’uomo da sempre è alla ricerca ora di una terra, ora di una scoperta. La storia dei popoli è caratterizzata da marce e cammini di liberazione, che manifestano una sete più profonda: la ricerca dell’uomo della verità sul suo essere e sul suo andare. Che cosa cerca veramente l’uomo?

L’uomo in verità, cerca Dio, perché da Lui è uscito e a Lui ritorna. La condizione dell’uomo nel tempo e nello spazio appare come pellegrinaggio in direzione di nuova patria; basti pensare ai Boats peoples, alle migrazioni per fuggire la pulizia etnica, per lavoro, per guerre, per siccità. I movimenti dei popoli rivelano al cristiano questa dimensione interiore. L’affermazione della TMA 49: "Tutta la vita cristiana è come un grande pellegrinaggio verso la casa del Padre" è un richiamo a ritornare alla sorgente, alle origini del nostro credere. Chi è Dio nella mia vita? Che cos’è la vita per me? Sentirsi pellegrini significa far emergere il senso di precarietà e del mistero nella condizione umana. Che cosa dà senso al nostro andare? Il credente però mentre sperimenta di trovarsi in una condizione di provvisorietà e di limite, è profondamente persuaso di non procedere verso il nulla, non vive senza una meta. L’aver incontrato Dio dà una direzione e un significato anche all’esistenza più misera. É la dimensione dell’homo viator di G. Marcel: l’uomo che è sempre in viaggio, che sembra particolarmente adeguata all’umanità che varca il Millennio senza certezze e senza punti di riferimento. Ma il credente, come Abramo, porta nel cuore ancora una nostalgia, il suo è un andare come attesa di un incontro. Il cristiano che umanamente sperimenta il suo essere sempre inappagato del presente e di ciò che ha raggiunto, davanti a Dio dice la sua povertà, si fa mendicante.

La Chiesa sa bene che questa realtà di precarietà e di incertezza costituisce un motivo costante della condizione dell’uomo biblico; essa è l’ambiente ideale e addirittura al condizione necessaria perchè l’uomo possa diventare capace di trovare, o meglio, di lasciarsi trovare da Dio.

Per questo noi, uomini e credenti del 2000 proveremo a rileggere tra le pieghe della vicenda biblica, modello di ogni vicenda umana, per rischiarare le nostre attese alla luce della Parola di Dio.

La tenda del convegno col Padre

Nel libro dell’Esodo viene descritto un grande pellegrinaggio di liberazione del popolo eletto. Un cammino simbolico per l’umanità intera da cui desumono spunti notevoli di meditazione sia la religione giudaica che quella cristiano-cattolica.

Anche il cammino della nostra chiesa particolare alla riscoperta del volto di Dio Padre ne può ricavare indicazioni forti.

Questo secondo libro della Bibbia, com’è noto, racconta la liberazione degli israeliti per opera di JHWH e di Mosè, un egiziano di origine ebraica, che non aveva voluto accettare la situazione di schiavitù a cui il popolo era stato ridotto a motivo delle pretese delle diciannovesima dinastia egizia.

Dopo l’uscita del popolo "eletto" dall’Egitto ed il passaggio del mar Rosso, comincia il famoso itinerario nel deserto, nel corso del quale si verificano i grandi eventi della teofania, o rivelazione del nome di Dio, e dell’antica Alleanza tra Dio e popolo, sancita nel sangue.

Col sangue - che prefigura il sacrificio dell’Agnello immolato nella Pasqua eterna - Mosè asperge l’altare, che rappresenta Dio, ed il popolo radunato: il patto è contratto "nel sangue", quasi a consacrarne l’intangibilità ed a segnalarne la necessità di tenervi fede da parte dei contraenti.

Ben presto però - continua la narrazione esodica - gli israeliti, che pure avevano sinceramente e fiduciosamente sottoscritto il patto con l’Altissimo, provano la sensazione di essere soli nell’immensità del deserto. Soprattutto, non sentono più la vicinanza del capo che li rappresenta, in quanto Mosè tarda a scendere dalla montagna.

Ed ecco che, come può capitare a qualunque essere umano - sempre alla ricerca di qualcosa di concreto che sia in grado di tracciare la strada e mostrare i punti di riferimento del cammino -, gli israeliti chiedono ad Aronne di costruire per loro un’immagine terrestre di Dio: un vitello d’oro, simbolo di fecondità e di forza, quasi un sostituto del vero Dio, una "carezza" terrestre che possa lontanamente evocare il vero Dio, l’Unico capace di difendere con mano potente e braccio disteso il suo popolo.

Ma, in tal modo, l’Alleanza appena sottoscritta risulta già infranta da parte del contraente umano. Il popolo è infedele. Un castigo tremendo, non a caso, marca il grave peccato commesso. Addirittura, secondo il redattore biblico, JHWH cancellerà dal misterioso "libro" tutti coloro che hanno peccato.

Eppure, accanto all’aspetto "corrucciato", l’Onnipotente mostra anche la sua "vera" faccia: essa non è certo quella del "castigatore" delle malefatte, bensì quella del Padre, pronto a richiamare e sottolineare i comportamenti scorretti, ma anche a restituire fiducia al figlio. Questo Egli garantisce a Mosè ed a tutti coloro che si sono mantenuti fedeli, in vista dell’itinerario ancora da percorrere nel deserto verso la Terra promessa.

