Bloc Notes

La scalinata

di
A. S.



 

Tra gli effetti sgradevoli dei fatti di Rosarno, le violenze sui corpi e sulle menti, le deportazioni sulla base del colore della pelle, le perdite dei pochi averi, le mancate riscossioni di arretrati già falcidiati da ‘ndrangheta e caporali – insomma tutto quello che, a questi livelli, in Europa può accadere solo in Italia – sono da addizionarsi alcune frasi gravissime pronunciate nella cittadina calabrese e riportate  da giornalisti incapaci di coglierne le pesantissime implicazioni.

Cosicchè si può sostenere che i brillanti reporter abbiano fatto egregiamente il loro lavoro. Che consiste nel riportare espressioni terribili con estrema naturalezza in modo da decontaminarle dalla loro negatività e renderle pronte per un nuovo uso in altri luoghi del Paese. Rese innocue, tali frasi saranno di nuovo disponibili in altre bocche. Poi altre orecchie di altri giornalisti le riproporranno stabilizzando l’idea in eterno.

Mi riferisco alla ripetitiva affermazione secondo la quale i neri di Rosarno si comportavano come animali. Purtroppo l’abitudine di classificare animali certi umani è inveterata e avviene sotto tutti i cieli del mondo. Ma è altrettanto grave che le stesse vittime di questo disgustoso evento si siano ribellate riproponendo – da un altro lato – la stessa musica. “Ci hanno trattato come animali”, “non siamo animali”, “abbiamo vissuto come animali” ecc.

Da notare che le frasi pronunciate – “vivono come animali” e “viviamo come animali” – non sono frasi che si confermano l’una con l’altra. La prima possiede un significato di profondo disprezzo e attribuisce l’incapacità di vivere diversamente a chi vive di stenti e in uno stato di degradazione al limite della sopravvivenza. La seconda, viceversa, rappresenta un urlo di protesta che prelude a giuste pretese rivendicative.

Tuttavia sono gravi entrambe. Sono di una gravità inaudita anche se le bocche che le pronunciano – quelle dei persecutori e quelle delle vittime – traggono giustificazione (per quanto attiene l’uso di queste miserande espressioni) da una abitudine millennaria.

Vivere in mezzo a rottami, in ambienti insalubri, mangiare solo arance per poter mandare pochi denari a una famiglia lontana, schiacciati l’uno sull’altro in ripari posti in freddi tuguri non è tipico degli animali, almeno della loro condizione naturale. E’ tipico degli umani che vivono in modo subumano per via degli egoismi di coloro che, dopo averli messi in tali condizioni, hanno l’ardire di chiamarli animali. Gli animali potranno vivere in una natura leopardianamente matrigna, ma di certo non devono attribuire le loro disgrazie ai loro conspecifici, né la loro condizione naturale può essere assimilata a tali disgraziati stili di vita. Insomma, non è possibile, nel loro caso, parlare di degrado. I saltimbanchi che danzano sul sottile filo che separa un disprezzo che non fa onore da un razzismo limpidamente esibito farebbero bene a stare attenti prima di dare dell’animale a chi sostiene la loro comunità col proprio lavoro e col proprio sudore. Il riferimento insensato dell’animale rischia di dimostrare il livello subumano non delle vittime (per come vivrebbero), ma soprattutto dei persecutori (per quel che dicono) al punto che la condizione degli animali non umani, rischia di apparire un inarrivabile miraggio per una specie che condanna parte di se stessa a un cupo girone infernale.

Ma anche le vittime farebbero bene a ragionare sulla gravità di quell’urlo “viviamo come animali!”. Quel grido di dolore, per quanto possa essere comprensibile sulla base di un riflesso antico e scolpito nell’encefalo, rimarca la legittimità della sottrazione della libertà per tutti quei terrestri che abbiamo ridotto a schiavi, a misere ombre di se stessi. Rimarca la legittimità della violenza che gli altri animali sono costretti a subire. Ma allora, se tale condizione è legittima per gli animali, per quale motivo non dovrebbe essere legittima la violenza che essi stessi subiscono? La risposta classica, “perché loro sono animali e noi siamo  uomini!”, non funziona. Non occorre essere filosofi per comprendere come una tale giustificazione sia sospesa per aria e non riesca a motivare alcuna effettiva dimostrazione. Essere su un gradino della “scalinata dei vantaggi” e rivendicare diritti e solidarietà a chi sta su un gradino più alto mentre si accetta la violenza su chi sta in un gradino più basso, significa permettere al veleno della ferocia e della crudeltà di circolare indenne nel pianeta. Significa sancire la legittimità della gerarchia della violenza purché essa non ci riguardi. E se le circostanze possono forse prevedere un risarcimento per chi oggi reclama, sarà un risarcimento momentaneo che non modificherà il loro stato subalterno e future nuove discriminazioni.

Quando l’umano incomincerà a evitare di tirare in ballo gli animali per giustificare le relazioni patologiche che ha instaurato a livello infraspecifico, solo allora forse incomincerà a intravvedersi la possibilità di un mondo migliore per tutti.






Data: 10/01/10

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