Arrivando
sull'obiettivo, ho lasciato la moto fuori dal cancello e sono
penetrato nel piazzale sproporzionato, corredato da aiuole
abbozzate, vialetti incompleti e lampioni improbabili. La strana
coreografia, il caldo torrido e l'assenza di altri turisti
conferivano a quel luogo una assurda irrealtà. Lassù
si intravedeva il secondo cancello che doveva introdurre alla
zona propriamente archeologica. Ho scelto il passaggio diretto e
mi sono incamminato con passo rapido. La fretta era dettata
dalla speranza che la visita fosse veloce permettendomi di
raggiungere presto gli altri amici che erano andati direttamente
nella Costa Verde: quei cari ignoranti erano interessati
soltanto dal mare e dai paesaggi naturali. Non sono riuscito
a vedere il tempio di Antas, l'unico tempio romano in
Sardegna. Giunto in prossimità del punto in cui il
muro del viale finiva, un'ombra imprevista mi ha fatto
sobbalzare: il cane bastardo, di taglia media e con il muso
sporco di sangue, che doveva essere tutto contratto nella
stretta ombra dove il muretto finiva, è schizzato a
qualche metro e si è fermato per capire che cosa doveva
fare. Anch'io mi sono fermato. L'ho guardato a lungo con la
coda dell'occhio, evitando di fissarlo per non intimorirlo
troppo e ho provato una angoscia che un cane non mi aveva mai
ispirato. Non capivo che ferita avesse, se fosse grave o meno,
se prodotta da animale o da uomo, da morso, coltello o bastone;
non capivo se il povero animale soffrisse per quella causa. Poi
ho esteso l'attenzione e ho notato il corteo di disgrazie che
aveva accompagnato la sua sorte. Il manto chiarissimo aveva
ampie chiazze sulle quali il pelo cresceva a stento. In quelle
zone, e non solo in quelle, i parassiti e le mosche infestavano
a piacere. Quel pelo orribile ricopriva uno scheletro che
sembrava facesse di tutto per mettersi in vista. Doveva avere
una terribile fame arretrata. Poi la sete che mi perseguitava e
che non riuscivo a spegnere con nessuna quantità di
minerale, mi ha ricordato che forse lo spettro che avevo
davanti, prima ancora del cibo, doveva patire per l'incubo della
sete. Inizialmente ho pensato a un articolo letto per caso
pochi giorni prima, in cui allevatori di una regione italiana
che ora non riuscivo a mettere a fuoco, chiedevano immediati
provvedimenti alle autorità per eliminare cani
rinselvatichiti e pericolosi che, assediati dalla fame,
minacciavano i loro allevamenti. Potevo fidarmi? Non c'è
voluto molto tempo per capire che il cane era buono, non
pericoloso. Caso mai era pericoloso chi l'aveva ridotto in quel
modo. Potevo senz'altro fidarmi di lui. Ma si sarebbe lasciato
avvicinare? Ho provato a chiamarlo e l'inesperienza mi ha
indotto a fare quello strano verso a labbra strizzate che si usa
per richiamare i gatti. Niente. Poi un fischietto lieve,
un poco scemo ha avuto l'effetto di aprire un canale di
contatto; la sua coda ha incominciato a alzarsi e a muoversi
leggermente, ma la posizione assunta era inequivocabile: era
obliqua sia rispetto a me che alla direzione di fuga. La testa
era bassa e lo erano anche gli occhi che non riuscivano a
guardarmi. Quanto tempo è passato prima che potessi
avvicinarmi? Ogni mio passo verso di lui produceva un suo
spostamento di pari misura. Solo quando mi sono abbassato,
evitando di incombergli dall'alto, si è deciso al
contatto e lo ha fatto con una timidezza commovente,
abbassandosi in segno di sottomissione. Da vicino si vedeva che
il sangue era rappreso e la ferita appariva meno grave e in fase
di cicatrizzazione; alle prime carezze ha cercato ancora di
sottrarsi; solamente quando ha sentito che la mano era
sicuramente amica le ha accettate guaendo senza posa. Ho
pensato che, forse, nel suo ignoto linguaggio chiedesse da
mangiare e da bere e che qualcosa di sostanzioso fosse più
gradito delle carezze. Conquistata la fiducia sono corso verso
la moto. Velocemente, perché temevo che se ne andasse
senza ricevere quelle cure che ora non volevo per nessuna
ragione rinunciare a dargli. Mentre mi dirigevo verso la moto
lo guardavo e mi sembrava di vedere compiutamente la sua
incertezza sul da farsi. Aprendo la borsa delle provviste che mi
erano rimaste ho rifatto il richiamo che la prima volta aveva
avuto successo e di nuovo mi si è riavvicinato con un
passo che cresceva man mano che la certezza di mangiare si
faceva strada. Tra le provviste avrò avuto almeno un
chilo di pane secco che non ero riuscito a buttare via (ho
sempre avuto un blocco a buttarlo; che assurdità, vero?