Nel prosieguo della marcia Israele ci sarà una "tenda" a sostituire il monte per segnalare la prossimità e la presenza amorosa di Dio in ogni circostanza: un Dio paterno e materno, a disposizione di chiunque voglia entrare in contatto con Lui e consultarlo. In questa tenda vengono, infatti, custoditi due segni della tenerezza di Dio: l’arca dell’alleanza e la manna: "Mosè a ogni tappa prendeva la tenda e la piantava fuori dell’accampamento, ad una certa distanza dall’accampamento, e l’aveva chiamata tenda del convegno; appunto a questa tenda del convegno, posta fuori dell’accampamento, si recava chiunque volesse consultare il Signore"5.

Tu non potrai vedere il mio volto

Proprio nel descritto contesto di peccato, quando l’ira divina contro gli israeliti raggiunge il suo culmine si legge che Mosè chiese di poter vedere il volto e la gloria di Dio. JHWH stesso - ecco il ragionamento dell’uomo di Dio - dovrebbe impegnarsi ad indicare la via e la direzione di marcia, nonché offrire garanzie concrete che il peccato d’infedeltà è stato davvero perdonato. Anzi Egli stesso dovrebbe mettersi a camminare con il popolo, se è vero che Mosè ha trovato grazia agli occhi dell’Altissimo.

Immediatamente l’Altissimo - contraente fedelissimo del patto - rassicura l’uomo di Dio, del quale Egli è profondo conoscitore e col quale, come un Padre, è in sintonia d’affetto. Ma leggiamo direttamente dal testo sacro il serrato e consolante colloquio tra l’uomo di Dio, che ha chiesto di poter vedere il volto dell’Onnipotente, e JHWH: "Disse il Signore a Mosè: "Anche quanto hai detto io farò, perché hai trovato grazia ai miei occhi e ti ho conosciuto per nome".

Gli disse: "Mostrami la tua Gloria!".

Rispose: "Farò passare davanti a te tutto il mio splendore e proclamerò il mio nome: Signore, davanti a te. Farò grazia a chi vorrò far grazia e avrò misericordia di chi vorrò aver misericordia". Soggiunse: "Ma tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo". Aggiunse il Signore: "Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sopra la rupe: quando passerà la mia Gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano finché sarà passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere""6.

Il desiderio rimasto inappagato degli Israeliti di avere un Dio da vedere viene in parte esaudito in Mosè il quale, in analoga ricerca, non pretende di imporre un volto a Dio ma ne invoca umilmente la manifestazione: "Mostrami la tua Gloria!" JHWH gli mostra infatti un luogo "vicino" dove appostarsi; ma insieme gli ricorda che l’Assoluto divino, affascinante e tremendo, non è mai del tutto avvicinabile da parte di un occhio umano. Secondo la concezione antica, infatti, nessuno è in grado di vedere la "gloria" di Dio e rimanerne indenne: non esisterà mai essere umano che sia in grado di poter vedere Dio faccia a faccia e restare ancora vivo.

Eppure, continua il racconto dell’Esodo, sarà Dio stesso con la sua mano potente a creare le condizioni idonee affinché Mosè, pur non riuscendo a vedere direttamente il volto di Dio, ne colga almeno il passaggio e la prossimità, lo guardi per così dire alle "spalle" e ne possa, almeno lontanamente, intuire la maestà, come "di traverso" ed "indirettamente".

E il Signore passò davanti a lui proclamando: "Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà, che conserva il suo favore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione".

JHWH si presenta a Mosè come il Dio di misericordia cioè il Dio dal cuore debole, che si commuove e trattiene l’ira, il cui amore è pienamente e indefettibilmente a disposizione del suo popolo, la cui benevolenza è di gran lunga superiore alla pur a volte necessaria severità paterna. Ecco il Dio che ha cercato Israele ed ecco il Dio che Israele deve cercare. Ma Israele e Mosè stesso e, con essi l’umanità intera, dovranno camminare ancora a lungo prima di riuscire a "vedere in faccia" ossia a comprendere e accogliere questo insondabile mistero di misericordia che si cela nel Volto di Dio.

Il tuo volto, Signore, io cerco

Gli israeliti con il loro capo Mosè compirono, in un determinato momento storico, un pellegrinaggio di liberazione dall’Egitto verso una terra fertile ed ambita. Ma Israele non è soltanto un popolo di un certo tempo e di un determinato contesto.

Quel popolo prefigura la situazione di ogni popolo e, soprattutto, anticipa la situazione ed il senso del pellegrinaggio futuro che il popolo di Dio - la Chiesa -, aperto a tutti, senza distinzione di razza, di sesso, di costumi, di lingua, avrebbe dovuto compiere nel tempo dell’Alleanza definitiva.

All’interno della Chiesa, dunque, tutta la nostra esistenza terrena può essere configurata come un pellegrinaggio ed un progressivo itinerario di redenzione dalla schiavitù del peccato. Cammino e processo di liberazione, che la Veglia pasquale memorializza per noi ogni anno e la Pasqua settimanale nel "giorno del Signore" celebra ogni sette giorni, ma che diviene oggi, per così dire, assai più intenso a motivo della tappa giubilare.

