Officina della THEORÎA

Note a margine – Invito alla lettura di “Un'Eterna Treblinka. Il massacro degli animali e l'Olocausto” di Charles Patterson
- di Massimo Filippi -






Una brillante presentazione di una pietra miliare della letteratura animalista.
Porta la firma del traduttore e organizzatore dell'edizione italiana del testo di cui RA ha già pubblicato saggi importanti e di qualità notevole.


“Auschwitz inizia ogni volta che qualcuno guarda a un mattatoio e pensa: sono soltanto animali”. (Theodor W. Adorno)

    Prima dei margini

            Presentare un libro è una navigazione pericolosa tra Scilla e Cariddi: da un lato, il rischio di produrre uno scialbo riassunto del testo originale, il rischio di “svelare il colpevole” e di togliere piacere alla lettura, dall’altro quello di parlare “a ruota libera”, di usare il libro come pretesto per parlare d’altro. “Un’eterna Treblinka” di Charles Patterson già di per sé neutralizza, almeno in parte, entrambi questi rischi. Fin da subito, infatti, è chiaro chi è il “colpevole”: il colpevole siamo noi, la rapacità incontrollata ed apparentemente incontrollabile della nostra specie, unico primate carnivoro (per scelta e non per necessità), megalomane (Freud) e presuntuoso (Montaigne) che, nella cecità della sua insignificanza, crede di poter dominare l’universo tramite l’idolatria della Instrumentelle Vernunft (ragion strumentale). Charles Patterson, insomma, non ci parla di un “prodotto” (la Treblinka universale che stiamo preparando con le nostre mani, il “fondamentale fallimento dell’uomo” [Kundera], che non ha bisogno di essere descritta, in quanto sotto gli occhi di tutti quelli che vogliono vedere), ma di un “processo” e cioè dei meccanismi mentali e delle pratiche quotidiane che potrebbero far sì che la presente possa essere l’ultima generazione a poter vivere al di fuori delle mura di un campo di concentramento, prima che i confini di questo coincidano borgesianamente con quelli del mondo. L’operazione di Patterson è, pertanto, esattamente speculare a quella del WTO che regola lo scambio mondiale di prodotti, indipendentemente dai processi che hanno reso quei prodotti possibili: due scatole di caffè si equivalgono e non conta se una è il risultato di sfruttamento minorile, distruzione della foresta pluviale, violazione dei principi sindacali, ecc. e l’altra no. Il secondo rischio, quello del “pretesto”, è invece minimizzato proprio dalla radicalità del pensiero e sposto in “Un’eterna Treblinka”, dall’inesorabilità dell’argomentare e della dovizia di dati storiografici e documentali che fanno della visione animalista di Patterson un’ineludibile e “totalizzante” chiave di lettura del presente.

            Già queste brevi note introduttive dovrebbero render chiaro che “Un’eterna Treblinka” è un testo eminentemente politico e in questo si smarca e apre un nuovo capitolo nella storia del pensiero animalista moderno che vede la sua luce nel breve giro d’anni che intercorrono tra il 1975, anno di pubblicazione di “Liberazione Animale” di Peter Singer, e il 1983, anno di pubblicazione di “I diritti animali” di Tom Regan. Questo non per dire, come spesso fanno i detrattori di sinistra del movimento animalista, che il pensiero di Singer e Regan è apolitico (anzi!), ma che Patterson fa un passo oltre nella direzione dell’evidenziazione di quell’inscindibile filo rosso (di sangue) che inestricabilmente collega diritti umani e diritti animali. Patterson riprende le molte sparse fila dell’animalismo politico (che, ovviamente, nasce prima di lui; basti pensare alla critica all’impero romano elaborata da Plutarco tramite la categoria del rifiuto della carne) e le tesse di nuovo in una trama coerente e inaggirabile che fa dell’animalismo un osservatorio speciale della condizione e della possibilità di vita su questo pianeta e una base necessaria per una corretta “vita activa”.

