1.
Introduzione
Nel 2003 è apparso un libro molto
interessante nel panorama della letteratura animalista e
antispecista: “L’Eterna Treblinka”. Il libro
confronta l’Olocausto degli Ebrei con lo sterminio
quotidiano degli animali che si perpetua nella società
industriale e il lettore viene ragguagliato sulla stretta
rassomiglianza tra due destini, due sofferenze e, su un altro
versante, su due dimenticanze e insensibilità: quella di
chi, nel passato, si è voltato dall’altra parte e
quella di chi, oggi e in altro ambito, ricalca la stessa
indifferenza. Scorrendo le pagine si scopre che la metodica dello
sterminio degli Ebrei risale alle tecniche di soppressione di
massa dei bovini inaugurate negli Stati Uniti nella seconda metà
dell’800, ma ben presto il libro devia dal tema per
avvolgere il lettore su una equivalenza di annientamento che
cancella qualsiasi dimensione etica. Il volume raccoglie e
approfondisce un modello di ragionamento che nell’ambiente
animalista è assai diffuso, ma poco esplorato; infatti
spesso si sente affermare in termini piuttosto superficiali che la società specista si
comporta con gli animali come il Terzo Reich si è
comportato con gli Ebrei. “L’Eterna Treblinka”
rappresenta dunque un approfondimento innovativo del teorema e
investiga con cura quanto di solito ci si limita a dichiarare.
Questo confronto è legittimo oppure vi sono
dei motivi che consigliano di lasciarlo cadere? Sappiamo, per
esempio, che al di fuori dell’ambiente antispecista esso
produce grande scandalo o semplice noncuranza, sintomo evidente
di un disprezzo di fondo per chi osa accostare, su qualsiasi
piano, animali umani e non umani. Susann
Witt-Stahl, animalista e antispecista tedesca, non ritiene
che il confronto sia legittimo, e con il
saggio “Auschwitz non sta sul vostro piatto”
(riportato sul numero 1 di
Liberazioni) critica il confronto tra la tragedia
dell’Olocausto e l’angoscioso destino che si compie
ogni giorno negli allevamenti intensivi. Secondo il suo punto di
vista le due questioni sono inconfrontabili e il KZ-Vergleichs –
che d’ora in poi chiameremo “Paragone” –
risulta un’operazione immotivata.
Il saggio non aiuta a dirimere la questione. Crea,
anzi, sensibili difficoltà a chi tenta di trovare una
risposta valida. La ragione è semplice. Witt-Stahl rifiuta
di accordare legittimità al Paragone, ma affronta il
problema, non in termini diretti, bensì come
critica a una mostra della PeTA che propone il legame tra
immagini di umani detenuti nei lager nazisti e di animali
detenuti negli allevamenti. Nella mostra dell’associazione
americana, uomini denutriti e vitellini ingabbiati, campi
circondati da filo spinato e mura di macelli si alternano con
l’intenzione di creare, per mezzo di tecniche
comportamentiste, un corto circuito nella mente dell’osservatore
e produrre quello sconcerto ritenuto necessario per conquistarlo
al vegetarismo. Ebbene, il saggio di Witt-Stahl è talmente
avviluppato a esigenze polemiche congegnate in funzione anti PeTA
da creare non pochi problemi al lettore.
Schematizzando, Witt-Stahl
fonde due piani di discorso:
1. la
critica alla pesante disinvoltura con cui la PeTA conduce le sue
campagne prendendo come riferimento proprio quella che richiama
strumentalmente l’Olocausto;
2. la
dichiarazione di illegittimità sostanziale di una
relazione tra i due concetti – Olocausto e sterminio
animale – dichiarati come irriducibili l’uno
all’altro.
Tentando di dimostrare (2) attraverso (1), essa dà
l’avvio a un’operazione inopportuna e logicamente
errata. Infatti potrebbe darsi il caso che quella illegittimità
(punto 2) non sia proprio tale e, nello stesso tempo, la
critica alla PeTA (punto 1) mantenga tutta la sua validità
per i modi con i quali l’associazione americana sfrutta il
Paragone. In altri termini si tratta di due aspetti indipendenti,
che devono essere tenuti separati e che richiedono, in un
caso una critica ad hominem, nell'altro, ad
rem. La prima è stata ottimamente condotta mentre la
seconda si presta a tutta una serie di rilevanti obiezioni che
qui si tenterà di formulare.
2. Esiste relazione tra due
forme di sterminio?
Spogliamo dunque il saggio dai riferimenti alla PeTA
che sono un elemento del tutto indipendente – e
assolutamente centrato – e tentiamo di focalizzare la
natura delle obiezioni al Paragone. Secondo Witt-Stahl
l’eventuale parallelismo si baserebbe sulla forma esteriore
e non sulla sostanza del contenuto. Sulle modalità
tecniche di soppressione e non sulla natura intrinseca dei
due fenomeni: natura intrinseca che dovrebbe essere invece
ricercata sul piano storico per giungere infine a rilevare la
natura irriducibile dell’Olocausto rispetto allo sterminio
degli animali. Impresa assai ardua considerando la “quasi
totale impossibilità di comprendere un oggetto così
complesso” e “evento singolare” come
la Shoah. In effetti, Witt-Stahl si sottrae all’arduo
compito, anche per l’oggettiva impossibilità di
puntualizzarlo in poche pagine, e si limita a darlo per scontato
trovando sostegno nella citazione di un altro autore.
L’essenza della Shoah – così come
della millenaria barbarie che gli uomini commettono nei confronti
degli animali – non deve essere assoggettata a
interpretazioni casuali e arbitrarie o al gusto personale. Il
modo in cui nominiamo fenomeni, eventi etc. la “nomenclatura”,
può diventare ideologica se, come ha messo in luce Moshe
Zuckermann nel suo saggio “Olocausto”, essa si rende
autonoma a tal punto che “storia, mondo e realtà –
se proprio non vengono ignorati – tuttavia vengono esiliati
nell’ambito secondario dell’epifenomeno”.
