Officina della THEORÎA

Il massacro degli animali e l'Olocausto: il contributo di Charles Patterson alla discussione sui diritti animali*
- di Massimo Filippi -





*Questo testo nasce dalla trascrizione di una conferenza tenuta il 4 Febbraio 2005, presso il Museo Etnografico di Alessandria, trascrizione rivista e ampliata dall’autore nell’Aprile 2006 a tre anni esatti dalla pubblicazione in italiano di Un’eterna Treblinka.

«L’affermazione ricorrente che i selvaggi, i negri, i giapponesi, somigliano ad animali, o a scimmie, contiene già la chiave del pogrom»

(Theodor W. Adorno)1.

I

Nello spirito della lezione di Charles Patterson e rispettando il tema generale di questi incontri (“Animali & umani”), il filo conduttore del presente intervento sarà quello di individuare e definire lo stretto legame che corre, generalmente non riconosciuto, tra diritti umani e diritti animali. In Un’eterna Treblinka2, Patterson sottolinea, infatti, in maniera inequivocabile l’indissolubilità di tale legame e sostiene ripetutamente e a chiare lettere che l’Olocausto nazista non è stato né un evento unico né un’esplosione dell’irrazionale. Questo discorso, a 60 anni dalla liberazione di Auschwitz, avvenuta il 27 gennaio 1945, potrebbe urtare la sensibilità di alcuni, se non si sottolineasse da subito che scopo di tale discorso non è ovviamente quello di sminuire la tragedia dell’Olocausto, ma al contrario quello di sottolinearne l’importanza, ribadendo con forza la volontà che eventi simili non debbano più ripetersi. Infatti, se dovessimo riconoscere l’unicità assoluta dell’Olocausto, ne conseguirebbe, per definizione, la sua irripetibilità e, paradossalmente, non dovremmo più preoccuparcene per il futuro. Al contrario, se siamo disposti a riconoscerne la potenziale serialità, diventa essenziale capirne le cause e le dinamiche per evitare che possa ripetersi. In questo senso, è altrettanto essenziale rigettare le interpretazioni dell’Olocausto come sbocco incontrollato dell’irrazionale e riconoscerne invece la natura di evento eminentemente razionale3: accettare, cioè, l’idea che l’Olocausto è una delle tante materializzazioni storiche, certo una delle più infami e tragiche, dell’avanzare impetuoso di quella visione del mondo che si fonda sulla Instrumentelle Vernunft (ragione strumentale) e che ha ridotto l’intero esistente in oggetto totalmente disponibile per gli umani, in merce da cui trarre profitto economico4.

Già da queste brevi note introduttive dovrebbe risultare chiaro come Charles Patterson faccia un discorso squisitamente politico. Nella sua storia l’animalismo ha avuto varie sfaccettature e, oggi, sta probabilmente raggiungendo quella che potremmo definire “la fase oltre l’animalismo”5: l’animalismo, cioè, non è più una questione di nicchia e d’interesse personale, se pur molto importante, ma è una sorta di primo gradino, nelle parole di Tolstoj6, verso la compiutezza di una vita “come si dovrebbe”7 e, contemporaneamente, un osservatorio speciale per la comprensione della violazione dei diritti in genere.

II

Per cominciare, vale la pena ricordare qualche numero che evidenzia fattualmente come violazione dei diritti umani e dei diritti animali siano strettamente unite e interdipendenti. Questi numeri dovrebbero mostrarci in maniera inequivocabile come, nelle parole di Hans Jonas, “stiamo ballando sull’orlo di un baratro” e dovrebbe aiutarci a capire se e come è possibile fare qualche passo indietro. Il 40-50% dell’energia solare, la base della vita sulla Terra, è consumata da una sola specie e cioè dall’Homo Sapiens. L’80% delle risorse che da questa energia derivano è appannaggio del 20% della popolazione più ricca del pianeta. Il rapporto tra i redditi dei Paesi del Nord e quello dei Paesi del Sud del mondo è di 70 a 1. Tale ineguale distribuzione delle risorse comporta, tra l’altro, la morte ogni giorno di 25.000 bambini per fame o malnutrizione a fronte dell’uccisione nei soli Stati Uniti di 10 miliardi di animali a scopi alimentari (vale qui la pena di ricordare che da questa macabra contabilità sono esclusi pesci e animali di piccola taglia, quali i conigli, che per il loro scarso valore economico non vengono conteggiati pro capite, ma trasformati in tonnellaggio). L’antropizzazione progressiva del pianeta comporta l’estinzione diretta o indiretta di 74 specie al giorno, 3 ogni ora. Per curare le cosiddette “malattie del benessere” ci si affida alla sperimentazione animale che “utilizza” nei soli Stati Uniti 17 animali al secondo, ogni giorno dell’anno. E potremmo continuare di questo passo da una distruzione all’altra, parlando, per esempio, dell’aumento della temperatura globale o di quello della popolazione che, se dovesse basare la propria alimentazione su una dieta carnea, visto il dispendio energetico che la produzione di carne comporta (ci vogliono dai 16 ai 19 kg di proteine vegetali per produrne uno solo di proteine animali), comporterebbe livelli inauditi di devastazione e di morte.

A questo punto ci dovrebbe sorgere spontanea la domanda: che cosa ci ha portati sull’orlo di questo baratro senza fine? Quale è la diagnosi di questa malattia mortale di cui ci troviamo a essere affetti? Anche se ipotesi diverse e, spesso opposte, sono state formulate per rispondere a queste domande, Patterson si inserisce in quella corrente di pensiero che ritiene la situazione attuale il risultato di una visione del mondo e di un’organizzazione sociale che origina, o che quantomeno subisce un’accelerazione drammatica, circa 11-12 mila anni fa, quando nella Mezzaluna fertile nascono l’agricoltura e l’allevamento8. A grandi linee, si può infatti affermare che prima di allora gli umani erano fondamentalmente organizzati in piccole tribù nomadi di raccoglitori con un’alimentazione sostanzialmente vegetariana (come è il caso dei nostri più vicini progenitori e cioè le grandi scimmie9). Con l’avvento della caccia si assiste non solo a una modificazione della dieta, ma anche a quella dell’organizzazione sociale con un predominio sempre più accentuato della componente maschile e della separazione dei ruoli in una primordiale scala gerarchica. Con il definitivo passaggio dal nomadismo alla stanzialità, resa possibile dalla nascita dell’agricoltura e dall’addomesticamento/allevamento degli altri animali, si assiste alla formazione di assembramenti umani sempre più grandi dove la complessità sociale che ne deriva, il progressivo aumento dei bisogni energetici con la conseguente difficoltà a reperire risorse sempre più “nascoste” (dal legno, al carbone, all’atomo)10, necessariamente richiedono un incremento di tecnologia e quindi una società sempre più gerarchizzata, dove una casta dominante di “esperti” si prende cura di organizzare, dirigere e comandare un sistema progressivamente più complesso11.

La società gerarchizzata prevede una scala degli esseri, al fondo della quale ci sono sempre stati, in tutte le epoche e sotto tutte le latitudini, gli altri animali12, a svolgere il ruolo, da un punto di vista materiale, di materia prima e forza-lavoro e, da un punto di vista sociale, di referente negativo utile per discriminare i gruppi che di volta in volta si sono resi scomodi o per sottometterne altri a fini produttivi. Che anche oggi esista e sia affermata con orgoglio l’esistenza di una scala degli esseri, lo dimostrano, ad esempio, le parole di George W. Bush, che sul New York Times del 30 Marzo 2001, dichiarava:

«Non faremo nulla che danneggi la nostra economia, perché prima di ogni altra cosa vengono le persone che vivono in America».

Premesso che l’economia americana, così come quelle che a questa si richiamano, riconoscendosi nella comune fede acritica nelle “magnifiche sorti e progressive” di una crescita illimitata13, sono tra le maggiori cause di quella danza sull’orlo del baratro a cui si faceva riferimento in precedenza, in questa dichiarazione Bush ribadisce che esiste e, nonostante tutto e contro tutte le evidenze del contrario, va sostenuta una scala gerarchica degli esseri al cui apice stanno gli americani, i cui interessi economici debbono comunque prevalere sugli interessi, ancorché vitali, di tutti gli altri. Di volta in volta, tutti i gruppi vincenti (l’Impero romano, i Conquistadores, i bianchi, ecc.) hanno scritto la storia in questo modo, tramite, cioè, la creazione di una divisione radicale, di una linea ingiustificabile razionalmente fra “noi”, i possessori di diritti, e “loro”, gli esclusi. E che il manifestarsi storico delle varie linee di confine, tutte volte a sancire il diritto del più forte, si sia sempre basato sull’utilizzo strumentale del referente negativo animale, base della piramide sociale, è sottolineata, tra gli altri, da Milan Kundera che ne L’insostenibile leggerezza dell’essere, afferma:

«La vera bontà dell’uomo si può manifestare in tutta purezza e libertà solo nei confronti di chi non rappresenta alcuna forza. Il vero esame morale dell’umanità, l’esame fondamentale […] è il suo rapporto con coloro che sono alla sua mercé: gli animali. E qui sta il fondamentale fallimento dell’uomo, tanto fondamentale che da esso derivano tutti gli altri»14.

