OSSERVAZIONI SULLE RELAZIONI FAMILIARI

Amarsi è guardare insieme

di Marco Francesconi
(psichiatra e psicoterapeuta)
            

    La famiglia è come un contenitore dove trovano soddisfazione amore, fiducia, speranza. Si tratta di uno spazio in cui il "sé" è in rapporto a un altro a sua volta legato a qualcun altro. Tanti anelli di una catena lunga all’infinito.

Aveva ragione Aristotele a definire la famiglia «il luogo della tragedia?». Per rispondere, forse, è necessario soffermarsi sul termine "tragedia". Senza entrare in un campo che, come è noto, è stato oggetto di approfonditi studi, sarà sufficiente ricordare che la tragedia greca nasce come forma espressiva proprio quando dall’anonimato delle produzioni si staglia l’individualità definita: le tragedie sono infatti le prime forme letterarie di tale cultura a riportare il nome dell’autore. Inoltre ciò diviene immediatamente inscindibile da un aspetto agonistico-competitivo e dalla comparsa di una relazione triangolare (le tragedie vengono rappresentate a gruppi di tre e la migliore viene premiata).

Se, come ci ricorda Silvia Vegetti Finzi (1992), «il fatto di essere nati non ci garantisce come soggetti», possiamo vedere allora questa dimensione "tragica" come riferibile a un’esperienza dolorosa perché prevede la necessità di abbandonare fantasie onnipotenti di sicurezza e di fusionalità, ma anche positiva nel momento in cui può portare alla costituzione di un soggetto nuovo e più definito.

Tradizionalmente il luogo in cui si pensa si sviluppi l’individualità in formazione è la famiglia. La struttura familiare ha generalmente come sua premessa un legame fra due persone, ma questa forma di relazione appare oggi particolarmente soggetta a trasformazioni, consentite sia dalla ricerca di maggiore visibilità sociale di relazionalità atipiche, sia da quanto permesso dall’utilizzo delle nuove tecnologie riproduttive (Vegetti Finzi, 1997), che rendono attuabile la procreazione secondo uno spettro più ampio e inconsueto rispetto anche al recente passato (Francesconi, 1999). Tali trasformazioni hanno condotto il matrimonio a essere un’istituzione "debole" (Vegetti Finzi, 1992), sia per le minori «definizioni di identità», sia per il maggior numero di riserve connesse alla sua durata, facendo slittare il fatidico "sì" verso un "sì, per ora" (vedi anche Donati, 1999).

La necessità, tuttavia, di ampliare un legame diadico verso una forma di triangolazione delle relazioni e delle funzioni psichiche non può essere trascurata e risulta fondante lo stesso percorso psicoanalitico: basti pensare al più noto esempio rappresentato dalla situazione edipica. La psicoanalisi considera fondamentale per lo sviluppo e l’equilibrio psichici che tale struttura articolata di rapporto, che si confronta con l’esistenza di relazioni dalle quali si è esclusi, si mantenga e si consolidi, superando quindi e non solo raggiungendo l’Edipo.

In assenza di uno spazio lasciato a disposizione del pensare, le fantasie acquisiscono un’inconscia attribuzione di potere d’azione, finendo con l’esercitarlo davvero, nonostante i tentativi della coscienza di respingere, spesso con irritazione, tale possibilità. Nella dimensione inconscia si tende a perdere la capacità propria del pensiero lucido di distinguere fra fantasia e azione, fra pensiero e atto, fra sembrare ed essere, trattando tutto come eventi concreti del reale.

Se le emozioni sono vissute secondo questa modalità, la mente può soltanto concepire la necessità di sbarazzarsi dei vissuti disturbanti attuando quel processo di eliminazione delle angosce per "identificazione proiettiva", ovvero facendo inconsciamente in modo che sia un’altra persona a sperimentare la stessa sensazione che non si può riconoscere e sopportare in sé. Tale meccanismo spiega perché una paura può diventare la ragione di un’aggressività: così ad avere paura è l’altro e parallelamente la nostra sensazione di paura può decrescere. In questi processi non si ha una graduale attenuazione delle sensazioni sgradevoli, si può solo scaricarle su qualcun altro, ma la quantità totale resta invariata. Manca l’azione trasformativa che solo il pensare può compiere.

