Officina della THEORÎA

Il Sublime nel Cinema:
“Au Hazard, Balthasar”
- di Karlmarxstraße -











 

Ricordo di “Au Hazard Balthazar”, il film più “animalista” della Storia del Cinema – Robert Bresson, 1966

Recentemente, grazie a una videocassetta usata (e massacrata) acquistata presso una bancarella, ho avuto la fortuna di riguardare “Au Hazard Balthazar”. Avevo visto questo film più di trentanni fa e già allora avevo ricevuto l’impressione del capolavoro. Oggi, in seguito al mio avvicinamento alla cultura animalista, sono convinto che lo stile di un grande maestro unito al soggetto particolare, abbiano fatto di questa pellicola il film più “animalista” della storia del cinema.

La trama

Il film rappresenta la storia di Balthazar, asino nato fra i pastori, dall'infanzia, all'età adulta, alla triste conclusione della vita.

Balthazar viene acquistato cucciolo per il piacere dei figli di una famiglia borghese. Poi, l'anno successivo, nel rispetto di una tradizione oggi molto osservata, viene rifiutato perché diventato grande, ispido, ingombrante. L’asino, attraverso il giovane Jacques, perviene come dono a Maria, l’altra protagonista del film la cui storia si intreccia con quella dell’animale. Successivamente, non potendo essere gestito dalla ragazzina, viene affidato a un panettiere che lo usa per la distribuzione del pane facendogli sopportare ogni sorta di angherie a cui si aggiungono quelle del garzone Gerard, un giovane scapestrato che insidia la ragazza. Iniziano per Balthazar le traversie che lo confronteranno con la realtà umana. Costretto a tirare carri, angosciato dalle bardature, si oppone come può e tira calci; ma deve subire la violenza degli uomini e infine sottomettersi. Il successivo passaggio vede Balthazar finire tra le mani di un vecchio alcolizzato che continua a esercitare l’umana violenza. Il vecchio muore, ma le traversie dell’asino non finiscono. Approda ad un circo dove viene esibito come fenomeno di matematica. Incontra il successo e diventa popolare. Tutto sommato è un periodo relativamente sereno: ma è un intervallo che dura poco. Infatti passa nelle mani di padrone crudele che lo impiega fino allo sfinimento. Finalmente l’esistenza di Balthazar sembra prendere una piega diversa diventando l’asino che trasporta le reliquie nella processione della Domenica delle Palme. Per le strane combinazioni che il caso genera nelle vicissitudini del mondo, egli viene incensato e la gente si china al suo passaggio. Tutto fa pensare che l’animale, ormai vecchio e ritornato a Maria, possa contare su un periodo di tranquillità. Ma il destino incombe: Maria sta per sposarsi con il suo vecchio amico Jacques, ma Gerard, che aveva già avuto un rapporto con lei, la violenta con l’aiuto di una banda di giovinastri. Allora Maria abbandona il paese. L’asino potrebbe ancora contare sulla solidarietà della madre della ragazza che sembra venerare l’animale; a Gerard che lo chiede in prestito per un’ultima occasione risponde, negandoglielo, che è “un santo” vecchio e stanco e che gli è dovuto un meritato riposo. Ma nottetempo Gerard lo sequestra per trasportare, con i suoi loschi amici, merce di contrabbando. I finanzieri scoprono il traffico e nella notte si sentono degli spari. I ragazzi si danno alla fuga e abbandonano Balthazar che al mattino viene trovato dai pastori che lo avevano visto nascere tremante e moribondo per il fuoco delle armi.

