Una
brillante presentazione di una pietra miliare della letteratura
animalista. Porta la firma del traduttore e organizzatore
dell'edizione italiana del testo di cui RA ha già
pubblicato saggi importanti e di qualità notevole.
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“Auschwitz
inizia ogni volta che qualcuno guarda a un mattatoio e pensa:
sono soltanto animali”. (Theodor W.
Adorno)
Prima dei
margini
Presentare un libro è una
navigazione pericolosa tra Scilla e Cariddi: da un lato, il
rischio di produrre uno scialbo riassunto del testo originale, il
rischio di “svelare il colpevole” e di togliere
piacere alla lettura, dall’altro quello di parlare “a
ruota libera”, di usare il libro come pretesto per parlare
d’altro. “Un’eterna Treblinka” di Charles
Patterson già di per sé neutralizza, almeno in
parte, entrambi questi rischi. Fin da subito, infatti, è
chiaro chi è il “colpevole”: il colpevole
siamo noi, la rapacità incontrollata ed apparentemente
incontrollabile della nostra specie, unico primate carnivoro (per
scelta e non per necessità), megalomane (Freud) e
presuntuoso (Montaigne) che, nella cecità della sua
insignificanza, crede di poter dominare l’universo tramite
l’idolatria della Instrumentelle Vernunft (ragion
strumentale). Charles Patterson, insomma, non ci parla di un
“prodotto” (la Treblinka universale che stiamo
preparando con le nostre mani, il “fondamentale fallimento
dell’uomo” [Kundera], che non ha bisogno di essere
descritta, in quanto sotto gli occhi di tutti quelli che vogliono
vedere), ma di un “processo” e cioè dei
meccanismi mentali e delle pratiche quotidiane che potrebbero far
sì che la presente possa essere l’ultima generazione
a poter vivere al di fuori delle mura di un campo di
concentramento, prima che i confini di questo coincidano
borgesianamente con quelli del mondo. L’operazione di
Patterson è, pertanto, esattamente speculare a quella del
WTO che regola lo scambio mondiale di prodotti, indipendentemente
dai processi che hanno reso quei prodotti possibili: due scatole
di caffè si equivalgono e non conta se una è il
risultato di sfruttamento minorile, distruzione della foresta
pluviale, violazione dei principi sindacali, ecc. e l’altra
no. Il secondo rischio, quello del “pretesto”, è
invece minimizzato proprio dalla radicalità del pensiero e
sposto in “Un’eterna Treblinka”,
dall’inesorabilità dell’argomentare e della
dovizia di dati storiografici e documentali che fanno della
visione animalista di Patterson un’ineludibile e
“totalizzante” chiave di lettura del presente.
Già queste brevi note introduttive dovrebbero render
chiaro che “Un’eterna Treblinka” è un
testo eminentemente politico e in questo si smarca e apre un
nuovo capitolo nella storia del pensiero animalista moderno che
vede la sua luce nel breve giro d’anni che intercorrono tra
il 1975, anno di pubblicazione di “Liberazione Animale”
di Peter Singer, e il 1983, anno di pubblicazione di “I
diritti animali” di Tom Regan. Questo non per dire, come
spesso fanno i detrattori di sinistra del movimento animalista,
che il pensiero di Singer e Regan è apolitico (anzi!), ma
che Patterson fa un passo oltre nella direzione
dell’evidenziazione di quell’inscindibile filo rosso
(di sangue) che inestricabilmente collega diritti umani e diritti
animali. Patterson riprende le molte sparse fila dell’animalismo
politico (che, ovviamente, nasce prima di lui; basti pensare alla
critica all’impero romano elaborata da Plutarco tramite la
categoria del rifiuto della carne) e le tesse di nuovo in una
trama coerente e inaggirabile che fa dell’animalismo un
osservatorio speciale della condizione e della possibilità
di vita su questo pianeta e una base necessaria per una corretta
“vita activa”.
