RIMINI SOTTO LE BOMBE
Dal novembre 1943 alla Liberazione nazionale

Riministoria
il Rimino


RIMINI SOTTO LE BOMBE
NOVEMBRE 1943-SETTEMBRE 1944


Il primo bombardamento alleato su Rimini è della festa di Ognissanti del 1943. Fino al 21 settembre 1944 ci saranno 396 incursioni aeree, con 607 morti tra la popolazione civile.
Posta lungo la direttrice adriatica, e con uno scalo ferroviario utilizzato dai tedeschi per rifornire le truppe nella zona di Roma, Rimini è un obiettivo principale nei piani anglo-americani.
Dopo le bombe del primo novembre, inizia lo sfollamento. La gente è disorientata e fugge verso le località dei dintorni. Il 27 novembre l'allarme dato tempestivamente evita che le 800 bombe lanciate da una cinquantina di aerei inglesi in dieci passaggi, compiano una strage. Aumenta la fuga dalla città. Don Angelo Campana, allora parroco a San Nicolò al Porto, ricordava: «Qualcuno si fermò in periferia, i più paurosi andarono più lontano». Il Commissario prefettizio al Comune elogiava invece il contegno esemplare della popolazione.
I nazisti, dopo l'armistizio dell'8 settembre, hanno occupato Roma e le città del centro-sud. Il 13 un bando del feldmaresciallo Kesselring avvisa: nella nostra provincia «sono valide le leggi tedesche di guerra». Il 16 a Rimini nasce il fascio repubblicano. Salò chiama alle armi le classi dal 1923 al '25. Molti di quelli che s'arruolano, non faranno più ritorno. Altri si danno alla macchia. «Andare in montagna» significa passare nella file della Resistenza armata.
Dopo il bombardamento del 27 novembre, i tedeschi la fanno da padroni. Aggressivi e disumani, catturano giovani ed anziani, costringendoli a lavori massacranti per creare postazioni di difesa costiera: temono che gli alleati sbarchino dal mare.
Altri sette bombardamenti tra 28 e 30 dicembre si abbattono su Rimini divenuta una città morta. Trentasei sono le vittime nel rifugio presso la chiesa di San Bernardino, in pieno centro. Ormai tutti sono scappati: «ben pochi rimasero, e si cominciava a vedere lo spettacolo degli sciacalli», secondo don Campana. Il Commissario al Comune ancora una volta mistifica la realtà, parlando di un «contegno calmo e spartano» della popolazione.
«Tutti i giorni allarmi, bombe, e noi a fare sabotaggi ai fascisti e ai tedeschi»: così il pittore Demos Bonini. Si tagliano soprattutto chilometri di linee telefoniche. La reazione tedesca è spietata. Ragazzini con un mitra in mano agli ordini di qualche anziano fascista, fanno posti di blocco e rastrellamenti. Portano gli uomini catturati alla Colonia Montalti sul Marecchia, sede delle Guardie di Salò: li buttano nel fiume, poi quando tentano di risalire gli pestano le mani.
Il 27 novembre l'ospedale è trasferito al colle di Covignano. Nonostante i segni distintivi della Croce Rossa, lo bombardano. Tra il fragore degli scoppi delle granate ed il divampare degli incendi, nascono due bambini: li chiamano Fortunato, con il nome del Santo protettore della parrocchia. Il 12 settembre '44 feriti ed ammalati verranno trasferiti nella Repubblica di San Marino.
Alla conferenza di Teheran (28 novembre-2 dicembre '43), Churchill, Roosevelt e Stalin decidono per il fronte italiano un'avanzata sino alla linea Pisa-Rimini.
Il 21 gennaio 1944, il settimo bombardamento alleato annienta la ferrovia, l'obiettivo che da qualche mese gli alleati si sono prefissati di distruggere. Il 29 un'altra incursione aerea mutila il Tempio malatestiano, sfiorato dalle bombe il 28 dicembre '43 quando erano stati colpiti seminario e vescovado. L'8 febbraio il primo bombardamento notturno prende di mira l'arco d'Augusto, ma non lo centra.