Quello che il famoso "piccolo Hans" (protagonista del freudiano Analisi della fobia di un bambino di cinque anni) nel 1908 cercava di spiegare al suo un po’ ottuso padre (che prendeva appunti e poi riferiva a Freud) era che «"voglia" non è "fare" e ""fare" non è "voglia"», oppure di fronte all’affermazione che «un bravo bambino non desidera certe cose», non esitava a rispondere: «Ma pensarle, sì», difendendosi di fronte all’insistenza paterna, che ribadiva: «Però non sta bene», con uno spazientito: «Se le pensa, sì che sta bene, così poi uno le può scrivere al professore»!

Solo se si struttura questa capacità differenziante e di graduale trasformazione delle fantasie inconsce in "materiali" pensabili e condivisibili (scrivere al professore!), possono aver luogo i processi di attenuazione dell’intensità dei problemi e può aver luogo un’identificazione più evoluta (secondaria), dove essere come un altro non significa un’inquietante sensazione di confondersi concretamente con l’altro (essere l’altro), esperienza da evitare a tutti i costi anche a prezzo di muraglie invalicabili, per non perdere la propria identità. Ad esempio, se in una relazione il partner evoca "qualcosa" di un genitore non per questo è davvero il genitore, con conseguenti vissuti di dover agire impulsivamente per rifuggire da situazioni di tipo incestuoso.

Ho altrove ricordato (1998) che queste capacità di discriminazione possono attuarsi solo se la personalità individuale riesce a governare l’indubbia complessità e molteplicità del mondo interiore, organizzandosi in un nucleo del sé sufficientemente stabile per fungere da centro esperienziale non minacciato dai movimenti di un alone, di una orbitale del sé disponibile a subire una sorta di dislocazione funzionale in un luogo (immaginario) esterno al sé. Come una navicella spaziale che vada sulla Luna e torni indietro è cosa ben diversa da un’ipotetica fuga dell’intera umanità su un altro pianeta, così l’area di interscambio sé-altro può avvenire con fluidità, compartecipazione e positiva curiosità esplorativa, solo se il luogo originario, nucleare, della propria identità non sperimenta un vissuto di terribile esodo da un luogo irrecuperabile.

Tale nucleo rende possibile lo sviluppo e l’espressione della funzione metaforica della mente ("metaforà" è anche il materiale trasloco), base del pensiero e della capacità di maneggiare correttamente i simboli. "Traslocare" una parte della propria identità nell’altro senza perdersi e, viceversa, accogliere un elemento estraneo, un pensiero selvatico, secondo un’espressione cara allo psicoanalista Bion, un bambino, dotato, per quanto proprio, di una sua autonomia, richiedono una tolleranza alla discontinuità e alla "messa tra parentesi" di almeno una parte della propria personalità, del proprio senso di identità. Questo decentramento della soggettività appare il nucleo centrale della funzione generativa, che, in fondo, richiede di porre tra parentesi temporaneamente il proprio statuto di soggetto indipendente: come in origine era "figlio di", il soggetto, faticosamente arrivato a essere riconosciuto con un nome proprio, lo dismette per farsi "genitore di". Nel momento in cui dà il nome a un figlio, "perde" – all’interno di questa relazione – il proprio nome per farsi funzione, come ci ricorda forse la stessa parola "familiare" che deriva da famulus, servitore.

Riconoscere il limite

Naturalmente il decentramento accoppiato a una valida funzione simbolica è ben lungi dal mettere veramente in crisi la propria identità e le proprie capacità. Anzi, proprio l’assenza di questa possibilità può dar luogo a imitazioni improduttive che mimano le funzioni cognitive o affettive dell’altro senza poterle veramente utilizzare.