Qui Kundera ribalta la visione di Bush e ci suggerisce che la “questione animale”15 è tutt’altro che un problema marginale, essendo piuttosto la cartina al tornasole del trionfo dell’ideologia del diritto del più forte, ideologia che, dispiegatasi in tutta la sua potenza in concomitanza con la nascita dell’allevamento e dell’agricoltura organizzati, informa da più di 10 mila anni la nostra visione del mondo. Kundera sembra suggerirci che Hitler e i suoi alleati hanno sì perso la Seconda guerra mondiale, ma così non sembra essere stato delle sue idee che, ovviamente modificate, secolarizzate, più o meno abbellite, scorrono ancora sottotraccia nel nostro modo di essere-nel-mondo, come la condizione animale testimonia ogni giorno. È questa di fatto la situazione evocata in un famoso romanzo di fantascienza, La svastica sul sole16, laddove si parla di un universo parallelo, dove la Seconda guerra mondiale non è stata vinta dagli anglo-americani, ma dalle forze dell’Asse, e dove circola un libro potenzialmente dirompente in cui si descrive un altro universo parallelo dove il conflitto mondiale è stato vinto dagli alleati. Probabilmente, sembra suggerirci Dick, noi viviamo nell’altro universo e, aggiungiamo noi, il libro “scandaloso” che ci suggerisce la possibile esistenza di un altro universo più giusto, è proprio Un’eterna Treblinka.

A questo proposito, vale la pena ricordare l’importanza che la letteratura fantascientifica potrebbe ricoprire per il pensiero antispecista. Nella fantascienza, infatti, ci si trova spesso a confrontarsi con alieni, con intelligenze (come lo sono quelle animali) diverse da noi, che vengono viste come nemiche, come qualcosa da eliminare se non vogliamo esserne eliminati. A partire da La guerra dei mondi17, dove i marziani conquistano la Terra fino all’ultimissimo Sotto la pelle18, dove degli alieni a quattro zampe conducono allevamenti intensivi di carne umana, passando per il racconto didascalico Vennero i Troog e dominarono la Terra19, si assiste in molta fantascienza allo scambio di ruoli tra “noi” e “loro”, al fatto che a “noi” viene fatta varcare la linea di confine e veniamo messi nei panni dei “loro”. A chi sa leggere, questo passaggio genera sconcerto. Induce vertigine lo scoprire nella dinamica dello scambio di ruoli che viviamo in un mondo rovesciato, dove come Shakespeare fa dire ad Amleto: «Il mondo è fuor di squadra»20.

III

L’animalismo politico non nasce con Charles Patterson, ma probabilmente nella sua forma moderna e più avveduta con Max Horkheimer e Theodor Adorno, due filosofi della scuola di Francoforte, che ne La dialettica dell’illuminismo affermano:

«L’idea dell’uomo, nella storia europea, trova espressione nella distinzione dall’animale. Con l’irragionevolezza dell’animale si dimostra la dignità dell’uomo. Questa antitesi è stata predicata con tale costanza e unanimità […], che appartiene ormai, come poche altre idee, al fondo inalienabile dell’antropologia occidentale. Essa è ammessa anche oggi. I behavioristi se ne sono scordati solo in apparenza. Che essi applichino agli uomini le stesse formule e i risultati che essi stessi, liberi da catene, ottengono, nei loro orrendi laboratori fisiologici, da animali indifesi, conferma la differenza in forma particolarmente malvagia. La conclusione che essi traggono dai corpi mutilati degli animali non si adatta all’animale in libertà, ma all’uomo odierno. Egli prova, facendo violenza all’animale, che egli, ed egli solo, in tutta la creazione, funziona – liberamente e di sua propria volontà – con la stessa cieca e automatica meccanicità dei guizzi convulsi delle vittime incatenate che utilizza ai propri scopi. Il professore alla tavola anatomica li definisce scientificamente riflessi, l’aruspice all’altare li aveva stamburati come segni dei suoi dèi. All’uomo appartiene la ragione del decorso spietato; l’animale, da cui trae le sue illazioni sanguinose, ha solo il terrore irragionevole, l’istinto della fuga che gli è preclusa»21.

Anche in questo breve passo, esemplificativo tuttavia della visione dei filosofi francofortesi, si ribadisce di nuovo l’implacabile ordine del più forte sostenuto dall’orrendo gioco “noi-loro”, dall’implacabile e infame linea di confine che, basata sull’antitesi “umano-animale” rende chi è decretato essere al di fuori delle mura della polis come oggetto utilizzabile, come merce consumabile, come forza-lavoro da sfruttare. In altre parole, vediamo qui all’opera quello che potremmo chiamare il sillogismo della crudeltà, concetto ben presente anche a Patterson, e che potrebbe essere così riassunto: a) prima premessa – gli animali sono cose o merci e, come tali, beni di proprietà, per definizione privi di diritti e di cui, quindi, si può disporre a proprio piacimento; b) seconda premessa – umani, o più frequentemente gruppi di umani, per i più svariati motivi, possono venire disumanizzati tramite l’uso del referente negativo animale; da cui discende: c) conclusione – questi umani o gruppi di umani possono essere trattati come gli animali a cui sono stati omologati. E questo è certamente lo snodo fondamentale del pensiero di Patterson: il referente negativo animale è fondamentale perché costituisce, nelle parole di Horkheimer e Adorno, «il fondo inalienabile dell’antropologia occidentale» e torna utile come base giustificativa di tutte le pratiche intraspeciste di dominio e sopraffazione.

IV

Al di là della storia fattuale, brevemente tratteggiata in precedenza, quale è stato il percorso in ambito di storia delle idee che ha trasformato l’animale in merce?22 Citeremo qui soltanto alcuni brevi passaggi di quelli che possiamo definire gli architetti dell’odierna visione dominante dell’animale, che per l’Occidente può rivestire fondamentalmente solo due ruoli: o quello di semplice oggetto (di “orologio”, di “congegno meccanico” nelle parole di Descartes) e, come tale, escluso tout court dal diritto e dalla considerazione morale, o di mezzi per quel fine unico che è l’umano e, come tale, beneficiario di meri doveri indiretti.

Uno dei massimi architetti dell’omologazione dell’animale a oggetto meramente disponibile per gli interessi degli umani è sicuramente Aristotele che, nella Politica, afferma senza mezzi termini:

«Le piante sono fatte per gli animali e gli animali per l’uomo, quelli domestici perché ne usi e se ne nutra, quelli selvatici, se non tutti, almeno la maggior parte, perché se ne nutra e li usi per gli altri bisogni. […] Se dunque la natura niente fa né imperfetto né invano, di necessità è per l’uomo che li ha fatti, tutti quanti. Perciò anche l’arte bellica sarà per natura in un certo senso arte di acquisizione – e infatti l’arte della caccia ne è una parte – e si deve praticare contro le bestie e contro gli uomini che, nati per obbedire, si rifiutano, giacché per natura tale guerra è giusta»23.

Aristotele ha chiaramente colto che diritti umani e diritti animali sono parenti molto stretti e che l’animale è quel referente negativo, che rende la caccia e la guerra la medesima cosa e che ci permette di parlare di guerre giuste, laddove sottoponiamo gli schiavi, che si rifiutano di obbedire, allo stesso trattamento per natura (in quanto venuti al mondo per nostro uso e consumo) riservato agli altri animali.

La seconda visione occidentale dell’animale, cioè dell’animale come beneficiario di doveri indiretti in quanto il danneggiarlo si tradurrebbe in un vulnus degli interessi umani, è chiaramente espressa da Kant, quando afferma:

«Chi […] facesse uccidere il proprio cane […] non agirebbe affatto contro i doveri riguardanti i cani, i quali sono sprovvisti di giudizio, ma lederebbe nella loro intrinseca natura quella socievolezza e umanità, che occorre rispettare nella pratica dei doveri verso il genere umano. Per non distruggerla, l’uomo deve mostrare bontà di cuore già verso gli animali, perché chi usa essere crudele verso di essi è altrettanto insensibile verso gli uomini»24.

