Officina della THEORÎA

Gerarchie, movimenti, organizzazione
- a proposito di un articolo su Promiseland -
- A cura del Collettivo -







Abbiamo letto con molto interesse l’articolo di Filippo Schillaci pubblicato su Promiseland dal titolo:

>> Le gerarchie animaliste e il movimento animalista: Una organizzazione divenuta autoreferenziale si guarderà bene dall’operare per il reale conseguimento del suo scopo originario.<<

I problemi sollevati sono impegnativi e costringono a riflessioni serie. Tuttavia, poiché i temi sono al centro delle nostre riflessioni da tanto tempo, riteniamo di poter riprendere il filo del discorso nella speranza di metterne a fuoco alcuni aspetti. Tanto più che non si tratta di questioni superficiali o di pura scuola, potendo esse determinare la prassi animalista dei prossimi anni.

Il primo aspetto da considerare è sicuramente ciò che l’autore identifica come il cuore di tutto il problema: l’autoreferenzialità delle organizzazioni sociali, concetto poi applicato alle associazioni animaliste. Un tempo problemi simili venivano considerati esclusivamente in termini di inadeguatezze soggettive. In altre parole, venivano attribuiti alla influenza distorcente dell’interesse delle singole soggettività agenti nei punti nodali di un’organizzazione.

Successivamente la sociologia ha aperto nuove prospettive marcando sempre più il carattere oggettivo dei processi che inducono autoreferenzialità nelle organizzazioni sociali. Max Weber, Luhmann, Focault ed altri (pur con enormi differenze concettuali interne) hanno così rafforzato l’attenzione su fattori “oggettivi” di varia natura. E’ all’interno di queste spiegazioni che vanno intravisti i fenomeni di trasferimento dell’azione “razionale” da uno scopo iniziale a quello della conservazione di struttura. Facendo questo la sociologia ha aiutato a comprendere meglio le ragioni di certi accadimenti e ha ridotto il carico delle critiche alla soggettività nelle organizzazioni. Perché è chiaro che se un fenomeno ha carattere oggettivo, ne consegue che la soggettività che lo veicola, è in qualche modo condizionata dalla ferrea costellazione degli elementi del “contesto”. Dunque, il “soggetto” diventa semplice strumento nelle mani di un meccanismo stritolante e ipercondizionante.

Spesso ce ne dimentichiamo. Così ci scagliamo contro quel tal personaggio o quell’altro trascurando la lezione razionale della sociologia e ripiombando in una condizione di arretratezza interpretativa che dirotta erroneamente la nostra attenzione su semplici epifenomeni.

Ma ritornarniamo al cuore del problema. Presupposta l’autoreferenzialità, come comportarsi di fronte a una barriera che, trasferendo l’azione dall’iniziale scopo statutario al proprio interesse (genericamente inteso, giacchè può persino riguardare aspetti di rango o semplicemente relazionali) impedisce a forze nuove e motivate il perseguimento di obiettivi che altri hanno lasciato cadere?

Attualmente si sta facendo strada un nuovo orientamento con venature anarco-individualiste orientato a dire: “Poiché le organizzazioni hanno la naturale e ineluttabile tendenza a burocratizzarsi e a spostare l’interesse dagli scopi all’autoconservazione, allora frantumiamo l’azione in mille rivoli, attacchiamo canifici, allevamenti di visoni, picchettiamo centri di ricerca, insomma provvediamo a accendere mille fuochi e vediamo che succede. Questo atteggiamento è sicuramente effetto di un lungo disagio prodotto da anni di frustrazione determinata dall’azione servile delle associazioni animaliste nei confronti delle istituzioni, ma c’è da chiedersi se possa essere produttiva nel medio o nel lungo periodo. Filippo Schillaci sembrerebbe crederlo quando dice:  

Possiamo dunque ora comprendere le ragioni che stanno dietro l’esperienza di Tettamanti: un movimento spontaneo, non strutturato in una organizzazione rigida, è un movimento fra i cui membri non si crea né può crearsi alcun rapporto di potere poiché ciascuno stabilisce da sé, autonomamente, il proprio ruolo e autonomamente può modificarlo in qualsiasi istante. Lo scopo finale non viene in tal modo messo in ombra da null’altro, rimane, e continua a essere davvero lo scopo finale.