Questa speranza annunziata dalla Parola e celebrata nei riti, che spesso pare assumere i toni dell’utopia, può diventare realtà a condizione che gli uomini e, in modo particolare, i credenti giungano alla conoscenza dell’autentico Volto di Dio. Se, come afferma la Scrittura, l’uomo fu creato a immagine di Dio, egli sarà veramente tale, cioè essere libero e liberante, solo a condizione di saper riflettere nella sua esistenza personale e comunitaria il mistero della misericordia divina.

Noi credenti, infatti, non soltanto siamo chiamati a realizzare singolarmente questo cammino e processo di redenzione, così come Mosè stesso dovette anzitutto lasciarsi per primo rinnovare da JHWH ma siamo mandati a diffondere e proclamare a tutti, credenti e non credenti la Parola della liberazione. La comunità cristiana, infatti, "è composta di uomini, i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito santo nel loro pellegrinaggio verso il regno del Padre e hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti"7.

Solidali integralmente con il genere umano, con le sue gioie e le sue pene, noi pure - come già gli israeliti - dobbiamo porci in atteggiamento di cammino nella storia, in vista dell’edificazione e della crescita del Regno di Dio, invocando dal Padre la remissione dei debiti e la liberazione dal maligno.

Tuttavia anche a noi, nel corso del pellegrinaggio terrestre, può capitare di assaporare l’infedeltà nei confronti degli impegni assunti per le asperità e le aridità di cui è disseminata la vicenda umana. E in quei momenti, per eccessivo bisogno di concretezza, vorremmo poggiare le nostre speranze su certezze visibili, vecchi e nuovi dèi dal volto rassicurante ma ambiguo, oppure disegniamo un Volto a Dio tutto nostro se non lo stesso nostro volto sul cui tratto fatica a dimorare la misericordia. Allora cadiamo nell’errore, nel peccato individuale e collettivo, nel male. I nostri singoli sbagli si addizionano e talvolta s’incancreniscono, fino a creare vere e proprie "strutture di peccato". Sono sotto gli occhi di tutti gli effetti delle scelte sbagliate dei singoli e delle collettività, particolarmente nei tanti attentati perpetrati alla santità della famiglia ed alla vita nascente e terminale. Talvolta non riconosciamo il giusto ordine dei valori, tendiamo a sovvertire la gradazione dei beni che Dio stesso ha stabilito per noi, pretendendo addirittura di poter fissare in proprio - sostituendoci del tutto a Lui - il bene ed il male.

Quando i nostri occhi si allontanano dal Signore, il suo volto ci diviene estraneo e ci tale diventa per noi anche il volto dell’uomo. Quando Dio si eclissa al nostro sguardo perdono perfino senso le presenze ministeriali, pur assicurate tra noi nel corpo ecclesiale. Allorchè non riusciamo più ad intravvedere Dio, neppure dalle spalle, sembrano svanire tutti i punti di riferimento per proseguire il cammino, compiere le decisioni giuste, aspirare al vero bene.

Eppure, anche se noi non mantenessimo il patto, peraltro sottoscritto consapevolmente con Lui nei sacramenti dell’iniziazione cristiana, Dio ci resta sempre fedele, pronto ad ascoltare la preghiera d’intercessione delle nostre guide spirituali. Egli mantiene il proprio impegno di fedeltà a quanto ha promesso: "...conserva il suo favore per mille generazioni". (Es 34,7).

Ecco perché, proprio quando la nostra esistenza diviene più arida e compromessa, proprio quando i valori cristiani sembrano calpestati dalla maggioranza ed una vera e propria cultura di morte sembra prevalere sul vangelo della vita, proprio allora non possiamo mai abbandonare la speranza di ritornare, un giorno, a rivedere il profilo ed il volto del Padre divino.

Se, ascoltando la voce della coscienza - che ci rammenta le legge eterna - decidiamo di ritornare, ci attende con tenerezza e ci intravede di lontano, ha compassione di noi, correndo ci cade al collo ed è pronto a baciarci con grande tenerezza, prima ancora che noi possiamo pronunciare richieste di perdono o manifestare le nostre intenzioni di cambiamento8.

Tutto questo è implicato dalla dolce parola "Padre", così comune nelle espressioni della nostra fede cristiana, soprattutto allorché noi, obbedienti alla parola del Salvatore e formati al suo divino insegnamento, eleviamo al cielo il "Padre nostro".

Ma che cosa vuole comunicarci il linguaggio della fede cristiana quando identifica col nome di Padre il volto dell’Altissimo? "Chiamando Dio con il nome di Padre" - continua il Catechismo -, "il linguaggio della fede mette in luce soprattutto due aspetti: che Dio è origine primaria di tutto e autorità trascendente, e che, al tempo stesso, è bontà e sollecitudine d’amore per tutti i suoi figli. Questa tenerezza paterna di Dio può anche essere espressa con l’immagine della maternità, che indica ancor meglio l’immanenza a Dio, l’intimità tra Dio e la sua creatura"9.

Anche in noi, come già in Mosè nel delicato momento del deserto, lo Spirito può dunque suscitare una decisione di cambiamento e suggerire una preghiera di profonda speranza all’indirizzo del Padre che è nei cieli.

Dobbiamo piuttosto invocare la tenerezza paterna e materna di Dio, con la fiducia che Egli non respingerà la nostra decisione di intraprendere una nuova vita di ricerca cristiana, fino a poter incontrare il suo volto di Padre.