Anche qui si riconosce la stretta parentela tra umano e animale esclusivamente per riconfermare la netta divisione tra noi e loro, in un’incredibile autocontraddizione.

Tale invalicabile linea di confine è presente anche nel marxismo classico. In questo ambito, infatti, Marx e Engels non argomentano in modo molto diverso da quello dei filosofi citati, tanto che Engels ne La dialettica della natura afferma con allarmante candore:

«L’animale arriva al massimo a raccogliere: l’uomo produce, allestisce i mezzi necessari all’esistenza nel senso più vasto della parola, che la natura senza di esso non avrebbe prodotto. Ciò impedisce di trasferire, così senz’altro, leggi che regolano la vita delle società animali alla società umana»25.

In questo passo Engels, nel mentre gioisce per la teoria darwiniana, che mette fuori gioco i creazionisti, afferma che, tuttavia, tale teoria vale fino alla scimmia, dalla scimmia in poi valgono le leggi del materialismo storico. In un mondo scientista, perfino le leggi scientifiche si arrestano sulla linea invalicabile che separa l’umano dall’animale!

V

Che cosa accade tra Marx e Engels e Horkheimer e Adorno (pure marxisti)? Quando avviene la svolta epocale che inizia ad aprire la strada a una filosofia antispecista e ne rende possibile il suo fiorire dagli anni ‘70 del secolo scorso in poi? Anche se dall’antichità vari filosofi hanno costituito delle voci fuori dal coro dominante26, lo snodo fondamentale di tale svolta è rappresentato, nella modernità, da Jeremy Bentham che, ne I principi della morale e della legislazione, scrive il passo fondativo del pensiero antispecista:

«Verrà il giorno in cui il resto degli esseri animali potrà acquisire quei diritti che non gli sono mai stati negati se non dalla mano della tirannia. I francesi hanno già scoperto che il colore nero della pelle non è un motivo per cui un essere umano debba essere irrimediabilmente abbandonato ai capricci di un torturatore. Si potrà un giorno giungere a riconoscere che il numero delle gambe, la villosità della pelle, o la terminazione dell’osso sacro, sono motivi ugualmente insufficienti per abbandonare un essere sensibile allo stesso destino! Che altro dovrebbe tracciare la linea invalicabile? La facoltà della ragione, o forse quella del linguaggio? Ma un cavallo o un cane adulti sono senza paragone animali più razionali, e più comunicativi, di un bambino di un giorno, o di una settimana, o persino di un mese. Ma anche ammesso che fosse altrimenti, cosa importerebbe? Il problema non è: “Possono ragionare?”, né: “Possono parlare?”, ma: “Possono soffrire?”»27.

In questo passaggio, Bentham si rivela pensatore lucidissimo: in poche parole, denuncia l’esistenza una linea rossa (di sangue), che percorre le discriminazioni inter- e intra-specifiche, individua la stretta parentela che ci accomuna moralmente agli altri animali, instaura un legame strettissimo fra razzismo e specismo e sottolinea a chiare lettere che non possono essere meri fattori biologici, quali il colore della pelle, l’avere una costola in più o in meno, il possedere due gambe piuttosto che quattro, che possono rendere un essere senziente titolare o meno dei diritti fondamentali.

L’altro snodo fondamentale nella ridefinizione dello stato degli altri animali è rappresentato dalla teoria dell’evoluzione delle specie elaborata per la prima volta in maniera coerente da Charles Darwin28, teoria che rivede radicalmente il concetto di specie, che da ora in poi non possono essere più considerate come delle entità metafisiche rigidamente autonome, ma come effimere categorie biologiche, utili a fini classificatori, che possono evolversi l’una nell’altra e dove l’uomo non è più l’apice della creazione, completamente separato dagli altri animali, ma semplicemente e null’altro che un primate particolare. Come chiaramente individuato da James Rachels29, Darwin apre quella stagione scientifica che non sostituisce meri fatti biologici con altri, ma mina alle fondamenta le motivazioni (il possedere o meno l’anima, il possedere o meno la razionalità) utilizzate per tracciare quella linea divisoria che, da un lato, giustifica lo sfruttamento degli altri animali e, dall’altro, tramite il meccanismo del referente negativo, lo sfruttamento degli umani di volta in volta posti verso il fondo della scala sociale.

La lezione darwiniana è poi ulteriormente rafforzata dalle acquisizioni successive. Si pensi, ad esempio, alla nozione di storicità introdotta nella biologia evoluzionistica da Stephen J. Gould30, secondo il quale non è mai esistito un progetto evolutivo che prevedesse necessariamente la comparsa della nostra specie, se, come è vero, questa è stata resa possibile da fattori casuali, quali la caduta 65 milioni di anni fa di un enorme meteorite nella penisola dello Yucatan, caduta che ha comportato l’estinzione dei dinosauri, senza la quale i mammiferi attuali non si sarebbero potuti evolvere. Ma si pensi anche allo sviluppo dell’etologia, con la “scoperta” delle cosiddette menti animali31. O all’ecologia scientifica, secondo la quale esiste un’inestricabile interdipendenza fra le varie componenti della biosfera32. O agli studi sui primati non umani che hanno mostrato come alcune scimmie antropomorfe siano in grado di imparare i nostri codici linguistici33. O alla biologia molecolare, che ha evidenziato come la distanza genetica tra noi e gli scimpanzé (1,6%) è inferiore a quella tra scimpanzé e gorilla e oranghi (3,6%)34, le altre specie che fanno parte del genere Homo. Tutte queste osservazioni vanno nella stessa direzione: dimostrano, quello che il senso comune e la migliore filosofia antica35 avevano sempre saputo e, cioè, quanto sia stretto e indissolubile il legame tra animali umani e non umani e quanto irrazionale e intenibile la linea che vorrebbe dividerli da un punto di vista morale.

VI

L’elaborazione etica e le nuove acquisizioni scientifiche brevemente tratteggiate nel paragrafo precedente, hanno costituito una sorta di Zeitgeist che, in un breve torno di tempo36, ha portato a una vera e propria rivoluzione copernicana che ha radicalmente modificato, almeno a livello teorico, la considerazione morale da accordare agli animali non umani. Nel 1975, Peter Singer, pubblica Liberazione animale37, testo chiave dell’animalismo contemporaneo, nel quale, ripartendo dalle considerazioni di Bentham e di Henry S. Salt38, individua nella capacità di provare dolore e piacere il criterio razionale per tracciare quella famosa linea divisoria tra esseri con o senza interessi da tutelare. In breve, Singer sostiene che agli animali non umani va accordato un nuovo stato morale, sulla base del loro interesse a non soffrire e a incrementare il loro piacere: chi ha simili interessi deve ricevere simile considerazione, indipendentemente da fattori moralmente insignificanti, quali l’appartenenza di razza, genere o specie. In questo senso, va interpretato il più famoso “slogan” di Peter Singer: tutti gli animali sono uguali. La visione singeriana rientra di fatto nell’ambito della dottrina morale nota come utilitarismo della media, secondo cui è da perseguire quell’azione che aumenta in media il piacere di tutti quelli che vengono “toccati” dalle sue conseguenze (o, specularmente, ne diminuisce il dolore) e riprovevole quell’azione che determina un aumento medio di dolore (o, specularmente, ne diminuisce il piacere). La proposta filosofica di Singer non è priva di problemi, quali, ad esempio, la mancata protezione dell’interesse a vivere (che alcuni animali, tra cui gli umani, possono a buon titolo rivendicare), la difficoltà a “misurare” gli interessi in gioco, soprattutto in condizioni di conflitto e l’idea (comune a molto pensiero antispecista) che il miglioramento della condizione animale possa avvenire senza un radicale ripensamento di tutta la visione del mondo attualmente dominante.

L’altra figura centrale dell’animalismo moderno è Tom Regan, che nel 1983 pubblica Diritti Animali39. In breve, Tom Regan argomenta che sono persone, hanno cioè valore intrinseco e sono soggetti-di-una-vita, tutti quegli esseri viventi che posseggono determinate caratteristiche tali per cui sono in grado di ricordarsi del proprio passato e di progettare il proprio futuro, sanno cioè di essere-nel-mondo e hanno interesse a essere-nel-mondo, indipendentemente da quanto altri possano trarre beneficio a che questo accada. Tali esseri non sono meri enti biologici (dei “qualcosa”), ma individui con una biografia (dei “qualcuno”) e, quindi, come tali sono titolari dei diritti morali fondamentali (quello alla vita, quello all’integrità fisica, e quello alla libertà). Sostanzialmente, il pensiero di Regan può essere visto come un kantismo allargato, dove l’essere “fine” non coincide più con l’appartenere alla specie Homo Sapiens. Anche se rimane complesso il definire i fondamenti ultimi della teoria dei diritti (ma questo vale anche per la nostra specie!), la filosofia di Regan ha sicuramente aperto degli scenari fino a pochi anni prima impensabili, rimettendo al centro della preoccupazione morale la condizione dei non umani e costituendo la base di partenza di tutte le elaborazioni successive di maggior interesse speculativo40.