            Rischio di parlare troppo o troppo poco della trama del testo e natura eminentemente politica dello stesso, con la sua carica decostruttiva del tempo della tecnica dispiegata, suggeriscono la necessità di un approccio “esitante” allo stesso, un approccio che si attardi ai margini del libro, nei pressi dei suoi confini. Stare ai margini, su una labile e sottile linea di confine, è in fondo un gesto eminentemente politico e animalista. Abitare il confine vuol dire trasformarlo in margine, annullarlo, renderlo inefficace e i confini da marginalizzare non si contano nella cultura tecnico-umanistica che domina il presente. E tra questi, il confine fondante gli altri confini, ci insegna Patterson, è il confine labile ed ignobile che tutte le ideologie vincenti dell’Occidente (nessuna esclusa) hanno steso a separare gli animali umani da quelli non umani, confine che apre la possibilità d’essere a tutti gli altri, quello di razza (con il dominio su tutto ciò che non è bianco), quello di genere (con il dominio su tutto ciò che non è maschio), quello di nazione (che inaugura la più popolare nozione di confine, quello nazionale, con il suo carico di carrette del mare con annessi migranti), quello di proprietà (che riduce a merce tutto ciò che non può firmare contratti, compresa la materia stessa del vivente) e, infine e paradossalmente, quello di diritto che discrimina chi sta dentro da chi sta fuori le mura (i confini) della polis. In questo ambito, la rivendicazione dei diritti animali è pratica intellettualmente debordante: ci si batte per i diritti degli ultimi tra gli ultimi per aprire il diritto ad “un non so che” che scardina definitivamente il principio stesso su cui questo si fonda, e cioè la linea di confine. Infine, annotare i margini, aprendo così i confini di un testo, è l’arte della lettura (di cui la traduzione è parte integrante). Leggere come “esitante” vagabondare intorno al testo contrapposto allo spirito della scrittura “bianco su nero”, che è il segno della nostra epoca biotecnologica, dove tutto è iscritto nei geni e dove i geni sono riscrivibili negli angusti confini del brevetto.

    Primo margine – Il sottotitolo

“Cominciai a riflettere sulla distinzione etica tra lavorazione dei maiali e lo stesso procedimento applicato a persone definite maiali”. (Judy Chicago).

Che l’attuale sistema di sfruttamento degli animali ricordi da vicino la struttura ed il modus operandi dei campi di concentramento nazisti è osservazione non nuova, basti pensare a Isaac Bashevis Singer, a Peter Singer, ad Adorno, a Canetti, a Coetzee, solo per citare alcuni degli autori che hanno avuto il coraggio di accostare i due orrori. Il passo in più che fa Patterson (già a partire dal sottotitolo), oltre a quello di fare di questo paragone “scandaloso”  il cuore di un intero saggio, è di dimostrare che i due fenomeni non solo usano lo stesso linguaggio, ma condividono essenzialmente la stessa natura, o meglio l’Olocausto è stato possibile ed è tuttora evento possibile e ripetibile grazie al dispregio etico del vivente costruito intorno all’animale come altro assoluto e referente negativo a “noi” (qualsiasi siano i “noi” che di volta in volta istruiscono il discorso) assolutamente incommensurabile. Sfruttamento degli animali, quindi come “palestra” universale per organizzare e perpetrare anche lo sfruttamento umano. Tipico doppio passo contraddittorio della logica dello sfruttamento animale che rende possibile quello umano: l’animale è abbastanza vicino a “noi” da poter prestare le sue sembianze al “nemico” di turno ed abbastanza lontano da far sì che, una volta istaurato il paragone, il “nemico” possa essere eliminato. Come succede nella sperimentazione animale: l’animale è biologicamente simile a noi, ma incomprensibilmente lontano (vista la vicinanza biologica) da un punto di vista etico. Questo non toglie che, in una logica rigidamente antropocentrica, l’accostamento ontologico tra Olocausto ed olocausti (tra parentesi, il dizionario ci informa che olocausto significa originariamente “sacrificio di animali bruciati interamente” – siamo così accecati dalla nostra presunzione che non accettiamo nemmeno che se A=B, B=A) diventi accostamento scandaloso. E’ la reazione del poeta ebreo Abraham Stern al paragone della scrittrice animalista Elisabeth Costello nel romanzo “La vita degli animali” di John Maxwell Coetzee (Premio Nobel per la letteratura 2003). Reazione infondata e maldiretta per chi legge il libro di Patterson che, ovviamente, non sminuisce con questo parallelo la tragicità dell’Olocausto, ma piuttosto  ne diagnostica l’origine, lo fa assurgere a snodo fondamentale del male (banale) del mondo per prevenirne di futuri. A margine si annoti che questa terribile consapevolezza ha fatto breccia addirittura nella mente di Franz Stangl, il comandante di Treblinka, che, fuggito in Brasile dopo la guerra, alla vista di un gruppo di mucche nel recinto di un macello pensa, come riferisce in un’intervista alla giornalista inglese Gitta Sereny: “Ma guarda un po’, questo mi fa tornare in mente la Polonia; è proprio lo sguardo fiducioso che avevano quelle persone prima di entrare nelle scatolette [le camere a gas]”.