Col Salmista instancabilmente invocheremo:"Ascolta, Signore, la mia voce.Io grido: abbi pietà di me! Rispondimi. Di te ha detto il mio cuore: "Cercate il suo volto"; il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto, non respingere con ira il tuo servo. Sei tu il mio aiuto, non lasciarmi, non abbandonarmi, Dio della mia salvezza"

Padre, fa’ risplendere il tuo volto su di noi

Nel commentare un Salmo, lo stesso sant’Ambrogio si riferisce al medesimo brano biblico da cui siamo partiti in questa nostra riflessione che vuole accompagnare la nostra comunità diocesana nel terzo anno di preparazione al giubileo. In esso Mosè, come abbiamo ricordato, chiedeva di vedere il volto di Dio e, invece, gli viene risposto che nessuno potrebbe osservare la faccia dell’Altissimo e rimanerne vivo.

Nel suo commento all’episodio dell’Esodo, il Padre della chiesa d’Occidente preferisce anzitutto sottolineare il senso mistico del brano biblico: cioè Mosè rappresenta Gesù Cristo, ovvero Colui che, inviato dal Padre, viene a perfezionare l’antica Legge, inaugurando la Nuova Alleanza11.

Nella stagione del primo Testamento, Dio si mostrava a Mosè "da tergo" e come in uno specchio ed al popolo attraverso la lettera della Legge. Il suo volto poteva essere intravisto, come attraverso un velo, soprattutto nelle "Dieci parole" del Sinai (cf Es 20, 1-21) e nel Codice dell’alleanza (cf Es 2, 20-27). Non a caso, nella seconda parte del libro del profeta Daniele, laddove sono contenute le famose "visioni" delle quattro bestie e del figlio dell’uomo, si fa appunto esplicito riferimento al senso "pedagogico" della Legge per ogni pio israelita. La pedagogia divina consiste tutta nell’aiutare il popolo a riconoscere, perfino nei mali e nelle disgrazie, il continuo passaggio di Dio che chiama a conversione, con mano davvero paterna e materna.

Oggi - noi che viviamo "nella pienezza del tempo" - possiamo rileggere tutto ciò in una prospettiva di teologia della storia, ovvero compiere, come suggerisce sant’Ambrogio, una rilettura della storia d’Israele, del valore della Legge della prima alleanza e dell’intero mondo "dal punto di vista" di Dio, soprattutto del Padre che ha inviato il Cristo per consentire il passaggio dai "simboli" al "faccia a faccia".

Ed ecco che ci si presenta una storia di iniquità che talvolta ha la meglio sulla verità, di mancato ascolto del continuo passare di Dio tra gli uomini, di inadempienze rispetto al patto contratto, di preghiera di invocazione e di intercessione perché Dio torni a far risplendere il suo volto del suo popolo.

La condizione richiesta perché tutto ciò si verifichi sarà la piena disponibilità del popolo eletto ad un cambiamento radicale di prospettiva e di vita. L’invocazione del nome di Dio dovrà essere, quindi, accompagnata da decisioni di cambiamento di vita, da gesti di umiltà ovvero di riconoscimento del proprio limite, da richieste di perdono.

Scrive bene il libro del profeta Daniele: "Tutto questo male è venuto su di noi, proprio come sta scritto nella legge di Mosè. Tuttavia noi non abbiamo supplicato il Signore Dio nostro, convertendoci dalle nostre iniquità e seguendo la tua verità. Il Signore ha vegliato sopra questo male, l’ha mandato su di noi, poiché il Signore Dio nostro è giusto in tutte le cose che fa, mentre noi non abbiamo ascoltato la sua voce. Signore Dio nostro, che hai fatto uscire il tuo popolo dall’Egitto con mano forte e ti sei fatto un nome, come è oggi, noi abbiamo peccato, abbiamo agito da empi. Signore, secondo la tua misericordia, si plachi la tua ira e il tuo sdegno verso Gerusalemme, tua città, verso il tuo monte santo, poiché per i nostri peccati e per l’iniquità dei nostri padri Gerusalemme e il tuo popolo sono oggetto di vituperio presso quanti ci stanno intorno. Ora ascolta, Dio nostro, la preghiera del tuo servo e le sue suppliche e per amor tuo, o Signore, fa’ risplendere il tuo volto sopra il tuo santuario, che è desolato. Porgi l’orecchio, mio Dio, e ascolta: apri gli occhi e guarda le nostre desolazioni e la città sulla quale è stato invocato il tuo nome! Non presentiamo le nostre suppliche davanti a te, basate sulla nostra giustizia, ma sulla tua grande misericordia"12.

Solo così si darà a vedere davvero il volto del Padre. Anche le situazioni negative acquistano per noi nuove risonanze, poiché in esse ci è dato di cogliere il richiamo del Padre a convertirci dalle nostre cattiverie e seguire lo splendore della verità. Perfino nel male il Padre vigila, in vista del nostro ritorno.

"Se il mio popolo, sul quale è stato invocato il mio nome, si umilierà, pregherà e ricercherà il mio volto, perdonerò il suo peccato e risanerò il suo paese"13.

Quando verrò e vedrò il Volto di Dio?