VII

Una volta accettato il senso comune, l’elaborazione filosofica più recente e le acquisizioni scientifiche darwiniane e post-darwiniane, tutti indicanti l’impossibilità di mantenere un doppio standard morale, uno per gli umani e uno per gli altri animali, viene spontaneo chiedersi quali motivi si siano addotti per continuare così pervicacemente a negare agli altri animali quanto loro dovuto per motivi di giustizia. Lasciando da parte la questione tutt’altro che secondaria circa la natura dello specismo (e cioè se questi sia un’attitudine mentale appresa a fronte di pratiche sociali acquisite o, viceversa, l’ideologia giustificazionista di tali pratiche), si possono individuare fondamentalmente due ragioni per cui storicamente agli animali sono stati negati interessi o diritti. La prima, basata su una visione specista “forte”, è essenzialmente un ragionamento di tipo circolare: gli animali non hanno interessi/diritti perché non appartengono alla specie Homo Sapiens. Questa visione dominante fino a pochi decenni fa è oggi totalmente screditata. La nostra elaborazione morale ha ormai definitivamente acquisito quanto già lucidamente affermato da Jeremy Bentham, e cioè che le caratteristiche biologiche non costituiscono criterio sufficiente per accordare una differente considerazione a soggetti con le medesime caratteristiche di rilevanza morale. Per gli stessi motivi, per cui, con grande fatica, siamo riusciti a capire che le donne non hanno minori interessi/diritti degli uomini, o che i neri non hanno minori interessi/diritti dei bianchi, dovremmo a questo punto superare definitivamente anche il pensiero specista.

L’altra ragione addotta per negare interessi/diritti agli altri animali è quella che si richiama a uno specismo “debole”, secondo cui l’appartenenza alla specie Homo Sapiens, conferisce delle caratteristiche moralmente rilevanti, non possedute da altre specie. Le principali caratteristiche prese di volta in volta in considerazione possono sostanzialmente essere raggruppate sotto tre capitoli principali: il possedere o meno un’anima immortale, l’essere o meno un agente morale, il possedere o meno la razionalità. Anche se uno iato così definitivo tra la nostra e le altre specie è minato alle fondamenta dalla teoria darwiniana41 e tralasciando laicamente la questione dell’anima42, nessuna di queste proposte normative regge l’urto dell’argomentazione razionale.

Si definiscono agenti morali quegli individui in grado di giudicare la valenza morale delle proprie azioni. Sono invece pazienti morali quegli individui che subiscono gli effetti di un’azione, senza però essere a loro volta in grado di compiere delle azioni morali43. A parte il fatto che in sede di elaborazione filosofica non tutti concordano che solo gli appartenenti alla specie Homo Sapiens possano essere agenti morali44, esiste ormai un accordo consolidato che riconosce agli animali lo stato di pazienti morali. Testimonianza di ciò è il fatto che in tutti i Paesi, pur mantenendo gli animali nello stato giuridico di beni di proprietà, proliferano leggi per il cosiddetto “benessere animale”45, leggi che non avrebbero senso se gli animali fossero semplicemente delle “macchine”, secondo il dettato di Descartes. Ma essere pazienti morali non significa essere privi di interessi o vedersi negati i diritti fondamentali; infatti, il fatto che un individuo non possa svolgere un’azione morale, non significa che non possa subirne le conseguenze. In sostanza, questa versione dello specismo “debole” confonde il come, ossia la possibilità della morale, con il cosa, ossia l’oggetto della morale e, in una visione egualitaria, viene empiricamente screditata dal trattamento accordato ai cosiddetti umani marginali. Gli umani marginali (ad esempio, soggetti con gravi lesioni neurologiche) sono del tutto incapaci di compiere azioni morali, ma non per questo vengono “mangiati” o “sperimentati”. Quindi, l’essere o meno un agente morale non può costituire quel criterio discriminante per tracciare la linea della considerazione morale.

L’altra versione dello specismo debole si rifà alla nozione di razionalità. Tralasciando altre questioni, questa è stata fondamentalmente declinata, con forte ascendenza hobbesiana, nella capacità o meno di siglare un contratto sociale, una qualche forma di accordo: riconosciuta la reciproca potenziale pericolosità e i vantaggi del vivere in un ambiente sociale pacificato, esseri razionali e completamente informati accettano, in un contratto ideale, di limitare le reciproche pretese. Poiché l’animale non partecipa a tale contratto, ne è escluso anche dai rispettivi benefici. Tale linea argomentativa non è solo contraddetta (ancora una volta) dal trattamento riservato agli umani marginali, ma anche dai suoi stessi più recenti sviluppi. Un esponente di rilievo di tale dottrina è, infatti, John Rawls, che nel suo fondamentale Una teoria della giustizia46 sostiene che la promulgazione di norme sociali che rispettino il principio di giustizia richieda che i soggetti coinvolti operino come se non fossero ancora venuti al mondo, come se fossero dietro a un velo di ignoranza. In questa condizione originaria, gli individui non sapendo quale sarà la loro classe, razza, genere, ecc. di appartenenza una volta giunti nel mondo reale (essendo cioè individui non interessati, ma essendo informati ed egoisti), non sosterranno di certo norme discriminatorie sulla base di queste caratteristiche, norme che potrebbero avere per loro stessi una valenza estremamente negativa una volta nati. In un’ottica antispecista, Van de Veer allarga un po’ il discorso di Rawls e ci domanda come ci comporteremmo se estendessimo solo di un po’ il velo di ignoranza e cioè se nella situazione originaria non sapessimo neppure quale sarà il nostro codice genetico47. Lasceremmo immutato lo stato giuridico degli altri animali se non sapessimo, ad esempio, se saremo destinati a nascere umani o maiali?

VIII

L’indissolubile legame che corre tra diritti umani e diritti animali (che, forse, in un’ottica squisitamente antispecista dovrebbero essere entrambi chiamati tout court diritti morali) è rintracciabile anche nel loro comune fondamento e nella loro comune genesi storica. Per quanto attiene al comune fondamento, vale la pena ricordare che l’importanza morale della capacità di provare piacere/dolore non si esaurisce “solo” in una definizione più razionale della linea di confine della sfera della considerazione morale, ma agisce anche come un discrimine per accertare la presenza di intenzionalità. È infatti plausibile che un qualsiasi essere in grado di percepire piacere/dolore avrà un certo grado di intenzionalità che, seppur non raffinata, precosciente e di breve estensione temporale, farà sì che l’esperienza presente verrà confrontata con quelle passate siano esse positive o negative, al fine di stabilire un comportamento futuro di ricerca di ciò che è ritenuto positivo o di allontanamento da ciò che è ritenuto negativo48. L’intenzionalità, anche ridotta ai minimi termini, si rivela nozione di estrema rilevanza etica, qualora accettiamo la feconda intuizione di Alan Gewirth49, che proprio sull’intenzionalità fonda la possibilità dell’esistenza stessa dei diritti umani, la dottrina morale più universalmente diffusa e accettata. Con questa base e seguendo l’argomentazione di Paola Cavalieri50, i diritti umani nel momento stesso in cui si definiscono, necessariamente si affacciano già al di là dell’angusto confine della nostra specie. Pertanto, in un’ottica rigorosamente antispecista ed egualitaria, la considerazione morale in senso stretto e cioè quella serie di fondamentali diritti negativi o alla non interferenza (e cioè il diritto a non essere uccisi, a non essere torturati e a non essere imprigionati senza giusta causa) si estendono anche a una gran parte delle specie animali non umane.