Decine di migliaia di riminesi sono sfollati a San Marino, terra neutrale, dove però fascisti italiani e nazisti sono di casa, commettendo continue violazioni della sovranità della piccola Repubblica. Il 25 ottobre '43 è salito sul Titano il feldmaresciallo Erwin Rommel per verificarne la situazione politico-militare. Gli inglesi come promemoria inviano, il 26 giugno '44, quattro squadroni aerei a lanciare 243 bombe, facendo quaranta vittime sammarinesi e ventitré italiane. Si aggiungono a quelle provocate dalla fame e dalle epidemie, soprattutto tra i rifugiati nelle gallerie del 'trenino'.
Alla fine del luglio '44 i tedeschi si preparano una via di fuga all'interno della Repubblica, dove vogliono pure installare un ospedale militare. Il 3 agosto i nazisti, anche per intervento di Mussolini, assicurano: niente ospedale e niente occupazione, ma soltanto passaggio di truppe attraverso strade marginali «in caso di estrema necessità».
Il 18 marzo a San Marino è stato arrestato uno dei cattolici riminesi più impegnati nella vita politica, Giuseppe Babbi. Lo portano in carcere a Bologna, dove incontra un ragazzo concittadino, Walter Ghelfi ed il prof. Rino Molari di Santarcangelo, altro cattolico antifascista, catturato a Riccione. Ghelfi e Molari saranno fucilati la notte tra il 12 ed il 13 luglio a Fossoli, assieme al corianese Edo Bertaccini detto Fulmine. Babbi verrà liberato il 17 luglio.

Il 24 marzo '44, 108 fortezze volanti americane sganciano su Rimini per la prima volta ordigni di oltre mille chili, lungo una fascia di quattro chilometri dal cimitero a Miramare. È colpito il Covignano, dove si è trasferita anche la residenza municipale con gli uffici del Comune.
Il 30 marzo lo scrittore Flavio Lombardini incontra lungo il corso d'Augusto il vescovo mons. Luigi Santa che tiene in braccio una bambina ancora in vita, estratta dalla macerie del bombardamento di quattro giorni prima.
All'alba del 14 luglio i nazisti compiono un nuovo rastrellamento da Rimini a Riccione: catturano oltre cento uomini che trasportano a Pesaro sul fiume Foglia, dove stanno preparando la Linea Gotica. A Riccione, il diciottenne Athos Olmeda si avvicina ad una fontanella per bere. Un militare tedesco, temendo una fuga, gli spara uccidendolo.
Lungo il Foglia, ricordava il fotocronista Davide Minghini, c'erano almeno ventimila italiani. Il 24 agosto fuggirono in tanti, assieme ai sorveglianti tedeschi. Il giorno dopo cominciava l'attacco alleato.
La ferocia nazifascista si è di nuovo fatta sentire. A Rimini il 16 agosto sono stati impiccati tre giovani 'ribelli', vicino al tempietto di Sant'Antonio: Mario Capelli, Luigi Nicolò ed Adelio Pagliarani.
La liberazione della città avviene il 21 settembre, dopo un'avanzata dall'interno, fatta di durissime battaglie e tanti morti tra civili e combattenti. Da Pisa a Cattolica, i tedeschi hanno apprestato 2.376 postazioni di mitragliatrici, 479 postazioni per cannoni e mortai, 120 km di filo spinato e decine di km di fossati anticarro.
Sfondata la Linea Gotica, gli alleati puntano verso Rimini. Tra il 6 e il 15 settembre c'è la carneficina di Croce e Gemmano. Poi tocca a Coriano e a San Fortunato. La mattina del 17 comincia la battaglia per la presa di Rimini. Gli indiani entrano a San Marino il 20. I canadesi alle 5 del 21, un giovedì battuto dal vento e dalla pioggia, arrivano al Marecchia e circondano Rimini. Per motivi politici è riservato ai greci l'onore della conquista, ma prima di loro in piazza Cavour sono entrati i carri armati neozelandesi.