Rischio di parlare troppo o troppo poco della trama del testo e
natura eminentemente politica dello stesso, con la sua carica
decostruttiva del tempo della tecnica dispiegata, suggeriscono la
necessità di un approccio “esitante” allo
stesso, un approccio che si attardi ai margini del libro, nei
pressi dei suoi confini. Stare ai margini, su una labile e
sottile linea di confine, è in fondo un gesto
eminentemente politico e animalista. Abitare il confine vuol dire
trasformarlo in margine, annullarlo, renderlo inefficace e i
confini da marginalizzare non si contano nella cultura
tecnico-umanistica che domina il presente. E tra questi, il
confine fondante gli altri confini, ci insegna Patterson, è
il confine labile ed ignobile che tutte le ideologie vincenti
dell’Occidente (nessuna esclusa) hanno steso a separare gli
animali umani da quelli non umani, confine che apre la
possibilità d’essere a tutti gli altri, quello di
razza (con il dominio su tutto ciò che non è
bianco), quello di genere (con il dominio su tutto ciò che
non è maschio), quello di nazione (che inaugura la più
popolare nozione di confine, quello nazionale, con il suo carico
di carrette del mare con annessi migranti), quello di proprietà
(che riduce a merce tutto ciò che non può firmare
contratti, compresa la materia stessa del vivente) e, infine e
paradossalmente, quello di diritto che discrimina chi sta dentro
da chi sta fuori le mura (i confini) della polis. In
questo ambito, la rivendicazione dei diritti animali è
pratica intellettualmente debordante: ci si batte per i diritti
degli ultimi tra gli ultimi per aprire il diritto ad “un
non so che” che scardina definitivamente il principio
stesso su cui questo si fonda, e cioè la linea di confine.
Infine, annotare i margini, aprendo così i confini di un
testo, è l’arte della lettura (di cui la traduzione
è parte integrante). Leggere come “esitante”
vagabondare intorno al testo contrapposto allo spirito della
scrittura “bianco su nero”, che è il segno
della nostra epoca biotecnologica, dove tutto è iscritto
nei geni e dove i geni sono riscrivibili negli angusti confini
del brevetto.
Primo margine – Il sottotitolo
“Cominciai a
riflettere sulla distinzione etica tra lavorazione dei maiali e
lo stesso procedimento applicato a persone definite maiali”.
(Judy Chicago).
Che l’attuale sistema di
sfruttamento degli animali ricordi da vicino la struttura ed il
modus operandi dei campi di concentramento nazisti è
osservazione non nuova, basti pensare a Isaac Bashevis Singer, a
Peter Singer, ad Adorno, a Canetti, a Coetzee, solo per citare
alcuni degli autori che hanno avuto il coraggio di accostare i
due orrori. Il passo in più che fa Patterson (già a
partire dal sottotitolo), oltre a quello di fare di questo
paragone “scandaloso” il cuore di un intero
saggio, è di dimostrare che i due fenomeni non solo usano
lo stesso linguaggio, ma condividono essenzialmente la stessa
natura, o meglio l’Olocausto è stato possibile ed è
tuttora evento possibile e ripetibile grazie al dispregio etico
del vivente costruito intorno all’animale come altro
assoluto e referente negativo a “noi” (qualsiasi
siano i “noi” che di volta in volta istruiscono il
discorso) assolutamente incommensurabile. Sfruttamento degli
animali, quindi come “palestra” universale per
organizzare e perpetrare anche lo sfruttamento umano. Tipico
doppio passo contraddittorio della logica dello sfruttamento
animale che rende possibile quello umano: l’animale è
abbastanza vicino a “noi” da poter prestare le sue
sembianze al “nemico” di turno ed abbastanza lontano
da far sì che, una volta istaurato il paragone, il
“nemico” possa essere eliminato. Come succede nella
sperimentazione animale: l’animale è biologicamente
simile a noi, ma incomprensibilmente lontano (vista la vicinanza
biologica) da un punto di vista etico. Questo non toglie che, in
una logica rigidamente antropocentrica, l’accostamento
ontologico tra Olocausto ed olocausti (tra parentesi, il
