Officina della THEORÎA

Animalismo oggi, animalismo domani...
- a cura del Collettivo -






La relazione, che presentiamo ampiamente trasformata, è stata letta nel secondo ciclo di conferenze organizzato da “Oltre la Specie” nel 2003. Riteniamo che contenga spunti interessanti in un momento di passaggio del movimento animalista e che possa contribuire a alimentare il dibattito nella speranza di una sua profonda trasformazione.

1 - L’animalismo di oggi:
     un modello di indagine.

 Questa riflessione nasce da un fatto apparentemente strano sul quale, tuttavia, l’attenzione collettiva dell’ambiente animalista non si sofferma mai. Immaginiamo di entrare in Internet e cercare pubblicazioni sull’animalismo. Con un poco di pazienza troveremmo una lista di una quarantina di titoli. Una lista che si arricchisce costantemente e che può contare su testi di altissima qualità. Questi saggi affrontano il problema della condizione animale, evidenziano lo sfondo etico che deve promuovere l’azione di solidarietà animalista, esaminano i risvolti filosofici spesso in conflitto tra di loro, indagano sotto ogni punto di osservazione i diritti degli animali. Ma non se ne trova uno che ponga sotto osservazione, non gli animali, bensì l’animalismo stesso. L’animalismo inteso come pratica, con obiettivi e organizzazioni proprie. L’animalismo inteso soprattutto come classe di atti relazionata ad aspirazioni perennemente frustrate. Naturalmente non ci riferiamo tanto a una letteratura di stampo sociologico – peraltro inesistente – quanto ad una letteratura militante protesa a tentare di ragionare sulla propria azione, accompagnandola con un processo costante di retroazione concettuale. Ecco il punto: l’animalismo sperpera energie concettuali sul suo oggetto, ma non riesce a riflettere su sé stesso.

 Questo fatto non è per niente anomalo. Infatti la prevalenza quasi assoluta  della riflessione sull’oggetto rispetto al soggetto operante – dunque riflessione in senso stretto –, è tipica di tutti i movimenti nella loro fase di avvio. In questa fase si vede nascere la necessità dell’intervento e soltanto dopo, in seguito agli scacchi ai quali il neomovimento viene sottoposto, emerge la riflessione sul “come” realizzarlo. Il movimento animalista si trova proprio all’interno di questa fase primaria e si ritrae ancora con timore di fronte a un approfondimento che non vuole proprio affrontare, come se temesse, una volta messo di fronte ai suoi insuccessi, di attribuirli prima ancora che alle orrende abitudini della società specista, alla sua problematica debolezza rispetto alla quale potrebbe avere qualche seria responsabilità.

 Recentemente ci siamo posti l’obiettivo di colmare la lacuna e abbiamo impostato un lavoro intorno a un modello semplice ed esaustivo. Esso prospetta le domande esercitate dal movimento animalista verso le tre componenti della società che potremmo identificare come “sistema di produzione della cultura”, “sistema dei comportamenti”, “sistema del governo dei comportamenti”. Inoltre, rileva sia le risposte di retroazione che la società e le istituzioni rimandano al movimento, sia gli effetti che il complesso dei media e le istituzioni pubbliche esercitano nella modifica effettiva dei comportamenti sociali rivolti verso gli animali.

 Se non possiamo presentare la ricerca nella sua estensione, possiamo tuttavia prelevare dal modello almeno una coppia di aspetti che, nello spazio ristretto di questa presentazione, possono aiutarci a ragionare sul tema.


 2 - Due aspetti ad alto contenuto descrittivo:
> come lo Stato (non) interagisce con il “Movimento”;
> come la società lo immagina…

 -     Il primo aspetto riguarda la risposta che lo Stato, in alcune sue articolazioni, offre alle domande del movimento animalista.

-      Il secondo riguarda l’immagine che gli animalisti attualmente rimandano, lo vogliano o no, nel corpo sociale.