RIMINI DOPO LA LIBERAZIONE
Fine 1944-1945


La mattina della liberazione, il 21 settembre '44, Amelia Carosi (una maestra dell'Asilo Baldini) esce dal palazzo Palloni in via Giordano Bruno, in cui è vissuta per tutti i mesi dei bombardamenti. «Il corso d'Augusto è buona parte in fiamme», annota nel suo Diario: in piazza Cavour le truppe greche distribuiscono fette di pane bianco con carne in scatola; quei soldati rubano, fanno perquisizioni «in modo equivoco e da ladro».
«E su tante rovine e devastazioni, ancora l'impronta di saccheggi e delle devastazioni da parte delle truppe occupanti che non paghe di aver razziato le campagne del bestiame migliore, degli attrezzi del lavoro, si sono riversate come sciacalli sulle rovine della Città martoriata, asportando gli ultimi avanzi del lavoro sudato, i ricordi più cari del focolare domestico, così da rendere talora irriconoscibile il luogo e ardua l'agognata ricostruzione» (Luigi Silvestrini, medico primario all'ospedale civile).
Un funzionario comunale, interrogato sul numero dei riminesi sopravvissuti ai bombardamenti, si sente replicare da un ufficiale inglese con fare sprezzante: «Troppi».
Alle madri ancora sfollate, che chiedono ai soldati inglesi qualcosa da dar da mangiare ai loro figli, si risponde sotterrando il cibo e gli avanzi del rancio: è una scena che appare anche nei Combat film americani.
Gli alleati prelevano ovunque materiali per le loro necessità. Una mattina ci si accorge che anche pezzi di marmo crollati dall'arco di Augusto, vengono caricati su di un camion. L'assessore ai lavori pubblici, il socialista Mario Macina, e l'ingegnere capo Virgilio Stramigioli, riescono a dirottare altrove quei soldati promettendo dose doppia di macerie.
Si avvicina l'inverno. È necessario riaprire le strade, liberare le fognature, riattivare l'acquedotto. «Problemi tremendi che parevano insormontabili», ricordava anni dopo Macina: «L'unico materiale di cui si disponeva era la buona volontà».
«C'è da smontare e rimontare una intera città», ha scritto l'avv. Oreste Cavallari: «Ovunque si mettano le mani è fango, rovine, macerie». Si devono reprimere manomissioni e furti. «È la fame, è la miseria, è il freddo».
La popolazione ufficialmente residente, ma ancora per la maggior parte sfollata, è di 71.399 persone. Nel corso del 1944, il Comune registra 1.460 morti e 1.059 nascite.
L'inverno, non troppo rigido, è molto umido e piovoso. Il rifornimento del combustibile, difficile e costoso. «I generi alimentari si facevano sempre più scarsi ed i prezzi salivano continuamente» (L. Silvestrini). «Si fa di tutto per vivere, dall'interprete al carpentiere, dallo scaricatore al benzinaio, dall'impiegato al cuoco, allo sguattero, al fabbro, all'elettricista, all'idraulico, anche se questi mestieri è la prima volta che si tentano» (Amedeo Montemaggi, scrittore).
Il 5 novembre compie un'improvvisa visita a Rimini Umberto di Savoia, luogotenente del regno. I fotografi dell'Ottava armata lo ritraggono all'interno del Tempo malatestiano e mentre parla con alcuni cittadini.
Un'epidemia di tifo infierisce dall'ottobre '44 all'aprile '45, e provoca su 469 casi denunciati ed accertati, trentotto vittime tra cui Amelia Carosi, la maestrina del Diario, che scompare a 48 anni.

Gli alleati, d'intesa con il Cln cittadino, hanno nominato sindaco di Rimini il comunista Arnaldo Zangheri, in sostituzione del socialista Arturo Clari che in quei giorni «non si trovava sul posto», ma che sarebbe diventato primo cittadino poco dopo, il 4 ottobre '44.
Il 7 ottobre si è riunita per la prima volta la Giunta comunale che resterà in carica sino al 30 giugno 1945. Si requisiscono stufe, si cerca di combattere il mercato nero che fa affari d'oro. C'è chi lo difende perché ha garantito la sopravvivenza. Altri, più ottimisticamente, sostengono che è possibile eliminarlo. Per il socialista Gomberto Bordoni, è il «triste retaggio di oltre un ventennio di malgoverno».
Giuseppe Babbi (dc) riferisce in Giunta che la popolazione è da due mesi senza carne, ed il bestiame si è ridotto alla metà (in gran parte rastrellato dai tedeschi e convogliato verso il Nord). Alla tragica situazione della città, secondo Macina, andavano «aggiunte le incomprensioni e il menefreghismo di alcuni reparti del corpo di occupazione».