dizionario ci informa che olocausto significa originariamente
“sacrificio di animali bruciati interamente” –
siamo così accecati dalla nostra presunzione che non
accettiamo nemmeno che se A=B, B=A) diventi accostamento
scandaloso. E’ la reazione del poeta ebreo Abraham Stern al
paragone della scrittrice animalista Elisabeth Costello nel
romanzo “La vita degli animali” di John Maxwell
Coetzee (Premio Nobel per la letteratura 2003). Reazione
infondata e maldiretta per chi legge il libro di Patterson che,
ovviamente, non sminuisce con questo parallelo la tragicità
dell’Olocausto, ma piuttosto ne diagnostica
l’origine, lo fa assurgere a snodo fondamentale del male
(banale) del mondo per prevenirne di futuri. A margine si annoti
che questa terribile consapevolezza ha fatto breccia addirittura
nella mente di Franz Stangl, il comandante di Treblinka, che,
fuggito in Brasile dopo la guerra, alla vista di un gruppo di
mucche nel recinto di un macello pensa, come riferisce in
un’intervista alla giornalista inglese Gitta Sereny: “Ma
guarda un po’, questo mi fa tornare in mente la Polonia; è
proprio lo sguardo fiducioso che avevano quelle persone prima di
entrare nelle scatolette [le camere a gas]”.
Secondo margine – La copertina
“Mi dispiace maiali, di non aver fatto
nulla per salvarvi, di non aver potuto far niente per tirarvi
fuori da quel camion. Vi prometto però che racconterò
di voi a diecimila persone, e le aiuterò ad aprire i loro
cuori e le loro menti a un mondo nuovo, dove tutti potremo vivere
in pace e dove la gente non vi mangerà più”.
(Zoe Weil)
Sulla copertina dell’edizione originale americana di
“Un’eterna Treblinka” vediamo un soldato
nazista che brutalmente trasporta, tenendole per le zampe, due
oche nella mano sinistra ed una terza nella destra. Non ci sono
sguardi: il soldato e i volatili sono ripresi di spalle.
Nell’edizione italiana, due maiali ci interrogano con lo
sguardo dell’assolutamente vulnerabile, di chi ha vissuto
una vita infame e sta per morire. Se non fosse filosofo
irrimediabilmente antropocentrista si potrebbe citare la chiamata
etica irrevocabile delle miriadi di sguardi che solcano i testi
di Levinas: “il prossimo mi concerne non in quanto
appartenente al mio genere”. Specularmente alla logica
antropocentrica che allontana l’animale per avvicinarne lo
sterminio, la logica della copertina italiana e del testo di
Patterson ci lancia uno sguardo dall’assolutamente altrove
della morte (per chi legge, ovviamente quei maiali di copertina
sono già morti) per avvicinarci al destino infame di ciò
che esce dalla logica del medesimo, dalle mura cintate della
polis. In questa copertina, meno didascalica di quella americana,
la carne senz’anima del maiale-merce dell’industria
alimentare diventa l’anima senza carne della colpa e della
nefandezza umana. Diventa spettro, fantasma. Dei fantasmi si
aggirano per il mondo: nonostante lo sforzo dell’industria
della carne per tenerli lontani dai nostri occhi, ne incrociamo
lo sguardo tutti i giorni in autostrada durante il trasporto
dall’infamia dell’allevamento intensivo a quella del
mattatoio. La copertina del libro e il libro stesso ci insegnano
ad addestrare lo sguardo, a sintonizzarlo sulle onde del
non-visibile, ad avere una vista ai raggi X (come dice Barbara
Stagno) per individuare da un lato i milioni di fantasmi che
popolano le nostre mense e, dall’altro, che il destino di
quei maiali è ciò che rende possibile il destino
degli umani-maiali (bizzarro esperimento di ingegneria genetica,
che precede, logicamente e temporalmente, la potenza della
moderna biotecnologia), esclusi dalla cerchia degli aventi
diritto. Come dice Rudkus, l’operaio lituano protagonista
del romanzo “La giungla” di Upton Sinclair: “Ciò
che gli imprenditori vogliono da un maiale è il massimo
del profitto che ne possono trarre, e questo è esattamente
la stessa cosa che vogliono ottenere dall’operaio e anche
dai consumatori”. Lo spirito del capitalismo fatto carne.