    Secondo margine – La copertina

“Mi dispiace maiali, di non aver fatto nulla per salvarvi, di non aver potuto far niente per tirarvi fuori da quel camion. Vi prometto però che racconterò di voi a diecimila persone, e le aiuterò ad aprire i loro cuori e le loro menti a un mondo nuovo, dove tutti potremo vivere in pace e dove la gente non vi mangerà più”. (Zoe Weil)

            Sulla copertina dell’edizione originale americana di “Un’eterna Treblinka” vediamo un soldato nazista che brutalmente trasporta, tenendole per le zampe, due oche nella mano sinistra ed una terza nella destra. Non ci sono sguardi: il soldato e i volatili sono ripresi di spalle. Nell’edizione italiana, due maiali ci interrogano con lo sguardo dell’assolutamente vulnerabile, di chi ha vissuto una vita infame e sta per morire. Se non fosse filosofo irrimediabilmente antropocentrista si potrebbe citare la chiamata etica irrevocabile delle miriadi di sguardi che solcano i testi di Levinas: “il prossimo mi concerne non in quanto appartenente al mio genere”. Specularmente alla logica antropocentrica che allontana l’animale per avvicinarne lo sterminio, la logica della copertina italiana e del testo di Patterson ci lancia uno sguardo dall’assolutamente altrove della morte (per chi legge, ovviamente quei maiali di copertina sono già morti) per avvicinarci al destino infame di ciò che esce dalla logica del medesimo, dalle mura cintate della polis. In questa copertina, meno didascalica di quella americana, la carne senz’anima del maiale-merce dell’industria alimentare diventa l’anima senza carne della colpa e della nefandezza umana. Diventa spettro, fantasma. Dei fantasmi si aggirano per il mondo: nonostante lo sforzo dell’industria della carne per tenerli lontani dai nostri occhi, ne incrociamo lo sguardo tutti i giorni in autostrada durante il trasporto dall’infamia dell’allevamento intensivo a quella del mattatoio. La copertina del libro e il libro stesso ci insegnano ad addestrare lo sguardo, a sintonizzarlo sulle onde del non-visibile, ad avere una vista ai raggi X (come dice Barbara Stagno) per individuare da un lato i milioni di fantasmi che popolano le nostre mense e, dall’altro, che il destino di quei maiali è ciò che rende possibile il destino degli umani-maiali (bizzarro esperimento di ingegneria genetica, che precede, logicamente e temporalmente, la potenza della moderna biotecnologia), esclusi dalla cerchia degli aventi diritto. Come dice Rudkus, l’operaio lituano protagonista del romanzo “La giungla” di Upton Sinclair: “Ciò che gli imprenditori vogliono da un maiale è il massimo del profitto che ne possono trarre, e questo è esattamente la stessa cosa che vogliono ottenere dall’operaio e anche dai consumatori”. Lo spirito del capitalismo fatto carne. Nell’enorme macello della Chicago del maiale si usa tutto tranne il grugnito. L’animalismo politico, al contrario, dovrebbe amplificare quel grugnito disperato per “aprire i loro cuori e le loro menti ad un mondo nuovo”.

    Terzo margine – La dedica e l’esergo

“Si sono convinti che l’uomo, il peggior trasgressore di tutte le specie, sia il vertice della creazione: tutti gli altri esseri viventi sono stati creati unicamente per procurargli cibo e pellame, per essere torturati e sterminati. Nei loro confronti tutti sono nazisti; per gli animali Treblinka dura in eterno”. (Isaac Bashevis Singer)