Il governatore militare alleato ordina che nessun civile rientri in città, pena l'arresto. Il Field Security Service, servizio di sicurezza inglese, fa processare molti riminesi che vengono condannati a 15 giorni di lavori forzati in Umbria.
Forse per salvare le apparenze, il capitano inglese Trevor, che fa da collegamento tra i politici locali e le forze alleate, si affaccia dal balcone del Cln, in piazza Cavour, e fa l'elogio dei partigiani e dei riminesi per la loro collaborazione alla ripresa della città.
Vicino alla vecchia pescheria della stessa piazza Cavour, c'è la mensa pubblica alla quale gli alleati forniscono scatolette. Subito dopo la liberazione si distribuirono gratuitamente minestre calde, prive di sale.
Nel '45 pure le Acli aprono una mensa, in via Patara, che ospita ogni giorno 250 operai, a cui si aggiungono i reduci e i deportati di ritorno della Germania. La dirige Alfredo Floridi, esponente dc nel Cln e primo presidente riminese dell'associazione. In autunno, il Circolo Lavoratori di San Gaudenzio organizza un asilo per figli di lavoratori nel Borgo Sant'Andrea. Le Acli creano inoltre un doposcuola per alunni delle classi elementari e medie, con insegnanti volontari. Due colonie per figli di lavoratori iscritti, ospitano 600 bambini. Il Patronato fa assistenza e consulenza a disoccupati, a congiunti di prigionieri di guerra, a persone bisognose di sussidi.
In Municipio viene istituto un Comitato per la riparazione delle case sinistrate, mentre la Cassa di risparmio stanzia fondi a questo scopo. Le macerie sono più dei muri intatti. Secondo un censimento alleato, in città ci sarebbe posto soltanto per 4.000 persone. Il 30 gennaio '45 il governatore alleato si presenta in Giunta con un tenente del genio militare Usa, Peter Natale, offrendo 175 milioni destinati a rattoppare gli edifici pubblici più disastrati.
Gli uffici della Camera del Lavoro brulicano di disoccupati, ma Rimini è piena di lavoratori forestieri.
Nell'estate del '45, quando ormai gli sfollati stanno rientrando in città, non si trova zucchero per i bambini, ma ce n'è per i gelati che arrivano a costare 50 lire al cono. Un litro di olio lo si paga persino 450 lire, un quotidiano tre lire. I partigiani accusano San Marino di far passare attraverso la Repubblica traffici illeciti.

«Appena liberi dal fronte e dai militari, abbiamo cominciato l'opera di ricostruzione. È stato un lavoro lungo e faticoso. Era necessario ricostruire le case, ma più urgente era la ripresa morale e spirituale disgregata dalla guerra»: don Serafino Tamagnini, al tempo della guerra parroco a Vecciano (nel Comune di Coriano), chiudeva così le sue memorie di cose viste e vissute «sulla Linea Gotica».
Don Lino Grossi ha scritto: «Si diffondevano le dolorose notizie provenienti dal "triangolo della morte": Modena, Reggio Emilia, Bologna, che annunciavano l'uccisione di alcuni sacerdoti perpetrata da aderenti a movimenti di sinistra. Non si poteva parlare senza subire vessazioni e persecuzioni. [...] La parrocchia di San Salvatore non aveva poderi, il giovane parroco [lo stesso don Lino, n.d.r.] era povero e per questo molto rispettato. Alcuni facinorosi gridavano: "Coi padroni anche i preti vogliamo fare fuori, solo salveremo i parroci di San Salvatore e Vecciano [don Tamagnini, n.d.r.], perché sono poveri come noi"».
C'era chi programmava il futuro all'insegna di un motto che non ammetteva dubbi: «Con le budelle dell'ultimo prete, strozzeremo l'ultimo signore».
Flavio Lombardi ricorda un episodio accadutogli il 6 agosto '45. Un gruppo di giovanissimi gli si avvicina per strada, per sapere quale parte abbia avuto quando insegnava Educazione fisica nelle «scuole fasciste»: uno di loro sta per picchiarlo quando in suo soccorso giunge «un 'vecchio camerata' che occupa un posto di rilievo nel Comitato di Liberazione», Arnaldo Zangheri. «È bastato uno sguardo per capirci. Non ricordo di averlo ringraziato».
Il vecchio maestro Serafino Bacchini è bastonato a sangue da alcuni ragazzi sui quindici anni che girano con fazzoletti rossi al collo e bastoni in mano. La sua colpa? Si era distinto, scrive Lombardini, «nell'insegnamento dei buoni costumi e dell'amor patrio senza concedere troppo alla politica del 'defunto regime'».

