Bloc Notes

Dieta locavora
e dieta vegetariana

di
Aldo Sottofattori



 

Negli ultimi tempi va di moda una tendenza che rileva l’importanza del consumo dei prodotti locali ai fini della protezione dell’ambiente. La tesi, il cui sostegno è basato sul buonsenso, dichiara che i prodotti locali producono un minore impatto ambientale rispetto a quelli provenienti da paesi lontani (spesso siti in altri continenti). Non dobbiamo stupirci se questo elementare ragionamento nasce in un momento storico in cui l’umanità sta mettendo a soqquadro la natura con emissioni mostruose di co2. Purtroppo gli umani spontaneamente difettano di capacità previsionali sui propri atti e la tendenza a rivolgersi al mercato locale risulta fortemente marginale. Così si insiste a percorrere una strada assurda. Consumare una pera proveniente dall’America Latina è un atto aberrante e privo di ragionevolezza se si pensa al costo di energia necessario per il suo trasporto nei mercati europei dove verrà consumata. Tuttavia non si può certo pretendere che siano i consumatori, spesso privi di nozioni adeguate, a fare la scelta giusta. Chi lo pretende, per esempio i “felici decrescenti” (i sostenitori della “decrescita felice”), confida che una informazione capillare e ragionata sia sufficiente per modificare la struttura dei consumi. Il fatto che i consumi non subiscano sostanziali cambiamenti per questa via dimostra quanto deboli e incapaci di generare una vera trasformazione della civiltà siano quelle forze marginali che pure vagheggiano un mondo diverso[1].

Si tratta di forze deboli (scusate l’ossimoro) che saranno pure romantiche e sognatrici ma anche un po’ carenti di quell’etica universale che dicono di possedere. Non è colpa loro, certo. Infatti l’ubriacatura culturale originata dalla tradizione giudaico cristiana fa sì che l’attributo “universale” da loro concepito comprenda soltanto la specie umana. Facilmente sentiremo parlare di “latte alla  spina” prodotto della cooperativa locale tal dei tali, “conveniente all’ambiente e alle tasche”, che consente di evitare il consumo di latte tedesco imbustato in contenitori svedesi. Ma i nostri non sospetteranno mai che quel litro di latte erogato da un distributore automatico che ti lascia il “piacevole onere” della bottiglia portata da casa, non solo non possiede nulla di etico, ma addirittura sostiene attività che, nella logica antispecista, appaiono semplicemente criminali, portatrici di schiavitù e di assassinio di esseri (in questo caso, le mucche) che vengono esclusi dall’“universo” dei soggetti a cui  è dovuto rispetto.

Ora però uno studio pubblicato dalla rivista Environmental and Science and Technology dovrebbe aprire qualche motivo di riflessione nei nostri amici decrescenti. Tale  studio è  riassunto in un articolo breve comparso sull’Unità (lunedì 21 aprile): “I vegetariani? Per l’ambiente”. Esso dimostra che la dieta “locavora” (cioè basata sul consumo dei prodotti locali) produce benefici limitati rispetto a quelli, enormemente superiori, generati dalla dieta vegetariana. L’articolo, per eccesso di sintesi, è scritto male. Quando si danno i numeri, li si dovrebbero dare con una certa precisione sottraendoli da rischiosi vizi interpretativi. Perciò utilizzerò solo i dati non soggetti ad interpretazione.

Lo studio ha calcolato l’intero ciclo della produzione dei cibi determinando i contributi delle varie fasi produttive alle emissioni dei gas serra. La sorpresa per molti può essere grande. Il trasporto contribuisce solo l’11% del totale delle emissioni prodotte. Ma ciò che qui interessa sono le percentuali del gas serra emesso (e.g.s.) per tipologia di “prodotto”:

e.g.s  x produrre carni rosse.........31%
e.g.s. x latte e latticini...................18%
e.g.s. x carne di pollo e pesce.......11%
e.g.s. x produzione verdura.............9%

La conclusione è questa: la dieta locavora è nettamente meno amica dell’ambiente rispetto alla dieta vegetariana. Si deve semplicemente dedurre che una dieta vegana (che esclude anche uova e latticini) sia molto più “amica dell’ambiente”. Di certo questo non significa che vi sia conflitto tra l’impiego di prodotti locali e alimentazione vegan. Semmai il contrario. Combinare i due atteggiamenti significa assumersi il massimo di responsabilità etica verso un prossimo veramente universale.

Naturalmente questa è la scoperta dell’acqua calda. Da anni il movimento animalista radicale non fa altro che ripetere in tutte le occasioni possibili la dimensione dell’impatto dell’alimentazione onnivora sulla distruzione dell’ambiente e, soprattutto, sull’incremento della fame e della povertà delle popolazioni più deboli. Lo scopo è quello di tentare, per mezzo di un argomento indiretto, di forzare il cambiamento delle abitudini alimentari assumendo l’etica “ristretta” dell’interlocutore, vista la sua assoluta indisponibilità ad accettare quella allargata che rileva anche gli interessi degli altri esseri viventi. Ma niente… anche l’etica ristretta che vede gli umani unici depositari di diritti va bene solo quando non tocca l’interesse del palato del singolo. Dopodichè, per questo individuo, anche l’interesse dell’umanità più povera ad una vita degna svanisce. Viene il sospetto che la proposta della filiera corta della produzione-consumo del cibo altro non sia che una delle manifestazioni per mezzo delle quali l’egoismo umano ritrova se stesso.

 

[1] Di certo i cambiamenti avverranno, ma  per la dura ostinazione della realtà che, oltre certi livelli, non si fa manipolare dall’hybris umana. E quando ciò accade, cioè quando le trasformazioni avvengono non guidate ma sotto la spinta della forza delle cose, in genere sono associate a violenti traumi sociali.





Data: 23/04/08

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