Nell’enorme macello della Chicago del maiale si usa tutto
tranne il grugnito. L’animalismo politico, al contrario,
dovrebbe amplificare quel grugnito disperato per “aprire i
loro cuori e le loro menti ad un mondo nuovo”.
“Si sono
convinti che l’uomo, il peggior trasgressore di tutte le
specie, sia il vertice della creazione: tutti gli altri esseri
viventi sono stati creati unicamente per procurargli cibo e
pellame, per essere torturati e sterminati. Nei loro confronti
tutti sono nazisti; per gli animali Treblinka dura in eterno”.
(Isaac Bashevis Singer)
Il libro è dedicato alla memoria di Isaac Bashevis
Singer e l’esergo è tratto da un suo racconto,
“L’uomo che scriveva lettere”. Singer è
scrittore yiddish, che vinse il Premio Nobel per la letteratura
nel 1978. La sua storia di esule ebreo dalla Germania nazista è
ampiamente raccontata in “Un’Eterna Treblinka”.
Qui preme solo dire che un conoscitore diretto dell’atrocità
dell’Olocausto non esita a stabilire una connessione intima
tra questo e il massacro degli animali. Connessione che porta
Singer a definire il mondo come un “macello sconfinato”
e Dio, nonostante Singer sia credente (o, forse, proprio perché
lo è), come “macellatore e angelo della morte”.
La visione di Singer è assolutamente tragica sul piano
ontologico, ma, quasi per miracolo, il piano della responsabilità
delle scelte e delle decisioni personali apre prospettive inedite
e aurorali. Singer, nei suoi romanzi e nei suoi racconti, fonda
il vegetarianismo come “religione di protesta”. Dice
Singer: “Se potessi, farei un picchetto di fronte
all’Onnipotente con un cartello con su scritto: Ingiusto
verso la vita”. In una prospettiva laica, questo è
il riconoscimento del fallimento della religione
ebraico-cristiana che dal Genesi in poi, attraverso i Padri della
Chiesa, sostiene un antropocentrismo assoluto che fa da sfondo
legittimante e benedicente della visione dell’animale-macchina
dello scientismo ottuso a là Descartes e alla
eliminazione sistematica di tutti quegli umani ridotti
strumentalmente ad animali, dai Conquistadores a
Treblinka, che caso volle nascessero al di fuori delle mura della
fortezza cristiana. La svolta decisiva nella progressione dello
sfruttamento animale si ha in quell’infausto momento in cui
la violenza dell’impero romano si sposa con
l’antropocentrismo assoluto del pensiero ebraico-cristiano.