Possiamo dunque leggere l’intera storia di Israele nella chiave del pellegrinaggio alla scoperta del volto di Dio: "L’anima mia ha sete del Dio vivente: quando verrò e vedrò il Volto di Dio?" (Sl 42,3). Questo grido accorato del Salmista, elevato nella condizione dell’esilio, riassume il tono di tutta la vicenda storica del popolo eletto: una storia di esilio, alla ricerca di una terra sempre intravista e mai pienamente posseduta. La speranza recondita dell’esiliato di poter rivedere il Tempio e inebriarsi nuovamente della presenza dell’Altissimo rimase la speranza costante di Israele: vedere un giorno "faccia a faccia" quel Dio troppo a lungo guardato "da tergo": "Perchè ti rattristi, anima mia, perchè su di me gemi? Spera in Dio ancora potrò lodarlo, lui salvezza del mio volto e mio Dio" (Sl 42, 12).

"Signore, mostraci il Padre!"

L’evangelista Giovanni, concludendo il solenne Prologo introduttivo al suo Vangelo, proclama che finalmente sta per concludersi la peregrinazione di Israele alla ricerca del volto Dio: "Dio nessuno lo ha mai visto; proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato" (Gv 1,1-18).

Il mistero nascosto dall’eternità agli occhi degli uomini sta per svelarsi nella testimonianza di Gesù, Verbo che vive dall’eternità rivolto al Padre, fattosi carne per mostrarci il suo Volto.

Gesù parlava sempre del Padre perciò un giorno Filippo gli chiese: "Mostraci il Padre e ci basta". In questa invocazione del discepolo sembrano risuonare gli accenti dell’antica richiesta di Mosè. Gesù gli rispose: "Da tanto tempo sono con voi, Filippo, chi ha visto me ha visto il Padre" (Gv 14,9). Il Maestro vuole lasciare intendere che il suo agire e parlare sono trasparenza dell’agire e parlare del Padre.

Allora, quali tratti del volto di Dio manifesta Gesù?

Gesù insegna ad incontrare il Padre

I discepoli furono ben presto colpiti dal rapporto di familiarità che univa Gesù al Padre, e chiedono di farne parte. Gesù insegnò il "Padre nostro", che è sì una preghiera ma è soprattutto il modello di ogni preghiera, perché insegna come mettersi di fronte a Dio, come sintonizzarsi con Dio, come fare esperienza di Dio.

Gesù ci introduce, ci immerge nella vita di Dio e insegnandoci a dire Padre, ci fa scoprire la tenerezza di Dio e ci dona la sua stessa familiarità.

Se Gesù ci fa dire "Padre" vuol dire che anche noi siamo figli. Da questa illuminazione, dal vivere nella consapevolezza di sentirsi figli amati in Gesù Cristo, dallo stupore di essere "figli nel Figlio", come dicevano i Padri della Chiesa, nasce una visione nuova del mondo e soprattutto del modo di pensare i rapporti con gli altri uomini: essi sono fratelli.

Gesù ci insegna questo modo di rivolgersi a Dio perché vuole introdurci nella vita di Dio. Dio è Padre all’interno della vita Trinitaria, è Padre dell’Unigenito da sempre e per sempre; perciò permettendoci di invocarlo "Padre nostro", ci coinvolge nel dialogo divino.

Nell’abbraccio dello Spirito il Cristo ci immerge nell’oceano della Trinità. Perciò la preghiera cristiana non è rivolgersi a Dio ma "entrare" in Dio.

Gesù aveva col Padre un rapporto di intimità come solo i bambini sono capaci. Gli evangelisti ci riportano il termine Abbà, papà (Mc 14,36) che esprime la singolarità di Gesù, soprattutto per il mondo ebraico.

Egli ci insegna ad avere verso il Padre la fiducia e la semplicità dei piccoli: "In verità vi dico, se non diventerete come bambini non entrerete nel regno dei cieli" (Mt 18,3).

1. Un Padre che ama di un amore incondizionato e chiede di amare come ama Lui. Egli fa sorgere il suo sole ... per i malvagi e per i buoni come fa piovere sui giusti e gli ingiusti (cf. Mt 5,43-48).

É soprattutto l’evangelista Luca il narratore della bontà e della tenerezza di Dio. Questi accenti noi rileviamo particolarmente nel capitolo 15 del suo Vangelo. Possiamo qui rileggere la parabola del Padre misericordioso (Lc 15,11-32).

Essa parla del grande banchetto che il Padre imbandisce per festeggiare il ritorno del figlio; il figlio perduto e ritrovato.

Rivela il suo amore instancabile, che non si dà per vinto, finché non vede tornare il figlio in cerca di libertà, e la sua gioia incontenibile perché finalmente si sente capito come Padre e col suo atteggiamento porta l’altro figlio a riconoscere suo fratello.

Tanti uomini vivono come figli di Dio perché hanno una concezione errata del Padre. Convertirsi allora è scoprire il volto di tenerezza che Egli manifesta in Gesù.

Non solo chi sbaglia, ma ogni uomo deve rivedere l’immagine che si è fatta di Dio. Nella luce del volto del Padre è possibile riconoscere gli altri come fratelli, al di là dei loro meriti e della loro simpatia.

Dio ci ama non perché siamo buoni ma perché siamo suoi figli, e desidera che viviamo tra noi dello stesso suo amore. Dire: io credo in Dio, significa non posso più rifiutare alcun uomo perché è mio fratello.