Per quanto attiene alla comune genesi storica, è forse superfluo ribadire, e questo ci riporta al cuore del discorso pattersoniano, che i diritti umani nella formulazione che conosciamo nascono a seguito e in risposta agli orrori della Seconda guerra mondiale, con il fine esplicito di costituire un’invalicabile barriera a protezione degli umani di fronte alla violenza e alla discriminazione istituzionalizzate51. I diritti umani, infatti, non sono intesi a proteggerci dalla violenza “comune”, contro la quale dovrebbero costituire protezione bastante le normali leggi dello Stato, ma sono disegnati al fine di prevenire il ripetersi degli orrori del nazismo, orrori appunto istituzionalizzati, razionalizzati, organizzati, industrializzati. E dove oggi troviamo violenza e discriminazione istituzionalizzate se non nel modo in cui trattiamo gli animali non umani? Esiste un’industria altamente razionalizzata e organizzata che uccide 50 miliardi di animali ogni anno solo per fini alimentari nel totale disinteressamento di noi tutti. È, infatti, caratteristica essenziale della violenza istituzionalizzata quella di essere invisibile: passavano inosservati i treni che andavano a Treblinka così come passano inosservati sulle nostre autostrade i camion pieni di animali destinati al mattatoio. I diritti animali sono a un tempo una nuova vista su un mondo ancora “fuori squadra” e la barriera più solida contro il perpetuarsi dell’orrore della storia52.

IX

Alla prima generazione di filosofi antispecisti ne è succeduta una seconda che, date per scontate le ragioni che rendono necessario l’accordare considerazione morale agli altri animali (o almeno alla stragrande maggioranza degli stessi), ha messo in stretta relazione l’attuale condizione animale con il trattamento riservato ad alcuni gruppi umani “minoritari”, al fine di portare una critica radicale alle strutture del dominio e alla cultura della forza53. In questo nuovo filone di pensiero si inserisce anche Charles Patterson con il suo parallelo tra l’attuale sistema di sfruttamento degli animali e la natura e il modus operandi dei campi di concentramento nazisti. Osservazione certamente non isolata, basti pensare a Isaac Bashevis Singer54 e John M. Coetzee55 prima di lui e a Karen Davis56 dopo di lui, solo per citare alcuni degli autori più noti. Il passo in più che fa Patterson è quello di dimostrare che i due fenomeni non solo usano lo stesso linguaggio, ma condividono essenzialmente la stessa natura: l’Olocausto è stato possibile grazie al dispregio etico del vivente costruito intorno all’animale come altro assoluto, come un “qualcosa” a “noi” (qualsiasi siano i “noi” che di volta in volta istruiscono il discorso) assolutamente incommensurabile. Sfruttamento degli animali, quindi come “palestra” universale per organizzare e perpetrare anche lo sfruttamento umano. Tipico doppio passo contraddittorio della logica dello sfruttamento animale che rende possibile quello umano: l’animale è abbastanza vicino a “noi” da poter prestare le sue sembianze al “nemico” di turno e abbastanza lontano da far sì che, una volta istaurato il paragone, il “nemico” possa essere discriminato ed eventualmente eliminato.

Questo non toglie che, in una logica rigidamente antropocentrica, l’accostamento tra Olocausto e olocausti (tra parentesi, il dizionario ci informa che olocausto significa originariamente «sacrificio di animali bruciati interamente» – siamo così accecati dalla nostra presunzione che non accettiamo nemmeno che se A=B, B=A) diventi accostamento scandaloso. È la reazione del poeta ebreo Abraham Stern al paragone della scrittrice animalista Elisabeth Costello nel romanzo La vita degli animali57 di Coetzee. Reazione infondata e maldiretta per chi legge il libro di Patterson che, ovviamente, non sminuisce con questo parallelo la tragicità dell’Olocausto, ma piuttosto ne diagnostica l’origine, lo fa assurgere a snodo fondamentale del male (banale) del mondo per prevenirne di futuri. A margine si annoti che questa terribile consapevolezza ha fatto breccia addirittura nella mente di Franz Stangl, il comandante di Treblinka, che, fuggito in Brasile dopo la guerra, alla vista (ricambiata!) di un gruppo di mucche nel recinto di un mattatoio pensa, come riferisce in un’intervista alla giornalista inglese Gitta Sereny:

«Guarda, mi ricorda la Polonia; era proprio così che appariva la gente, piena di fiducia, un momento prima che finisse nelle scatole… [cioè, le camere a gas]… dopo d’allora, non riuscii più a mangiare carne in scatola. Quei grossi occhi… che mi guardavano… senza sapere che di lì a poco sarebbero stati tutti morti»58.

Questo vertiginoso e abissale gioco di sguardi attraversa tutta Un’eterna Treblinka e, per questo motivo, la copertina dell’edizione italiana è dominata da due maiali che ci interrogano con lo sguardo dell’assolutamente vulnerabile, di chi ha vissuto una vita infame e sta per morire. Se non fosse filosofo irrimediabilmente antropocentrico si potrebbe a questo punto citare la chiamata etica irrevocabile delle miriadi di sguardi che solcano i testi di Levinas: «Il prossimo mi concerne non in quanto appartenente al mio genere»59. Specularmente alla logica antropocentrica che allontana l’animale per avvicinarne lo sterminio, la logica della copertina italiana e del testo di Patterson ci lancia uno sguardo dall’assolutamente altrove della morte (per chi legge, ovviamente quei maiali di copertina sono già morti) per avvicinarci al destino tragico di ciò che esce dalla logica del medesimo, dalle mura cintate della polis. In questa copertina, la carne senz’anima del maiale-merce dell’industria alimentare diventa l’anima senza carne della colpa e della nefandezza umana. Diventa spettro, fantasma. Degli spettri si aggirano per il mondo: nonostante lo sforzo dell’industria della carne per tenerli lontani dai nostri occhi, ne incrociamo lo sguardo tutti i giorni in autostrada durante il trasporto dall’infamia dell’allevamento intensivo a quella del mattatoio. La copertina del libro e il libro stesso ci insegnano ad addestrare lo sguardo, a sintonizzarlo sulle onde del non-visibile, ad avere una vista ai raggi X (nella felice espressione di Barbara Stagno60) per individuare da un lato i milioni di fantasmi che popolano le nostre mense e, dall’altro, per comprendere che il destino di quei maiali è ciò che rende possibile il destino degli “umani-maiali” (bizzarro esperimento di ingegneria genetica, che precede, logicamente e temporalmente, la potenza della moderna biotecnologia), esclusi dalla cerchia degli aventi diritto. Come dice Rudkus, l’operaio lituano protagonista del romanzo La giungla di Upton Sinclair:

«Quel che [gli industriali della carne] volevano da un maiale era tutto il profitto che riuscivano a spremere; ed era esattamente quel che volevano dall’operaio, come pure dal consumatore»61.

Lo spirito del capitalismo fatto carne. In fondo, il confino nel campo di concentramento e il successivo sterminio sono sempre e inevitabilmente preceduti dall’ammassamento dei corpi nudi, marchio tipico dell’allevamento intensivo e del mattatoio (scrive Boria Sax: «I nazisti costringevano coloro che stavano per uccidere a spogliarsi completamente e a raggrupparsi insieme, la qual cosa non è un comportamento consueto per gli esseri umani. La nudità dunque allude all’identità animale delle vittime e, con l’assembramento, suggerisce l’immagine di una mandria di mucche o di pecore. Una sorta di disumanizzazione che rendeva più facile sparare alle vittime o ucciderle con il gas»62). E infiniti sono gli esempi che Patterson ci propone di questa operazione consolidata nei secoli: dall’equiparazione dei nativi americani a scimmie, agli iracheni in fuga nel deserto durante la prima guerra del Golfo equiparati a tacchini.

Nella parte finale del libro, c’è lo sguardo (ancora una volta) sulla possibilità di una nuova aurora, quella di chi riconosce nella violenza agli animali lo stesso meccanismo che ha perpetrato o subito come umano equiparato ad animale (Marc Berkowitz, sopravvissuto di Auschwitz e “cavia” degli esperimenti di Mengele sui gemelli, risponde a chi gli domanda del suo impegno contro l’abbattimento delle oche canadesi: «Anch’io sono stato un’oca»63) e che apre la strada alla speranza che l’equazione “umano=animale” non venga eliminata, ma, passando scandalosamente la linea di confine, con il passo di Charles Darwin, diventi il fondamento per un mondo pacificato e non parola d’ordine della logica del dominio e dello sfruttamento.