 Entrambi sono importanti per misurare il grado di efficacia dell’azione animalista e la sua influenza reale. Essi andrebbero studiati nelle effettive retroazioni attivate con entrambi i sistemi (quello politico – istituzionale e quello sociale) anche se in queste pagine non potremo che proporre alcuni cenni schematici.

 I due punti di vista, anche con i limiti dichiarati, possiedono un alto valore esplicativo. Infatti, un soggetto sociale reale e affermato deve godere almeno di due proprietà. Deve essere un interlocutore delle Istituzioni, ovvero un soggetto capace di fare proposte, e costituire un elemento di mediazione di interessi di cui lo Stato deve tenere conto. Inoltre deve essere conosciuto nitidamente dal corpo sociale sia per quanto riguarda le finalità dichiarate, le impostazioni concettuali, le iniziative pubbliche intraprese. In assenza di queste condizioni, il soggetto si riduce a  essere niente di più di un occupante di una nicchia “sociale” con nulla influenza sull’ambiente civile e politico.

 A)                La risposta dello Stato attraverso gli strumenti
politico-legislativi, giurisdizionali e amministrativi

 La società moderna, in Occidente, ha ricercato da sempre un difficile bilanciamento tra universalismo e individualismo, ma negli ultimi decenni l’equilibrio si è rotto a favore del secondo: si è assistito perciò a un individualismo esasperato e non compensato da tradizionali elementi regolativi. I motivi sono tanti e complessi. Si può dire che il processo evolutivo della società attuale conduce verso fenomeni di frantumazione dei conflitti e degli interessi collettivi determinando quella sorprendente manifestazione antroposociologica che è stata chiamata con l’espressione di “individualismo proprietario”. In esso l’uomo interagisce con altri uomini quasi esclusivamente sulla base di relazioni di interesse individuale. Ogni relazione umana è puramente strumentale!

 Grandi sono gli effetti sulla Politica, sul Diritto, sullo Stato. La Politica ha perduto la sua capacità di creare “grandi narrazioni” e si è trasformata in pura pratica di amministrazione del presente. Il Diritto ha assunto una funzione sempre più estesa in rapporto alla crescente conflittualità degli individui proprietari i quali, col loro dinamismo privo di finalità che non sia la guerra di tutti contro tutti per l’acquisizione di risorse, pongono sotto stress il sistema della Giustizia. Lo Stato, di cui i precedenti sono gli ingredienti principali, subisce una mutazione genetica e diventa il contenitore di interessi che continuamente si separano e si riaggregano sulla base di semplici contingenze.

 L’animalismo, la visione più avanzata ed eretica che percepisce la necessità di un salto straordinario tra il mondo attuale  - erede del passato - e un ipotetico futuro, si trova a agire in questa situazione. Anche se non conoscessimo nulla sulla legislazione per gli animali potremmo immaginarci senza difficoltà il “successo” che possiamo ottenere rivolgendo allo Stato istanze di miglioramento della loro condizione. E in effetti osserviamo che la produzione legislativa sugli animali gode soltanto di prerogative negative: 1) – è prodotta sempre con immenso ritardo rispetto ai fenomeni degenerativi che dovrebbe intercettare; 2) – è sempre inadeguata; 3) – si risolve regolarmente in formulazioni ambigue che impediscono una corretta visione della norma; 4) – è spesso soggetta a moratorie; 5) – è fondamentalmente inapplicata. È normale! In un periodo in cui la Politica si riduce ad amministrazione di interessi – gli unici referenti dell’attenzione pubblica –  non ci si può sorprendere se la soggettività animale venga tenuta in così bassa considerazione. Lo Stato è il luogo dove si regolano gli interessi dell’individuo proprietario: un soggetto che non è più il cittadino con obblighi e doveri verso la comunità allargata, ma semplice ente astratto il cui unico fine è l’appropriazione, il consumo e la manipolazione della natura attraverso il medium del denaro.