2 Un Padre che ama non solo i vicini, ma anche e specialmente i lontani, di cui va in cerca e a cui offre di nuovo la sua intimità e il suo perdono. É esemplare l’episodio del buon ladrone (Lc 23,39-43), ma soprattutto la parabola della pecorella smarrita (Lc 15,1-7 e anche Rm 3,21ss; 5,1; Ef 2,1-10).

Gesù mangia con i peccatori e fa capire che il Padre è in cerca dell’uomo che ha smarrito la strada per riportarlo alla comunione con sé. Questa parabola è rivolta anche "ai giusti" perché guariscano dalla loro presunzione e imparino a non ricercare la loro giustizia ma quella di Dio.

La Chiesa tutta, ricordi, che essa non è una comunità di persone irreprensibili ma di peccatori perdonati.

3. La dracma ritrovata (Lc 15,8-10).

Questa parabola parla di una donna, che è figura dell’amore materno di Dio. Il Padre non si stanca mai di cercare, come farebbe una donna per i suoi gioielli più preziosi. Così - dice Gesù - il Padre si comporta nei confronti del peccatore, che ama sempre e comunque.

Egli gioisce del ritrovamento, non di una pecora o di una moneta, ma di un figlio e invita tutti gli altri figli a gioire con Lui.

La bontà e la misericordia del Padre non è per pochi eletti: è per tutti gli uomini, perchè tutti sono sotto il dominio del peccato e dunque bisognosi di ricevere il dono gratuito della misericordia.

4. Quando nella luce di Cristo, si scopre questa sorgente di vita, questo tesoro incommensurabile, si impara a riporre in Lui una fiducia incrollabile e a vivere della sua provvidenza, nella semplicità e nella letizia (S.Francesco) così come fanno gli uccelli del cielo e i gigli del campo (cf Mt 6,25-34).

5. Il Padre che è nei cieli, gode della libertà dei figli (cf 1 Gv 4,19-21 e Rm 14,17-19), dalle cui labbra sboccia la lode e il ringraziamento, come esperienza di una nuova comunione e di un nuovo senso della vita, in Lui. In Gesù il Padre chiede di non rassegnarsi al male e alle ingiustizie perché lo Spirito del Risorto è all’opera nella costruzione del mondo nuovo che il Figlio ha intrapreso con la sua Pasqua.

Avvicinando il volto di Gesù, nei poveri segni che i Vangeli ci hanno lasciato di Lui, è possibile rinvenire la ricchezza inesauribile dei tratti amorosi del Volto del Padre, per ogni uomo, in ogni tempo.

Riflettere, come in uno specchio, la gloria del Signore

Per Cristo, con Cristo ed in Cristo, ormai abbiamo tutti accesso al volto del Padre in un solo Spirito. Infatti, "compiuta l’opera che il Padre aveva affidato al Figlio sulla terra14, il giorno di Pentecoste fu inviato lo Spirito santo per santificare continuamente la chiesa, e i credenti avessero così per Cristo accesso al Padre in un solo Spirito"(cf Ef 2, 18)15.

Per Cristo con Cristo ed in Cristo abbiamo ricevuto la rivelazione del volto di Dio, volto di Padre che, nel mistero della sua volontà, voleva che tutti ottenessero l’accesso a Lui.

Siamo davvero nel regime della nuova ed eterna Alleanza, non più caratterizzata da una Legge scritta su tavole di pietra. Legge che esigeva un’obbedienza che l’uomo, abbandonato a se stesso, non sarebbe mai stato in grado di mettere in atto.

La nuova Alleanza è adesso scritta nei cuori, sigillata nel sangue dell’Agnello, manifestata in pieno da Cristo inviato del Padre, proseguita dal corpo storico di Cristo, che è la Chiesa - vivificata dallo Spirito - operante in un territorio.

Se nell’antica Alleanza, non potendo resistere al fulgore del volto di Mosè che aveva visto Dio seppure "alle spalle", si era costretti a guardare con un velo sul volto, nella stagione della nuova Legge si potrà finalmente guardare in spirito di libertà, a viso scoperto. Addirittura si potrà riflettere, come in uno specchio, la stessa gloria del Signore. Il volto di Cristo non rifulge di uno splendore passeggero, com’era quello di Mosè subito dopo gli incontri con il passaggio di Dio. Lo ricorda molto bene la seconda lettera ai Corinzi: "Se il ministero della morte, inciso in lettere su pietre, fu circonfuso di gloria, al punto che i figli d’Israele non potevano fissare il volto di Mosè a causa dello splendore pure effimero del suo volto, quanto più sarà glorioso il ministero dello Spirito?".

I credenti di ogni tempo sono coloro nei cui volti dovrebbe rifulgere lo splendore non passeggero del volto di Cristo. Quale richiamo ad una revisione radicale di vita e quale invito ad un serio esame di coscienza per noi tutti, in questo terzo anno di preparazione al grande Giubileo del Duemila!

Nel volto sofferente e glorioso di Cristo

vediamo in pienezza il volto del Padre

Sul volto del Cristo crocifisso - risorto risplende definitivamente la luce del volto del Padre. "Chi altri mai è lo splendore del volto del Padre se non Cristo, splendore della gloria ed immagine dell’invisibile Dio, nel quale si vede e viene glorificato il Padre, così come Egli glorifica il Figlio suo?", commenta sant’Ambrogio16.