Se il concreto prevale sul simbolico, se non è possibile mantenere una collocazione fuori scena senza esperire un annullamento, non sono permesse quelle sane assenze che potrebbero trovare nel concetto un po’ schematico di funzione paterna una buona "casa". Il vuoto temporaneo viene sentito come un’intollerabile perdita dell’intero sé, da contrastare con l’irrigidimento dell’asimmetria a proprio favore e con il sacrificio dello spazio potenziale altrui.

Il decentramento della soggettività così inteso mi sembra anche il fattore che consenta una fluida possibilità di interscambio di funzioni attinenti abitualmente all’uno o all’altro sesso o comunque ai due ruoli differenziati, materno e paterno (Argentieri, 1999). Più che una netta posizione pro o contro la perdita di differenziazione sessuale in sé, sia come caratteristica identitaria del singolo che come composizione della coppia, di cui non credo possa essere affermata né un’automatica e moderna normalità, né un’inevitabile fonte di patologia psicologica, la psicoanalisi penso possa sottolineare la necessità di evitare quelle dimensioni psichiche che siano espressioni inelaborate di una totipotenza ("posso essere tutto") che esclude il senso interno di un limite, della legittimità e della necessità di ricorso a ciò che è di pertinenza dell’altro da sé.

Mi sembra che questo riconoscimento del limite aiuti anche a evitare un’operazione di negazione delle proprie esigenze attraverso la scelta di una modalità che proclami ostentatamente di «fare tutto solo per il bene dell’altro», lasciando nell’inconscio la colpa per ogni sensazione di piacere o soddisfazione che si può provare nello svolgere il proprio compito di genitore. Questo potrebbe avvenire per il timore che si evidenzi una relazione in cui si ruba qualcosa all’altro o si prevarica l’altro con le proprie esigenze, anche d’amore. Anziché un reciproco vantaggio (originario senso positivo del termine "simbiosi"), si possono attuare quelle situazioni in cui si lega davvero l’altro troppo a sé, come nella patologia simbiotica, sostenuta dalla relazione che Bion definisce parassitaria, spesso di danno reciproco. Ciò può valere anche a livello sociale, laddove subentri una condizione di passiva attesa di erogazioni "dovute" da parte di organizzazioni istituzionali, delle quali non ci si sente parte (Donati, 1999; Di Chiara, 1999).

La terza possibilità prevista da Bion, quella conviviale, indica un rapporto nettamente separato anche se contiguo, dove ciascuna delle parti non favorisce né danneggia l’altra, ma semplicemente la ignora. Certo, non è abituale pensare di applicare lo schema relazionale di tipo conviviale alla situazione familiare, ma se lo vediamo come un possibile atteggiamento mentale talora presente e talora no, anche laddove non vi sono stabili rotture nella comunicazione esplicita, può essere illuminante per riconoscere modi difensivi di tenere lontano pensieri troppo disturbanti, volgendo inconsapevolmente il capo dall’altra parte e sperando in un patto di non belligeranza. Spesso, però, vengono così perse anche aree di possibile interazione utile, che non trovano modo di coniugarsi (Pontalti, Fasolo, 1999).

Quanto le relazioni siano invece frutto di un’intima connessione fra noto e ignoto è oggetto di un classico studio di Freud, del 1919, dal titolo: Il perturbante. Con questo termine si è tradotto il tedesco unheimlich, contrario di heimlich (confortevole, familiare), e si designa tutto ciò che si pone in antitesi con il senso rassicurante di familiarità. Ma non è la semplice e totale estraneità. Freud riconosce come l’effetto di disagio nasca dal senso di commistione fra l’elemento nuovo e qualcosa che invece appartiene al riconoscibile; ne deriva un senso di deformazione, di immagine di qualcosa di abituale stravolto dall’inatteso in un modo che non ci consente di orientarci con le mappe abituali.