 E’ vero: la società del passato, non era certo l’ambito dove fosse facile far passare la tematica dei diritti degli animali. Maggiore povertà, minore istruzione, influenza estesa della cultura contadina che, come sappiamo, è una cultura dura e talvolta insensibile, avrebbero impedito la nascita di un movimento per i diritti degli animali. Ma per motivi diversi, la minore povertà, la maggiore istruzione, la prevalenza della cultura cittadina, tutti elementi che potrebbero giocare un ruolo nella predisposizione di una maggiore benevolenza verso gli animali, si trovano annegate dentro la logica di un sistema in cui la rilevanza dell’“economico” ha fatto piazza pulita di qualsiasi valore alternativo. E gli animali sono drammaticamente ancora, e più di prima, “merci”. Persino quando l’ipocrisia umana li chiama “di affezione”.

 Si potrebbero portare notevoli esempi. Il Decreto Legislativo 26 marzo 2001 n.146. Oppure la L.N. 281/91 che ha introdotto una legislazione lacunosa che si è ritorta contro coloro per i quali è stata fatta. Per arrivare all’ultimo esempio, quel ddl, appena tradotto in legge, concernente la materia del maltrattamento, che sostituisce l’art.727cp. Si tratta di norme non certo marginali sulle quali, tra l’altro, ci siamo soffermati con un puntuale lavoro di ricerca a cui rimandiamo sempre volentieri.

 Il primo è un decreto che recepisce una direttiva europea sul “benessere” degli animali d’allevamento. Esso può essere visto dai due lati possibili. Non si può escludere che vista dal lato di coloro che l’hanno voluta il decreto appaia come un passo avanti rispetto alla condizione precedente. Ma per i motivi che abbiamo ampiamente descritti (v., in questo stesso sito, il saggio: Miseria di decreti e d’altro) la norma appare – a chi ha in orrore la logica specista – la più cristallina rappresentazione dell’atteggiamento ipocrita e ignominioso che informa gli atti umani verso gli animali.

 La seconda è una legge disastrosa che contiene già nella sua scrittura le ragioni di un inevitabile fallimento. Essa ha portato, in un decennio, ad un’infinità di situazioni intollerabili per milioni (notare, milioni!) di animali di affezione. La ln 281/91 attribuisce ai sindaci la responsabilità diretta della gestione degli effetti del randagismo. Ebbene, non si può negare che se esiste una legge trascurata nella maggior parte del Paese è proprio la ln 281/91. I sindaci la snobbano, le ASL, con i loro veterinari “distratti” quando non addirittura benevoli con certi “gestori” di rifugi privati, non svolgono sempre degnamente il ruolo che la legge assegna loro, le guardie municipali ignorano il problema. Insomma, un fallimento su tutta la linea.

 Il terzo esempio parla di una legge paradossale che, inserendo pur tardivamente giuste figure di reato contro gli animali di affezione (es. combattimenti), provvederà a stoppare il pur debolissimo potenziale repressivo di reati contro tutti gli altri animali previsti dalla precedente norma. In particolare, con l’andirivieni tra Camera e Senato, si è ricevuta l’impressione che il Legislatore abbia voluto spuntare uno strumento esistente – peraltro disponibile soltanto teoricamente – sostituendolo con una norma che esclude in modo inequivocabile dalla protezione tutti coloro che non rientrano nella definizione di “animale di affezione”. Perché disponibile soltanto teoricamente? Perché la maggior parte delle denunce per maltrattamento si sono risolte, nel decennio di esistenza della ln 473/93 che ha “rinnovato” il vecchio art 727 cp, con archiviazioni o piccole sanzioni che non hanno svolto nessun ruolo di deterrenza nell’impedire gravissime forme di maltrattamenti.