La nomenclatura si muta sempre in ideologia “se qualcosa
nel nominato viene estromesso dal suo concetto, ad esempio quando
il concetto nominante è rivolto al nominato per interessi
eteronomi, in modo tale da affettare la percezione del nominato,
cosicché il concetto della percezione viene perciò
reso regolarmente irriconoscibile”
Così la Shoah verrebbe “estromessa
dal suo concetto” e trasformata in ideologia nel
momento stesso in cui venisse utilizzata per interessi
“eteronomi” come, appunto, il massacro degli
animali. Con il Paragone, andrebbe insomma perduta l’essenza
del fenomeno storico della Shoah. Dire questo, tuttavia, non
significa ancora aver dimostrato nulla. L’unico argomento
che l’autrice sembra abbozzare per rimarcare una differenza
insanabile tra due fenomeni nasce quando, da una parte, dichiara:
Auschwitz era una fabbrica di morte.
Essa aveva lo scopo di produrre morti. Nei lager che i
nazionalsocialisti costruirono in Polonia, doveva compiersi la
dissoluzione degli Ebrei e della loro identità. La misura
centrale per il raggiungimento del fine – far scomparire
gli Ebrei e la loro intera cultura nell’abisso della
storia, come se non fossero mai esistiti – era
l’annientamento fisico della “razza ebraica”,
che i nazisti – come Max Horkheimer e Theodor W. Adorno
nella loro Dialettica dell’illuminismo
diagnosticarono – non concepivano come una minoranza ma
come una “controrazza”, come “colonizzatori del
progresso”.
... e dall’altra:
L’oppressione, lo sfruttamento e l’uccisione
in massa di animali non è un Olocausto, non è un
atto di annientamento. E il dominio degli uomini sugli animali
non è un evento storico limitato nel tempo, quanto
piuttosto un epifenomeno dell’intera
storia della civiltà. [...] Lo scopo dei macelli e delle
fabbriche di animali, al contrario, non è l’eliminazione
di un nemico dichiarato, quanto piuttosto di produrre carne per
il consumo a partire dai corpi di animali sottomessi brutalmente
nel corso dell’intera storia della cultura umana ma,
soprattutto, di estrarre plusvalore per il profitto degli
imprenditori. (...) il movente economico dello sfruttamento di
animali nella società industriale è un aspetto che
la PeTA e Kaplan in gran parte occultano.
I due passaggi non suggeriscono solo che l’Olocausto
non può essere paragonato a altri eventi tragici della
storia umana, ma evidenziano anche che questi ultimi, a loro
volta, debbano essere visti in termini irriducibili rispetto a un
fenomeno “altro” quale l’uso dell’animale
come materia prima nei processi riproduttivi dell’economia.
Infatti tutti gli stermini dell’umano sull’umano
avvenuti nella Storia non avevano certo come scopo quello di
trasformare le vittime in materiali d’uso. Posto in questi
termini, il discorso può essere chiuso senza eccessive
forzature. Occorre però osservare che se l’approdo è
questo, allora tanto vale evitare di complicare il tragitto
discorsivo con i riferimenti alla difficoltà
interpretativa di un fenomeno “così complesso”
e “unico” come la Shoah.
3.
Storia e epifenomeno
La parola “epifenomeno” ricorre due
volte nei brani riportati. Nel primo appartiene a una citazione,
ma il contesto illustra come sia pienamente condiviso da
Witt-Stahl. Nel secondo esso appartiene direttamente all’autrice.
Occorre dire che in entrambi i casi, l’impiego del termine
sorprende. Per quale ragione?
“Epifenomeno” significa aspetto
secondario emanato da un fenomeno primario che lo origina. Per
comprendere bene il suo significato si può pensare anche
all’impiego della parola in medicina, ambito in cui indica
un sintomo collaterale che può manifestarsi (che,
quindi, non si manifesta necessariamente) a seguito di una
malattia.
Ora, la Storia come successione di eventi
costituisce per antonomasia il luogo dell’epifenomeno.
L’evento è per sua natura epifenomenico. Lo dimostra
il fatto che la Storia costituisce sempre una costruzione
concettuale mutevole prodotta in funzione di un evento passato
che, nella sua determinazione assoluta, tende a sfuggire alla
comprensione umana. A questo destino non si sottrae la ricerca
dei motivi che hanno causato l’Olocausto. R. Rossanda,
in occasione del viaggio di Benedetto XVI in Germania, critica
l’attribuzione da parte del Papa dell’antisemitismo
(condensatosi poi nell’Olocausto) a “un neopaganesimo
spuntato nel secolo scorso in Germania”. Si può
pensare a un giudizio implicato dall’ottica particolare
posseduta da Rossanda che, chiedendo una radicale autocritica
alla Chiesa Cattolica, provvede a spostare l’attenzione
altrove:
...le leggi razziali, le deportazioni,
e lo sterminio cadevano su un humus (...) senza il quale non
avrebbero potuto darsi neanche nei più folli esponenti del
partito nazista. (...) Questo humus viene dal senso comune
antigiudaico che è stato seminato per quasi venti secoli
dal cristianesimo. (...) Qual è la base su cui si fonda
l’antigiudaismo? E’ l’aver messo a morte il
figlio di Dio. Accusa che è inscritta nei primissimi
testi. (...) poche differenze hanno tra loro i vangeli (...)
