Sant'Eustachio de' Cacciatori

(di Giuseppe Pastorino)

Richiesta di passaggio: può essere organizzata una cena disgustosa come quella descritta all'inizio del racconto?



La festa di ogni anno è giunta ben oltre la metà. Un ricco salone e tanti bei cacciatori impegnati su lunghe tavolate ad abbuffarsi di selvaggina di stagione. Gli spaghetti di castagne al tacchino reale hanno aperto le danze. Poi è seguito un risotto al ragù di germano tartufato con speck d’anatra alla cannella. Come terzo primo è stato il turno dei panzerotti farciti di crema di fegato di cinghiale. Quindi i secondi: una zuppa di cervo con funghi porcini accompagnata da un’insalata di testicoli di capriolo con capperi all’aceto balsamico su crostino di polenta. Il clou: la lepre in civet e fegato grasso d’oca con composta di cipolla, per giungere alla terrina di daino al cacao pennellato con marmellata di prugne. Mancano ancora le crocchette di fagiano accostate a patate dolci della Patagonia fritte nel grasso di maiale selvatico; un abbondante “misto formaggi” che, come è noto, ha notevole potere ripulente per lingua, esofago, stomaco e intestino. Soltanto alla fine si affaccerà un anemico sorbetto al limone, gustato solo per rispetto della tradizione, mentre in attesa del caffe e di un digestivo buono per sturare cessi intasati, la disattenzione generale snobberà l’accessorio: quella cosa inutile chiamata frutta.

Felicità, allegria, spirito di corpo e tanto, tanto cibo. Tanto, tanto vino. Ma quei corpi vocianti, escrescenze di carne cresciute intorno a un tubo, non sospettano di essere laboratori chimici devastati dalle loro passioni per i cadaveri. Il vino poi, necessario complemento per sciogliere quella parte di grasso che riesce a abbandonare i rei e a non fissarsi in orribili panze, va giù a fiumi compromettendo la lucidità dei rarefatti pensieri.

Poveri animali! presi a fucilate nei loro ambienti, strappati dal mondo per niente, pur così pacifici e dolci. Eppure ora si stanno vendicando. Trasformati in bocconi, salsicce, brasati, scaloppe, spinti in quegli intestini inadatti, stanno incominciando la loro inesorabile opera minando, fermentando, schiumando, gorgogliando. Generando gonfiori e ribollite, infiammazioni e infezioni. I martiri della mattanza si vendicano inesorabili, intossicando in silenzio i corpi dei violenti.

E ora l’immancabile prete chiede la parola: lui, il prete cacciatore, l’animatore storico della combriccola.

“Cari fratelli, questa bella giornata dedicata al santo Patrono, ci vede tutti uniti nel segno della piacevole attività benedetta da Dio. Vi ricordo il passo della Genesi con il quale il Creatore invita l’uomo a disporre di tutto quanto nuota nelle acque, calpesta la terra, vola nel cielo. Noi, conservando la remota tradizione della caccia, ottemperiamo all’antica concessione. Così facendo, attingiamo ai beni della natura rimanendo a contatto con la grande Creazione divina …”

Terribilmente sincronizzato con la brevissima pausa della concione, un intestino affranto dall’oppressione dei grassi, un intestino ormai sfiancato dai diverticoli, cosparso – come un allevamento di champignon – di polipi cattivi, quell’intestino dà un primo segno di ribellione e, nell’istante sospeso, deflagra come un vulcano eruttante. La bocca associata al culo (le due estremità del tubo!), imbarazzata e confusa, si produce in una incomprensibile frase in un oscuro dialetto del nord in cui l’unica parola limpida è un bel moccolo. La sala è percorsa dallo sghignazzo e il vicino di tavolo interviene: “Uhèèè, Argenio, si può scoreggiare, ma non bestemmiare davanti a Padre Giovanni...”

Ma può Padre Giovanni accettare l’imbarazzo del caro parrocchiano assiduo della messa e da sempre compagno di caccia? “Cari amici, in certe bocche devote, certe espressioni sono piccoli incidenti. Siamo indulgenti. Però non approfittiamone troppo, eh, Argenio…”. E ora l’applauso risolutore che tutto aggiusta insieme al sorriso bonario del prete che riprende il discorso.

“Dicevo… noi onoriamo Dio a ogni pressione del grilletto, ma anche nei lunghi intervalli tra uno sparo e l’altro percepiamo la bellezza del Creato che mai smette di ricordarci la bontà divina rivolta agli uomini. E se certi fratelli distruggono la natura oltre il consentito – pensiamo a particolari distorsioni del progresso – noi, con la nostra attività, stiamo a ricordare quanto sia doveroso per l’uomo conservare il capolavoro divino, cosa che svolgiamo con amore portando a riequilibrio le specie. Quest’anno il nostro Patrono, Sant’Eustachio, ci ha concesso una battuta copiosa e la nostra cena sta a dimostrare quanto gli siamo cari. Viva la caccia! viva sant’Eustachio!”