 Si è accennato al fatto che un discorso compiuto andrebbe integrato con lo studio delle risposte che il movimento animalista rimanda a chi produce la Norma. Senza eccessive pretese di approfondimento, ma anche senza il rischio di stravolgere l’essenza delle cose, è possibile ricorrere a una immagine metaforica. L’Animalismo visibile, quello costituito dalle associazioni storiche, quello che l’opinione pubblica valuta tout court “animalismo”, riesce ad applaudire quasi senza eccezioni all’opera del Legislatore. Qualsiasi legge che venga votata dal Parlamento e dichiarata “a favore” degli animali provoca insensato entusiasmo senza produrre la necessaria analisi critica dei testi. Sembra che, per il fatto stesso che il Parlamento legiferi, ci si trovi di fronte a una vittoria. Spesso partecipa persino come suggeritore alle scritture più scandalose.

 Poiché non è possibile pensare che gli occhi non vedano ciò che è evidente, bisogna incominciare a vagliare ipotesi alternative, ipotesi che potrebbero aprire interessanti osservazioni intorno alla natura autoreferenziale di certe associazioni e individuare vere e proprie relazioni strane con gli ambienti del potere e della politica. Relazioni fatte di amicizie e interessi che alla fine incominciano a prevalere sulla difesa dei diritti degli animali. Relazioni occultate sotto la patina di frasi come “i rapporti di forza non consentono altro” che, se da un punto di vista oggettivo sono pienamente fondate, non giustificano né l’apologia di scritture gravemente insufficienti, né la partecipazione, spesso soltanto millantata, alla realizzazione dei testi delle leggi.

 Tra l’altro, non soltanto si plaude a leggi che gridano vendetta, ma si dà mostra di colpevole inerzia quando non si usano i margini che le stesse offrono per impostare battaglie legali. Sarebbero battaglie perse? E’ vero! Ma di fronte alle chiusure delle vie giurisdizionali, si potrebbero promuovere iniziative forti per mettere lo Stato di fronte al vuoto formalismo dei suoi provvedimenti. E invece nulla di tutto questo viene, non solo fatto, ma neanche immaginato.

 Come già affermato, i motivi di questo strano comportamento sono da ricercare in rapporti malsani istituiti con persone e istituzioni non animaliste, rapporti divenuti ormai vitali per la sopravvivenza fine a sé stessa di strutture associative che hanno perso per strada le motivazioni che le avevano portato a costituirsi. Massimo Tettamanti, in una e-mail pubblica, sostiene quanto segue:

 “Questo non vuol dire che alcuni vertici (locali o nazionali) NON abbiano gli animali nelle priorità, solo che NON sono la PRIMA priorità. La mia idea delle priorità di alcuni "animalisti": 1) apparire; 2) non far apparire gli altri; 3) salvare animali. Solo se è soddisfatta la priorità 1 allora cercano di ottenere la priorità 2. e, purtroppo, solo se sono soddisfatte le prime 2, si pensa alla terza (cosa che, in alcuni casi, puo' benissimo avvenire).”

 Quanto precede può apparire un approccio banale al problema e invece ne rappresentano una tanto centrata quanto dolorosissima sintesi.

 In genere, l’altro animalismo, quello di base e delle piccole associazioni, spesso proteso a una prassi esclusivamente protezionista, tracanna tutto in un azzeramento totale del senso critico, come se l’attenzione ai piccoli fatti che lo circondano cancellasse la capacità di ragionare su una base allargata. Ma ultimamente, proprio a proposito del ddl relativo alle nuove norme sul maltrattamento degli animali, è accaduto un fatto imprevedibile e sostanzialmente positivo, anche se probabilmente rimarrà privo di effetti concreti. Dopo alcune iniziali incertezze si è costituito un cartello che ha aggregato una 50na di sigle promosso da alcune associazioni nazionali che si sono sottratte alla tradizione sopra descritta. Per la prima volta, ci risulta, si è potuto registrare un movimento improvviso, una reazione che ha restituito dignità a un movimento tradizionalmente spento e incapace di sussulti.