Tra queste due parti, c’è la dimostrazione serrata che è il “sistema-mattatoio” (nato in America a fine del secolo scorso, come l’eugenetica razziale e la sterilizzazione obbligatoria) a fornire le coordinate e il modello, razionale e industrializzato, delle camere a gas e del loro indotto. Coordinate che Patterson sostanzia elencandoci, implacabile, la comune radice teorica e la comunanza delle tecniche che presiedono alla conduzione sia del mattatoio che del campo di sterminio (e questo fin nei dettagli più minuti che fanno sì che la dottoressa Temple Gradin definisca, 50 anni dopo e verosimilmente inconsapevole del precedente storico, i tunnel da lei progettati per portare i bovini all’interno del mattatoio con lo stesso nome – “scala per il Paradiso”64 – usato dalle SS di Treblinka e Sobibor per i tunnel che portavano alle camere a gas). Sarà un caso che Victor Brack capo del progetto di eliminazione dei lebensunwert (non meritevoli di vita) noto con il nome di programma T4, era diplomato in agricoltura? È un caso che Hans Hefelmann, direttore che coordinava l’uccisione dei bambini disabili, aveva un dottorato in economia agraria? Che Friedrich Lorent, altro membro influente del programma T4, avesse svolto un tirocinio in un istituto agrario? E che Jakob Wolger, direttore del centro di sterminio di Grafeneck, fosse figlio di un agricoltore? E che Bruno Bruckner, prima di lavorare al campo di sterminio di Hartheim, era stato facchino in un mattatoio di Linz? E che Werner Dubois avesse lavorato in un’azienda agricola prima di lavorare ai campi di Sachsenhausen, Grafeneck, Brandeburgo, Hadamar e Bernburg? Che Willi Mentz, sadico guardiano di Treblinka, fosse mungitore di vacche e che avesse “accudito” alle mucche e ai maiali che stavano per diventare cibo dei “lavoratori” di Grafeneck e Hadamar? Che Kurt Franz, ultimo comandante di Treblinka, e che Karl Frenzel, aguzzino di Hadamar e Sobibor, avessero svolto il loro apprendistato come macellai?65 È un caso che Himmler, allevatore professionale di polli prima di diventare gerarca nazista di primissimo piano, posto di fronte al problema dei Mischlinge (cittadini tedeschi in parte ebrei) scrivesse a Martin Bormann: «Dobbiamo procedere lungo linee analoghe a quelle seguite per la riproduzione di piante e animali» e cioè, «nei casi di inferiorità razziale, gli individui devono essere sterilizzati e deve essere impedito loro di propagare la razza?»66. Troppi casi per essere un caso. Troppi casi fanno una legge.

X

In conclusione torniamo ad Amleto, un altro spettro, un altro revenant, che ci ricorda appunto che «il mondo è fuor di squadra». Il mondo che conosciamo è fuori rotta, la crescita incontrollata del cosiddetto progresso ci ha portato sull’orlo del baratro, come si può verificare ogni giorno aprendo un qualsiasi quotidiano, dall’effetto serra al riscaldamento globale, dalla progressiva perdita della biodiversità all’esaurimento dell’acqua e delle riserve energetiche, dalle guerre alle carestie, dal nucleare alla brevettabilità del vivente, dalle chimere dell’ingegneria genetica ai disperati delle carrette del mare, dall’industria dello sfruttamento animale alla biopirateria. Sbaglia chi crede che questi e gli altri orrori presenti e futuri non siano aspetti strettamente interrelati e che necessitano di una comune presa di posizione. Che non ci sia rapporto tra morte per fame, esaurimento delle risorse, disparità Nord/Sud del mondo, deforestazione, inquinamento, esaurimento delle risorse, ecc., perché questa connessione c’è sia perché, come ci insegna Jeremy Rifkin in Ecocidio67, la “cultura della carne” e la conseguente “bovinizzazione del mondo”, contribuiscono significativamente a definire il nostro paesaggio e la nostra attuale condizione, sia perché, come ci insegna Patterson in Un’eterna Treblinka, sfruttamento umano e animale sono ontologicamente le due facce della stessa medaglia. Abbiamo perso il controllo, abbiamo perso i feed-back negativi, siamo nell’età della schismogenesi68, abbiamo imboccato la linea retta e tagliente dell’ere du vide. Stiamo violando i confini non per proporre un’etica della responsabilità69 e della pacificazione, ma per costruire una Treblinka eterna e universale. Dovrebbe invece essere compito della cultura marginalizzare i confini, renderli permeabili come le membrane biologiche, base di scambio e di arricchimento reciproco e non barriere insuperabili di filo spinato (altra invenzione per controllare animali subito adottata per il controllo degli umani). Non c’è dubbio, infatti, che dobbiamo varcare il confine, a cominciare da quello di specie, così come, altrettanto nobilmente, abbiamo attraversato, seppur a fatica, quelli di razza e di genere. Il problema è come lo si passa questo confine: nel modo proposto dall’avanguardia civilissima e responsabile dell’animalismo, cioè innalzando lo status degli animali a quello di persone portatrici di interessi e quindi di diritti, o al modo proposto dalla logica della Instrumentelle Vernunft, e cioè abbassando umani, animali e biosfera a merce per trarre profitto, come ci insegna tragicamente le vicende “antispeciste” della mucca pazza e dell’influenza aviaria.

Il pericolo che stiamo correndo è ben presente a Lee Silver, biologo molecolare a Princeton, quando sostiene che prima o poi la manipolazione genetica sarà applicata all’umanità dividendola in due distinte classi biologiche, la Gen Rich e la Natural. La classe Gen Rich rappresenterà circa il 10% della popolazione, quella che avrà i mezzi economici per arricchire il DNA della propria prole con geni “sintetici” che ne miglioreranno a dismisura le doti intellettuali, fisiche e di comando. La Natural è quella che continuerà a vivere “naturalmente”, senza arricchimento genetico. Quando questo accadrà, Lee Silver prevede che:

«Con il trascorrere del tempo, la distanza genetica tra la classe Natural e la classe Gen Rich potrebbe diventare sempre più grande e non sarebbe più possibile per un individuo salire dalla classe Natural alla Gen Rich. […] Tutti gli aspetti dell’economia, dei media, dell’industria del divertimento e dell’industria della conoscenza verranno controllati dai membri della classe Gen Rich. […] Invece i Natural lavoreranno come fornitori di un servizio sottopagato o come operai. […] I bambini Gen Rich e Natural crescono in mondi sociali separati, con poche opportunità di contatto. […] [alla fine] la classe Gen Rich e la classe Natural diventeranno gli uomini Gen Rich e gli uomini Natural, specie totalmente separate con nessuna opportunità di incrocio e con una specie di ‘curiosità’ gli uni per gli altri, come adesso accade per gli uomini verso gli scimpanzé»70.

Quando questo accadrà, i confini del mondo coincideranno davvero con quelli di un infinito campo di concentramento71.

È pertanto imperativo e urgente superare presto la linea retta dei confini e del tempo lineare del progresso sconsiderato con l’etica della responsabilità basata sull’accettazione del tempo circolare della natura; superare il cerchio delle mura della polis con la linearità del pensiero della giustizia. Nelle parole di Isaac Bashevis Singer, questo significa prendere posizione a favore degli “spettri” a partire dalla quotidianità dell’essere corpo che ha una relazione primaria col mondo a partire dalla necessità di alimentarsi:

«Essere vegetariani significa dissentire, dissentire con il corso degli eventi attuali. Energia nucleare, carestie, crudeltà, dobbiamo prendere posizione contro queste cose. Il vegetarianesimo è la mia presa di posizione. E penso che sia una presa di posizione consistente»72.

Prendere posizione a favore della vittima, scegliere di stare da una parte del confine, per attraversarlo. Pensiero abissale, paradossale e debordante che ci riporta all’inizio per tentare una nuova strada, per vedere nuovi orizzonti. Leggere, finalmente senza scandalizzarsi, la scandalosa frase di Adorno:

«L’affermazione ricorrente che i selvaggi, i negri, i giapponesi, somigliano ad animali, o a scimmie, contiene già la chiave del pogrom»73.

XI

Oltre la conclusione, al di là del nostro balbettio di fronte alla banalità del male74, vi lascio con questo brano, uno dei più belli e più densi mai scritti dalla letteratura animalista. Un brano di Anna Maria Ortese, tratto dal suo Corpo celeste75, scritto al di là dei confini della polis, da luoghi d’esilio76:

«La libertà è un respiro. Ma tutto il mondo respira, non solo l’uomo. […] Ma è in questo modo, come cosa e diritto di tutti, che l’uomo intende la libertà? Non credo. A me sembra che vada diffondendosi il concetto di libertà come furto del respiro altrui. Libertà come sopraffazione. Mi riferisco alla violenza, che ne è l’emblema. Ma subito dietro la violenza vi è una sopraffazione più grande, così estesa da fare impallidire. Vi è il diritto di mentire, di presentarsi (pubblicamente) come altri, che è tipico della forza; vi è il diritto universale, legittimato dalla sola forza, di mercanteggiare e corrompere ciò che dovrebbe essere intoccabile: gli spazi terrestri e celesti, con le loro creature che respirano. Distruggere campi e foreste, mutare e pervertire il ritmo delle stagioni; procedere tranquillamente alla reclusione e al massacro di milioni di creature ogni giorno solo per nutrirsi di carne o per indossare pellicce; torturare liberamente, in liberi laboratori, milioni di esseri sensibili e ignoti quanto l’uomo, torturarli fino alla morte. Tutto questo viene presentato come difesa del proprio respiro (o libertà) dall’uomo! Quale uomo, ci si chiede? L’uomo è forse un semplice contenitore di organi?