            Il libro è dedicato alla memoria di Isaac Bashevis Singer e l’esergo è tratto da un suo racconto, “L’uomo che scriveva lettere”. Singer è scrittore yiddish, che vinse il Premio Nobel per la letteratura nel 1978. La sua storia di esule ebreo dalla Germania nazista è ampiamente raccontata in “Un’Eterna Treblinka”. Qui preme solo dire che un conoscitore diretto dell’atrocità dell’Olocausto non esita a stabilire una connessione intima tra questo e il massacro degli animali. Connessione che porta Singer a definire il mondo come un “macello sconfinato” e Dio, nonostante Singer sia credente (o, forse, proprio perché lo è), come “macellatore e angelo della morte”. La visione di Singer è assolutamente tragica sul piano ontologico, ma, quasi per miracolo, il piano della responsabilità delle scelte e delle decisioni personali apre prospettive inedite e aurorali. Singer, nei suoi romanzi e nei suoi racconti, fonda il vegetarianismo come “religione di protesta”. Dice Singer: “Se potessi, farei un picchetto di fronte all’Onnipotente con un cartello con su scritto: Ingiusto verso la vita”. In una prospettiva laica, questo è il riconoscimento del fallimento della religione ebraico-cristiana che dal Genesi in poi, attraverso i Padri della Chiesa, sostiene un antropocentrismo assoluto che fa da sfondo legittimante e benedicente della visione dell’animale-macchina dello scientismo ottuso a là Descartes e alla eliminazione sistematica di tutti quegli umani ridotti strumentalmente ad animali, dai Conquistadores a Treblinka, che caso volle nascessero al di fuori delle mura della fortezza cristiana. La svolta decisiva nella progressione dello sfruttamento animale si ha in quell’infausto momento in cui la violenza dell’impero romano si sposa con l’antropocentrismo assoluto del pensiero ebraico-cristiano.

    Quarto margine – L’indice

“Il cammino verso Auschwitz passa per l’America”. (Charles Patterson)

Scorrendo l’indice si scopre già l’impianto generale del libro. Quasi a specchiarsi in Isaac Bashevis Singer, una parte iniziale ontologica, tragica, spietata e infame, e una parte finale di storie personali di individui che hanno partecipato all’Olocausto, chi al di qua e chi al di là della barricata (ancora muri e confini), come carnefici o come vittime, che apre ad un barlume di speranza. Nella parte iniziale, si snodano l’arroganza dell’uomo, la benedizione del pensiero occidentale vincente a sostegno di un antropocentrismo esasperato ed il meccanismo centrale che rende possibile sia lo sfruttamento umano che quello animale: istituire un assolutamente altro (l’animale) a cui viene negata alla radice ogni possibilità, anche virtuale, di poter passare la linea di confine per usarlo come referente negativo al fine di poter riservare lo stesso trattamento agli umani indesiderati. In fondo, il confino nel campo di concentramento ed il successivo sterminio sono sempre ed inevitabilmente preceduti dall’ammassamento dei corpi nudi, marchio tipico dell’allevamento intensivo e del mattatoio (scrive Boria Sax: “I nazisti costringevano coloro che stavano per uccidere a spogliarsi completamente e a raggrupparsi insieme, la qual cosa non è un comportamento consueto per gli esseri umani. La nudità dunque allude all’identità animale delle vittime e, con l’assembramento, suggerisce l’immagine di una mandria di mucche o di pecore. Una sorta di disumanizzazione che rendeva più facile sparare alle vittime o ucciderle con il gas”). Infiniti sono gli esempi che Patterson ci propone di questa operazione consolidata nei secoli: dall’equiparazione dei nativi americani a scimmie, agli iracheni in fuga nel deserto durante la prima guerra del Golfo equiparati a tacchini. Altri, a conferma, se ne potrebbero aggiungere occorsi dopo la pubblicazione del libro: da quelli internazionali che hanno equiparato Chirac, che si opponeva alla seconda guerra del Golfo, ad un verme a quelli più ruspanti che, per abolire lo stato sociale non esitano a dire che la corsa dell’economia non può essere frenata da considerazioni quali quelle concernenti il benessere delle galline ovaiole confinate in gabbie grandi quanto la pagina che state leggendo.

Nella parte finale del libro, c’è l’apertura delle scelte personali, quella di chi riconosce nella violenza agli animali lo stesso meccanismo che ha perpetrato o subito come umano equiparato ad animale (Marc Berkowitz, sopravvissuto di Auschwitz, dove aveva subito gli esperimenti di Mengele sui gemelli, dice a chi gli domanda del suo impegno contro l’abbattimento delle oche canadesi: “Anch’io sono stato un’oca”) e che apre la strada alla speranza che l’equazione uomo=animale non venga per nulla eliminata, ma, passando scandalosamente la linea di confine, con il passo di Charles Darwin, diventi il fondamento per un mondo pacificato e non parola d’ordine della logica del dominio e dello sfruttamento.