 Cosa questo possa voler dire per il futuro non è ancora decifrabile. Tuttavia, se da un lato la circostanza testimonia la possibilità di una maturazione del movimento animalista, ancor più dimostra il disprezzo delle istituzioni per la cultura della protezione animale e per coloro che ne sono i depositari naturali. Ne consegue che la tradizionale funzione di mediazione dello Stato rispetto alla costellazione di forze degli interessi sociali non viene in questo caso rispettato. Perché? Semplicemente perché gli interessi degli animali non sono mediabili, cioè accettabili a metà o frazioni. La soggettività degli animali o viene riconosciuta o viene negata. Non può essere riconosciuta perché, dall’eventuale riconoscimento scaturirebbe un cataclisma economico e sociale. Allora non può che essere negata e, dunque, non è possibile fare nulla per mezzo di mediazioni con le istituzioni politiche. Perciò, nei confronti di esse viene a cadere qualsiasi procedura di carattere mediatorio di cui il lobbismo risulta essere – in tutti i casi che regolano gli interessi umani  – la forma normalmente praticata nel cosiddetto modello di democrazia rappresentativa.

 Si comprende perché il vero animalismo non possa farsi interlocutore delle Istituzioni, ovvero soggetto capace di fare proposte e costituire un elemento di mediazione di interessi di cui lo Stato debba tenere conto. Non può perché l’oggetto delle sue riflessioni continua a rimanere “oggetto” nelle considerazioni della società specista. Se si abbassa a relazionarsi con le istituzioni, vuol dire, sic et simpliciter, che tradisce gli interessi di cui si proclama rappresentante.

 B)                 La rappresentazione del movimento
animalista nell’immaginario sociale

 Anche questo aspetto è di primaria importanza. “Dimmi come il prossimo ti vede e ti dirò chi sei”: questa modificazione di un vecchio proverbio potrebbe essere un ottimo sentiero di ricerca per individuare la natura dell’animalismo oggi. La ricerca può svolgersi in varie direzioni. E’ possibile studiare come i mezzi di informazione vedono l’approccio animalista alla questione animale. Oppure è possibile compiere delle interviste con un semplice questionario. Si rileverà sempre una sorprendente confusione esistente a livello di percezione sociale tra animalismo e zoofilia. Per la “gente” gli animalisti sono quelli che “amano i cani o i gatti” o organizzano mostre di animali o “amano gli animali più degli uomini”. In molti casi si possono registrare delle colossali cantonate che tuttavia acquisiscono vita propria e rimangono punti fermi nell’immaginario collettivo. Per esempio, quando si confonde l’Animalismo con l’Ambientalismo. E’ possibile fare anche una ricerca su internet cercando portali i cui protagonisti siano gli animali. Si scopre che accanto alle tradizionali associazioni sicuramente animaliste compaiono fornitori di attrezzature veterinarie, allevatori di gatti e di pappagalli, corsi di addestramento per cani, pensioni, cimiteri virtuali e naturali, siti personali con la foto dell’animaletto di casa, agenzie matrimoniali e altre demenzialità degne della peggiore zoofilia.

 Detta confusione può indicare almeno due cose. In primo luogo, l’incapacità di fondo del movimento animalista di presentarsi per quello che ritiene di essere. Ma può anche indicare che forse possiede tratti di zoofilia. Un’analisi approfondita, infatti, mostrerebbe che zoofilia e animalismo non sono poi due categorie così nitidamente separate come spesso si pensa, ma passano l’una all’altra attraverso una bella sfumatura di gradi. Se la tesi è vera, ben si comprende la confusione di immagine che regna sovrana e che fa sì che l’animalismo attuale non disponga di una personalità sociale propria. Del resto, certi animalisti amano i cani ma intrattengono relazioni di prossimità con allevatori, mentre altri detestano il concetto stesso di selezione. Certi difendono a spada tratta il diritto degli esseri umani a condividere la vita con un animale mentre altri vorrebbero ridurre ai sinantropici la presenza di animali in ambiente antropizzato. Certi sono attenti alla sorte delle specie in via di estinzione, altri a quelle delle singole individualità. Certi sono turbati dal pensiero dell'impatto ambientale delle lettiere, altri non pensano nemmeno al fatto che per sfamare 8 milioni di gatti occorrono allevamenti intensivi. Certi sono inorriditi dagli effetti del randagismo sulle ormai stremate specie selvatiche, altri pensano esclusivamente all'interesse dei randagi. Si può condannare la società se vede l’animalismo con tratti confusi quando il soggetto stesso che dovrebbe essere interessato ad essere percepito in termini nitidi è il primo ad alimentare l'ambiguità?