Ed Agostino d’Ippona, con riferimento alle esigenze che ne derivano inevitabilmente per i credenti, annota: "Non è forse in qualche modo uno solo il volto del Padre e del Figlio e dello Spirito santo? Ma vediamo meglio se non sia il Figlio stesso a prometterci quel volto, per renderci felici [...]. Il Signore stesso dichiara: "Chi ascolta le mie parole e le custodisce mi ama e chi ama me, sarà amato dal Padre mio, ed io lo amerò e manifesterò a lui me stesso". Quale premio ci promise, dunque, carissimi? Forse non vedevano già coi loro occhi colui che stava loro promettendo di manifestare se stesso? Non era forse presente fisicamente davanti ai loro occhi? Forse che la figura del suo corpo non si faceva percepire dalla loro vista? Ma allora che cos’era mai ciò che Egli desiderava loro rivelare? Era appunto l’evento della croce, quello che potettero vedere i discepoli quando egli fu appeso alla croce: era nascosto Dio in quel corpo dolente, ma gli uomini avrebbero potuto, sì, vedere l’uomo, ma non il Dio benché questi fosse nell’uomo. Ecco perché i veri beati sono i puri di cuore, perché vedranno Dio. Egli mostrò, infatti, l’aspetto di uomo sia ai devoti che agli empi, ma volle riservare l’aspetto di Dio a quelli che si sono purificati e sono religiosi"17.

I lineamenti del volto del Padre si mostrano, tuttavia, in tutto il loro fulgore nel Figlio abbandonato sulla Croce.

Eppure, soltanto chi è discepolo, chi si purifica e riscopre i tratti della religiosità genuina, ovvero soltanto chi si converte e crede al Vangelo, sarà in grado di riconoscere il senso di questo "vangelo in sintesi" raccontato dalla Croce.

Il discepolo vi saprà scorgere, infatti, i tratti del volto divino del Padre, pur osservando un crocifisso, un uomo martoriato e trafitto dalla lancia. Nel Crocifisso - Risorto il Padre manifesta in pieno se stesso e le sue vie di amore profondo (che il cristianesimo chiama "agape").

Il Dio della creazione si rivela, così, anche il Dio della redenzione e consente il riavvicinamento dell’umanità a Lui, come il padre della parabola che attende da lontano.

D’ora in poi, possiamo veramente invocare Dio col nome di Padre, anche se ciò comporta che noi dobbiamo sempre ricordare, nello stesso tempo, che "non possiamo invocare Dio Padre di tutti, se ci rifiutiamo di comportarci da fratelli verso alcuni tra gli uomini che sono creati a immagine di Dio. L’atteggiamento dell’uomo verso Dio Padre e quello dell’uomo verso gli uomini fratelli sono tanto connessi che la sacra scrittura dice: "Chi non ama, non conosce Dio" (1Gv 4, 8)"18.

Cade a puntino la sollecitazione del Salmista, il quale rammenta come la conversione a Dio implichi, insieme, una scelta di giustizia nei confronti dell’Assoluto e nei confronti dei fratelli:

"Convertitevi a lui con tutto il cuore e con tutta l’anima, per fare la giustizia davanti a Lui, allora Egli si convertirà a voi e non vi nasconderà il suo volto"19.

Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio" (2 Cor 5, 20)

La Chiesa, battezzata - cioè immersa - nel mistero della Trinità santissima eternamente irradiata dall’amore del Padre e storicamente rivelata nell’amore del Figlio, è chiamata e mandata a rendere visibile in ogni tempo e in ogni luogo la tenerezza di Dio per gli uomini. Tutto ciò che essa è, che essa dice e che essa fa viene da Dio se è capace di ricondurre a Dio il cuore dell’uomo smarrito. I cristiani sono dunque uomini e donne riconciliati con Dio che annunziano a tutti con la vita la gioia di essere amati dal Padre: "Dio....ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione......Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, come se Dio stesso esortasse per mezzo nostro. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio" (2 Cor 18-20).

La Chiesa che è in Amalfi-Cava de’ Tirreni, stimolata dalle esortazioni del Santo Padre e illuminata dagli spunti offerti da questa lettera, nel mentre rinnoverà, nella preghiera e nella meditazione, il proprio impegno interiore per ridisegnare in sé la fisionomia del Padre celeste si sforzerà di comprendere quali debbano essere le scelte pastorali che sappiano mostrare in maniera significativa in questo territorio a Lei affidato dallo Spirito, la potenza risanatrice del Volto di Dio.

Desidero pertanto aiutare tutti in quest’opera di discernimento sottolineando alcuni aspetti della pastorale diocesana che mi sembrano degni di essere considerati.

Innanzitutto, la celebrazione liturgica penitenziale come luogo privilegiato dell’educazione alla fede e, correlativamente, al senso del peccato. Quest’ultimo infatti è percepito nella sua profondità solo all’interno dell’alleanza, all’interno cioè di un nuovo rapporto con Cristo. L’iniziativa di Dio celebrata in avvento, il giudizio della croce proposto nel cammino quaresimale consentono di ricentrare teologicamente l’esperienza della penitenza e del perdono, evitando il primato della dimensione psicologica. Anche una valorizzazione e sottolineatura corretta dell’atto penitenziale della celebrazione eucaristica costituirebbe un valido aiuto in questa direzione: l’esemplarità della formulazione stessa offerta dal Messale romano costituisce un autorevole punto di riferimento.

