Officina della THEORÎA |
Riflessioni
per una decrescita senza confini |
||||
---|---|---|---|---|---|
|
|
|
|||
Un notevole documento che solo la superficialità può indurre a considerare Off Topic rispetto alle tematiche animaliste. La visione integrata di Filippo Schillaci si conferma sempre più una risorsa fondamentale per la futura messa a punto di strategie antispeciste
|
Mi ricordo che quando era piccola qui a Roma [mia figlia] una volta disse alla mamma "ma mamma, la coscia del pollo, l'ala del pollo, ma il pollo cos'è?". Conosceva soltanto i pezzi. Sergio Quinzio
Caro Pallante, Vorrei partire citando un uomo agli antipodi rispetto a me: il cattolico Lanza del Vasto, dal quale ho tratto un fondamentale insegnamento: il male, egli dice, non esiste; esiste il conseguimento di un bene parziale. Quel che percepiamo come male non è altro che l'operare per il bene di una singola parte del mondo vivente prescindendo dal danno che può venire a ogni altra. Da questa visione consegue un metodo, la non violenza, di cui Lanza del Vasto è stato uno dei maggiori protagonisti, una non violenza non limitata al contesto convenzionale del pacifismo ma estesa a tutto il mondo vivente, umano e non umano e a ogni aspetto dell'esistenza. Credo si possa dire che egli, con le comunità dell'Arca, da lui fondate, è stato il primo fautore della decrescita intesa come applicazione della non violenza alla vita materiale. Sua è la breve frase, di cui non è forse esagerato affermare che ne riassume tutto il pensiero: "Prova a schiacciare un bruco. Ecco fatto, facile vero? Bene, ora prova a rifare il bruco". Da questa idea del male come bene parziale deriva una conseguenza immediata: la necessità di non porre un confine all'oggetto della propria etica, perché lì dove si mette un confine si cade nella parzialità; di più, si crea una contrapposizione, un conflitto. Non si può perseguire alcun risultato positivo se esso non è per l'intero mondo vivente. Inoltre, poiché tutto ciò che oggi razionalmente sappiamo sul mondo vivente stesso ci parla dell'inesistenza di confini al suo interno, quando si stabilisce un confine lì dove esso non può essere posto se non in base a regole arbitrarie nulla vieta di arretrarlo altrettanto arbitrariamente. Fra l'antropocentrismo e il razzismo o il nazionalismo insomma c'è una sola differenza: la diversa, ma ugualmente arbitraria, scelta del confine.
Quasi contemporaneamente a Lanza Del Vasto ho
scoperto un altro profondo pensatore contemporaneo: Tiziano
Terzani, e in lui ho ritrovato idee molto simili: Bene, io credo che non dovremmo limitarci a una critica dell'economia, a dimostrare che il PIL non significa nulla e tutto ciò che ne consegue; fare tutto questo sicuramente, ma anche risalire un gradino più a monte perché l'economia della globalizzazione, le teorie dello sviluppo, "illimitato" o "sostenibile" che sia, sono solo un sintomo di una malattia che risiede a un livello più profondo, nel vedere come un tutto ciò che è solo una parte: la specie umana; nel non avere insomma una onesta consapevolezza della nostra posizione nell'universo e soprattutto in quella parte di esso che è la biosfera; nell'agire secondo istinto predatorio per "il mio" (di individuo, di classe sociale, di nazione, di razza… di specie) piuttosto che secondo ragione per "il nostro" (di esseri viventi che condividono la stessa casa e la stessa sorte). Uno dei primi testi sulla decrescita che mi sono trovato di fronte è un tuo articolo che parte dal piccolo, dal parlarci dello yogurt fatto in casa. Io ora parto dal grande, dal parlare di un atteggiamento che abbia la visione, in ogni nostra scelta, della totalità del mondo vivente. Vorrei che questi due discorsi coesistessero, che si aiutassero e completassero a vicenda. Perché solo la visione del tutto - del vero tutto, quello che non si ferma al recinto antropocentrico dell'uomo - può darci il criterio guida delle nostre scelte quotidiane, così come, specularmente, solo la capacità di tradurre questa visione in concrete scelte quotidiane può calarla nel mondo reale. Invece insistiamo nel vedere le cose "a pezzi" e ad applicare a ciascun pezzo una terapia specifica e chiusa in sé, come se esso fosse sospeso nel vuoto, o comunque in qualche modo estraibile dal tutto. Un esempio di questa visione l'ho trovato perfino nel vostro/nostro manifesto di Serge Latouche, lì dove dice: "La decrescita dovrebbe essere organizzata non soltanto per preservare l'ambiente ma anche per ripristinare un minimo di giustizia sociale (…) sopravvivenza sociale e sopravvivenza biologica sembrano dunque strettamente legate". Strettamente legate? No. Indissolubili? Neanche. Coincidenti? Sì. Dobbiamo smettere di pensare a società e ambiente come