Vis Polemica |
Funghi, legname e professori |
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Interessante l’intervento pubblicato sull’apposita rubrica “Lettere” del Secolo XIX (28-08-06) a firma del Prof. Silvio Spanò, ordinario di Zoologia all’Università di Genova nonché cacciatore. Una lettera che vuole presentarsi già completo nel titolo: “Il caso dei caprioli: emozione e ragione”. Sembra che il prof. Spanò, zoologo, si ponga come paladino della “Ragione” contro l’“Emozione” dei poveri animalisti, nei quali, come si sa, il cervello è sovrastato sempre dal “cuore”. L’artificio retorico consistente nel contrapporre “emozione” e “ragione” funziona purtroppo molto bene. Iniziate il discorso in quel modo e l’ascoltatore si disporrà ad accettare la tesi che vi accingerete a dichiarare. Iniziare col dire che il vostro avversario è una brava persona ma troppo emozionale (e quindi scarsolilla di intelletto) vi pone subito in una condizione di vantaggio. Se poi la relazione la proporrete con l’ausilio “forte” di un titolo di studio o con la dichiarazione che avete marcato il territorio di un pezzo di istituto universitario, chi potrà opporsi al vostro dire? Ma essere conoscitori di zoologia non significa necessariamente essere dispensatori di logica. Essere fedeli alla promessa di fare professione di “ragione” non è così facile per un motivo assai semplice. La Ragione assomiglia a una cassetta di attrezzi che si impiega soltanto per descrivere la consequenzialità tra gli scopi e il loro raggiungimento. Ma gli scopi non rientrano dentro la ragione, sono solo desideri che, sempreché si esprimano nell’ambito del “possibile”, definiscono opzioni che ci coinvolgono emotivamente rispetto a altri anch’essi possibili. Quindi, lo si voglia o no, non possiamo evitare di scivolare sempre dentro un ambito “emozionale”. Da questo punto di vista, il ricorso a frasi come “ La caccia al capriolo è lecita” non fa altro che sottolineare, anche se l’autore non sembra rendersene conto, il carattere convenzionale e desiderato della pratica della caccia. Esattamente come l’opzione animalista la rinnega; con l’unica differenza che una emozione è sostenuta sul piano delle norme sociali e l’altra no. Il carattere pulsionale della caccia appare in termini smaccati quando il Nostro lo riconferma: “… vorrei sgombrare il campo da un equivoco che ha sempre sotteso tutte le argomentazioni, ossia che la caccia debba essere utilizzata per diminuire le popolazioni di specie dannose alle attività antropiche. La caccia è un'attività lecita, praticabile solo su specie che non corrono rischi, sulla base di regole.” Con questa ammissione l’autore fa piazza pulita di tutta una serie di giustificazioni continuamente richiamate dalle istituzioni regionali per giustificare la mattanza e riporta la questione sul piano di scelte basate su delle regole e pertanto puramente convenzionali per soddisfare appetiti che nell’essenza sono anch’essi “emozionali”.[1] Certo, il prof. Spanò inserisce pure riflessioni ragionate, che tuttavia risultano inficiate dall’opzione di base dell’“attività lecita…sulla base di regole” la quale presuppone azioni che non hanno fondamenti nella ragione, ma solo nelle pulsioni del principio del piacere. Non si creda comunque che la parte dell’impianto “ragionato” sia privo di difetti. Poniamo l’attenzione sul passaggio seguente: Pertanto: è contro-natura pensare di sterilizzare una specie che può rappresentare una ricchezza del territorio in base a un suo naturale e controllato sfruttamento. È inutile (perché sposta solo il problema), crudele (per lo stress psico-fisico imposto agli animali), costosissimo e inefficace l'idea di spostare i caprioli. Non dovrebbe sfuggire la differenza esistente tra la prima proposizione e la seconda. Eppure esse sono offerte come se possedessero la stessa natura e una rinforzasse l’altra al fine di giustificare la mattanza. Non è così. La seconda possiede una natura descrittiva e dunque potrà essere giudicata vera o falsa sulla base di rilevazioni empiriche. Sembra che altri zoologi si siano espressi in termini diversi (Franco Tassi). Si tratta