Lo scopo finale potrà anche rimanere quello, ma è d’obbligo domandarsi se uno scopo perennemente frustrato dal basso profilo degli interventi - e periodicamente riassorbito da un sistema con caratteristiche omeostatiche - possa essere condotto oltre quelle che sono i limiti dell’umana sopportazione. Sappiamo infatti che l’atto-azione ha bisogno di essere gratificato dal successo altrimenti, anche se supportato da grandi ideali, col tempo si estingue. Insomma sembra che il problema sia bloccato tra Scilla e Cariddi; tra organizzazione e spontaneismo. Schillaci, crediamo, commette un piccolo errore nelle sue considerazioni. L’errore è proprio “piccolo”:

C’è senza dubbio un prezzo da pagare nella spontaneità: un grado di organizzazione debole, instabile, probabilmente aleatorio nel tempo, e dunque incerti livelli di efficienza. C’è il prezzo insomma della precarietà. Ma se l’alternativa è quella che ho appena descritto, a ben pensarci, è un prezzo davvero basso. Un motore con un rendimento dello O,1% è una schifezza ma chi non lo preferirebbe a un motore che non funziona?

L’errore è qui e può essere persino (scherzosamente) quantificato: O,1%. Infatti il suo discorso è viziato dal fatto che trascura una banalissima verità: anche le associazioni sono motori che dispongono dello stesso rendimento. Sarebbe tanto ingeneroso quanto inutile affermare che, poiché il loro scopo è quello di perpetuarsi nel tempo, nulla ma proprio nulla venga da esse compiuto. Alcune associazioni fanno, eccome. Altre un po’ meno. Altre ancora, quelle più istituzionalizzate, sono protese alla costruzione ossessiva della propria immagine, ma, tra le pieghe del loro manifestarsi, qualche briciola la realizzano. Spesso si aggrediscono l’una con l’altra (anche se, di norma, preferiscono ignorarsi) individuando ognuna le lacune altrui e in tal modo mostrando le lacune di tutte, ma altre volte la critica di una verso l’altra è ingenerosa perché non tiene conto delle difficoltà oggettive in cui ognuna di esse si viene a trovare.

Diciamo questo con una certa apprensione: se ora Rinascita Animalista venisse individuata come una potenziale fiancheggiatrice dell’associazionismo animalista sarebbe proprio il colmo. Ciò che qui si vuol dire è molto semplice: l’olocausto animale non può essere attenuato se non in forme infinitesime (i rendimenti ricordati prima sono terribilmente vicini alla realtà) sia dalla prassi rinunciataria dell’associazionismo animalista, sia dal velleitarismo spontaneista che purtroppo non riesce a mordere.

E allora che fare?

La teoria (ma sarebbe meglio dire le teorie) dell’autoreferenzialità delle organizzazioni, pur disponendosi su un piano di oggettività, non può in nessun caso essere assolutizzata. Tra la costituzione vitale di un’organizzazione e il suo deperimento burocratico c’è un tempo di latenza che dipende da molti fattori e può essere persino molto esteso. In questo intervallo si possono fare moltissime cose. Per fortuna l’associazione di non vedenti citata da Filippo Schillaci non è l’unico esempio di organizzazione che ha aspirato alla sua estinzione. Ricordiamo che il più grande movimento di liberazione della storia, il movimento comunista, poneva esplicitamente l’obiettivo della propria estinzione come segno di un superamento definitivo delle relazioni di potere tra gli uomini. Che anche quel movimento si sia burocratizzato ad un certo punto della sua evoluzione è fatto che dovrebbe essere analizzato a parte. Ma non si può negare che ha potuto contare non su anni, ma su decenni di freschezza rivoluzionaria costituendo un potente effetto di attrazione su più generazioni. Quello che si vuol dire è che un movimento fortemente organizzato (certamente non in “associazione”: da quando in qua i diritti fondamentali calpestati e ridicolizzati dal Potere devono essere difesi con “associazioni”?) con obiettivi, tattica e strategia ben definite, potentemente antiistituzionale, capace di creare forti pressioni a livello sociale, orientato a lasciare nella loro solitudine il Legislatore e i suoi lacché nella elaborazione delle sue leggi acchiappacitrulli (non ci esprimiamo sulle altre, ma quelle 'pro animali' lo sono sicuramente!), un movimento di questo genere, costruito, alimentato, preparato e liberato nella sua potenzialità rivoluzionaria qualcosa potrebbe fare. Paradossalmente potrebbe migliorare in modo indiretto anche la legislazione pro animali. Infatti, il Sistema avrebbe motivi seri di legiferare nei termini più radicali (pur all'interno delle sue compatibilità) per disattivare, con soluzioni parziali, il “disturbo sociale” che il movimento emergente potrebbe promuovere.