due entità (eccolo qui il solito confine) e sostituire all'una e all'altro il concetto unitario, ecosistemico, naturale di biocenosi, di cui noi siamo una parte. Qualche giorno fa sul vostro forum ho letto un messaggio in cui ci si domandava perché la decrescita non decolla. Io non so se davvero non sta decollando, ma se così è, vorrei qui ipotizzare una possibile risposta. Perché è, come il pacifismo, i diritti umani, l'antispecismo, il mercato equo e solidale e altro ancora, un pezzo di un intero che stenta a formarsi. Se ho in mano una ruota non vado da nessuna parte; me ne servono due, e un manubrio, due pedali, un telaio, un paio di freni, e ho bisogno di saper mettere insieme tutto questo in maniera funzionale; solo così potrò disporre di ciò che mi serve per andare dove voglio: una bicicletta. Oggi non abbiamo alcuna bicicletta ma tanti pezzi sparsi, ognuno dei quali tenta di conseguire il proprio obiettivo parziale lasciando immutato tutto il resto. Impossibile. Uno di questi pezzi è notoriamente l'ambientalismo classico (nel cui seno, fra l'altro, è nato il concetto di sviluppo sostenibile) e per capire la sua inadeguatezza basti pensare che la sua visione del mondo vivente, in cui il valore di una vita non umana è inversamente proporzionale all'abbondanza puramente numerica di quella forma vivente, non è altro che l'applicazione alla vita stessa della legge economica della domanda e dell'offerta, dove l'esigenza di biodiversità è la domanda e l'entità numerica della specie è l'offerta. E' così che vogliamo vedere il mondo? Non io, non noi. Perché dietro l'angolo di questa visione c'è il comportamento predatorio (tradotto in linguaggio economico: lo sviluppo), mai negato da questo ambientalismo e sempre pronto a riaffacciarsi non appena l' "offerta" sarà tale da renderlo "sostenibile". E si potrebbe continuare. Inadeguato ad esempio è il pacifismo, quando tenta di raggiungere l'obiettivo del disarmo senza rendersi conto che le guerre sono congenite al sistema etico-economico dominante… si potrebbe continuare, appunto. A lungo. Mi fermo invece. Anche perché fin qui ho enunciato dei principi astratti, ho fatto il filosofo pur non essendolo. So per esperienza che è facile concordare su principi astratti, un po' meno quando si scoprono alcune implicazioni concrete di essi. Allora deduciamo da tali principi qualcosa a livello di comportamento concreto concentrandoci, a titolo di esempio, su un contesto specifico. Decrescere significa uscire dalla logica dello sfruttamento indiscriminato delle risorse del pianeta; significa, ad esempio, operare delle scelte quotidiane nell'uso dei mezzi di trasporto mettendo l'automobile all'ultimo posto delle nostre preferenze. Ma significa anche operare delle scelte, fra l'altro, nel tipo di cibo. Non solo nel modo di produrlo ma anche in quale cibo produrre.
Andiamo indietro di 30 anni, ai tempi dei noti (e
dimenticati) rapporti del MIT al Club di Roma. In quegli anni
Lester R. Brown pubblicava I limiti alla popolazione mondiale,
in cui scriveva: C'era dunque già allora la consapevolezza della natura fortemente dissipativa di un certo tipo di alimentazione, di quanto cioè sia grande l'inefficienza del sistema di trasformazione di proteine vegetali in proteine animali e di come nutrirsi in questo modo sia la maniera più efficace di dissipare risorse di ogni tipo.
Andiamo avanti di un ventennio: nel 1992 esce
Ecocidio di Jeremy Rifkin in cui questo tema trova pieno
sviluppo: Insomma, un'alimentazione a base di carne equivale a usare un'automobile di grossa cilindrata per andare all'edicola dietro l'angolo. Vogliamo dunque inserire all'interno degli obiettivi della decrescita il suo superamento a favore di una scelta felicemente vegetariana? Mi pare inevitabile. E qui si innesta il discorso, da cui siamo partiti, sull'inscindibilità dei vari contesti, perché con questa semplice scelta, calata in quella fitta rete di relazioni che è il mondo, abbiamo realizzato una quantità di obiettivi pratici e simultaneamente - sinergicamente - etici che ha dell'incredibile.
Abbiamo rinunciato a qualcosa? No (io non ho mai
mangiato così bene come da quando sono vegetariano),
abbiamo soltanto sterzato un po' pensando a conseguire un bene
totale anziché parziale, con ciò migliorando la
condizione di tutti noi, umani e non umani. E siamo giunti a
capire una cosa: che contrariamente a quanto comunemente crede il
signor Rossi (quello perennemente con la borsa del supermercato
in mano), una scelta tanto più è spinta in avanti
sul piano dell'etica tanto più è capace di creare
qualità della vita. Filippo Schillaci 28 febbraio 2006
(1) Tiziano Terzani, Lettere contro la guerra,
Longanesi, 2002
. |
|
|||
|
|
|
|
||
|
|
|
|
|
14/03/06 |