Esplosione di voci rauche, avvinazzate, grasse, tronfie, sboccate; un boato per padre Giovanni. Il quale, prima di sedersi, passa il testimone.

“E ora un ospite. Voi sapete come siano lontani i diverbi tra ambientalisti e i cacciatori. Dobbiamo ringraziare gli amministratori del Comune che si sono prodigati per convincere gli ambientalisti sulla magnifica funzione regolatrice che noi svolgiamo, cosicchè tutti siamo giunti a quell’armonia generale che non deve mancare mai. Quest’anno abbiamo un nuovo assessore all’ambiente: il dottor Carlo Eugenio Franchetti che abbiamo l’onore di ospitare e che ci porta il saluto dell’Amministrazione. A lui la parola…”

Applausi. Uragano di applausi. Ma perché? Non ha ancora detto niente… è il clima di entusiasmo creato dal prete? L’ottundimento dei sensi generato dall’alcol? Gioca il clima del convivio e della festa? Forse tutto questo insieme. Ma il Franchetti le merita ‘ste feste? Gli applausi sono un premio. Va dato sempre alla fine, non si sa mai.

Franchetti si alza abbandonando un piatto di zucchine e melanzane grigliate accettate dopo aver rispedito al mittente infinite portate e incomincia a parlare.

“Cari concittadini, sono contento di essere stato invitato qui, tra di voi; voi mi fate un grande onore”. Nuovi applausi senza risparmi. “Io però non mi sento degno di parlare di caccia poichè non ho mai provato l’emozione di praticare la vostra bella attività. E allora voglio semplicemente intrattenervi sul vostro patrono, sant’Eustachio, sul quale mi sono documentato in vista di questo gradito invito. Vi proporrò la storia tradizionale con l’aggiunta della mia interpretazione dei fatti”. Altri applausi che si spengono per dare il via all’oratore. Il quale si blocca per alcuni secondi finché, nel silenzio così finemente riscosso, comincia.

“Il generale romano Placido agli ordini di Tiberio era un grande appassionato della caccia e svolgeva questa attività ogni volta che poteva. Un giorno, insieme al suo cavallo e a due cani si mette sulle tracce di un bellissimo e maestoso cervo. Lo individua grazie ai cani che lo fiutano e lo insegue finchè l’animale, venendosi a trovare davanti a un burrone, è costretto a arrestare la sua fuga. Ma prima che Placido lanci i suoi cani per dilaniare il cervo, questo girandosi verso il cacciatore mostra una croce tra le bellissime corna e straordinariamente parla: «Placido perché mi perseguiti? In me vedi Cristo, anche se tu non mi conosci. Ti prego, riponi le armi e richiama i cani». Placido da quel momento abbandonò la caccia...”

“Scusi, assessore – interloquisce Padre Giovanni sorpreso e seccato – Placido non ha abbandonato la caccia, semplicemente si è fatto cristiano avendo riconosciuto Cristo nel cervo. Ma quello non era un cervo vero. Da quando in qua i cervi hanno la croce tra le corna?”

“So bene – risponde Franchetti – che la Chiesa pretende di interpretare questo fatto come il segno di una conversione del generale romano al Cristianesimo. Ma che bisogno aveva Cristo di trasmutarsi in un cervo quando poteva benissimo presentarsi nelle proprie sembianze in altri momenti senza dare adito a equivoci? No. Il simbolo della croce deve essere tradotto correttamente: è una trasfigurazione del senso di colpa emerso improvvisamente in Placido di fronte alla spiritualità laica della natura. Io interpreto il cosiddetto “miracolo” in altro modo. Il cervo rappresenta l’innocenza assoluta, rappresenta Cristo nel senso di un essere senza peccato che viene violentato dall’ignoranza del mondo. Non dal leone, carnivoro per natura, ma dal bieco divertimento di un soggetto che, pur ritenendosi "agente morale", rimarca la sua immoralità con atti abominevoli degni di massima esecrazione. E’ il riconoscimento di questa verità che spinge Placido a rinascere diventando Eustachio e abbandonando la violenza verso gli esseri indifesi… Sì, il nuovo Eustachio è vegetariano, come è testimoniato dall’etimologia della parola che vuol dire 'buon raccoglitore di messi'...”

“Ma cosa sta dicendo? Ma non dica eresie” tuona un padre Giovanni esterrefatto “questa è una fandonia grossa come una casa. Sant’Eustachio non ha abbandonato la caccia, è solo diventato cristiano. Ha capitooo???”.

“Magari è anche diventato cristiano, non discuto; ma ha abbandonato la caccia. Penso di avere le prove di quel che dico”

“Ah, sì, è allora le esibisca!”

“Lo farò senz’altro, ma prima lo faccia lei. Mi dimostri che dopo quel fortunato incidente Eustachio ha continuato a andare a caccia. Poi io le mostrerò le mie prove”.