Riflessioni

“Au Hazard Balthazar” è un film-diario nel quale le due vite, Balthazar e Maria, scorrono parallele. Ma non c’è alcuna dialettica tra di esse. Alla presunta azione degli uomini (ma sarà vera azione?) si contrappone la lucida rappresentazione di una sofferenza eterna, quasi fuori dal tempo. Balthasar, in effetti non interagisce. E’ un semplice registratore delle storie degli uomini; subendo come strumento, è in grado di rilevare il male che si propaga tra i personaggi del film. In effetti la galleria umana si presenta nei suoi aspetti peggiori. I personaggi che via via gestiscono il destino di Balthazar sono infatti i visi duri di sempre e perennemente violenti che rendono la terra il luogo infinito della sofferenza. Solo Maria, sembra differenziarsi dagli altri personaggi, ma la sua precipitazione nelle debolezze della natura umana la risucchia nelle oscurità della specie. Così il film suggerisce, in pari tempo, un alibi a tutta la compagnia che a questo punto sembra perdere quell’aura di libertà per causa di eventi ingestibili, di ferrei condizionamenti e quindi conquistare, nella sconfitta esistenziale, una giustificazione per le sue oscene rappresentazioni. E anche lei, con la perdita dell’innocenza e la successiva scelta autodistruttiva, mostrerà quelle debolezze che spesso riconducono le vittime alla stessa natura dei  carnefici.

Soltanto Balthasar, il meraviglioso Balthasar che passa da una mano all’altra, da brevi condizioni di tranquillità alle violenze più dolorose e umilianti, risalta la purezza di un essere indenne dal maleficio umano. Egli percorre la strada del suo calvario registrando atti e eventi nella loro forma fenomenica, incapace di elaborarli e quindi di fornire loro una qualsiasi struttura di senso che non sia di pura reazione quando il legno si abbatte sulle sue carni. Mentre i personaggi con cui condivide la scena si evolvono mostrando un’ineliminabile inclinazione verso il degrado umano, egli viene ripreso nella sua stabilità assoluta dalla macchina quale estrema espressione di bellezza interiore e candore, impossibilitato a subire quei processi che segnano in modo indelebile la “migliore” creatura del cosmo.

Film di tristezza profonda e universale, Au Hazard Balthazar è costruito, secondo il più caratteristico stile bressoniano, sulla base di una assenza totale di drammaticità: la cifra stilistica del grande regista è una congegnata assenza di espressività dei personaggi che, guidati in modo magistrale, sembrano privi del mestiere della recitazione. Anche l’asse temporale del film si sviluppa secondo l’assoluta mancanza di sussulti che suggerisce la continuità di una esperienza eterna raccontata ben oltre i limiti della pellicola. La vita di Balthazar è fatta di frammenti che non arrivano mai al dunque e si consumano nel procedere sempre uniforme della sua vita. Anche le sue ribellioni alla insensata violenza dell’uomo sono solo sussulti decretati a ridimensionarsi nella predestinata sottomissione.

Il pessimismo cristiano di Brasson filtra, attraverso gli occhi dolorosi dell’animale protagonista, il male del mondo: un Male che sembra diffondersi in modo pervasivo in un universo in cui sono banditi per sempre (o forse da sempre) il significato delle cose e le tracce di qualsiasi bellezza. E qui nasce la ragione dell’affermazione fatta all’inizio di questa breve presentazione. In tutta la filmografia bressoniana i personaggi emanati dall’austero ascetismo intellettuale del Maestro, sono costretti a misurarsi pessimisticamente con il Male che ha colonizzato l'Essere. Ma la loro appartenenza all’umanità li costringe, almeno parzialmente, a una dimensione riflessiva che riconduce la loro condizione all’interno di un universo dotato di senso, per quanto negativo e oscuro. Sono lì, appostati nella periferia della vita, in bilico tra Essere e Trascendenza, in un incerto decidersi se accettare la realtà o rifuggirla. Ma lo loro radice umana non li disarma della possibilità di giudizio.

In Au Hazard Balthazar, invece, Bresson compie un atto di magia consegnando lo sguardo sulle cose a un essere privo di giudizio, o almeno, il cui giudizio non è compenetrabile con la logica umana. Ne scaturisce il film più bressoniano di ogni altro, considerando il raggiungimento della condizione di assoluta sospensione di qualsiasi verdetto. Gli occhi di Balthazar-Bresson si posano semplicemente su un mondo che non può essere redento per il semplice fatto che il senso, il significato è fuggito dalle cose come il colore da Guernica. La folgorante bellezza del film, oltre allo stile geniale dell’opera che sotto l’apparente semplicità nasconde una perfezione geometrica mutuata dal cinema muto così amato dall’autore, sta essenzialmente nello sfogliare gesti e immagini e eventi da qualsiasi interpretazione pedagogico-morale limitandosi a riflettere la nudità ineffabile dell’Essere.