Ecco che allora familiare e non familiare tendono ad una strana convergenza. Dice Freud: «Il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare». Ambiguità che compare anche nei significati parzialmente contraddittori che il termine familiare – come Freud osserva ancora – possiede: familiare come qualcosa a cui siamo abituati, che è diffuso, e familiare come qualcosa che tende a essere nascosto rispetto a un mondo più allargato, qualcosa di celato al resto della società.

Ci troviamo dunque a sottolineare come non sia possibile, nonostante si possa essere spesso portati a desiderarlo, pensare a situazioni complesse che non includano la dimensione del contrasto intrinseco, del conflitto fra elementi che non possono essere ricondotti a esigenze omogenee, senza che questa dimensione conflittuale porti necessariamente a scontri visibili e negativi.

Ho recentemente discusso una differenza di vissuti inconsci presente tra le famiglie usuali e quelle adottive, in particolare in rapporto al fatto che nelle situazioni di adozione è richiesta la presenza di un’istituzione matrimoniale molto più "forte" di quanto non avvenga negli altri contesti. Anche se evidentemente la scelta di costituire una coppia non è realmente condizionabile nella sua prospettiva temporale, resta appunto intensa la pressione giudicante, super-egoica, che accompagna il percorso della valutazione e del controllo da parte delle istituzioni. Spesso ciò espande le già considerevoli quote di problematiche legate ai vissuti di adeguatezza presenti inconsciamente in ciascun soggetto. Intendo cioè sottolineare che se, da un lato, per la coppia adottiva sono manifesti i livelli di giudizio esterno sulle attitudini genitoriali, dall’altro è presente in qualunque soggetto un "giudizio interno" di validità del proprio legame affettivo e sessuale, psicologicamente confrontato con un modello ideale di relazione matrimoniale. Essendo questa sostanzialmente un’istituzione formale volta a sostenere l’applicazione di quella che potrebbe essere definita, nella nostra cultura, una pressione "monoeso-gamica" (cioè a strutturare un legame con una sola persona e scegliendola al di fuori della cerchia della parentela), non può che porsi come conflittuale rispetto a vissuti opposti, "poli-ed endo-gamici".

Dato che non esiste una condizione psicologica adulta priva di inconsci riferimenti – per analogia o per contrasto – alle figure parentali nella scelta del partner, sembra utile che essi possano essere vissuti come elementi integrabili nella personalità matura e che il loro ruolo accresca il meno possibile la già elevata presenza di "sguardi" esterni giudicanti, non solo nelle famiglie adottive, ma anche nelle altre situazioni, specialmente se strutturate con l’inclusione di elementi meno consueti nelle forme di relazione o di generazione.

Solo in questo modo, infatti, può costituirsi un modello interno di relazioni che, nel possedere sufficiente fiducia nelle proprie prestazioni, riconosce altresì che esse non possono estendersi a ogni settore e che non è fallimentare né parassitario – utilizzando espressioni di Bion – «apprendere dall’esperienza» anche altrui o «rispettare ciò di cui siamo ignoranti». Ciò mi sembra il migliore antidoto alla costituzione di un sé infantile (poi inserito in un corpo adulto) intrappolato fra fantasie di onnipotenza (devo saper fare tutto perfettamente) e incapacità di reggere le minime disconferme imposte dal confronto con la realtà (se sbaglio è la fine).

Tale struttura assume, infatti, facilmente l’aspetto clinico della personalità cosiddetta narcisistica, per l’intenso investimento sul sé che non riesce comunque a nascondere la fragilità di fondo, la facilità alla reazione rabbiosa e distruttiva in caso di frustrazione dei desideri.

Ciò conduce anche al possibile «elevato consumo di contenitori» (Francesconi, Scotto di Fasano, 1991). Per contenimento si intende quella funzione psichica per cui, all’interno di una relazione, un soggetto si presta ad accogliere contenuti mentali a forte tonalità emotiva di un altro soggetto, generalmente senza esserne – almeno al momento – consapevole, ma riuscendo ad ammorbidirne la quota ansiogena, raffreddando la temperatura troppo elevata dell’emozione anche a vantaggio della originaria emittente.