[…] Penso alle mucche, ai vitelli, al toro; capre e pecore e perfino […] all’umile maiale, come a rappresentazioni celesti: mansuete, dolorose sempre, benevole sempre, magnifiche. Non vedo perché l’uomo debba pensare che gli appartengono, che sono suoi propri, che può distruggerli, usarli. Concetto tra i più barbari e nefasti, da cui procede tutta la immedicabile violenza umana, l’essere micidiale della storia, la cui meta sembra solo l’accrescimento di sé, tramite il possesso e la distruzione dell’altro da sé. […] Ma ogni possesso è un arbitrio, ogni uso dell’altro è un’infamia. […] Il dolore dato all’altro non ha giustificazione; è l’ingiuria resa a ogni figlio della Terra, la costante e mostruosa massificazione delle anime della Terra, e comporta insensibilità e distruzione per lo stesso uomo. Più uccidiamo e più siamo uccisi. Più degradiamo e più siamo degradati.

[…] Un Edonismo senza riscatto cammina dunque davanti a una civiltà di esodi, di sottrazioni (del vivere), di disperazioni, di esclusioni (dal vivere) sempre più estese. L’Edonismo è la stella aguzza che consente il massacro esplicito o segreto degli ostacoli. Ostacolo, oggi, è […] il povero (il non avente) per la società economica, lo straniero per la società “salva” e infine la Bestia […] per la Società umana. […] La Terra va diventando una fossa atroce per i deboli, i non aventi diritto. E abbiamo torto a identificare questa idea […] col vecchio nazismo. No, il nazismo – e il suo fiore malato, il culto della razza – è oggi un altro, ed è universale, e in qualche modo, perché universale, invisibile. È la concezione della vita come privilegio della razza economica, dell’umanità come summa del valore economico, del valore economico come unica carta d’identità. Senza valore economico non vi è identità, né quindi riconoscimento, né quindi esenzione dal dominio e lo strazio esercitati dai forti sui deboli».

Respiro in greco è pneuma e in ebraico ruah, cioè l’espressione massima del corpo vivente, la respirazione appunto, il soffio vitale, senza il quale il corpo vivente diventa cadavere77, oggetto del controllo della biopolitica78, spettro che mai avremmo voluto incontrare.

 

Note

1.     Theodor W. Adorno, Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa, Einaudi 1994, p. 117.

2.     Charles Patterson, Un’eterna Treblinka. Il massacro degli animali e l’Olocausto, Editori Riuniti 2003.

3.     Per un’interpretazione dell’Olocausto come evento squisitamente “razionale”, si rimanda, ad esempio, a Zygmunt Bauman, Modernità e Olocausto, Il Mulino 1992.

4.     Per una ricostruzione, seppur da un punto di vista inguaribilmente antropocentrico, dell’incedere dell’era del dominio della tecnica dalle origini alla modernità, si rimanda, ad esempio, a Umberto Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli 2002.

5.     Gino Ditadi, Oltre l’animalismo, In: Animali. Nuovo millennio? (a cura di Alessandro Arrigoni e Viviana Ribezzo), Edizioni Cosmopolis 2001, pp. 45-49.

6.     Lev Nicolaeviĉ Tolstoj, Il primo gradino, In: Contro la caccia e il mangiar carne, Isonomia 1994, p. 23.

7.     Peter Singer, La vita come si dovrebbe. Le idee che hanno messo in discussione la nostra morale, il Saggiatore 2001.

8.     Si veda, ad esempio, Barbara Noske, Beyond boundaries. Humans and animals, Black Rose Books 1997; Jared Diamond, Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, Einaudi 1998; Jim Mason, An unnatural order. The roots of our destruction of nature, Lantern Books 2005.

9.     Carlo Consiglio e Vincenzino Siani, Evoluzione e alimentazione. Il cammino dell’uomo, Bollati Boringhieri 2003.

10.  Jeremy Rifkin, Entropia, Baldini&Castoldi 2000.

11.  Chiaramente, non è possibile in questa sede andare oltre queste brevi note; in aggiunta ai testi citati alle note 8 e 10, si rimanda, tra gli altri, a Barbara Ehrenreich, Riti di sangue, All’origine della passione della guerra, Feltrinelli 1998; Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata, Einaudi 1999; Jeremy Rifkin, Ecocidio. Ascesa e caduta della cultura della carne, Mondadori 2001; David Nibert, Animal rights/Human rights. Entanglements of oppression and liberation. Rowman & Littlefield Publishers 2002.

12.  Si veda, ad esempio, Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi 1976, e, in particolar modo, il frammento Uomo e animale, pp. 263-272.

13.  Per una critica dell’ideologia dello sviluppo, si veda, oltre a J. Rifkin, Entropia, op. cit., Serge Latouche, Come sopravvivere allo sviluppo. Dalla decolonizzazione dell’immaginario economico alla costruzione di una società alternativa, Bollati Boringhieri 2005.

14.  Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere, Adelphi 1985, p. 293-294.

15.  Mutuo questo termine da Paola Cavalieri, La questione animale. Per una teoria allargata dei diritti umani, Bollati Boringhieri 1999.

16.  Philip K. Dick, La svastica sul sole, Fanucci 1997.

17.  Herbert George Wells, La guerra dei mondi, Mursia 1991 (edizione originale, 1897).

18.  Michel Faber, Sotto la pelle, Einaudi 2004.

19.  Desmond Stewart, Vennero i Troog e dominarono la Terra, In: Tom Regan e Peter Singer, Diritti animali, obblighi umani, Edizioni Gruppo Abele, 1987, pp. 237-244.

20.  William Shakespeare, Amleto (I. v), In: I drammi dialettici, Mondadori, 1997, p. 101.

21.  Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, op. cit., p. 263.

22.  Per un approfondimento in questo ambito si rimanda a I filosofi e gli animali, a cura di Gino Ditadi, Isonomia 1994.

23.  Aristotele, Politica I. 8, 1256b15-26.

24.  Immanuel Kant, Dei doveri verso gli animali e gli spiriti, In: Lezioni di etica, Laterza 1984, p. 273.

25.  Friedrich Engels, La dialettica della natura, citazione riportata in Peter Singer, Una sinistra darwiniana. Politica, evoluzione e cooperazione, Edizioni di Comunità 2000.

26.  Ad esempio, Plutarco, Del mangiar carne. Trattati sugli animali, Adelphi 2001 o Teofrasto, Della pietà, Isonomia 2005. Per una completa analisi del pensiero delle origini su etica e animali si rimanda a Richard Sorabji, Animal minds and human morals. The origins of the Western debate, Cornell University Press 1993 e per un excursus storico più ampio a I filosofi e gli animali, op. cit.

27.  Jeremy Bentham, The principles of moral and legislation, Hafner Press 1948, p. 311.

28.  Charles Darwin, L’origine delle specie. Selezione naturale e lotta per l’esistenza, Bollati Boringhieri 1967 e L’origine dell’uomo, Rizzoli 1982.

29.  James Rachels, Creati dagli animali. Implicazioni morali del darwinismo, Edizioni di Comunità 1996.

30.  Si vedano, ad esempio, Stephen J. Gould, La vita meravigliosa, Feltrinelli 1990 e La struttura della teoria dell’evoluzione, Codice Edizioni 2003.

31.  Si vedano ad esempio, Colin Allen e Marc Bekoff, Il pensiero animale, McGraw-Hill 1998; Donald R. Griffin, Menti animali, Bollati Boringhieri 1999; Frans de Waal, La scimmia e l’arte del sushi. La cultura nell’uomo e negli altri animali, Garzanti 2002; Marc Bekoff, Dalla parte degli animali. Etologia della mente e del cuore, Franco Muzzio Editore 2003; Bernard Rollin, The unheeded cry: animal consciousness, animal pain and science, Oxford University Press 1990; David De Grazia, Taking animals seriously. Mental life and moral status. Cambridge University Press 1996; AA.VV., Nonhuman personhood, Etica & Animali 9, 1998.

32.  James Lovelock, Gaia. Nuove idee sull’ecologia, Bollati Boringhieri 1996.

33.  Roger Fouts, La scuola delle scimmie. Come ho insegnato a parlare a Washoe, Mondadori 1999. Si veda anche la seconda sezione (Conversare con le grandi scimmie) del volume Il progetto grande scimmia. Eguaglianza oltre i confini della specie (a cura di Paola Cavalieri e Peter Singer), Theoria 1993, pp. 37-92.