Perciò non sembra possibile condividere, come molta critica ha fatto, l’associazione del martirio di Balthazar con una presunta metafora cristologica (associazione indotta dalla intensa religiosità, seppur particolarissima, di Bresson). L’umiltà dell’asinello, la sua soggezione alle sofferenze impartite, la fine tristissima, sono fatti che non si accompagnano, né potrebbero esserlo, ad alcuna possibilità di redenzione costituendo piuttosto un messaggio annunciante una disperata e incolmabile scissione tra una natura afflitta e un’altra natura problematicamente malefica. In questo senso è nato il film con il messaggio (per quanto oscuramente pessimista) più animalista della storia del Cinema.

Per concludere, osservo che, se risulta difficile accettare l’interpretazione di una metafora cristologica, se la redenzione appare un sogno per gli animali (e per l’uomo), l’abbandono della sala dovrebbe indurre lo spettatore militante ad abbandonare anche le lenti tristissime con le quali l’arte di Bresson guarda le cose al fine di trovare la via di una liberazione ardua ma necessaria. Poche pellicole di finzione, forse nessuna, hanno lo stesso potere di indurre l’animalista militante a dare la scalata al cielo e compiere una “rivoluzione inaudita”.

Karlmarxstraße

Hanno detto…

… E si ha l'azzeramento dell'uomo nelle sue pretese di privilegio e di sovranità rispetto al vivente, anche dell'uomo che si propone come carismatico e profetico. Ciò è terribilmente evidenziato, lontano da ogni irriverenza e ogni facile intenzione didattica, dall'insistita esemplarità con cui viene esposto un animale collocato al grado più basso della gerarchia del vivente. Ecco che l'asino allora diventa più che umano nel ricollegarsi, col suo comportamento, alle fonti stesse di una misteriosa etica che tiene in piedi il mondo. (Andrea Zanzotto, Il divino Balthazar, in "La bellezza e lo sguardo, il cinematografo di Robert Bresson" a cura di Luciano De Giusti, Editrice Il Castoro, Milano 2000)

(…) Anche in altre occasioni Bresson è tornato sulla lunga e tormentata gestazione di Au hasard Balthazar: inseguito e abbandonato nel tempo come, e più di altri suoi film, ripreso e di nuovo accantonato. Ma senza che si appannasse l'immagine da cui tutto era scaturito: "il punto di partenza è stato una visione folgorante, di un film nel quale l'asino sarebbe stato il personaggio centrale". Una rivelazione non dissimile, almeno per intensità e violenza, si era affacciata (e il regista lo ricordava esplicitamente) al principe Miskin "l'idiota" di Dostoevskij: "Ricordo: la tristezza in me era intollerabile; avevo perfino voglia di piangere; ero sempre pieno di meraviglia e di inquietudine; su di me aveva agito in modo orribile il fatto che tutto ciò era straniero; questo lo compresi. L'ambiente straniero mi uccideva. Ricordo che mi svegliai del tutto da questa tenebra una sera a Basilea, al mio arrivo in Svizzera, e mi svegliò il ragliare di un asino sul mercato cittadino. Quell'asino mi colpì enormemente e, chi sa perché, mi piacque in modo straordinario e, nello stesso tempo, a un tratto tutto parve schiarirmisi nel cervello". E Bresson: "Questo film mi è venuto da solo, circa dieci anni fa, e mi ha tormentato. Ho visto tutto a un tratto una testa d'asino riempire lo schermo. Gli occhi di un asino, il suo sguardo". E ancora: "…avevo letto L'idiota, ma senza fare attenzione (a quel passaggio, ndr). Poi, due o tre anni fa, rileggendolo, mi sono detto: Ma quale passaggio! Ecco l'idea meravigliosa! […]. Assolutamente meravigliosa: illuminare la figura di un idiota attraverso un animale, fargli vedere la vita attraverso questo […]. E paragonare questo idiota (ma voi sapete bene che egli è, di fatto, il più fine, il più intelligente di tutti), paragonarlo all'animale che passa per idiota e che è il più fine, il più intelligente di tutti. È magnifico!" (in Adelio Ferrero, “Robert Bresson”, Il Castoro Cinema, Gennaio 1976)















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19/04/03