“Il cammino
verso Auschwitz passa per l’America”. (Charles
Patterson)
Scorrendo l’indice si scopre
già l’impianto generale del libro. Quasi a
specchiarsi in Isaac Bashevis Singer, una parte iniziale
ontologica, tragica, spietata e infame, e una parte finale di
storie personali di individui che hanno partecipato
all’Olocausto, chi al di qua e chi al di là della
barricata (ancora muri e confini), come carnefici o come vittime,
che apre ad un barlume di speranza. Nella parte iniziale, si
snodano l’arroganza dell’uomo, la benedizione del
pensiero occidentale vincente a sostegno di un antropocentrismo
esasperato ed il meccanismo centrale che rende possibile sia lo
sfruttamento umano che quello animale: istituire un assolutamente
altro (l’animale) a cui viene negata alla radice ogni
possibilità, anche virtuale, di poter passare la linea di
confine per usarlo come referente negativo al fine di poter
riservare lo stesso trattamento agli umani indesiderati. In
fondo, il confino nel campo di concentramento ed il successivo
sterminio sono sempre ed inevitabilmente preceduti
dall’ammassamento dei corpi nudi, marchio tipico
dell’allevamento intensivo e del mattatoio (scrive Boria
Sax: “I nazisti costringevano coloro che stavano per
uccidere a spogliarsi completamente e a raggrupparsi insieme, la
qual cosa non è un comportamento consueto per gli esseri
umani. La nudità dunque allude all’identità
animale delle vittime e, con l’assembramento, suggerisce
l’immagine di una mandria di mucche o di pecore. Una sorta
di disumanizzazione che rendeva più facile sparare alle
vittime o ucciderle con il gas”). Infiniti sono gli esempi
che Patterson ci propone di questa operazione consolidata nei
secoli: dall’equiparazione dei nativi americani a scimmie,
agli iracheni in fuga nel deserto durante la prima guerra del
Golfo equiparati a tacchini. Altri, a conferma, se ne potrebbero
aggiungere occorsi dopo la pubblicazione del libro: da quelli
internazionali che hanno equiparato Chirac, che si opponeva alla
seconda guerra del Golfo, ad un verme a quelli più
ruspanti che, per abolire lo stato sociale non esitano a dire che
la corsa dell’economia non può essere frenata da
considerazioni quali quelle concernenti il benessere delle
galline ovaiole confinate in gabbie grandi quanto la pagina che
state leggendo.
Nella parte finale del libro, c’è
l’apertura delle scelte personali, quella di chi riconosce
nella violenza agli animali lo stesso meccanismo che ha
perpetrato o subito come umano equiparato ad animale (Marc
Berkowitz, sopravvissuto di Auschwitz, dove aveva subito gli
esperimenti di Mengele sui gemelli, dice a chi gli domanda del
suo impegno contro l’abbattimento delle oche canadesi:
“Anch’io sono stato un’oca”) e che apre
la strada alla speranza che l’equazione uomo=animale non
venga per nulla eliminata, ma, passando scandalosamente la linea
di confine, con il passo di Charles Darwin, diventi il fondamento
per un mondo pacificato e non parola d’ordine della logica
del dominio e dello sfruttamento.
In mezzo, ci sta il cuore del libro
che dimostra inequivocabilmente che anche se Hitler ha perso la
guerra, non per questo lo stesso è successo all’ideologia
assurda che lo ha reso possibile. In mezzo, c’è la
dimostrazione serrata che è il “sistema-macello”
(nato in America a fine del secolo scorso, come l’eugenetica
razziale e la sterilizzazione obbligatoria) a fornire le
coordinate ed il modello, razionale ed industrializzato, delle
camere a gas e del loro indotto. A questo proposito, non si può
non ricordare un precedente illustre di questo paradosso
temporale: “L’uomo nell’alto castello”
dello scrittore americano di “fantascienza” Philip K.
Dick. In quel libro, si narra di un’altra storia, la storia
di un mondo parallelo che ha visto la vittoria dei nazisti sulle
forze alleate. Storia di un mondo dove lo scandalo,
potenzialmente dirompente, è rappresentato da un libro che
parla di un altro mondo parallelo dove hanno vinto gli alleati.