sulla furiosa determinazione del Sinedrio e del popolo ebraico
nel chiedere che Gesù sia messo a morte. [1]
Due giorni dopo un lettore spedisce una lettera al
Manifesto; citando le tesi di uno studioso dell’antigiudaismo
(Piero Stefani), conviene sulla responsabilità della
chiesa originaria, ma esclude quella dei “violenti testi”
evangelici che rientrerebbero nel “tradizionale linguaggio
interebraico di stampo profetico”. Invece Enzo Traverso,
curatore di una monumentale storia dell’Olocausto, ritiene
fondamentale recuperare aspetti esogeni all’evento, senza i
quali l’evento stesso risulterebbe inafferrabile:
“...la guerra di conquista dello
spazio vitale, di colonizzazione del mondo slavo e di distruzione
del bolscevismo. Lo sterminio degli Ebrei è parte di
questa guerra”.[2]
Come si vede, ben quattro interpretazioni
dell’Olocausto non riescono a trovare chiari punti di
contatto. Del resto l’autorevole studioso dichiara:
Senza cadere nel relativismo dei
postmoderni, la storia è una rappresentazione a
posteriori, ancorata ai fatti, ma sempre costruita nel presente,
e per questo mutevole in ogni epoca. Tra cinquant’anni
vedremo la Shoah con occhi diversi.[3]
Dunque, per ritornare alla critica a Witt-Stahl e,
per mezzo di essa, a Moshe Zuckermann, è possibile
concludere che la Shoah è un epifenomeno? Pur con il
rammarico dovuto al fastidio che tale asserzione può
produrre, occorre affermarlo: l’Olocausto è un
epifenomeno accaduto nel sentiero cronologico colonizzato
dall’Homo Sapiens Sapiens. Questo non toglie nulla alla
responsabilità criminale degli assassini che hanno
prodotto il catastrofico evento, né diminuisce il
necessario raccoglimento che ogni essere umano dovrebbe dedicare
al culto della Memoria giacchè le vittime della Shoah
costituiscono una gravissima macchia (una delle gravissime
macchie) di cui tutta l’umanità deve farsi carico.
Analogamente sono epifenomeni tutte le stragi e i massacri su
grande scala – singolarmente considerati – perpetrati
in ogni epoca in ogni parte del mondo. Epifenomeni perché
non necessariamente implicati dalla struttura profonda delle
condizioni materiali di riproduzione delle diverse società,
che seguendo un “nomos” – queste sì –
possono essere studiate e interpretate con criteri sicuramente
più stabili e produttivi.
Viceversa, “il dominio degli uomini sugli
animali”, il quale “non è un evento
storico limitato nel tempo”, non può
essere considerato “un epifenomeno
dell’intera storia della civiltà”.
La sua natura continuativa impone la ricerca di una causa
necessitante che ha generato, a partire da un certo momento in
poi, lo sviluppo di un rapporto crudele e violento tra animale
umano e non umano. Una pratica che accompagna l’umanità
lungo il suo percorso, e che, aggravandosi a un certo punto del
suo sviluppo, appare a una (ristretta) parte dell’umanità
come inaccettabile sul piano etico, non puo’, pena la
distorsione del significato del termine, essere considerato un
epifenomeno. Dunque si è chiarito il motivo della sorpresa
per l’uso arbitrario del termine “epifenomeno”.
Nel saggio di Witt-Stahl esso è impiegato scorrettamente.
Appare semplicemente invertito: è respinto quando deve
essere usato e usato quando deve essere abbandonato.
4.
Unicità della Shoah?
La forza con la quale Witt-Stahl insiste sulla
diversa “ragione” sottostante la Shoah e il lavoro
nei macelli è sorprendente. Ma per ora converrà
lasciare da parte la questione animale per rimanere sul terreno
dei fatti umani.
Il saggio, non soltanto nega esplicitamente il
Paragone, ma – richiamando con insistenza l’unicità
della Shoah – rifiuta implicitamente qualsiasi confronto
tra l’Olocausto degli Ebrei e con altri genocidi del
passato e del presente. La Shoah è un evento davvero
“unico”, singolare? L’affermazione è
contemporaneamente vera e falsa. E’ (banalmente) vera se si
considera la sua natura di “evento che accade nella
Storia”. La storia è il luogo dell’evento
unico che, colto nella sua essenzialità di superficie, non
lascia spazio alla ripetitività. Di sicuro saranno unici
gli aspetti politici e culturali che avranno caratterizzato il
Genocidio. Potranno anche essere uniche le metodologie
tecnologiche e strumentali impiegate. Ma la partecipazione intima e l'immedesimazione
associata allo sterminio degli Ebrei trascende gli
aspetti tecnici, amministrativi, culturali, politici o storici
dell’evento. Deriva semplicemente – e giustamente –
da un immenso sentimento di pietà per le vittime di un
atto criminale di dimensioni immense. Guardando le immagini dei
campi, non compaiono le ragioni e le “giustificazioni”
invocate dai criminali né le spiegazioni degli storici, ma
gli sguardi svuotati, i corpi violentati dalla fame e dalla
sofferenza, le morti inammissibili, le fosse comuni. Il corteo
epifenomenico delle farneticazioni ideologiche che hanno accompagnato
l’evento costituisce sicuramente motivo di ripugnanza in
sé, ma, se per accadimenti storici diversi, la Bestia
nazista non fosse riuscita a metterlo in pratica, oggi
rubricheremmo i suoi deliri nel novero delle
ideologie aberranti e nessuno dovrebbe piangere nessuno. Lo
sconcerto e la compassione che l’Olocausto genera è,
nella sostanza e in ultima analisi, nella soppressione di milioni
di esseri umani portata a termine tra atroci sofferenze e con
inaudite violenze.
Ma se questo è il criterio ultimo da
accettare, il giudizio sull’unicità dell’Olocausto
viene logicamente a cadere. Gli stermini dei nativi americani da
parte degli europei, dei rom e dei serbi da parte dei croati,
degli ugonotti da parte dei cattolici, delle streghe da parte dei
cristiani, dei giapponesi da parte degli americani, dei tutsi da
parte degli hutu o degli armeni da parte dei turchi – tanto
per richiamare un piccolo campionario – assorbono la Shoah
nel museo delle mostruosità che la specie umana è
riuscita a esibire a sé stessa lungo il suo poco onorevole
percorso. Dunque, la teoria dell’“unicità”
si mostra nel contempo falsa. Se storicamente possa essere fatta
una classifica del dolore e della violenza subita da gruppi umani
non si sa. Ma sarebbe una sgradevolissima ricerca che direbbe
molto sul cinismo e sull’insensibilità di chi si
accingesse a compierla.