In secondo luogo, le solennità e i momenti forti dell’anno liturgico costituiscono un grande tempo di confronto, in vista del giudizio - conversione, con la Parola del Signore. In tal modo, la struttura pastorale delle nostre comunità ritroverebbe come essenziale il momento penitenziale, oggi lasciato all’iniziativa personale del fedele e non vissuto - offerto come grazia da parte della comunità stessa. In un tempo di crisi, l’offerta costante di tempi, ritmi e occasioni penitenziale, costituisce un valido strumento pedagogico, non solo per tenere vivo il senso della conversione, ma per temerlo vivo nel quadro dell’alleanza e dell’esperienza della fede. In quest’ottica la valorizzazione del Venerdì come giorno penitenziale in cui, senza altre celebrazioni liturgiche, si possa dare tempo, spazio, opportunità ad una più fruttuosa, attenta e disponibile celebrazione del sacramento della riconciliazione. Anche l’abito liturgico idoneo (camice o talare e stola viola - così come più volte ricordato da interventi magisteriali) rende la riconciliazione vera celebrazione liturgica.

I sacerdoti, oltre a offrire un esempio di collaborazione e di fraternità (soprattutto nella ricorrenze di feste patronali, occasioni speciali per la vita di una certa comunità, giornate eucaristiche, etc.) rendendosi disponibili per tale servizio, rendono visibile non soli il ministero della riconciliazione loro affidato mediante la remissione dei peccati (ministri per voi), ma anche la comune partecipazione alla fatica e alla fragilità delle risposte alla vocazione cristiana (penitenti con voi).

Il tempo quaresimale consente di collocare il sacramento all’interno di un più vasto e quotidiana dinamismo penitenziale, capace di ispirare l’agire globale della Chiesa penitente. É in questa luce e come normale prolungarsi della grazia sacramentale che vanno rivalutate nella pastorale la correzione fraterna, il digiuno, la preghiera, l’elemosina, il pellegrinaggio, le veglie, le predicazioni della conversione. In tal modo, la penitenza diventa modello e fonte della convivenza nella fede delle nostre comunità cristiane chiamate a risolvere i propri attriti interni, alla luce della esemplarità e della forza proveniente dalla penitenza.

In ogni parrocchia diventi operativa la Caritas parrocchiale, capace di leggere i bisogni del territorio, fino a elaborarne una mappa significativa da tenere in evidenza nella sua progettazione e operatività. Essa dovrà sempre più stimolare la propria comunità parrocchiale ad acquisire uno stile di vita che riveli attenzione e predilezione verso i poveri, con una logica che va oltre l’elemosina e l’assistenzialismo, per creare la cultura della gratuità, della condivisione, del bene comune da anteporre a quello persona1e, nel quadro di un vero progetto di pastorale della carità.

La Casa di Accoglienza Diocesana va sostenuta come il segno più tangibile e immediato che la nostra Chiesa locale testimonia come la carità del Padre che a tutte le ore spalanca la porta del suo cuore ai figli che verso di Lui, fiduciosi, elevano lo sguardo e trovano accoglienza. Il sostegno va dato attraverso la testimonianza nelle omelie, nella catechesi, nei centri di ascolto; attraverso il servizio diretto volontario, previo accordo con i responsabili; con il contributo economico da far pervenire nei momenti forti dell’anno liturgico.

La pastorale degli ammalati: luogo privilegiato per significare concretamente la tenerezza del Padre verso i suoi figli debilitati nella malattia e affranti nello spirito.

Sacerdoti e ministri straordinari dell’Eucaristia svolgono un compito quanto mai encomiabile verso i fratelli infermi. Giova, però, ricordare che tale compito non può considerarsi esaurito semplicemente con il recare la Santa Comunione, magari una volta al mese .

Occorre riqualificare tale presenza, donando con l’Eucaristia tempo e vicinanza, comprensione e, a volte, assistenza materiale, nonché incoraggiamento fraterno e cristiano ai parenti che assistono gli ammalati e gli anziani.

Maggiore slancio può acquisire l’UNITALSI, operativa solo in alcuni centri della Diocesi. In accordo con le Caritas parrocchiali si realizzino incontri zonali per far conoscere le proprie attività e iniziative, miranti a promuovere il sollievo fisico e spirituale degli ammalati, per permettere ad essi di uscire con frequenza dai luoghi comuni di degenza, per offrire loro la possibilità di relazionare in ambiti più allargati e ampliare il loro afflato spirituale con specifiche iniziative.

Il Signore rivolga su di te il suo volto

Carissimi fratelli e sorelle, lo spirito giubilare ci sollecita ad accelerare il nostro cammino ed ad incrementare il nostro operare. Siamo diretti al Padre da cui proveniamo ed a cui tutto ritorna in Cristo nell’unità dello Spirito santo.

Nell’auspicio che questo terzo ed ultimo anno di preparazione al Grande Giubileo aiuti la nostra Comunità ecclesiale a introdursi nel prossimo anno 2000 , attraverso la Porta santa del grande Perdono, a celebrare riconciliata con Dio e con gli uomini, il profondo mistero della Trinità santissima, benedico ciascuno di voi con le medesime parole che Dio dettò a Mosè per benedire il popolo da Lui eletto:

"Ti benedica il Signore e ti protegga. Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio. Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace"20.

Da un'omelia di Beniamino DePalma, Arcivescovi di Amalfi-Cava de' Tirreni

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