 *****

 I due aspetti finora considerati, e cioè la relazione con lo Stato e l’immagine sociale sulla quale il movimento può contare, condotti ben oltre le osservazioni piuttosto sobrie riferite, possono aprire uno spiraglio sull’interpretazione della debolezza strutturale di quella strana chimera che è l’animalismo oggi. Debolezza sul piano della gestione/direzione di uno spazio tanto angusto quanto ambiguo, segnato, è utile dirlo, anche da una nefasta e ben osservabile concorrenzialità tra associazioni; ma anche debolezza politica sul piano di una visione organica e organizzata dei problemi, delle tattiche, delle strategie, della comunicazione. E, in definitiva, incapacità del nucleo portatore di una visione forte  della “questione animale” di rompere in modo definitivo con forme blande, distorte, quando non, addirittura, corrotte. Soprattutto di presentarsi distinto rispetto a tutto ciò che non gli appartiene liberandosi una volta per tutte di zoofilia, protezionismo, ambientalismo antropocentrato.

 Dunque, le condizioni dell’insuccesso della pratica sociale animalista risiedono certamente in un nemico esterno molto forte, ma anche – e quel che è peggio, in via preliminare – nell’atteggiamento interno animalista. Atteggiamento tutto preso dalla convinzione che la questione animale abbia una natura culturale anziché politica e che possa essere risolta per via di interventi deboli e atomistici i quali, aggregandosi giorno dopo giorno, possano generare, prima o poi, un effettivo salto qualitativo. Se così fosse, avrebbe senso, o quantomeno, troverebbe una sua parziale giustificazione sia l’atteggiamento minimalista assunto dai vertici delle associazioni verso la politica, sia quello altrettanto minimalista orientato a rifuggire da una identità forte da parte della maggioranza dei cosiddetti “attivisti”. Purtroppo le tristi lezioni di ogni giorno stanno a testimoniare quanto sia inconsistente sperare nel lento accumulo di risultati a favore degli animali.


3 - L’animalismo di domani

Nessuno ha le ricette dell’osteria dell’avvenire! E’ possibile soltanto porre alcune domande iniziali confidando che non siano mal poste e abbiano un potere di chiarificazione tale da orientare i successivi passi. Eccone alcune che sono al centro delle riflessioni del collettivo. Su queste, è possibile incominciare a ragionare per andare oltre i brevi cenni che seguono.

 i) Può una società irrimediabilmente specista e antropocentrista trovare in modo spontaneo soluzioni a problemi che non gli appartengono in assenza di fermenti indotti da parte del soggetto che li scopre e ne pretende la soluzione?

 E’ improbabile, per le ragioni dette prima relative al contesto in cui la politica si trova a agire. La società è distratta dalle sue cose e se dice di alzare la soglia della sua attenzione verso gli animali, è soltanto perché mentre peggiora, ama raccontarsi di migliorare. Le piace dirsi civile mentre sprofonda nella barbarie. E noi non dovremmo cadere in questa trappola. Se riuscissimo a evitarla, le implicazioni, per il movimento sarebbero notevoli. L’implicazione più importante? Si dice spesso che l’animalismo deve essere trasversale. Bene, a questo punto l’abusata definizione cadrebbe definitivamente. Il contrario di “trasversalità” sarebbe autonomia. Un movimento autonomo non dovrebbe chiedere né legislazioni avanzate né arretrate ma porsi in perenne conflitto sviluppando azioni border line rispetto alla sottile linea della legalità. Sarebbe la politica, a questo punto, a dover scegliere se ritoccare la legislazione sperando di attenuare fastidiose presenze, oppure accettare di convivere con un movimento fortemente dissonante in seno alla società. Come minimo si otterrebbero risultati ben più significativi di oggi senza le perniciose levate di cappello che abbassano molti animalisti al rango morale del nemico. Ma la vera prospettiva dovrebbe consistere nello sviluppo di una organizzazione capace di rivedere completamente i suoi rapporti con la sfera della politica per rappresentare direttamente gli interessi di cui si dice portatore.