Pur sapendo che le rivoluzioni difficilmente si affermano (ma non bisogna mai disperare in partenza se si crede fortemente in qualcosa dato che il futuro è imperscrutabile), bisogna pur considerare che spesso grandi trasformazioni sono generate anche da rivoluzioni abortite. Insomma talvolta vi sono delle ricadute secondarie che comunque vale la pena di apprezzare anche se non complete perché, quelle sì, inducono effetti ben superiori rispetto a banchetti che non fanno altro che desensibilizzare la gente ottenendo un risultato perfino opposto a quello voluto.

Concludiamo: se dunque, nonostante la palese e durevole evidenza dei fatti e delle esperienze e nonostante - mi permetto di aggiungere - quanto ho appena scritto, qualcuno volesse ancora ritenere valida la strada dei “buoni rapporti conviviali” con i vertici delle grandi Associazioni, nulla di illecito in ciò, certamente. Ma se egli vuole anche che la sua scelta abbia diritto di cittadinanza sul pianeta vasto ma poco popolato delle cose serie, deve preliminarmente fare le seguenti cose: a) prendere visione dei precedenti tentativi fatti in tal senso da altri o almeno dei principali fra essi, b) analizzare a livello di dettaglio l’esatta anatomia di ciascuno, c) individuare le cause che hanno portato al loro fallimento, d) individuare la maniera di rimuovere o aggirare quelle cause. Un lavoro enorme e difficile, insomma. Un lavoro lungo. Un lavoro, aggiungo, dall’esito incerto. Fatto necessariamente il quale egli potrà finalmente cominciare. Buon lavoro e buona fortuna.

Questo passaggio merita le considerazioni finali. Nessun rapporto “conviviale” con i protezionisti! O forse, perché no, proprio solo rapporti conviviali con i protezionisti, purchè onesti e attivi. Non c’è motivo di sprezzare chi giornalmente si fa il mazzo per rimediare sofferenze particolari. Naturalmente a patto che non supportino le politiche del nemico perché, altrimenti, ne assumono le sembianze. In tal caso andrebbero combattuti senza remissione. Facciano i frati missionari (metaforicamente parlando) e lascino fare la guerra a altri (altrettanto metaforicamente). Nello stesso tempo, occorre spostarsi nel campo delle “cose serie”, ma non facendo quello che Filippo Schillaci prescrive. Ormai è chiaro che dai protezionisti non si può ricavare nulla. La loro concezione è fortemente radicata in un brodo di quieto vivere che li porta costantemente a mendicare presso le istituzioni ciò che queste non possono offrire. Gli esempi sono tanti, troppi. Che senso avrebbe ancora attardarsi a ragionare su chi non può stravolgere la propria natura? Persino la “critica” verso di esse mostra la corda! Che c’è da criticare? Semmai c’è da dimenticare, lasciare che seguano la loro strada di crocerossini che, se condotta con intelligenza ha pure la sua plausibilità e un suo grado di nobiltà.

Invece le cose serie da fare sono altre. Anch’esse costituiscono un lavoro lungo! Anch’esse hanno un esito incerto! Sono il naturale lavoro da svolgere quando, individuata una nuova e grande prospettiva si vogliono raccogliere energie emergenti e determinate per ben incanalarle. Quando si tratta di costruire una grande “enclave” dentro la società da cui partire, previo lavoro di irrobustimento, per condurre sortite POLITICHE valutate “insopportabili” dal Potere e dalle sue istituzioni. Nel frattempo – dice il nostro amico – ci sarà chi continerà a essere torturato e massacrato. La tesi potrebbe essere facilmente estesa anche alla prospettiva qui delineata. E’ vero. Purtroppo non possiamo evitare ciò che non dipende da noi. Ciò avverrà in ogni caso, sia copiando le modalità di azione del “Safety Army”, sia accelerando il numero delle azioni notturne. Ma se oggi si esce da quelle logiche entrambe perdenti forse si potranno gettare le basi affinché in un futuro lontano, il massacro finisca. Possiamo, anzi dobbiamo, cercare le vie giuste per dare massimo risalto alla nostra azione e alle nostre risorse materiali e etiche fondendo una Prassi non più incerta e confusa come l'attuale con una Teoria che ancora non c’è.








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08/09/03