In mezzo, ci sta il cuore del libro che dimostra inequivocabilmente che anche se Hitler ha perso la guerra, non per questo lo stesso è successo all’ideologia assurda che lo ha reso possibile. In mezzo, c’è la dimostrazione serrata che è il “sistema-macello” (nato in America a fine del secolo scorso, come l’eugenetica razziale e la sterilizzazione obbligatoria) a fornire le coordinate ed il modello, razionale ed industrializzato, delle camere a gas e del loro indotto. A questo proposito, non si può non ricordare un precedente illustre di questo paradosso temporale: “L’uomo nell’alto castello” dello scrittore americano di “fantascienza” Philip K. Dick. In quel libro, si narra di un’altra storia, la storia di un mondo parallelo che ha visto la vittoria dei nazisti sulle forze alleate. Storia di un mondo dove lo scandalo, potenzialmente dirompente, è rappresentato da un libro che parla di un altro mondo parallelo dove hanno vinto gli alleati. “Un’eterna Treblinka” potrebbe essere quel libro scandaloso, che interpella il lettore tramite lo sguardo ferito dei maiali di copertina che ci chiedono se siamo proprio sicuri di vivere nel mondo che ha visto la vittoria delle forze alleate. Domanda che Patterson sostanzia elencandoci, implacabile, la comune radice teorica e la comunanza delle tecniche che presiedono alla conduzione sia del mattatoio che del campo di sterminio (e questo fin nei dettagli più minuti che fanno sì che la dottoressa Temple Gradin definisca, 50 anni dopo e verosimilmente inconsapevole del precedente storico, i tunnel da lei progettati per portare i bovini all’interno del mattatoio con lo stesso nome – “scala per il Paradiso” – usato dalle SS di Treblinka e Sobibor per i tunnel che portavano alle camere a gas). Sarà un caso che Victor Brack capo del progetto di eliminazione dei lebensunwert (non meritevoli di vita) noto con il nome di programma T4, era diplomato in agricoltura? E’ un caso che Hans Hefelmann, direttore che coordinava l’uccisione dei bambini disabili, aveva un dottorato in economia agraria? Che Friedrich Lorent, altro membro influente del programma T4, avesse svolto un tirocinio in un istituto agrario? E che Jakob Wolger, direttore del centro di sterminio di Grafeneck, fosse figlio di un agricoltore? E che Bruno Bruckner, prima di lavorare al campo di sterminio di Hartheim, era stato facchino in un macello di Linz? E che Werner Dubois avesse lavorato in un’azienda agricola prima di lavorare ai campi di Sachsenhausen, Grafeneck, Brandeburgo, Hadamar e Bernburg? Che Willi Mentz, sadico guardiano di Treblinka, fosse mungitore di vacche e che avesse “accudito” alle mucche ed ai maiali che stavano per diventare cibo dei “lavoratori” di Grafeneck e Hadamar?  Che Kurt Franz, ultimo comandante di Treblinka,  e che Karl Frenzel, aguzzino di Hadamar e Sobibor, avessero svolto il loro apprendistato come macellai? E’ un caso che Himmler, allevatore professionale di polli prima di diventare gerarca nazista di primissimo piano, posto di fronte al problema dei Mischlinge (cittadini tedeschi in parte ebrei) scrivesse a Martin Bormann: “Dobbiamo procedere lungo linee analoghe a quelle seguite per la riproduzione di piante e animali” e cioè, “nei casi di inferiorità razziale, gli individui devono essere sterilizzati e deve essere impedito loro di propagare la razza”? Troppi casi per essere un caso. Troppi casi fanno una legge.

    Passare il confine

“Prendi posizione. La neutralità favorisce sempre l’oppressore, mai la vittima. Il silenzio incoraggia sempre il torturatore, non il torturato”. (Elie Wiesel)

“Questa è la mia protesta contro la condotta del mondo. Essere vegetariani significa dissentire, dissentire con il corso degli eventi attuali. Energia nucleare, carestie, crudeltà. Dobbiamo prendere posizione contro queste cose. Il vegetarianesimo è la mia presa di posizione. E penso che sia una presa di posizione consistente”. (Isaac Bashevis Singer)