E' sorprendente: la Shoah comporta
commozione e raccoglimento del tutto assenti quando vengono
evocati altri eventi simili sotto il segno del dolore delle
vittime, segno che comunque è l’unico motivo che
possa comportare una sostanziale considerazione. Da questo punto
di vista, l’Olocausto cessa di essere un arcano mentre
diventa tale l’atteggiamento psicologico del soggetto
riflettente che non elice la stessa disposizione d’animo
verso analoghi eventi che hanno prodotto altra sofferenza verso
altri esseri umani. Perché stragi immense lontane nel
tempo o nello spazio non determinano in noi gli stessi sentimenti
di pietà? Enzo Traverso, nell’intervista citata, non
entra nella questione, ma sembra adombrarla quando afferma:
La Shoah è entrata nella coscienza storica
del mondo occidentale, tanto che si può parlare di
ossessione della memoria (...). E tuttavia la retorica della
memoria rischia di diventare sterile. Il problema non è
quello di ricordare, ma dell’uso politico che della memoria
si fa. Intendo dire che non serve commemorare ogni anno la
liberazione di Auschwitz o far leggere Primo Levi nelle scuole se
non si cerca di inscrivere nel presente questa memoria,
mettendola in rapporto alle nuove forme di razzismo, ai genocidi
della fine del ‘900.[4]
E ancora:
Credo che la memoria della Shoah sia diventata una
sorta di religione civile dell’Occidente democratico. (...)
Ma questa religione civile ha le sue zone d’ombra e non
deve sottrarsi alla critica: tra gli statisti che nel gennaio
scorso hanno commemorato ad Auschwitz la liberazione dei campi di
sterminio, c’erano anche i responsabili di Guantanama e di
Abu Ghraib.
Il motivo per cui un evento come l’Olocausto
viene dichiarato unico diventa a sua volta un “evento”
e, come tale, soggetto a discussioni senza fine. Possiamo far
entrare tra le cause il senso di colpa dell’Occidente, la
collocazione preminente degli Ebrei nella cultura mondiale, l’uso
strumentale in funzione antiaraba, il fatto che sia accaduto
ancora in tempi recenti o che sia avvenuto al culmine del
processo di civilizzazione dell’Occidente. E via
enumerando. E’ certo che, passando il tempo, come tutte le
cose umane, si affievolirà fino a scomparire rimanendo
gelida materia per gli storici, come la strage dei Nativi
americani. Questo, almeno finché l’umanità
non recupererà la parte migliore della sua natura. Fino a
quel momento deve rassegnarsi a veder sbiadire il colore del
sangue sul tortuoso sentiero della sua storia, non appena si
allontana di pochi passi dalla circostanza che poco prima l’aveva
(talvolta) terribilmente impressionata.
Occorre nuovamente precisare che il rifiuto della
retorica della singolarità dell’evento non deve
costituire una svalutazione dell’Olocausto nel cuore degli
umani, ma la sua integrazione a pieno titolo in una storia
millennaria di violenza e di orrori. Quindi, il riconoscimento
assoluto delle violenze subite dagli Ebrei durante la guerra in
Europa. Che poi la vittima di un evento allucinante mostri
risentimento se qualcuno confronta la sua esperienza dolorosa con
quella di altre tragedie della Storia, è comprensibile. Ma
questo è un altro discorso.
5.
La Shoah apre una fase nuova nella storia dell’umanità?
Dunque, la Shoah non costituisce un evento unico
rispetto al vero motivo per il quale vale riflettere intorno alla
natura umana: la sofferenza di ampie collettività inferta
da altre collettività. Eppure vari aspetti che hanno
accompagnato l’Olocausto possono mostrare nuove peculiarità
rispetto al passato e, pur essendo percepite come componenti di
“metodo”, a un’analisi più profonda,
possono essere valutate come un “contenuto” che si
aggiunge alla violenza e all’aggressività
legate indissolubilmente alla specie umana. Si tratta di
elementi già rilevati da altri interpreti. Essi attengono
a due sfere:
a) la metodologia tecnico-amministrativa
dello sterminio; b) la particolare condizione
psicologica che accompagna i suoi solerti funzionari
5.a – I metodi
dell’annientamento
Ascoltiamo le parole di Enzo Traverso:
Alcune premesse dell’Olocausto
risiedono tutte nelle conquiste di civiltà: nella sua
fenomenologia, l’Olocausto presuppone una razionalità
produttiva e amministrativa che Max Weber indicava come uno dei
tratti salienti dell’Occidente e un paradigma fordista di
produzione di serie che ora [cioè nell’evento dello
sterminio (n.d.r.)] viene usato per distruggere[5].
Note in perfetta assonanza, del resto, con analoghe
osservazioni di Witt-Stahl, la quale, nel suo saggio, dichiara:
L’uccisione e la produzione di
carne era organizzata già nel primo capitalismo come
processo di fabbricazione attentamente calcolato e parcellizzato.