“Un’eterna Treblinka” potrebbe essere quel
libro scandaloso, che interpella il lettore tramite lo sguardo
ferito dei maiali di copertina che ci chiedono se siamo proprio
sicuri di vivere nel mondo che ha visto la vittoria delle forze
alleate. Domanda che Patterson sostanzia elencandoci,
implacabile, la comune radice teorica e la comunanza delle
tecniche che presiedono alla conduzione sia del mattatoio che del
campo di sterminio (e questo fin nei dettagli più minuti
che fanno sì che la dottoressa Temple Gradin definisca, 50
anni dopo e verosimilmente inconsapevole del precedente storico,
i tunnel da lei progettati per portare i bovini all’interno
del mattatoio con lo stesso nome – “scala per il
Paradiso” – usato dalle SS di Treblinka e Sobibor per
i tunnel che portavano alle camere a gas). Sarà un caso
che Victor Brack capo del progetto di eliminazione dei
lebensunwert (non meritevoli di vita) noto con il nome di
programma T4, era diplomato in agricoltura? E’ un caso che
Hans Hefelmann, direttore che coordinava l’uccisione dei
bambini disabili, aveva un dottorato in economia agraria? Che
Friedrich Lorent, altro membro influente del programma T4, avesse
svolto un tirocinio in un istituto agrario? E che Jakob Wolger,
direttore del centro di sterminio di Grafeneck, fosse figlio di
un agricoltore? E che Bruno Bruckner, prima di lavorare al campo
di sterminio di Hartheim, era stato facchino in un macello di
Linz? E che Werner Dubois avesse lavorato in un’azienda
agricola prima di lavorare ai campi di Sachsenhausen, Grafeneck,
Brandeburgo, Hadamar e Bernburg? Che Willi Mentz, sadico
guardiano di Treblinka, fosse mungitore di vacche e che avesse
“accudito” alle mucche ed ai maiali che stavano per
diventare cibo dei “lavoratori” di Grafeneck e
Hadamar? Che Kurt Franz, ultimo comandante di Treblinka,
e che Karl Frenzel, aguzzino di Hadamar e Sobibor, avessero
svolto il loro apprendistato come macellai? E’ un caso che
Himmler, allevatore professionale di polli prima di diventare
gerarca nazista di primissimo piano, posto di fronte al problema
dei Mischlinge (cittadini tedeschi in parte ebrei)
scrivesse a Martin Bormann: “Dobbiamo procedere lungo linee
analoghe a quelle seguite per la riproduzione di piante e
animali” e cioè, “nei casi di inferiorità
razziale, gli individui devono essere sterilizzati e deve essere
impedito loro di propagare la razza”? Troppi casi per
essere un caso. Troppi casi fanno una legge.
Passare il
confine
“Prendi
posizione. La neutralità favorisce sempre l’oppressore,
mai la vittima. Il silenzio incoraggia sempre il torturatore, non
il torturato”. (Elie Wiesel)
“Questa è
la mia protesta contro la condotta del mondo. Essere vegetariani
significa dissentire, dissentire con il corso degli eventi
attuali. Energia nucleare, carestie, crudeltà. Dobbiamo
prendere posizione contro queste cose. Il vegetarianesimo è
la mia presa di posizione. E penso che sia una presa di posizione
consistente”. (Isaac Bashevis Singer)
Come diceva Amleto, un altro
spettro, un altro revenant: “il tempo è fuori
squadra”. Il mondo che conosciamo è fuori rotta, la
crescita incontrollata del cosiddetto progresso ci ha portato
sull’orlo del baratro, come si può verificare ogni
giorno aprendo un qualsiasi quotidiano, dall’effetto serra
al riscaldamento globale, dalla progressiva perdita della
biodiversità all’esaurimento dell’acqua e
delle riserve energetiche, dalle guerre alle carestie, dal
nucleare alla brevettabilità del vivente, dalle chimere
dell’ingegneria genetica ai disperati delle carrette del
mare, dall’industria dello sfruttamento animale alla
biopirateria. Sbaglia chi crede che questi e gli altri orrori
presenti e futuri non siano aspetti strettamente interrelati e
che necessitano di una comune presa di posizione. Che non ci sia
rapporto tra morte per fame, esaurimento delle risorse, disparità
Nord/Sud del mondo, deforestazione, inquinamento, esaurimento
delle risorse, ecc., perché questa connessione c’è
sia perché, come ci insegna Jeremy Rifkin in “Ecocidio”,
la “cultura della carne” e la conseguente
“bovinizzazione del mondo”, contribuisce
significativamente a definire il nostro paesaggio e la nostra
attuale condizione, sia perché, come ci insegna Patterson
in “Un’eterna Treblinka”, sfruttamento umano ed
animale sono ontologicamente le due facce della stessa medaglia.