Così dicendo, Franchetti, senza sedersi, si porta alla bocca un altro pezzo di melanzana e con calma si allontana verso la porta. Agguanta la maniglia, ma prima di varcare la soglia possiede ancora delle parole per l’uditorio incredulo e stizzito.

“… e voi… in attesa che si chiarisca la questione fareste bene a cambiare patrono. E’ assolutamente da pirla che dei cacciatori assumano come protettore uno che si riscatta da una azione indegna deponendo per sempre le armi da caccia. Non vi sembra?” Dicendo questo esce col sorriso della Gioconda stampato nel volto.

Mai, come questa sera, una cena è andata per traverso a tutti i commensali. Non soltanto per i grassi ingeriti.


Sant'Uberto de' Cacciatori

(di Gian Pietro Bertoli)

Incredibile! Il racconto di Sant'Eustachio ha promosso un secondo racconto, con la differenza che quanto segue, non è un parto della fantasia, ma la ricostruzione di un fatto veramente avvenuto. Un'osservazione: Ma possibile che questi santi siano fatti con lo stampino? Un po' di fantasia, diamine...



Squilla il telefono, alzo il ricevitore:

“Pronto”.

Dall’altra parte un filo di voce sconosciuta dice: “Congratulazioni per la sua elezione, sono il  presidente del circolo dei cacciatori di T. e vorremmo invitarla alla nostra festa che facciamo tutti gli anni in occasione di S.Uberto, patrono dei cacciatori”.

“Grazie per l’invito, ma voglio avvisarla che di caccia non capisco un granché”.

“Non importa, basta un saluto e la presenza”.

Penso rapidamente che alla gentilezza si deve accondiscendere; e poi, per un eletto, nel limite del possibile, è bene ascoltare tutte le opinioni. Rispondo: “Va bene, verrò”.

Allora l’aspettiamo sabato nella frazione O. di T. per le ore ventuno, le siamo molto grati. Arrivederci”.

“Arrivederci”.

 ***

Il sabato sera arrivo nel luogo indicato e trovo una festa campestre molto animata. Dopo qualche minuto un distinto signore mi si avvicina e mi dice: “Sono il dott. M. che le ha telefonato, molto piacere” e mi tende la mano.

“Piacere”, rispondo col suggello di una stretta calorosa.

Dopo qualche convenevole ci dirigiamo nel padiglione dove è prevista la chiacchierata. Prendiamo posto dietro il tavolo un poco sopraelevato sopra la platea abbastanza numerosa di cacciatori.

Mentre gli altri incominciano a parlare, lascio correre lo sguardo sui volti che mi stanno di fronte; alcuni sono distratti, pochi li conosco. Scorgo negli occhi di qualcuno di quest’ultimi un che di perplesso, come dire, ma che centra questo con la caccia. O forse me l’immagino solo io. Comunque devo risolvere quell’altra questione: cosa dire. Abbasso lo sguardo sul tavolo e vedo un volantino che attrae la mia attenzione. Parla della vita di S.Uberto.

Uberto era un nobile vissuto nel medioevo e, come tutti i nobili dell’epoca, aveva una grande passione per la caccia. Anzi, questa passione lui l’aveva doppia. Un giorno, come il solito, uscì con alcuni compagni ed i segugi per cacciare e subito vide un cervo magnifico. Incominciò l’inseguimento nel bosco. Il cervo spariva e ricompariva e Uberto lo seguiva con feroce determinazione: la sua forza fisica e mentale era concentrata sulla preda. Dopo un po’ tutto era scomparso tranne il bosco che era la scena, e lui e il cervo, gli attori.

In una radura il cervo si ferma e volge il suo magnifico capo incoronato da un maestoso palco di corna verso l’inseguitore; il sole inonda con un faro di luce la splendida bestia e questa parla: “Perché, Uberto, mi segui per uccidermi? Cosa ti ho fatto?”

Il cacciatore folgorato, rendendosi conto di essere di fronte a un miracolo, si pente della sua ferocia, ritorna a casa e da allora rifiuta la caccia.

Mi dico: trarrò spunto da questa lettura che mi sembra un bell’esempio dell’evoluzione della caccia nella storia dell’uomo.

Quando mi tocca parlare racconto la storia di Uberto. Gli sguardi della platea si indispettiscono. Mi chiedo: perché, se ripeto quello che loro hanno scritto, si irritano? Comunque continuo: “La vita del vostro santo protettore potrebbe essere il paradigma del cacciatore nella storia: un tempo cacciatore accanito per necessità, oggi cacciatore sportivo per passatempo, domani rispettoso animalista”.

L’atmosfera si è fatta invernale e sembra nevicare anche se siamo in estate. I volti dei presenti sono irrigiditi dal freddo. Comprendo che la mia disinvoltura non è stata gradita; non mi guardo intorno per non sembrare un provocatore e aspetto che la riunione finisca in un gentile imbarazzo.





02/08/05
& 12/10/05

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