La conversione dei macelli in perfette fabbriche di uccisione e
produzione di carne cominciò verso la metà del XIX
secolo, quando vennero spostati dai centri cittadini alle
periferie. Il macello doveva diventare di lì a poco il
concetto stesso, il simbolo dell’uccisione
istituzionalizzata, della degradazione dei corpi sofferenti a
cose. I macelli erano in tal senso, come istituzioni, dei
predecessori dei campi di sterminio; il loro perfezionato
macchinario di morte offrì alle squadracce omicide naziste
il “prototipo”, il know-how per
l’annientamento di milioni di uomini. (...) Le somiglianze
fenomeniche tra i campi di sterminio e i macelli si devono al
fatto che entrambi – è questo che documenta
effettivamente l’album di foto della modernità –
sono “istituzioni” che sorsero nel corso o, meglio,
dopo l’industrializzazione...[6]
Insomma, la “tecnica”,
l’“organizzazione”, l’irregimentazione
istituzionalizzata, prodotti indiscutibili della modernità,
aprono una condizione inedita che da un certo punto in poi tende
sempre a manifestarsi quando si ponga la necessità di
annientare una popolazione o rimuovere un ostacolo umano
collettivo. Sono proprio questi i componenti spesso indicati per
sottolineare, cadendo in equivoco, l’“unicità”
dell’Olocausto. In questo equivoco sono caduti
Adorno e Horkheimer quando hanno ribadito la tesi dell’”unicità”
pur avendo percepito lucidamente la possibilita' di nuove ricadute.
(...) i rappresentanti della Scuola di Francoforte
hanno continuamente richiamato l’attenzione sul fatto che
Auschwitz è stata una caduta nella barbarie che può
ripetersi “fino a quando le condizioni che produssero
quella caduta continuano ad essere presenti nei loro tratti
essenziali”.[7]
I due grandi esponenti della Filosofia Critica non
avrebbero dovuto parlare in termini ipotetici perché la
nuova via inaugurata dal Nazismo si era appena ripetuta poco
prima della fine del conflitto stesso. Era d’obbligo
rilevare almeno un altro atto paragonabile allo sterminio
nazista, compiuto questa volta dagli “Alleati”:
l’impiego della bomba atomica sulle città
giapponesi. Non si dica che il confronto non possa essere
stabilito essendo questo un atto che rientra
“nell’ambito delle azioni di
guerra”. Ormai è storicamente accertato che
contro la bomba si espressero le massime autorità militari
degli Stati Uniti del tempo. Eisenhower e l’ammiraglio
Leahy furono contro l’uso del terribile ordigno.
Quest’ultimo, in particolare, disse:
I giapponesi erano già sconfitti
e pronti alla resa. L’uso di questa arma barbara contro
Hiroshima e Nagasaki non ci fu di nessun aiuto nella guerra
contro il Giappone. Nell’usarla per primi adottammo una
norma etica simile a quella dei barbari nel medioevo. Non mi fu
mai insegnato a fare la guerra in questo modo, e non si possono
vincere le guerre sterminando donne e bambini.[8]
Al di là del modo di condurre una guerra
insegnato all’ammiraglio Leahy, resta il fatto che una
parte dei militari dell’epoca integrava ancora nella
propria coscienza forme di rispetto per regole non scritte,
provenienti da tempi lontani e evidentemente osservate. La bomba
fu voluta da attori imprevedibili, quelli che partecipano a un
settore consacrato a favore del “progresso” e del
“benessere” dell’uomo: gli scienziati e i
ricercatori, nonché i politici. E’ lo stesso Leahy a
fotografare le responsabilità:
Gli scienziati e altri [leggi Truman,
n.d.r.] volevano sperimentarla, date le enormi somme di denaro
che erano state spese nel progetto: due miliardi di dollari.[9]
Non è certo possibile stabilire una relazione
causale tra lo sterminio “tecnologico” dell’Olocausto
e quanto è succeduto, perché non esiste nessun
legame causale. Semplicemente il Nazismo è arrivato primo,
e dunque si può dire che abbia inaugurato un nuovo filone:
quello che l’umanità, dalla seconda parte del XX
secolo sta costantemente esercitandosi a compiere in silenzio
riproponendo le forme di sterminio fredde che riconosciamo
nell’esperienza nazista. Uccidere centinaia di bambini che
lanciano pietre a blindati, negare i farmaci a interi continenti
per difendere brevetti, provocare stermini per fame, impiegare
armi di distruzione di massa contro eserciti in rotta, sono germi
striscianti di Olocausto che condurranno presto a attuazioni
complete quando la crisi delle risorse planetarie renderà
ingestibile la regolazione degli interessi in altro modo. In
tutti i casi, si tratta di forme di propedeutica allo sterminio
nelle quali la “modernità”, la “civiltà”,
il “progresso” e la “tecnologia” sono
componenti tanto fredde quanto essenziali allo scopo.
E’ possibile opporre una obiezione
apparentemente forte. Combattere e annientare per le risorse, per
i brevetti, per il petrolio, per il controllo delle vie di
comunicazione è un fatto. Sancire la riduzione dell’umano
a cosa è un’altra. E’ quanto vuole sostenere
Witt-Stahl quando afferma:
La singolarità di Auschwitz
consiste nell’inimmaginabile dimensione di uno sterminio di
massa pianificato burocraticamente; nel fatto cioè che la
mano umana ha trasformato degli uomini per la prima volta in
esemplari.[10]
Esemplari, cioè cose. Sterminio di umani
attraverso la dichiarazione ideologica di distruzioni di cose. Ma
è la Modernità stessa che ha inaugurato la
riduzione dell’umano a cosa privando il nemico del
riconoscimento di “essere umano”. Perciò
chiediamoci: per annientare gli umani come fossero cose, è
necessario accompagnare l’atto “dichiarando”
che si tratta di cose? La schiuma, il ricamo, la cornice
– o come altro si voglia chiamare -, insomma, l’aggiunta
ideologica a un atto rende davvero l’atto diverso
dall’analogo che viene compiuto senza alcuna
giustificazione?
Occorre considerare, comunque, che ogni volta che
uno sterminio viene compiuto è sempre accompagnato da una
qual forma di “sostegno ideologico”. Si può
obiettare però che il sostegno ideologico su base razziale
sia più immorale di qualsiasi altro, ingiustificabile a
priori e che la sua aura mostruosa renda l’atto più
mostruoso di quello non accompagnato da tale carattere. Ma siamo
proprio convinti che abbia giocato un ruolo così
fondamentale nel Nazismo?