Abbiamo perso il controllo, abbiamo perso i feed-back negativi,
siamo nell’età della schismogenesi (Bateson),
abbiamo imboccato la linea retta e tagliente dell’ere du
vide. Stiamo violando i confini non per proporre un’etica
della responsabilità e della pacificazione, ma per
costruire una Treblinka eterna e universale. Forse è parte
dell’essere umano costruire confini, forse per esorcizzare
l’inesorabilità esistenziale del confine estremo,
quello dell’anticipazione della propria morte. E’,
pertanto, compito della cultura marginalizzare i confini,
renderli permeabili come le membrane biologiche, base di scambio
e di arricchimento reciproco e non barriere insuperabili di filo
spinato (altra invenzione per controllare animali subito adottata
per il controllo degli umani). Non c’è dubbio che
dobbiamo varcare il confine, a cominciare da quello di specie,
così come, altrettanto nobilmente, abbiamo attraversato,
seppur a fatica, quelli di razza e di genere. Il problema è
come lo si passa questo confine: nel modo proposto
dall’avanguardia civilissima e responsabile
dell’animalismo, cioè innalzando lo status
degli animali a quello di persone portatrici di interessi e
quindi di diritti, o al modo proposto dalla logica della
Instrumentelle Vernunft, e cioè abbassando uomini,
animali e biosfera a merce per trarre profitto, come ci insegna
tragicamente la vicenda “antispecisti” della mucca
pazza. Si è accennato alla disarticolazione temporale di
Amleto e di Philip K. Dick; si è percepita in “Un’eterna
Treblinka” la disarticolazione temporale del mondo
parallelo in cui viviamo, dove pensiamo di aver sconfitto le
forze hitleriane, pur accettandone molti dei principi, delle idee
e delle pratiche. La percezione di questa disarticolazione si fa
fortissima nelle pagine di “Un’eterna Treblinka”,
dove capiamo che l’Olocausto non è un fenomeno unico
e quindi irripetibile, ma piuttosto qualcosa di ripetibilissimo,
qualcosa che “i mangiatori di carne”, come dice il
figlio di un ex medico di Auschwitz intervistato dallo psicologo
Bar-On “potrebbero far succedere di nuovo”. Ci
troviamo di fronte ad un’altra delle idee scandalose e
sconcertanti di questo libro, al suo passo atassico, al suo
sguardo strabico (che poi sono lo sguardo strabico ed il passo
atassico dell’animalismo che si fa teoria filosofica e
prassi politica di liberazione): superare la linea retta dei
confini e del tempo lineare del progresso sconsiderato con
l’etica della responsabilità basata
sull’opportunità/rischio dell’”eterno
ritorno dell’uguale” e con l’accettazione del
tempo circolare della natura; superare il cerchio delle mura
della polis con la linearità del pensiero della
giustizia. Prendere posizione a favore della vittima, scegliere
di stare da una parte del confine, per attraversarlo. Pensiero
abissale, paradossale e debordante che ci riporta all’inizio
per tentare una nuova strada, per vedere nuovi orizzonti. Il giro
dell’oca contro il passo dell’oca. Leggere,
finalmente senza scandalizzarsi, la scandalosa frase di Adorno:
“Auschwitz inizia ogni volta che qualcuno guarda a un
mattatoio e pensa: sono soltanto animali”.
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