Officina della THEORÎA

Per una Critica
dell'Antivivisezionismo Scientifico
- Di Agnese Pignataro -




In questo scritto intendo mostrare che, nella lotta contro la sperimentazione sugli animali, l’antivivisezionismo scientifico è fuorviante, inutile e dannoso e va dunque abbandonato. Questo punto di vista può sembrare estremo, ma cercherò di indicare delle valide ragioni per adottarlo: sosterrò la mia proposta attraverso una breve analisi della relazione tra scienza ed autorità e dei suoi effetti sulle credenze dei singoli individui, in particolar modo per ciò che riguarda la questione degli esperimenti sugli animali. Infine, suggerirò l’opportunità di un differente approccio alla questione, articolato su un confronto filosofico fondato su credenze e sentimenti individuali[1].

La sperimentazione animale è un fenomeno recente. Rispetto alle altre forme di uso dell’animale, delle quali si dice (o si suppone) che sono arcaiche e che accompagnano l’uomo dagli albori della sua storia, essa è relativamente recente. E’ una pratica di ricerca che si inscrive nel sapere scientifico occidentale, e nasce con esso al sorgere dell’età moderna (fine XVI sec. - inizio XVII sec.).

Quattro secoli di storia contro i millenni di evoluzione culturale umana che in genere vengono chiamati in causa per legittimare pratiche come la caccia, la pesca, l’alimentazione carnea, l’uso di pelli per l’abbigliamento e di animali a   scopo ludico.

Nessuno potrebbe mai seriamente difendere la sperimentazione animale sostenendo che essa fa parte di una serie di esigenze ineluttabili della natura o della cultura umana. Essa possiede, anche per l’osservatore “profano”, uno status a sé.

La domanda fondamentale è, dunque: cosa fonda la sperimentazione animale? O meglio, cosa fonda la percezione generalizzata, delle istituzioni come del singolo individuo, che la sperimentazione animale sia una pratica certamente spiacevole ma tuttavia sostenuta da una ineludibile, quasi scontata necessità?

Quale tipo di autorità prende il posto, nell’opinione dei comuni individui, della tradizione, delle pratiche quotidiane tramandate da genitori e nonni?

C’è una sola risposta: l’autorità del sapere scientifico.

Un’autorità forte quanto la tradizione e che ci insegna non solo, semplicemente, come preservare la nostra vita, ma, più sottilmente, cosa è più importante per noi... Il discorso scientifico, oggi, rappresenta il parametro della nostra razionalità e del nostro sistema di valori. Cosicché, la frase “meglio un topo che un bambino” (immancabile in ogni discussione sull’argomento) non si limita ad affermare, seccamente, che la vita di un piccolo umano vale più di quella di un topo, ma implicitamente stabilisce che non sarebbe ragionevole pensare il contrario.

La sperimentazione animale è un fenomeno storico, come la scienza, e come essa è legata a tutta una serie di saperi e di poteri concreti. Ma occorre tener presente la differenza tra scienza e percezione della scienza.

La scienza è un insieme di conoscenze ed ipotesi sul mondo costruite mediante un metodo le cui linee generali sono state tracciate all’inizio del XVII secolo, ma che continua ancora ad essere fonte di problemi, di riflessione, di critica da parte dell’epistemologia. La percezione della scienza è il modo in cui tutti coloro che ne sono fuori, che non partecipano attivamente alla produzione di sapere scientifico, guardano tale sapere, la considerazione che ne hanno, la valutazione che ne danno.

Quando abbiamo parlato di autorità del sapere scientifico ci siamo ovviamente riferiti al modo in cui esso permea nelle nostre società, nel vissuto quotidiano, ed alla percezione che di esso si ha, dall’esterno.

Per analizzare la sperimentazione animale, dal momento che essa si pratica e si giustifica all’interno del sapere scientifico, non ha senso chiedersi se essa sia un metodo scientificamente fondato ma occorre soprattutto indagare sul costituirsi di questo sapere, e poiché questo, a sua volta, costituisce la chiave di volta del modo in cui l’uomo contemporaneo guarda e comprende il mondo che lo circonda, indagare sulla percezione che l’uomo ha di questo sapere.