ii) Se quanto precede è ragionevole, è possibile sviluppare  quel tipo di prassi per mezzo della forma organizzata “associazione”?

 No! E’ assurdo. Quando emerge la consapevolezza di diritti fondamentali offesi, la forma organizzata “associazione” è del tutto inoperante. Essa è adatta per diritti “formalmente riconosciuti” e, inoltre, “particolari”. Quando si tratta di diritti “generali” calpestati e persino derisi, quindi non riconosciuti, l’associazionismo diventa una pura inconsistenza che dovrebbe essere abbandonata al più presto, perché scopertamente inefficace. La natura dei diritti animali, oggi, richiede un salto prima mentale e poi organizzativo. Mentale, perché  bisogna accettare in via definitiva, la considerazione che dalla società attuale non potrà mai venire alcun riconoscimento che neanche si avvicini alla “buona morte” del soggetto di cui noi difendiamo il diritto alla vita. Organizzativo, perché bisogna considerare che è possibile ottenere ben altro che salvataggi occasionali di alcuni individui solo che si riesca a impostare strumenti organizzativi nuovi. Del resto, ogni volta che si sono aperte inedite visioni sull’allargamento di diritti fondamentali fino a quel momento misconosciuti, si sono impostate battaglie per mezzo di organizzazioni forti e conflittuali. Questa è la strada da ricercare e percorrere.

 iii) Esistono però le risorse umane per tentare una esperienza rinnovata? Si intra-vedono gruppi insofferenti alla gestione fin qui condotta dalle grandi associazioni animaliste? Possono, essi, avviare processi nuovi?

 In questo periodo stanno distinguendosi gruppi animalisti minoritari che potrebbero, in breve tempo, sviluppare notevoli potenzialità: i vari coordinamenti nati intorno a una serie di questioni “puntiformi” come Mucca103, NoRBM, ChiudereMorini ed tanti altri. Si tratta di un animalismo emergente che si caratterizza sicuramente in termini diversi da quelli tradizionali. E’ antiistituzionale o, almeno, stenta a vedere nelle istituzioni degli interlocutori di fiducia. E’ fortemente ostile alle associazioni tradizionali. Usa spesso comunicazioni aggressive e, quando riesce, imposta azioni decise. E’ un approccio che, a differenza del precedente, individua debolezze nello schieramento del nemico e non sembra deciso a mollare finché, almeno quel piccolo risultato che persegue non venga incamerato. Con la speranza che poco per volta si aprano altri fronti, supportati da nuovi attivisti, per proseguire un processo in cui vi sia almeno la conquista di obiettivi parziali. L’impressione che ricaviamo, è che spesso i “coordinamenti” limitino le loro speranze al successo dell’atto specifico. Questo potrebbe ancorarli solidamente al contesto che li vede nascere. Sarebbe un errore. Invece, la liberazione di questi gruppi dalle angustie dei “contesti” potrebbe generare il primo nucleo di una visione alternativa della “questione animale”. Ma ciò presupporrebbe una rivoluzione culturale sia negli individui, che a questo punto si caratterizzerebbero come vere avanguardie di un movimento futuro, sia negli assetti, che da coordinamenti evolverebbero in una organizzazione vera e propria. Se questo non accadrà, tristemente, dovremo aspettare ancora a lungo per vedere la prima piccola e vera prospettiva.

 











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27/07/04