5.b – La comparsa
della “banalità del Male”
C’è qualcosa di paradossale nel
nazismo. Si sostiene che in quella società totalitaria si
sia annidata una forma particolare di febbre ideologica e che, su
questa febbre si sia costruita l’avversione antisemita. In
parte è vero. Tuttavia, considerando le cose da vicino,
sembrerebbe che altri contesti offrano temperature più
alte. Le guerre di religione, per esempio. Le guerre etniche, di
cui abbiamo un esempio a noi vicino di indescrivibile ferocia.
Invece:
Per far funzionare un campo di
sterminio bisogna avere delle competenze tecniche e
amministrative. Per costruire e far funzionare le camere a gas e
i forni crematori, occorre una razionalità strumentale i
cui agenti possono fare a meno dell’ideologia e che, per
parlare con Weber, spesso si considerano eticamente
deresponsabilizzati: basti pensare ai funzionari che stilano le
liste degli Ebrei o che controllano il sistema dei trasporti.[11]
Del resto, il contributo di
Hannah Arendt con il suo lavoro “La banalità del
Male” apre riflessioni cruciali. Nel 1961 Arendt
seguì tutte le fasi del processo Eichmann a Gerusalemme
rilevando in quell’emblema di funzionario nazista un
burocrate completamente incapace di distinguere il Bene da Male,
persino in grado di esibire una specie di pseudoetica secondo la
quale egli doveva seguire un imperativo categorico obbedendo alla
volontà del Führer, la massima autorità
“morale” da lui riconosciuta. Arendt rovesciava
nell’occasione la sua precedente impostazione che
intravedeva nel nazismo il male assoluto e ora ridimensionava il
ruolo dell’ideologia nella formazione delle scelte
dell’individuo nazista. Al punto di riconoscere che per
Eichmann l’antisemitismo non era così importante
rispetto alla distorsione morale dell’obbligo di adempiere
ad un dovere “a prescindere” da qualsiasi altra
considerazione.
“un ufficiale deve tener fede al
giuramento. E’ l’imperativo kantiano che divenne il
principio base della mia vita”[12].
Il ritratto che esce dal personaggio è quello
di un individuo incapace di sostenere in modo autonomo un
giudizio sui propri atti. Non uomo perverso e sadico, ma essere
semplicemente privo della capacità di sentimento morale,
capace persino in sede processuale di affermare, sia in pubblico
che nel suo intimo, l’inesistenza di qualsiasi sentimento
antisemita. Dunque, il Male che l’individuo moderno aveva
incominciato a esprimere era un Male banale, un Male in cui la
volontà di annientamento non era più basato
sull’odio, sull’aggressività o su quei
sentimenti forti che in precedenza avevano generalmente
svolto un ruolo di accompagnamento nella genesi di ogni
genocidio.
E’ così difficile trovare connessioni
con la psicologia di chi, senza moti dell’animo, è
disponibile a sganciare una bomba atomica su una città? O
di chi, in nome dell’interesse degli azionisti nega la cura
a migliaia di moribondi? O di chi, in un oscuro laboratorio di
una multinazionale mette a punto mezzi di distruzioni di massa?
6. I buoni motivi per
sostenere il Paragone
E’ giunto il momento di riepilogare.
1. Un genocidio come evento “storico”
ha due versanti: il “racconto” e la “realtà”.
Il primo è molto prossimo al “flatus vocis”;
il secondo costituisce un puro epifenomeno. Entrambi non
intaccano la genuina e essenziale verità secondo cui
l’evento è parte di una successione tragica che ha
costellato la storia della specie Homo.
2. Ciò che assume significato è
proprio tale successione. Essa deve essere posta al centro della
ricerca per cogliere aspetti di “sostanza”
raccordabili in un “nomos” profondo che soggiace alla
serie degli eventi allo scopo di comprendere quali processi
avviare per giungere ad una autentica liberazione umana [13].
3. Ad un certo punto della Storia, si
manifesta una complicazione: la successione tragica subisce una
trasformazione strutturale legata allo sviluppo della civiltà.
L’evento doloroso – quando l’operatore della
violenza è l’“uomo civile” –
tende a perdere i colori forti delle passioni raffreddandosi
nelle relazioni tecnico-burocratiche della modernità.
4. La nuova pratica violenta della specie
contro sé stessa appare, presumibilmente, con la
catastrofe dell’Olocausto o nella sua prossimità.
La penetrazione nella Storia del “progresso”, della
“burocrazia” e della “tecnologia”
consente “una reificazione e una de-emotivizzazione
dell’uccisione di massa” che si prolunga bene
oltre Auschwitz diventando pratica “disponibile” per
ogni evenienza. Il male diventa “banale”, anche
quando viene sganciata una bomba atomica su una città
giapponese o la popolazione di una città araba viene
snidata con armi che la comunità internazionale considera
vietate.
5. Da questo momento in poi, fermo
restando l’appartenenza di ogni singolo episodio alla
dimensione epifenomenica, l’analisi e la ricerca delle
leggi del comportamento umano nella Storia devono considerare non
soltanto la ricorrente violenza, ma anche la sua relazione con il
marchio della civiltà: insomma, accanto alle forme
tradizionali del genocidio si affianca un nuovo atteggiamento che
non è possibile evitare di sottoporre a indagine con
criteri nuovi. Si apre un quadro nel quale ciò che
Witt-Stahl chiama “forma esteriore” diventa
“sostanza”. Le “modalità
tecniche di soppressione” diventano componente della
“natura intrinseca dei fenomeni”. Ciò
accade per una inscrizione della naturale aggressività
della specie umana all’interno di una speciale forma di
cultura: quella consentita dalla moderna società
tecnologica e capitalistica capace di generare in negativo una
nuova trasformazione antropologica.[14]
Ora, caduti i problemi della “non
epifenomenicità” e dell’“unicità”
dell’Olocausto e rimarcate le tinte moderne che colorano
cupamente la recentissima rivoluzione antropologica, è
possibile finalmente integrare il problema centrale posto dal
saggio di Witt-Stahl. Per fare questo occorre aggiungere due
proposizioni forti della dottrina antispecista. La prima è
una proposizione descrittiva ampiamente documentabile in
qualsiasi contesto in cui non si voglia negare l’evidenza.