La scienza non è una verità definita e compiuta, una sfera inaccessibile di sapere che non ha commercio col quotidiano mondo della prassi, delle condotte e delle valutazioni su cui queste si fondano. Il sapere scientifico, e gli scienziati stessi ormai lo sanno, non si fonda su dati oggettivi, semplicemente perché questi non esistono, né praticamente né teoricamente. Non esiste il dato che, per l’appunto, “si dà”, puro, nudo, emergendo al di sopra della caotica corrente degli eventi naturali, se non per astrazione dell’osservatore. Lo scienziato spiega ed interpreta fatti che risultano dai suoi procedimenti di astrazione (suddividendo il continuum dei fenomeni naturali in dati isolati) o costruzione (riproducendo eventi naturali in laboratorio).

Ma la percezione della scienza è completamente diversa: si pensa in genere che la scienza costituisca un sapere oggettivo, un sapere che quindi è investito di autorità, è incaricato di produrre enunciati di verità ed istruzioni pratiche per regolare la nostra esistenza al fine del suo miglioramento.

Perciò, la relazione tra scienza ed autorità si colloca nel contesto della vita ordinaria, in cui il sapere scientifico organizza e guida le condotte quotidiane da una parte, le scelte istituzionali dall’altra. Ma ciò costituisce un problema nel momento in cui tale influenza risulta da una percezione distorta (e non dalla scienza in quanto tale che, in sé, è un campo problematico ed affascinante come tanti altri). Il sapere scientifico orienta i gesti degli individui, costituisce la misura in base alla quale decidere ciò che è ragionevole fare e ciò che non lo è. In questo senso, esso rappresenta l’attuale, indiscusso modello di razionalità perché costituisce in astratto il filtro attraverso cui l’umanità concepisce la propria possibilità di conoscere, in concreto il modello su cui le comunità umane fondano i propri progetti.

E si attua questa duplice frode: il nostro quotidiano è dominato da un nucleo di sapere che pone se stesso 1. come assoluto, ma non lo è perché non può provare la sua oggettività, e 2. come indipendente da influenze esterne, disinteressato, ma non lo è e non lo è mai stato, come nessun campo della cultura umana; al contrario, esso è parte di un circolo di pratiche più che concrete attive per la ricerca del profitto e del potere.

Alla luce di queste considerazioni, non può e non deve esistere una contestazione della sperimentazione animale che separi, come sostiene l’antivivisezionismo scientifico, le considerazioni scientifiche da quelle di ordine filosofico. Anzi, coerentemente con quanto detto sopra, gli argomenti scientifici non devono essere usati affatto. Ecco perché.

In primo luogo, per motivi legati all’essenza stessa del campo di sapere al quale l’antivivisezionismo si rivolge, cioè alla medicina, la quale, in quanto cura dell’essere umano, è un sapere intrinsecamente vincolato al sistema di valori di quest’ultimo. Perciò ogni pratica medica deve essere per lo meno connessa, se non addirittura assoggettata, alle convinzioni morali del paziente. Occorre riconoscere il diritto del paziente ad essere curato nel rispetto delle sue convinzioni; per quale motivo la mia esigenza di salvarmi la vita e recuperare la mia salute senza che altre vite ne facciano le spese dovrebbe essere negata?

Infine, e questo è il motivo più importante, perché l’antivivisezionismo scientifico rimane annidato all’interno dello stesso sapere che vorrebbe criticare. Ponendo i propri argomenti in modo assoluto e conclusivo, esso  mostra lo stesso difetto della posizione opposta (quella a favore della vivisezione): il difetto di essere un sapere autoritario, elargito dall’alto.

L’antivivisezionismo scientifico sostiene di rivelare che gli esperimenti sugli animali sono una frode scientifica, che i loro risultati sono del tutto inutili perché i dati sperimentali relativi ad una specie sono inapplicabili ad altre specie etc. etc. Ma rivelare a chi? Ai ricercatori? Lo sanno già, e da molto tempo! È proprio per questo che la sperimentazione umana è stata largamente praticata già molto prima del Nazismo (e lo è tuttora…)[2]. Stando così le cose, ci si potrebbe domandare per quale ragione vengano ancora condotti esperimenti su animali. A parte la ricerca specifica sulla fisiologia animale, tre sono le ipotesi plausibili: 1. perché in alcuni casi è possibile, lavorando con grande prudenza, generalizzare ad altre specie i risultati relativi ad una specie particolare; 2. perché molti ricercatori si servono della sperimentazione animale per pubblicare articoli o vendere nuove formule farmaceutiche attraverso uno studio breve, semplice ed economico; 3. perché la sperimentazione animale serve a nascondere la verità brutale e scomoda della necessità degli esperimenti su esseri umani.