Il processo di contenimento può essere estremamente difficile in presenza di una patologia caratteriale narcisistica che vive tali funzioni come inadeguate anche in modo piuttosto indipendente dall’andamento reale delle cose e ciò spinge appunto alla ricerca di nuovi contenitori, per scartarli come insufficienti immediatamente dopo, in un circuito ripetitivo e sterile. Si pensi alla ripetitività stereotipata dei comportamenti perversi o violenti, ad esempio, o alla indifferenza con cui possono essere sostituiti gli oggetti del desiderio (oggetti materiali od "oggetti" in senso psicologico, quindi anche esseri umani), intensamente bramati e subito indifferenti non appena raggiunti.

Anche i comportamenti tossicomanici, dei disturbi alimentari e delle sfide adolescenziali alla morte sfiorata, anziché una spiegazione centrata su una ricerca compulsiva del piacere (assai dubbio in queste situazioni) possono essere legati ad una trappola circolare di sperimentazione di morte/rinascita come inconscia e onnipotente rassicurazione di fronte ad angosce di perdita/dispersione di un sé che non ha raggiunto la sufficiente sicurezza di esistere. Il tempo lineare e l’esperienza soggettiva di presenza nella realtà sono infatti discontinui e richiedono la capacità di potersi ritrovare momento dopo momento, un poco trasformati, come la continuità di un filmato si articola su un passaggio rapido ma discontinuo di immagini statiche. Lo strutturarsi di questa continuità dell’esistenza richiede la fiducia in un contenitore che viene messo alla prova da "aggressioni" sperimentali non finalizzate a una reale distruzione, ma alla verifica che chi contiene riesce a sopravvivere agli attacchi del soggetto. Situazione tipica, questa, nell’epoca adolescenziale e particolarmente evidente nei contesti adottivi, laddove la maggiore ansia di essere rifiutati rende paradossalmente più intensi proprio quei comportamenti che sembrano fare di tutto per provocare un rigetto.

Dove vi è un grande timore inconscio del conflitto può anche accadere che occorra tenersi il più lontano possibile da situazioni reali di contrapposizione. Le famiglie che "non litigano mai", più che un vero benessere relazionale, possono testimoniare l’impossibilità di tollerare una minaccia, sentita come grave, alla continuità di fondo della relazione. Se sono presenti angosciosi vissuti di abbandono è ovviamente più problematico dare spazio a quella minaccia di ritiro dell’affetto che Freud considerava indispensabile per non abituare "il fanciullo" alla sensazione diseducativa di poter contare sempre e comunque sull’amore e sull’approvazione familiare. Ciò veniva da lui considerato negativo, perché non consentiva di acquisire autonome capacità di regolazione morale dei comportamenti.

La conflittualità manifesta

La necessità di modulare gradualmente le esperienze di frustrazione, ponendosi in una posizione genitoriale che non sia sempre e comunque di acritica giustificazione allineata sulle stesse posizioni dei figli, pur assicurando che la "tenuta di fondo" del legame non è stata irreparabilmente compromessa, appare qualcosa di indispensabile, ma, purtroppo, spesso difficoltosa, sia perché vissuta come colpevole o egoistica, sia perché sembra contrapporsi al diffuso bisogno di porsi esclusivamente come agenti di illimitate donazioni (Francesconi, Scotto di Fasano, 1997)

A proposito della necessità di prevedere un certo grado di conflittualità manifesta e di tenere conto che essa può derivare da un altro "tempo interno", è utile ricordare quanto ha sostenuto Winnicott: «La famiglia è costantemente messa alla prova, e, una volta provata e riconosciuta come degna di fiducia, diventa il bersaglio degli impulsi distruttivi del bimbo». Questa distruttività è, secondo Winnicott, espressione del fatto che «egli è alla ricerca di qualcosa di buono che ha perduto in uno stadio anteriore e con cui è arrabbiato perché esso se ne andò». Una rabbia, dunque, che può esprimersi proprio laddove c’è qualcosa di buono ora, per una "colpa" o "assenza" traslata da un allora e non indicativa di uno stato negativo attuale.