La seconda, appartenendo alla classe delle proposizioni
normative, non è documentabile affatto e rappresenta
semplicemente l’assioma fondamentale della teoria
antispecista.
A) Un organismo animale maturo e sano
possiede analoghe capacità biologiche dell’uomo di
esperire sofferenza nelle condizioni estreme in cui viene
collocato dal suo torturatore
B) Le relazioni di dominio tra animale
umano e animale non umano sono equiparate a quelle tra animale
umano e animale umano.
A questo punto la sottolineatura del fatto che una
vittima si mangi e l’altra no appare un semplice aspetto
secondario privo di rilevanza alcuna (questo sì che è
un epifenomeno!) e il modello descritto può essere
applicato indifferentemente a genocidi di animali umani o non
umani. In sostanza, se l’aggressività umana si
esercita con uniformità di trattamento su animali umani o
non umani mediante:
a) istituzionalizzazione del genocidio
tramite procedure burocratiche, b) elevato
impiego di tecnologia e pianificazione organizzativa, c) impiego
di funzionari-automi privi di riferimenti
etici, d) de-emotivizzazione di massa rispetto al
dolore delle vittime,
si può sostenere di essere in presenza
di un olocausto generato da istituzioni criminali a
prescindere da quelle che possono essere i criteri
giustificazionisti che accompagnano l’atto. Gli elementi
riportati nei quattro punti – punti individuati
nell’essenziale da Witt-Stahl anche se fraintesi –
diventano insomma “sostanza” e “natura
intrinseca” del fenomeno e illustrano le aberrazioni
della specie sul piano etico in qualunque contesto si
manifestino. Si comprenderà bene come l’integrazione
degli allevamenti nella nuova logica della produzione intensiva
di carne si inquadri senza residui nel nuovo modello delineato.
Infatti le tecniche di soppressione si basano essenzialmente su
metodi “moderni” e “tecnologici”;
pretendono atti burocratici sempre più definiti; sono
attuate da funzionari “freddi”, cioè deprivati
di emozioni, ma spinti dalla logica sociale a condurre a termine
il loro lavoro; sono colpevolmente ignorate dalla masse. Sono
condotte su animali, è vero, ma, adottando una logica
antispecista, questa differenza risulta semplicemente nulla.
Ma se l’Olocausto è solo il primo
evento, ma non l’unico, che inaugura una nuova pratica
umana, perché richiamarsi proprio a quello per porre il
“Paragone”? La prima risposta è semplice. E’
quantomeno necessario trovare forme adatte che accompagnino i
contenuti specifici. E’ difficile paragonare l’eliminazione
intensiva degli animali con la distruzione di Hiroshima. Per
sterminare gli animali non si usa la bomba atomica; si usano
criteri di serializzazione e tecniche di programmazione simili a
quelle utilizzate dai criminali nazisti. Ma questo, a ben vedere,
è secondario.
Più importante è la seconda risposta.
Come Enzo Traverso ha ben osservato, l’Olocausto ha
generato una “ossessione”, una “retorica”,
“una sorta di religione civile”. Anche se si spegnerà
con il tempo, l’Olocausto è attualmente radicato e
vissuto nell’immaginario collettivo in termini più
drammatici rispetto a altri genocidi della Storia. Ora,
l’Antispecismo, il messaggero
della situazione dolorosa resa invisibile dalla cattiva coscienza
degli animali umani, è una visione del mondo
rivoluzionaria che per crescere nella sua battaglia richiede una
connessione forte alla tragedia ininterrotta della specie. Ha
dunque l’obbligo di ancorarsi a ciò che gli animali
umani ritengono quanto di peggio sia accaduto nella loro
sciagurata esistenza. Insomma, la scelta non la compie
l’Antispecismo, bensì chi ha elevato l’Olocausto
a “evento unico” sdrammatizzando con ciò la
storia dolorosa dell’Homo Sapiens Sapiens. Il richiamo al
Paragone è giustificato proprio dall’idea che
l’opinione pubblica si è fatta dell’Olocausto.
Il portato scandaloso del Paragone, che consentirebbe a un
movimento antispecista non dormiente – quindi completamente
diverso dall’attuale – di dimostrare tutta la
violenza contenuta in una pratica (dis)umana diretta verso gli
animali, sta proprio nella connotazione pubblica che l’Olocausto
si è guadagnata in questa fase storica. Il Paragone è
un’arma potentissima capace di giocare un ruolo vigoroso
nel processo di liberazione animale. Esso può, se ben
gestito, risvegliare l’attenzione della questione animale
nella società e conquistare nuove energie per mezzo di
un’abile e giusta propaganda.
Addirittura il Paragone dovrebbe essere il luogo
concettuale principale perseguito dall’Antispecismo, in
quanto nient’altro possiede un valore altrettanto
destabilizzante per costringere una società sorda a tenere
conto di una emergente e inedita manifestazione di vero
conflitto. Esso potrebbe inaugurare una fase nuova di grandi
prospettive, sottraendo la questione dalle mani di
opportunisti e ignavi – questi ultimi forse migliori, ma
altrettanto indisponenti – la cui funzione è quella
di perdere tempo per correre dietro falsi obiettivi quando non
addirittura per stringere relazioni ambigue con chi attua
pratiche criminali.