34.  Richard Dawkins, Vuoti nella mente, In: Il progetto grande scimmia, op. cit., pp. 95-103.

35.  Si veda la nota 26.

36.  Oltre ai testi citati nelle note 37 e 39, vanno ricordati tra i “fondatori” del pensiero antispecista contemporaneo: Steve F. Sapontzis, Morals, reason, and animals, Temple University Press 1987; Bernard E. Rollin, Animal rights and human morality, Prometheus Books 1992; Evelyn B. Pluhar, The moral significance of human end nonhuman animals, Duke University Press 1995; Gary L. Francione, Animals, property, and the law, Temple University Press 1995.

37.  Peter Singer, Liberazione animale, Mondadori 1991.

38.  Henry S. Salt, Animals’ rights. Considered in relation to social progress, Society for Animal Rights 1980.

39.  Tom Regan, I diritti animali, Garzanti 1990. Per un approfondimento del pensiero di Regan si vedano inoltre: Gabbie vuote. La sfida dei diritti animali, Edizioni Sonda 2005 e Defending animal rights, University of Illinois Press 2001.

40.  Oltre ai testi citati alla nota 36, si rimanda, ad esempio, a Gary L. Francione, Introduction to animal rights. Your child or the dog?, Temple University Press 2000; Steven M. Wise, Rattling the cage. Toward legal rights for animals, Perseus Publishing 2000; Joan Dunayer, Animal equality. Language and liberation, Ryce Publishing 2001; Steven M. Wise, Drawing the line. Science and the case for animal rights, Perseus Books 2002; Joan Dunayer, Speciesism, Ryce Publishing 2004; Julian H. Franklin, Animal rights and moral philosophy, Columbia University Press 2005.

41.  James Rachels, Creati dagli animali, op.cit., in particolare pp. 153-202.

42.  Per una discussione sul problema dell’anima da un’ottica credente, ma non sfavorevole agli animali, si vedano, ad esempio, Humphry Primatt, Dissertation on the duty of mercy and the sin of cruelty to brute animals, T. Constable 1776; Eugen Drewermann, Sulla immortalità degli animali, Neri Pozza 1997; Andrew Linzey, Teologia animale, Edizioni Cosmopolis 1998.

43.  Per una discussione più approfondita sui concetti di agente e paziente morali, si rimanda a Paola Cavalieri, La questione animale, op. cit., pp. 34-54.

44.  Steve F. Sapontzis, Morals, reason, and animals, op. cit., pp. 27-46.

45.  Per una discussione dettagliata della “schizofrenia” dell’attuale situazione giurisprudenziale degli animali normati come beni di proprietà, ma tuttavia meritevoli di protezione nei confronti dei loro proprietari si veda: Gary L. Francione, Introduction to animal rights, op. cit., pp. 50-102.

46.  John Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli 1982.

47.  Donald Van de Veer, Giustizia interspecifica e macellazione animale, In: Etica e animali (a cura di Luisella Battaglia), Liguori Editori 1998.

48.  Una tale visione “evoluzionistica” dell’intenzionalità è magistralmente presentata da Hans Jonas, Organismo e libertà. Verso una biologia filosofica, Einaudi 1999.

49.  Alan Gewirth, Reason and morality, The University of Chicago Press, 1986.

50.  Paola Cavalieri, La questione animale, op. cit., pp. 149-170.

51.  Per un approfondimento sul tema della violenza istituzionalizzata e sulle sue caratteristiche peculiari si rimanda a Amy Liszt, Liberazione animale e violenza strutturale, In: Etica & Animali, III/VI: 1-2, primavera/autunno 1991, pp. 58-64.

52.  Uso qui il termine “storia” nell’accezione dolentissima di Elsa Morante, La storia, Einaudi 1974, che programmaticamente riporta in esergo quanto sostenuto da un sopravvissuto al bombardamento di Hiroshima: «Non c’è parola, in nessun linguaggio umano, capace di consolare le cavie che non sanno il perché della loro morte».

53.  In questo ambito, vanno sicuramente ricordati: Carol J. Adams, The sexual politics of meat. A feminist-vegetarian critical theory, Continuum 2004; David Nibert, Animal rights/Human rights, op. cit., e Marjorie Spiegel, The dreadful comparison, Mirror 1996. Per una critica del mito della forza, si veda Marco Revelli, La politica perduta, Einaudi 2003.

54.  Isaac Bashevis Singer, Racconti, Mondadori 1998. Per una revisione completa di tutti gli scritti di I.B. Singer che paragonano i due orrori si veda C. Patterson, Un’eterna Treblinka, op.cit., pp. 183-218.

55.  John M. Coetzee, La vita degli animali, Adelphi 2000.

56.  Karen Davis, The Holocaust and the henmaid’s tale. A case for comparing atrocities, Lantern Books 2005.

57.  J.M. Coetzee, La vita degli animali, op. cit., pp. 60-61.

58.  Gitta Sereny, In quelle tenebre, Adelphi 1999, p. 270.

59.  Questa visione dell’Altro che mi concerne in quanto non appartenente al mio genere pervade l’intera opera di Emmanuel Levinas e, in particolar modo, i suoi due testi fondamentali: Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book 1980 e Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, Jaca Book 1983.

60.  La storia di Barbara Stagno è raccontata in Un’eterna Treblinka, op. cit., pp. 161-163.

61.  Upton Sinclair, La giungla, Il Saggiatore 2003, p. 374.

62.  Questa citazione di Boria Sax è riportata in Un’eterna Treblinka, op. cit., p. 119.

63.  La storia di Marc Berkowitz è raccontata in Un’eterna Treblinka, op. cit., pp. 153-154.

64.  Vedi Un’eterna Treblinka, op. cit., pp. 123-124.

65.  Vedi Un’eterna Treblinka, op. cit., pp. 114-117.

66.  Vedi Un’eterna Treblinka, op. cit., pp. 108-111.

67.  Jeremy Rifkin, Ecocidio, op. cit.

68.  Gregory Bateson, Mente e natura, Adelphi 1984.

69.  Per un’etica fondata sul principio della responsabilità si veda Hans Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi 1990.

70.  Questa citazione da Lee M. Silver, Remaking Eden: cloning and beyond in a brave new world, Avon Books 1997, è riportata da Jeremy Rifkin ne Il secolo biotech. Il commercio genetico e l’inizio di una nuova era, Baldini&Castoldi 2000, pp. 271-272.

71.  Un esempio di quello che ci potrebbe attendere se superassimo la cultura specista nella direzione sbagliata è descritto nei romanzi di Kazuo Ishiguro, Non lasciarmi, Einaudi 2006 e in quello di Wu Ming 5, Free karma food, Rizzoli 2006.

72.  Isaac Bashevis Singer, Prefazione a Steven Rosen, Il vegetarianesimo e le religioni del mondo, Gruppo Futura 1995, p. viii.

73.  Vedi nota 1.

74.  Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli 1964.

75.  Anna Maria Ortese, Corpo celeste, Adelphi 2003, pp. 116-117, 124-125, 128-129. La stretta connessione tra tutti gli ultimi e il ruolo in questa giocato dalla condizione animale e dalle nostre possibilità di intervento sono il leit-motiv dei tre principali romanzi “animalisti” della Ortese, L’iguana, Il cardillo addolorato e Alonso e i visionari, ora raccolti in Romanzi, vol. II, Adelphi 2005. Si veda, ad esempio, l’indimenticabile passo conclusivo di Alonso e i visionari: «La vita – come le tenebre televisive – non è mai nelle nostre stanze, ma altrove. Così, chi cercasse il Cucciolo, scruti, la notte, nel silenzio del mondo; non lo chiami, se non sottovoce, ma sempre abbia cura di rinnovare l’acqua della sua ciotola triste», p. 888.

76.  Per cosa intenda Anna Maria Ortese con questa espressione si veda il suo scritto Non da luoghi d’esilio, In: Corpo Celeste, op. cit., pp. 135-159.

77.  Uso qui i termini “corpo” e “cadavere” nell’accezione a questi data dalla fenomenologia husserliana. L’abissale incontro tra corpi e spiriti è ben presente a Edmund Husserl allorquando ne La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore 1983, scrive: «Gli spiriti sono qui, dove sono i corpi, nello spazio e nel tempo naturali, ogni volta e fintanto che i corpi sono ‘corpi viventi’», Appendice XXII al § 62, p. 503.

78.  Si veda, ad esempio, Michel Foucault, Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1978-1979), Feltrinelli 2005.





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10/05/06