eppure anche i simboli hanno la loro importanza). Quando ho
preso il sacco del pane, il cane, appena sopraggiunto, ha
cambiato immediatamente comportamento. Guardava il sacco e si
sollevava sulle zampe posteriori per sollecitarmi aumentando i
toni e le frequenze del guaito. Ho impiegato un bel po' di tempo
a sciogliere il nodo, premuto com'ero dall'animale e dalla sua
fame. Poi finalmente ho incominciato a dargliene piccoli pezzi e
con sorpresa ho visto sbucare dal nulla un secondo spettro: una
femmina, forse la madre, dalle mammelle cadenti e con molti
parassiti in più. Ho dato loro tutto il pane e ho
attenuato la loro fame. Poi l'acqua, circa due litri, e ho
spento la sete. Non avevo il coraggio di lasciarli e, del
resto, loro non lasciavano me. Allora sono passato ai biscotti,
al formaggio e, infine, alle scatolette di carne (sì,
all’epoca vivevo ancora nell’errore più
grave!). Loro continuavano a mangiare e ricevevano un momento di
conforto. Ma anch'io ricevevo - illudendomi, me ne rendo conto -
una sensazione di benessere interiore immaginandomi che
facessero "riserva per un po'". Finalmente dettero
l'impressione di essere sazi, ma non se ne andavano. Rimanevano
lì a prendersi altre razioni di carezze che non
riuscivano a estinguere la sazietà di un affetto
improvviso. Il mio sguardo passava da loro alla moto. Se avessi
raggiunto Carlo che aveva la macchina, potevamo portarli via. Ma
in campeggio li avrebbero accettati? Carlo sarebbe stato
disponibile? Ma c'era davvero spazio per loro in macchina? E
loro avrebbero accettato il viaggio prima in macchina e poi in
traghetto? Avrei dovuto anticipare la fine delle ferie? Ma poi,
a chi li avrei dato quei cani così brutti? Sarebbero
finiti in un canile? Io certo non potevo tenerli; portarli in un
mini appartamento saturato da tre gatti litigiosi e pestiferi
non era certo possibile; immaginarsi: dall'enormità di
quegli spazi pur violenti a un piccolo ambiente in città! Poi
li guardavo e sentivo un dolore fortissimo dell'animo,
accompagnato dal desiderio di tirarli fuori da quell'inferno. Lo
scontato finale si è imposto. Me ne sono andato
angosciato e afflitto da un profondo senso di colpa perché,
a quel punto, avevo la sensazione netta di essere la causa del
loro abbandono. Ero io la causa del loro abbandono! Da quel
momento ho incominciato a vedere cani randagi in ogni luogo
della Sardegna: nei campeggi, nelle spiagge, nei paesi, e, di
nuovo, presso altre rovine archeologiche. Possibile che tutti i
randagi della regione si fossero dati convegno intorno a me per
mettermi in uno stato di sofferenza che non mi permetteva di
gustare le bellezze dei luoghi? Il fenomeno doveva avere uno
sviluppo davvero enorme se si presentava in quei termini.
***
Sono tornato a
casa fortemente marcato da un evento banale che, tuttavia ha
costituito una svolta nella mia vita. Mi sono chiesto come mai i
precedenti incontri con cani sicuramente randagi non mi avessero
prodotto un effetto simile. In città e in campagna, nel
nord e nel sud del paese, nella regione in cui abito e in quelle
in cui mi reco per diverse ragioni. Ovunque ci sono cani
randagi. E allora? Finché sono finito a ragionare
sull'ambiguità del verbo "vedere". La realtà
si imprime nei nostri occhi portandoci un'infinità di
messaggi. Per tutta la giornata, per tutte le giornate della
nostra vita. Ma la maggior parte delle cose che vediamo scivola
via dalla nostra esistenza e non lascia traccia alcuna.
Esattamente come i cani che avevo sempre "visto", ma
mai notato. Il fatto è che noi vediamo veramente solo
una parte della realtà: quella che dispone, dentro di
noi, di una precedente condizione di visibilità.
Percepiamo con contorni netti esclusivamente gli enti che la
nostra sensibilità rende riconoscibili. Tutto questo
rimane e vive nel nostro intimo più o meno a lungo. Il
resto scompare in nome di un principio superiore di economicità
degli stimoli che ci impedisce di essere sommersi dalla
molteplicità delle cose e di cadere in una paralizzante
apatia. Esiste un altro verbo che possiede una maggiore forza
e che attiene al campo della visione: "osservare";
esso pare disporre, rispetto a “vedere”, di una
diversa capacità di esprimere l'attenzione del soggetto
che percepisce. Osservare significa predisporsi
all'attenzione in virtù di una acquisita sensibilità
verso un essere, un oggetto, una situazione. Ecco perché,
in precedenza all'avventura sarda, i cani randagi non
costituivano parte della mia esistenza. Pur vedendoli non li
osservavo, non avendo avuto l'opportunità di costruire
degli schemi di riferimento nell'area della sensibilità
che mi permettessero di prendere contatto con loro. Potevo
essere letteralmente circondato da torme di animali, ma in
assenza del silenzio, della solitudine, della temperatura
torrida, della ferita e della fame, insomma delle circostanze
manifestatesi presso il tempio di Antar, non mi sarei mai
sognato di riflettere sulla condizione degli animali randagi.
Che la sensibilità si acquisisca con il contatto diretto
della sofferenza e del dolore? Non mi sembra che sia una tesi
nuova. Ora, ogni tanto, ripenso a quei cani. Di certo avranno
abbandonato questo mondo e si saranno liberati dalle loro
sofferenze. Ma se da tanti anni mi sono dedicato alla causa
antispecista lo devo a loro. Devo a quella immensa ferita ancora
aperta, e mai più rimarginabile l’inestinguibile
volontà di combattere per la causa più difficile.
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