Infine il Paragone, con la sua forza narrativa,
svolge un ruolo politico “interno”
fondamentale in un nuovo movimento antispecista a prescindere
dagli elementi di (legittima) utilità propagandistica.
Esso eleva e perfeziona la volontà di conflitto nei
militanti animalisti e raccomanda l’impossibilità di
partecipare in qualche forma ai programmi di partiti che
giustificano l’olocausto animale o che collaborano con
altri che lo fanno. Insomma l’accettazione del Paragone
prefigura la nascita di un corpo estraneo nella civiltà
attuale, un orizzonte aperto ricco di sperimentazioni ancora non
immaginabili che stabilisce una rottura, un punto di passaggio
corrispondente alla tensione rivoluzionaria del messaggio
antispecista.
7. Conclusioni
Dunque ha ragione la PeTA a promuovere la sua
campagna tanto contestata da Witt-Stahl? Certamente no. Oltre a
tutte le riflessioni centrate e indiscutibili individuate
dall’autrice di “Auschwitz non sta sul vostro
piatto”, la chiave di lettura per comprendere la validità
della critica alla PeTA sta nella chiusura del saggio che risulta
estremamente pertinente.
Se si cercasse una spiegazione su come
la PeTA riesca a far quadrare il cerchio: ovvero sedersi al
tavolo assieme a chi commette “l’Olocausto” nei
confronti degli animali per chiedere migliori condizioni per le
vittime – cioè cooperare con i “nazisti”
– si cercherebbe inutilmente sul sito Masskiling.
Giusto! Come osservato nel paragrafo precedente,
l’assunzione del Paragone comporta un giudizio radicale
sulla società specista che non consente alcuna possibilità
di contrattazione o compromesso con le sue istituzioni; è
questa una logica conseguenza che, tra l’altro, implica
l’autonomia di un movimento che deve ancora nascere.
Infatti se si accetta l’assioma antispecista, come non
sarebbe possibile istituire relazioni con un potere che
annientasse animali umani, altrettanto non si può fare con
chi impiega analoghe pratiche criminali verso animali non umani.
Poi, l’assunzione del Paragone obbliga a
proiettare la soluzione della questione animale in un futuro
diverso al quale non è possibile approdare
per piccoli miglioramenti progressivi. Inoltre, la questione
animale può trovare respiro soltanto in una prospettiva
strettamente politica e non può non rigettare
integralmente il filtro interpretativo protezionista con il quale
a tutt’oggi essa viene osservata.
La PeTA rifiuta entrambi i criteri. Né interrompe le
relazioni e i compromessi con la società specista, né
attribuisce una natura politica alla questione della Liberazione
Animale. Il fatto che la PeTA sposti il Paragone su un piano
puramente pubblicitario e lo riduca a puro artificio
promozionale, lo depotenzia, lo svilisce e lo deforma in ragione
dei metodi che le sono propri.
[1]
I distinguo del Papa – Rossana Rossanda – Il
Manifesto 21/08/05
[2]
La fabbrica dell’Olocausto – Iaia Vantaggiato
intervista Enzo Traverso – Il Manifesto 11/11/05
[3]
Ibidem
[4]
Ibidem
[5]
Ibidem
[6]
“Auschwitz non sta sul vostro piatto” -
Susann Witt-Stahl, in
“www.liberazioni.org/liberazioni/articoli/Witt-StahlS-01.htm”
[7]
Ibidem
[8]
La bomba ha 60 anni – Vittorio Capecchi – Il
Manifesto 04/08/05
[9]
Ibidem
[10]
“Auschwitz non sta sul vostro piatto” - Susann
Witt-Stahl, in
“www.liberazioni.org/liberazioni/articoli/Witt-StahlS-01.htm”
[11]
La fabbrica dell’Olocausto – Iaia Vantaggiato
intervista Enzo Traverso – Il Manifesto 11/11/05
[12]
Eichmann: Diario di un processo – Sergio Minerbi –
Luni Editrice, pag 51
[13]
Il contributo più consistente alla filosofia della Storia
è certamente quello marxiano. E’ pure vero che esso
muove passi incerti in ambiti fondamentali, ma la teoria marxiana
non è una teoria errata come sostengono i reazionari. E’
semplicemente una teoria incompleta. Essa assegna rilevanza
dominante agli aspetti sociali in cui l’uomo è
immerso. Sembra persino che consideri l’animale umano come
perfettamente elastico rispetto ai condizionamenti sociali. Si
tratta di un atteggiamento filosofico meravigliosamente ottimista
giacché implica che, qualora si riuscisse a costruire una
società armonica e equilibrata, le condizioni create
sarebbero capaci di automantenersi forse per tempi illimitati.
Purtroppo molti indizi inducono a pensare che così non
sia. Siamo costretti a accettare una “natura umana”
caratterizzata dalla presenza da eredità evolutive che
pesano. Non si tratta di accettare i postulati della
sociobiologia – postulati che annullano pesantemente il
ruolo dei condizionamenti sociali – ma semplicemente di
accettare la natura animale dell’uomo per metterla in
relazione con i suoi artifici. La costruzione di una società
di eguali e basata sulla giustizia diventa, in questa
prospettiva, non la realizzazione del paradiso in terra bensì
il mezzo per tenere a bada una specie di animale che abbiamo
dentro, il quale, accoppiato alle capacità umane di
adattamento, di simbolizzazione, di versatilità
tecnologica, riesce davvero a realizzare quelle condizioni che
vengono tradotte genericamente con il termine “Male”.
[14]
La possibilità di distruggere e annientare esseri viventi
fuori dello sconvolgimento cognitivo-emotivo del corpo a corpo,
condizione che ha accompagnato la stessa evoluzione della specie
umana, costituisce forse un comportamento contro-adattativo della
specie? E’ una tesi che meriterebbe di essere approfondita.
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