Come diceva Amleto, un altro spettro, un altro revenant: “il tempo è fuori squadra”. Il mondo che conosciamo è fuori rotta, la crescita incontrollata del cosiddetto progresso ci ha portato sull’orlo del baratro, come si può verificare ogni giorno aprendo un qualsiasi quotidiano, dall’effetto serra al riscaldamento globale, dalla progressiva perdita della biodiversità all’esaurimento dell’acqua e delle riserve energetiche, dalle guerre alle carestie, dal nucleare alla brevettabilità del vivente, dalle chimere dell’ingegneria genetica ai disperati delle carrette del mare, dall’industria dello sfruttamento animale alla biopirateria. Sbaglia chi crede che questi e gli altri orrori presenti e futuri non siano aspetti strettamente interrelati e che necessitano di una comune presa di posizione. Che non ci sia rapporto tra morte per fame, esaurimento delle risorse, disparità Nord/Sud del mondo, deforestazione, inquinamento, esaurimento delle risorse, ecc., perché questa connessione c’è sia perché, come ci insegna Jeremy Rifkin in “Ecocidio”, la “cultura della carne” e la conseguente “bovinizzazione del mondo”, contribuisce significativamente a definire il nostro paesaggio e la nostra attuale condizione, sia perché, come ci insegna Patterson in “Un’eterna Treblinka”, sfruttamento umano ed animale sono ontologicamente le due facce della stessa medaglia. Abbiamo perso il controllo, abbiamo perso i feed-back negativi, siamo nell’età della schismogenesi (Bateson), abbiamo imboccato la linea retta e tagliente dell’ere du vide. Stiamo violando i confini non per proporre un’etica della responsabilità e della pacificazione, ma per costruire una Treblinka eterna e universale. Forse è parte dell’essere umano costruire confini, forse per esorcizzare l’inesorabilità esistenziale del confine estremo, quello dell’anticipazione della propria morte. E’, pertanto, compito della cultura marginalizzare i confini, renderli permeabili come le membrane biologiche, base di scambio e di arricchimento reciproco e non barriere insuperabili di filo spinato (altra invenzione per controllare animali subito adottata per il controllo degli umani). Non c’è dubbio che dobbiamo varcare il confine, a cominciare da quello di specie, così come, altrettanto nobilmente, abbiamo attraversato, seppur a fatica, quelli di razza e di genere. Il problema è come lo si passa questo confine: nel modo proposto dall’avanguardia civilissima e responsabile dell’animalismo, cioè innalzando lo status degli animali a quello di persone portatrici di interessi e quindi di diritti, o al modo proposto dalla logica della Instrumentelle Vernunft, e cioè abbassando uomini, animali e biosfera a merce per trarre profitto, come ci insegna tragicamente la vicenda “antispecisti” della mucca pazza. Si è accennato alla disarticolazione temporale di Amleto e di Philip K. Dick; si è percepita in “Un’eterna Treblinka” la disarticolazione temporale del mondo parallelo in cui viviamo, dove pensiamo di aver sconfitto le forze hitleriane, pur accettandone molti dei principi, delle idee e delle pratiche. La percezione di questa disarticolazione si fa fortissima nelle pagine di “Un’eterna Treblinka”, dove capiamo che l’Olocausto non è un fenomeno unico e quindi irripetibile, ma piuttosto qualcosa di ripetibilissimo, qualcosa che “i mangiatori di carne”, come dice il figlio di un ex medico di Auschwitz intervistato dallo psicologo Bar-On “potrebbero far succedere di nuovo”. Ci troviamo di fronte ad un’altra delle idee scandalose e sconcertanti di questo libro, al suo passo atassico, al suo sguardo strabico (che poi sono lo sguardo strabico ed il passo atassico dell’animalismo che si fa teoria filosofica e prassi politica di liberazione): superare la linea retta dei confini e del tempo lineare del progresso sconsiderato con l’etica della responsabilità basata sull’opportunità/rischio dell’”eterno ritorno dell’uguale” e con l’accettazione del tempo circolare della natura; superare il cerchio delle mura della polis con la linearità del pensiero della giustizia. Prendere posizione a favore della vittima, scegliere di stare da una parte del confine, per attraversarlo. Pensiero abissale, paradossale e debordante che ci riporta all’inizio per tentare una nuova strada, per vedere nuovi orizzonti. Il giro dell’oca contro il passo dell’oca. Leggere, finalmente senza scandalizzarsi, la scandalosa frase di Adorno: “Auschwitz inizia ogni volta che qualcuno guarda a un mattatoio e pensa: sono soltanto animali”.












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16/12/03