Vorrei concludere ricordando quello che lo psicoanalista Meltzer ci ha insegnato nel riepilogare le funzioni del contenitore in generale e di quello familiare in particolare. Secondo Meltzer, infatti, il contenitore ideale dovrebbe avvicinarsi il più possibile ad essere: delimitato, quindi non cedevole indiscriminatamente ad ogni richiesta: contenere richiede dei margini, delle sponde, dei "no", se giustificati; esperto, non è una colpa avere competenze e "studiare" per apprenderle; confortevole, tollerare le frustrazioni e il dolore mentale non vuol dire fare penitenze espiatorie in abbondanza: accettare per sé la possibilità di esperire piacere può aiutare anche ad insegnarne l’esistenza agli altri; privato, non tutto è né deve essere trasparente; esclusivo, ci sono momenti in cui il creare uno spazio personale può costare la fatica di tenere momentaneamente da parte altre esigenze, aggiungerei che il contenitore non deve essere già saturo: necessita infatti di uno spazio vuoto disponibile ad accogliere ciò che è dell’altro e la sua attività autonoma di ricerca e sperimentazione. «Ha avuto tutto, perché si droga?». Quante volte si sente ripetere questa frase... e forse la risposta sta proprio in quel "tutto".

La famiglia, sempre secondo l’autore, dovrebbe idealmente sostenere l’espansione di queste funzioni: favorire l’amore, la fiducia e la speranza non ciecamente, ma evitando di ignorare quei segnali anche piccoli di valore positivo raramente assenti anche nelle situazioni apparentemente più disagevoli; contenere la sofferenza mentale dovuta alle esperienze di ansia, disordine e caos psicologico, specie nei cambiamenti e di fronte alle novità; favorire il pensiero ed evitare la falsificazione: secondo l’impostazione di Bion e di Meltzer, si considera "nutriente" ed espansivo per le capacità mentali lo sperimentare il riconoscimento della "verità" emotiva; fornire invece ripetutamente una versione "falsa" a livello comunicativo di quanto viene sperimentato emotivamente – e generalmente comunicato comunque a livello sub-consapevole – "avvelena la mente" e ne preclude la crescita.

Analogamente, aree di eccessivo silenzio, di segreto incistato e impercorribile, portano generalmente a risultati ben poco vantaggiosi. La stessa vicenda di Edipo è accompagnata da un tale segreto sulle sue origini che paradossalmente proprio la fuga difensiva di Edipo fa sì che la maledizione che lo accompagna possa attuarsi. La colpa, unita alla non rimediabilità attraverso il pensiero, produce il perpetuarsi della maledizione originaria e sembra avere come unica possibilità la soppressione di tutti i figli di Edipo e il fallimento di una familiarità non aperta all’esterno.

La famiglia come contenitore, allora, non è quello spazio psichico che possiamo porre a disposizione dell’altro dopo averlo già riempito di noi stessi (narcisismo), ma neppure inglobante la totalità dell’altro con tanta determinazione da soffocarlo: penso che si possa contenere non tanto un "qualcuno", ma una relazione fra sé e qualcuno che però è in relazione con qualcun altro, che è in relazione con qualcun altro... e così via all’infinito, come nel quadro di Velazquez, Las Meninas, dove le immagini rimbalzano da uno specchio all’altro facendosi sempre più piccole e ricordandoci con questa mise en abme che noi veniamo cronologicamente prima e i figli dopo, che essi si allontanano finché il nostro sguardo li perde di vista e che, per quanto spetti a noi fare la nostra parte ora, avranno – con le parole di Creonte nell’Antigone di Sofocle – «cura del futuro quelli a cui toccherà averne cura».

Marco Francesconi
    

BIBLIOGRAFIA
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