Le prospettive per l'inverno sono nere, di fame e di freddo. Ma si pensa al futuro della città. Nella primavera è stato consegnato al Comune il progetto per una «Nuova Rimini»: l'ha redatto l'omonima società romana presieduta dall'ing. Elio Alessandroni, conosciuto in Municipio per aver accompagnato Peter Natale con l'assegno degli alleati. In ottobre ad Alessandroni, accusato di aver accumulato una fortuna con il mercato nero e con le fortificazioni realizzate dai tedeschi, vengono confiscati tutti i beni.
La «Nuova Rimini», con la ferrovia spostata all'interno, il 'centro' in periferia ed uno sviluppo per 300 mila abitanti, finisce in una bolla di sapone. I riminesi, scrisse Lombardini, non furono incantati né dai sogni di Alessandroni né dalle «fantasiose esibizioni del Capitano Peter Natale, un americano venuto in Italia al seguito delle truppe alleate, in cerca più di avventure galanti che di glorie militari, ma che si acquista qualche merito nell'apprestamento dei primi soccorsi e riceverà in cambio la cittadinanza onoraria».
Nel maggio '45 il sindaco ha emesso un'ordinanza per disciplinare i trasferimenti di residenza da fuori Comune. Il provvedimento è battezzato «divieto di immigrazione». Non otterrà nessun effetto: nel '46 l'anagrafe registrerà 2.401 nuovi cittadini contro 1.976 cancellazioni. Alla fine dello stesso '45 la popolazione residente nel Comune di Rimini è di 72.173 unità, 774 in più rispetto al 1944.
La gente è «nuda e cruda come un pidocchio», scrive Lombardini, mentre «le truppe di occupazione si sforzano di rifornire i civili nell'indispensabile». Non tutti lavorano onestamente. Per colpa di questi imbroglioni, «la città deve subire l'onta di ordini e di cartelli ammonitori che le autorità alleate fanno affiggere in ogni angolo».
I fogli locali nell'estate '45 raccontano di sfaccendati che oziano nei caffè, giocandosi migliaia di lire, o che spendono più di quanto guadagnino. C'è un crescendo spaventoso di furti notturni. Sul Garibaldino grida un titolo: «Rimini... città aperta. Aperta ad ogni sopruso, ad ogni losco affare, ad ogni avventura, a discapito totale dei suoi ancora onesti cittadini».
Riprende il turismo. Gli ospiti arrivano soprattutto in treno: sulla Bologna-Ancona, dopo ferragosto, ci sono tre corse settimanali che poi diventano giornaliere. Al teatro Novelli ottiene successo la stagione lirica con Bohème e Rigoletto.
È in atto l'epurazione. Vigilare sul presente, ricordare il passato. I cui conti si fanno dando la caccia a chi aveva comandato all'ombra di Salò e con la protezione della croce uncinata.

Nelle case, tra gli amici, lungo le strade, la memoria ricostruisce il passato prossimo, facendo l'appello di chi è sopravvissuto e di chi manca.
Simbolica appare la storia che ha narrato il riccionese Rodolfo Francesconi. Nella primavera del 1944, sulla piazza di un paese della Val Marecchia, un ragazzo osserva curioso i camion di una colonna tedesca fermatasi accanto alla fontana pubblica. Una mano che tende una borraccia, si sporge dal telone posteriore di un automezzo. Una voce lamentosa chiede: «Wasser». Il ragazzo corre alla fontana, poi «si avvicina di corsa, tende la borraccia, la mano dell'assetato non riesce ad afferrarla, un altro braccio improvvisamente si sporge dal camion, agguanta per i polsi il fanciullo con borraccia e tutto e lo issa di peso dentro l'automezzo mentre il padre arriva di corsa sulla piazza appena in tempo per vedere la colonna allontanarsi lungo la strada in discesa».
Soltanto di recente è stato possibile ricostruire l'ultima parte del viaggio di quel ragazzo: «il suo nome, puntigliosamente, figura ancora in due elenchi: quello di un carico arrivato ad Auschwitz e, quello più terribile, di un gruppo di prigionieri avviati alla camera a gas».

Antonio Montanari

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1843, 05.03.2013. Modificata, 05.03.2013, 18:15

Antonio Montanari

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