Lo scopo di questo scritto non è scegliere tra queste ipotesi, tutte ugualmente probabili. Ma è facile notare che in tutti e tre i casi, l’antivivisezionismo scientifico non ha gioco. Nell’ambiente scientifico, nessuno ha ancora bisogno di essere convinto che la ricerca medica non può avanzare grazie ai soli test sugli animali. Dunque, perché ripetere una verità già ben conosciuta? Chi deve esserne convinto?

La risposta è una sola: è evidente che gli antivivisezionisti “scientifici” si rivolgono all’opinione pubblica. Ma la funzione delle loro argomentazioni non è, come essi pretendono, cambiare le convinzioni della gente attraverso spiegazioni e dimostrazioni. Le persone prive di una solida preparazione scientifica avrebbero bisogno di un lungo percorso di preparazione prima di raggiungere un vero e profondo convincimento razionale. Perciò, gli argomenti scientifici contro la vivisezione possono convincere solo chi è già convinto: persone che sono già sfavorevoli alla vivisezione per ragioni individuali, per esempio perché sono animaliste o perché praticano una religione non violenta.

Ma sovrapporre argomentazioni scientifiche alle convinzioni personali è completamente sbagliato perché porta a due fuorvianti conclusioni:

1. la debolezza intrinseca dell’approccio filosofico al problema;

2. l’inadeguatezza delle convinzioni personali nella lotta politica per l’affermazione dei diritti animali.

Queste conclusioni combaciano con il quadro della scienza come sistema autoritario di verità che ho tentato di tratteggiare nel mio scritto: ho detto che in genere si guarda alla scienza come ad un insieme di conoscenze reali ed oggettive e che essa rappresenta oggi la più rispettata fonte di verità teoriche ed istruzioni pratiche per la vita di tutti i giorni.

Il punto 1. conferma l’idea superficiale della scienza come un tipo di conoscenza ferma ed oggettiva, in opposizione alla scienze umane, e in particolare alla filosofia, che sarebbero invece arbitrarie, relative ed inutili alla soluzione di qualsiasi problema; al contrario, come ho osservato sopra, le asserzioni scientifiche non possono pretendere di essere più oggettive dei ragionamenti filosofici[3].

Il punto 2. conferma l’indifferenza quasi costante che la scienza mostra nei confronti dei valori e delle opinioni individuali; essa ignora la loro profondità e il loro diritto al rispetto, sia in caso di accordo con essa che di disaccordo. Nel nostro caso, l’argomentazione scientifica contro la vivisezione pretende di sostituire l’opinione delle persone che credono che gli animali abbiano diritto in qualunque caso alla vita, al benessere e alla libertà, con una credenza pseudo-scientifica; una credenza che non viene affatto abbracciata per convinzione razionale (in mancanza dei mezzi tecnici necessari) ma attraverso un atto di fede verso coloro che l’hanno ispirata. E questo accade esattamente nello stesso modo in cui altre persone vengono convinte da altri scienziati, vivisettori, che la vivisezione è necessaria ed utile al progresso della medicina. In entrambi i casi, si tratta evidentemente solo di una questione di autorità[4].

Affermo il pieno diritto di assumere una posizione contro la sperimentazione animale senza il bisogno di una dimostrazione scientifica della sua inadeguatezza. L’opposizione alla vivisezione non è un sentimento irrazionale che debba essere sorretto e difeso con argomenti scientifici; essa ha a che fare con il più vasto problema dello status degli animali non umani e del loro diritto ad essere rispettati, che si basa su forti argomentazioni filosofiche e sull’ancor più forte sentimento di simpatia per gli animali avvertito da un così gran numero di persone, al di là delle differenze storiche, geografiche e culturali.

Cosa accadrebbe se ci fosse un esperimento su animali, solo uno, che fosse indiscutibilmente attendibile ed utile? Quali argomenti scientifici potrebbero impedirne la pratica?