dunque di una frase che ricade, vera o falsa che sia, entro il dominio della tanto auspicata “ragione”. La prima, invece ha una natura normativa; non asserisce che è difficile farlo, o addirittura impossibile. Afferma che essendo contro-natura, non si deve farlo. Un vero autogol che ammette la possibilità di battere una strada che gli animallisti hanno chiesto con forza. Se non si fa, è perchè è contro-natura. Ma la natura cosa c’entra? Che c’è di naturale nelle istituzioni umane, nelle norme a cui tenacemente ci s’attacca, nei fucili di precisione, nelle selve fatte di alberi piantati a scacchiera e, dulcis in fundo, nell’allevamento di ungulati liberati per essere presi a fucilate? Come sempre gli specisti invocano la natura o la cultura a seconda delle convenienze, come quel prestidigitatore che rintrona il bambino facendogli vedere testa quando il piccolo prevede croce e croce quando prevede testa. Insomma se l’articolo pretendeva di mostrare “ragione” contro la critica animalista che appare emotiva, il professore non c’è riuscito per niente, anche a prescindere dalle considerazioni etico-animaliste sulle quali è inutile insistere per l’evidente impossibilità di trascinarvi un cacciatore. Vale la pena di porre attenzione al passo che segue, perché meritevole e capace di aprire delle interessanti riflessioni filosofiche. La morte, comunque ineludibile per ogni vivente, provocata da un preciso colpo di arma da fuoco, nel proprio ambiente e senza preavviso, è la migliore fine possibile (si pensi allo stress dovuto all'intervento di un qualsiasi predatore). Un passo interessante che forse apre delle utili considerazioni in rapporto alla funzione che l’umano potrebbe svolgere per diminuire il dolore del mondo qualora acquisisse quel ruolo di soggetto morale oggi del tutto inimmaginabile. Una morte improvvisa, relativamente indolore, per un essere che non ha il concetto della fine, potrebbe sostituire, qualche volta, altre soluzioni che una natura crudele ha previsto per l’estinzione degli esseri. Ma è ovvio che la questione potrebbe (chissà) diventare oggetto di discussione per gli “emotivi animalisti” se si verificassero determinate condizioni. Occorrerebbe che il capo fosse anziano e gravemente ammalato e sofferente. Altro che femmine e piccoli. Dovrebbe essere condotto da funzionari. Altro che da cacciatori il cui divertimento è dimostrato dal fatto che pagano per tirare. Dal punto di vista simbolico, il capo dovrebbe essere rispettato. Altro che mangiato. Fuori di queste condizioni, vagliabili in un contesto lontano anni luce rispetto all’attuale, l’“emozione” degli animalisti per il benessere degli animali si contrapporrà sempre all’“emozione” degli sterminatori per il piacere delle loro aspirazioni distruttive. Infine una notazione sulla frase più bella del pezzo, lasciata per ultima proprio perché più gustosa: quella secondo cui i caprioli sarebbero “una produzione del territorio, come il legname e i funghi”. Occorre ammetterlo, questa è una bella definizione. Ricorda la cultura degli indiani e il concetto della Madre Terra come generatrice di tutti gli esseri. A patto però che il Prof. Spanò consideri anche se stesso una “produzione” come i funghi e il legname. Purtroppo occorre ricredersi. Infatti la frase continua riferendosi a “una intrinseca logica di potenziale sfruttamento”. Rieccoci. E’ sempre la solita storia. L’umanità è il centro e tutto deve ruotare intorno ad essa. I caprioli non servono a se stessi, non sono proprietari della loro vita, ma proprietà di qualcuno che decide di equipararli al legname. No professore, non ci siamo proprio!
[1] L’unica sostanziale dissomiglianza tra l’opzione animalista che vorrebbe regole di divieto assoluto della caccia e quella vigente che la permette, la si può trovare solo ponendosi all’interno di una strana dimensione chiamata “Etica”. Lì, ormai da tempo, non c’è partita. Le osservazioni costruite dai filosofi animalisti non sono confutabili. Ma non divaghiamo, giochiamo pure “fuori casa”.
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Data: 17/09/06 |
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