Tutti coloro che sono coinvolti nella lotta per i diritti animali devono sentirsi liberi di dire no alla vivisezione in qualunque caso: non perché antiscientifica, non perché fallimentare. No alla vivisezione anche qualora producesse risultati utili. La questione non è epistemologica: non si tratta di una discussione sulla produzione delle verità scientifiche. La questione è filosofica: si tratta di giustizia. Non si può chiedere alla gente comune di esprimere un giudizio sul grado di verità della ricerca scientifica: al contrario, è la ricerca scientifica che deve prendere sul serio i valori, le convinzioni e le esigenze della gente. Soprattutto, va spezzata la relazione tra scienza ed autorità: le verità scientifiche devono essere confinate nella sfera teorica e non devono sconfinare nella sfera della prassi, ovvero la scienza non deve più costituire una guida per la vita umana (come se si trattasse di un nuovo tipo di religione) ma deve limitarsi a produrre i mezzi per mettere in pratica le decisioni personali.

I camici bianchi dei ricercatori non sono una garanzia di verità più di quanto lo fossero le tonache nere dei preti.

La critica della vivisezione e il riconoscimento dei diritti animali devono essere il risultato di una scelta individuale condotta attraverso la riflessione congiunta alla sensibilità. Né la religione né la scienza devono rispondere al nostro posto.




NOTE

[1] Negli passati mi è accaduto, sfortunatamente, di incontrare persone che sovrastimavano, in modo eccessivo e dogmatico, il ruolo dell’antivivisezionismo scientifico nella questione della sperimentazione animale, sul piano culturale come su quello politico. La tesi “estrema” di questo saggio nasce dal confronto con questo tipo di posizioni. Ma sono ben consapevole che molte delle persone impegnate in prima linea contro la vivisezione usano le argomentazioni scientifiche in modo molto più aperto e saggio. Pur restando della mia opinione, ho grande stima per loro.


[2] Per una discussione puramente epistemologica delle difficoltà relative all’applicazione del metodo sperimentale alle scienze della vita, vedi Georges Canguilhem, La connaissance de la vie, Vrin, Paris 1965. Nel cap. 1, “L’expérimentation en biologie animale”, Canguilhem osserva che i risultati degli esperimenti effettuati in campo biomedico non possono essere automaticamente generalizzati da specie a specie o da individuo a individuo e che la generalizzazione deve essere condotta con la massima cautela.


Sull’assenza di una relazione essenziale tra Nazismo e sperimentazione umana, vedi Roberta Kalechofsky, "Nazis and Animal Research" (disponibile in inglese su: http://www.micahbooks.com/readingroom/Nazisandanimalresearch.html;

e in traduzione francese su:

 http://www.cahiers-antispecistes.org/article.php3?id_article=144)


[3] Il discorso filosofico, in quanto argomentazione razionale, obbedisce ad una coerenza formale tanto quanto il discorso scientifico. Essi hanno pari oggettività, se per oggettività si intende appunto una pura correttezza formale, che sia di tipo logico o matematico. Ma la teoria scientifica non può aspirare ad un contenuto di verità maggiore di questo, non può attribuirsi un approccio privilegiato con il “reale”: nel momento in cui mostra questa pretesa, assume un carattere dogmatico paragonabile a quello di un profeta che asserisse di avere un contatto diretto con dio.

La filosofia, d’altra parte, non disdegna l’utilizzo e l’interpretazione dei dati empirici all’interno delle proprie ricerche; ma si tratta di un utilizzo strumentale, non dogmatico. 


[4] Si potrebbe obiettare che le teorie morali dei diritti animali sono imposte alla gente comune tanto quanto gli asserti scientifici e che, ugualmente, le persone prive di un background filosofico non sono in grado di comprenderle realmente. Suggerisco in risposta che le due maggiori e più note teorie animaliste, l’utilitarismo di Peter Singer e il giusnaturalismo adattato di Tom Regan, costituiscono un’espressione razionale dell’atteggiamento che molte persone ordinarie hanno verso gli animali: la “compassione” per la sofferenza animale (utilitarismo) e la convinzione che la vita degli animali (almeno di alcuni, come i mammiferi) sia di qualche valore. Perciò, le teorie filosofiche non sono una sovrapposizione esterna a questi atteggiamenti bensì una loro versione razionale e perfezionata; il loro senso può quindi essere afferrato anche quando i dettagli dell’argomentazione filosofica non fossero ben capiti.













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12/02/05